Nedo Baracani

 

Non si può privare un detenuto del diritto all’istruzione

 

(Realizzata nel mese di gennaio 2003)

 

Intervista a cura di Marino Occhipinti

 

L’Università entra finalmente in un mondo in cui la grande maggioranza dei professori e degli studenti universitari non sono mai entrati.

 

Dell’Università che entra in carcere torniamo volentieri a parlare, intervistando il Professor Nedo Baracani, docente presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Ateneo di Firenze e delegato del rettore per il Polo Universitario Penitenziario toscano.

 

Abbiamo deciso di approfondire la questione del Polo Universitario Penitenziario, perché sappiamo che anche a Padova si lavora per costruire un progetto analogo a quello fiorentino e riteniamo che sia utile "fare tesoro" delle esperienze degli altri.

 

 

Professor Baracani, ci spiega, come delegato del rettore, di chi è stata l’iniziativa, com’è cominciata e quali motivazioni vi hanno portato ad impegnarvi in quest’attività?

L'iniziativa è venuta "dall’interno", direttamente dall’Associazione Volontariato Penitenziario, in particolare da Franca Forti, indirettamente dall’ambiente: mi riferisco innanzitutto a quello penitenziario, dal Provveditore (che allora era Ettore Ziccone) e da Alessandro Margara, in quel momento Direttore del Dap e poi rientrato a Firenze come magistrato di sorveglianza, da altre persone dell’Amministrazione e della Direzione. Partendo da queste sollecitazioni, un gruppo di docenti, alcuni dei quali avevano già avuto occasione di operare insieme ad operatori e volontari nel carcere, ha proposto la cosa al rettore, che ci ha ascoltato, ha condiviso le finalità e le motivazioni, incaricando dei funzionari di mettere in cantiere il progetto. Si era nel febbraio 2000, e alla fine di ottobre si arrivò alla firma dell’accordo. Ricordo questo momento perché c’era da poco stata l’elezione del rettore e il Prof. Blasi, che terminava il suo mandato, firmò alla presenza anche del Prof. Marinelli che lo avrebbe di lì a poco sostituito. Per l’Amministrazione Penitenziaria e la Regione Toscana firmarono Giancarlo Caselli, allora Direttore del DAP e il Prof. Angelo Passaleva Vicepresidente della Giunta Regionale ed Assessore alle Politiche Sociali. Le motivazioni erano e sono molte. Per semplificare le riduco a quattro.

La prima è legata alla necessità di praticare i diritti delle persone, pur con tutti i limiti che le situazioni impongono. Chi ha commesso un reato non perde i diritti della persona, e primo fra tutti la libertà di conseguire qualcosa che nella sua vita abbia per lui o per lei un senso. E lo studio e la formazione sono qualcosa che ha senso per le persone e le norme lo riconoscono come un diritto. I presupposti ci sono: abbiamo le norme, la domanda, le istituzioni di istruzione e formazione, le competenze e le disponibilità. Quello che manca è l’abitudine alla pratica dei diritti.

La seconda motivazione è stata quella di mettere alla prova l’Università. Per sua natura, l’Università è un’istituzione antica e con ampia autonomia. La condizione posta era che il lavoro che avremmo svolto rientrasse nei compiti istituzionali dell’Università e come tale fosse riconosciuto dagli organi accademici. Questo per uscire da uno schema di volontariato che rimane certamente nella scelta soggettiva dei singoli che si impegnano, ma che deve trovare riconoscimento nelle istituzioni. Tanto il senato accademico, che, com’è noto, è formato dai presidi delle facoltà, quanto il consiglio di amministrazione hanno fatto questo passo, riconoscendo così gli studi dei detenuti come studi di normali studenti, certo con particolari condizioni e bisognosi di soluzioni adatte alla loro situazione. In questo modo l’Università ha riconosciuto che esisteva un gruppo di persone svantaggiate che andavano ad aggiungersi ad altre persone svantaggiate di cui si doveva tener conto, essendo il diritto all’istruzione e alla formazione qualcosa che non si perde quando si sconta una pena per un reato commesso (del resto, basta leggere il regolamento penitenziario). Si può legittimamente privare un detenuto di certi diritti (la libertà di movimento, l’accesso a certi ruoli sociali), ma non di quello all’istruzione, alla libertà di pensiero, di religione, e più in generale alla libertà di perseguire nella sua attuale condizione degli scopi per la sua vita. Ci è sembrato interessante ed importante verificare fino a che punto l’Università sarebbe riuscita, nel tempo, a misurarsi con questa situazione, dove è necessario per forza entrare in un mondo in cui la grande maggioranza dei professori universitari e degli studenti universitari non sono mai entrati. I conti li faremo a suo tempo.

La terza motivazione riguarda il nostro ambiente sociale e culturale, la Toscana. Essendo già attive le scuole di base ed essendo attive sette scuole superiori (gli istituti sono 18 con circa 4.000 detenuti di cui circa 150 donne), si trattava di completare l’attivazione del sistema di istruzione, dandogli una base regionale nel senso di una rete di opportunità collegate con i tre atenei. A Firenze, il lavoro è attivo dall’anno 2000-2001, mentre le università di Pisa e Siena stanno per firmare un loro accordo con la Regione e l’Amministrazione Penitenziaria per formalizzare il loro impegno verso gli studenti detenuti. Si tratta di un risultato importante, perché solo una rete ampia e integrata può consentire di accogliere una domanda crescente e diversificata. In futuro aumenteranno le persone che, avendo commesso un reato e dovendo scontare una pena, potranno assumere lo studio e la loro formazione come un programma di valore durante la carcerazione e la fase delle eventuali misure alternative.

L’ultima motivazione riguarda i legami che si devono incrementare tra le istituzioni e con il territorio, il che si traduce nell’accrescimento dei contatti tra il carcere e l’ambiente sociale: questi contatti possono assumere le forme più diverse, che è impossibile codificare a priori. Un insegnante, un professore universitario o dei giovani studenti che varcano la soglia del carcere non fanno solo un’esperienza per loro formativa (il contatto sostenuto dall’impegno delle istituzioni è la via migliore per combattere l’ignoranza, la separatezza, i pregiudizi). Lo stesso vale per il volontariato o per chiunque stabilisca una relazione. Per questa via il carcere diventerà sempre più parte del sistema sociale locale, sarà più conosciuto per via diretta, divenendo, per così dire, qualcosa di normale e, come tale, qualcosa di cui in futuro potremmo anche decidere di fare a meno, perché è nell’ispessimento delle relazioni sociali che nascono le idee per costruire e sperimentare delle alternative.

Queste si possono considerare le principali motivazioni su cui c’è stata convergenza e che mi hanno spinto a accettare l’incarico di delegato del rettore per questo progetto.

 

 

In concreto in cosa consiste esattamente e come si sviluppa il vostro lavoro?

In concreto il nostro lavoro consiste nel fare quello che facciamo sempre, seguire gli studi di un certo numero di studenti: questi però sono in carcere e sono diversi per età, per vissuti personali, per lunghezza della pena, per condizione di detenzione, per corso di studi prescelto. E’ una cosa terribilmente complicata, perché abbiamo voluto mantenere il più possibile la libertà di scegliere qualunque percorso, affrontando i problemi del numero programmato, sia in sede locale che in sede ministeriale. Non entro in questi dettagli: dico solo che in sede locale rimane salva l’autonomia delle facoltà di decidere rispetto ai vincoli di ateneo, mentre per i vincoli decisi in sede nazionale occorre una deroga specifica (cosa non semplice).

La via maestra è quella di fare in modo che questi studenti entrino passando attraverso le selezioni previste dagli ordinamenti, riservando altre decisioni solo a casi eccezionali. Ci sono poi dei corsi i cui ordinamenti hanno dei vincoli interni, legati alla didattica, e in questi casi è l’orientamento che deve individuare il percorso più vicino alla domanda di chi si deve iscrivere.

Nell’estate di ogni anno viene fatta una ricognizione negli istituti toscani per raccogliere le intenzioni di iscrizione: ormai la collaborazione con le Direzioni e con gli Uffici Educatori si va consolidando, e quest’anno, complice anche la scadenza del primo bando per le borse di studio, abbiamo concluso più rapidamente la fase delle iscrizioni. Non riusciamo sempre a rispettare la procedura di lavoro che ci siamo data e che prevede che, prima dell’iscrizione, ci sia un colloquio di carattere generale ed uno specificamente orientato sulla scelta che lo studente ha ipotizzato: questo, però avviene quasi sempre.

All’inizio erano i delegati di facoltà a fare questo lavoro, ma oggi, con le lauree triennali, dobbiamo fare i conti con una maggiore quantità di corsi di laurea, per cui dovremo rivedere l’organizzazione, creando un legame sia con la facoltà (per le questioni di carattere generale, di una delle quali dirò tra poco), sia con i singoli corsi di laurea che nel nostro ateneo sono 90. Questo lavoro iniziale deve considerare anche i trasferimenti dei detenuti, che non sempre sono possibili, a volte per problemi dell’Amministrazione, a volte per la situazione dei detenuti stessi, come è avvenuto per il gruppo di Massa, iscritti a Pisa, ma che resteranno dove sono perché lì hanno sia il lavoro, sia degli insegnanti che li hanno seguiti nella scuola superiore e che sono disponibili anche a svolgere funzioni di tutor. Da un po’ di tempo, però, si tiene con una certa regolarità l’incontro con la Direzione e gli operatori del carcere, in modo da valutare preventivamente questi problemi.

C’è poi la questione dell’alta sorveglianza, con un regime carcerario particolarmente vincolante, dove abbiamo 12 iscritti e dove dobbiamo ancora realizzare le condizioni che piano piano si sono create nella sezione di media sicurezza. Si tratta, in sostanza, di poter lavorare su orari abbastanza lunghi (in media sicurezza si è concordata un’apertura dalle 8 del mattino fino alle 18.50 del pomeriggio) e di poter contare su spazi e attrezzature sufficienti.

In alta sorveglianza le cose sono più complicate, e ci sono anche maggiori difficoltà per gli strumenti di studio. C’è inoltre la questione dell’area penale esterna che comprende oggi 8 detenuti in condizioni molto diverse l’uno dall’altro Chi esce in misure alternative rimane inserito nel progetto con i benefici che comporta, mentre chi esce per fine pena rimane iscritto per un anno e poi la sua situazione deve essere riconsiderata. Le storie personali, però, sono le più diverse, anche perché chi esce in semilibertà può di nuovo tornare in carcere, magari in una città diversa e lontana. Inoltre, chi esce in semilibertà non necessariamente rimane in Toscana, e quindi vengono meno le condizioni per un qualunque lavoro. Infine, chi esce in semilibertà, dovendo lavorare, si trova immediatamente in una situazione difficile. Ci vorrà molto tempo per comprendere fino in fondo quali soluzioni siano da adottare di fronte a queste situazioni.

Questo ci dice che abbiamo già le nostre perdite, né più e né meno di quanto avviene normalmente all’Università, anche se qui per ragioni ed in condizioni molto diverse. Infine, ci sono quegli studenti che vengono trasferiti per ragioni interne e che non si trovano nel carcere di Prato. Due sono a Sollicciano, due al "Mario Gozzini" (detto comunemente Solliccianino), due, di cui una ragazza, a Pisa, una ragazza al femminile di Empoli. Per tutti, e con modalità diverse, dovremmo riuscire a realizzare regolarità negli incontri con i docenti, costanza dell’azione dei tutor, supporto per la didattica, sostegno in situazioni di difficoltà.

Non ci vuole molto a comprendere quanto sia difficile, anche dal punto di vista organizzativo, tener presenti tutte queste situazioni. Inoltre, ogni passo comporta spostamenti non indifferenti. Un buon segno è il fatto che quando qualcosa rimane indietro (il che succede spesso) gli studenti ci brontolano e quindi non è possibile dimenticarsi delle cose, anche quando ci sono dei ritardi. La protesta è molto positiva, perché testimonia dell’interesse delle persone e del fatto che la cosa è stata presa sul serio. Questi sono alcuni aspetti del nostro lavoro con i 54 studenti attualmente iscritti a Firenze. Pisa (che conta una quindicina di iscritti) e Siena (che ha iscritto i primi quattro (a S. Gimignano) hanno adottato decisioni generali simili alle nostre e stanno costruendo il loro gruppo di studenti.

Ci sono state, quest’anno, anche circa 30 richieste di detenuti provenienti da altre regioni, che non possiamo accogliere e che forse è giusto non accogliere, a meno che, concordandolo, non vengano trasferiti in un istituto della Toscana, perché pensiamo che, in linea generale, una rete di opportunità debba essere costruita in tutto il paese per iniziativa delle istituzioni universitarie, delle Regioni e dell’Amministrazione, essendo questa una responsabilità collettiva.

Le condizioni, solo che lo si voglia, ci sono ovunque, ed ogni situazione risponderà con la sua autonomia, con limiti maggiori o minori, senza però che nessuno venga meno a questa responsabilità così come è stato per gli altri ordini di istruzione. Ci sono varie situazioni in cui ciò avviene in forme diverse dalle nostre. In un numero recente della rivista "Le due città", che certamente conoscerete, veniva rievocata l’esperienza di Padova degli anni ’70, il che ci dice che non solo è possibile, ma che in qualche caso si tratta di riprendere esperienze già fatte ripensandole nella situazione di oggi. Lo stesso si può dire di Torino e di altre realtà, che io conosco superficialmente, essendomi trovato a svolgere questo compito quasi per caso.

 

 

Cosa succede quando un detenuto studente del Polo Universitario Penitenziario ottiene una misura alternativa alla detenzione oppure termina la pena, e quindi esce dal carcere?

Chi esce in misure alternative rimane inserito nel progetto con i benefici che comporta, mentre chi esce per fine pena rimane iscritto per un anno e poi la sua situazione deve essere riconsiderata. Le storie personali, però, sono le più diverse, anche perché chi esce in semilibertà può di nuovo tornare in carcere, magari in una città diversa e lontana. Inoltre, chi esce in semilibertà non necessariamente rimane in Toscana, e quindi vengono meno le condizioni per un qualunque lavoro. Infine, chi esce in semilibertà, dovendo lavorare, si trova immediatamente in una situazione difficile. Ci vorrà molto tempo per comprendere fino in fondo quali soluzioni siano da adottare di fronte a queste situazioni.

Questo ci dice che abbiamo già le nostre perdite, né più e né meno di quanto avviene normalmente all’Università, anche se qui per ragioni ed in condizioni molto diverse. Per tutti, e con modalità diverse, dovremmo riuscire a realizzare regolarità negli incontri con i docenti, costanza dell’azione dei tutor, supporto per la didattica, sostegno in situazioni di difficoltà. Non ci vuole molto a comprendere quanto sia difficile, anche dal punto di vista organizzativo, tener presenti tutte queste situazioni.

Ci sono state, quest’anno, anche circa 30 richieste di detenuti provenienti da altre regioni, che non possiamo accogliere e che forse è giusto non accogliere, a meno che, concordandolo, non vengano trasferiti in un istituto della Toscana, perché pensiamo che, in linea generale, una rete di opportunità debba essere costruita in tutto il paese per iniziativa delle istituzioni universitarie, delle Regioni e dell’Amministrazione, essendo questa una responsabilità collettiva.

 

 

Quante persone sono coinvolte nell’iniziativa, detenuti ma anche docenti e collaboratori?

Ci sono innanzitutto, i 54 studenti iscritti alle diverse facoltà, in condizioni molto disomogenee. Il gruppo che si trova nelle condizioni migliori è quello della sezione ottava di media sicurezza, uno spazio appositamente destinato a studenti universitari, con 22 celle singole ed una sala di studio, oltre ad una cella adibita ai colloqui con i docenti con un computer abilitato (con precisi vincoli) alla comunicazione con l’esterno.

Fra qualche settimana attiveremo una esperienza di teledidattica: si tratta di un meccanismo preparato dai nostri colleghi di ingegneria, approvato dal Ministero ai fini della sicurezza delle comunicazioni, e che si spera di poter attivare in parallelo col funzionamento della pagina web sul sito della nostra università. Le persone coinvolte nell’iniziativa sono tante e, anche qui, il problema principale è quello di mantenere attive le relazioni tra di loro, senza di che viene meno il senso del lavoro collettivo (su questo punto dobbiamo c’è molto da fare). Un ruolo fondamentale hanno i delegati di facoltà e tutti i colleghi delle varie discipline che vengono attivati per definire programmi e preparare gli studenti agli esami: il loro lavoro può contare su dei tutor che su un programma concordato, svolgono attività di sostegno alla preparazione.

Dei volontari mantengono contatti regolari, danno la loro disponibilità in momenti di difficoltà, si occupano delle necessità collegate con la didattica, realizzano attività culturali e, da quest’anno, si spera possano anche svolgere un compito didattico nel campo della formazione di base (ci sono detenuti che riprendono gli studi dopo un periodo anche lungo, e che quindi hanno necessità di riprendere confidenza con lo studio, con il suo linguaggio o con un computer - questo è uno dei progetti sui quali abbiamo chiesto risorse per il 2003). Fra le persone coinvolte ci sono anche tutti quegli operatori che rendono possibile il funzionamento dell’intero marchingegno, da quelli interni all’Università, che hanno la pazienza di esaminare queste situazioni sovente complicate, a quelli interni all’Amministrazione Penitenziaria.

Tutto questo lavoro non poterebbe funzionare se non ci fosse l’attività di volontariato, in particolare dell’Associazione del Volontariato Penitenziario e l’Associazione L’altro Diritto. La loro presenza è costante e diversa dalla nostra e dunque, pur collaborando con noi, hanno una oro precisa identità, e gli studenti lo capiscono bene. Alla fine di marzo faremo il primo bilancio generale del progetto, discutendo tutti insieme sul primo rapporto di valutazione del progetto: alla discussione porteranno un loro contributo sia gli studenti detenuti, sia un gruppo di operatori (agenti, ispettori ed educatori).

 

 

Quali sono invece le difficoltà che avete incontrato e, soprattutto, come siete riusciti ad affrontarle e superarle?

Le difficoltà sono molte e non c’è spazio in un’intervista per analizzarle, e dunque mi limito a segnalarle senza particolari approfondimenti. A parte il "superamento" della soglia del carcere come confine fisico e psicologico (la maggioranza dei colleghi non l’aveva mai superata per sua scelta), i problemi sono quelli della ridefinizione del tempo (o parametri sono diversi, diverso è il tempo di vita della giornata e diversi sono i tempi dell’apprendimento), del tracciare un percorso di studio, della comprensione di che cosa significa per la persona quella scelta di studio e quindi dell’orientamento su quella scelta, del superamento delle crisi che sono inevitabili, dell’accettazione delle difficoltà di relazione (soprattutto nella struttura penitenziaria, per ragioni che attengono solo in parte ai comportamenti delle persone), dell’osservanza delle procedure.

Queste non sono difficoltà che si "superano": si impara a riconoscerle e a costruire delle soluzioni facendo appello alle nostre risorse personali e di comunicazione con gli altri. Ognuno dei punti richiamati è un titolo da sviluppare e da approfondire. Credo però che questo semplice elenco sia sufficiente per far comprendere che i veri ostacoli sono di tipo comunicativo (capire che cosa una persona sta perseguendo, concordare con qualcuno qualcosa che non era previsto, adattarci noi a delle procedure senza rifiutarle per poter chiedere agli altri un adattamento che, magari, richiede un impegno particolare, comprendere che molte piccole cose assumono in quel contesto una rilevanza per noi nuova, lavorare per il superamento reciproco di stereotipi, cominciare a fidarsi reciprocamente).

Sottolineo questo tipo di questioni anche perché fra le difficoltà vanno certamente annoverate quelle con il personale del carcere. Soltanto quest’anno è stato possibile iniziare un discorso diretto, perché per un lungo periodo c’è stato un atteggiamento di non accettazione della scelta che era stata fatta con questo progetto.

Può sembrare un tempo molto lungo, ma non so se sia così. Credo invece che dobbiamo rispondere alle obbiezioni che vengono mosse, anche a quelle che fanno perno sulla iniquità di offrire a delinquenti opportunità che molte persone perbene non hanno. Se troveremo un punto d’intesa su questioni simili, la strada sarà aperta a molte esperienze interessanti. Personalmente ritengo che queste posizioni siano il frutto di una comunicazione mancata, anche da parte dell’Amministrazione Penitenziaria, e che le persone che riconoscono non solo la legittimità, ma anche la necessità di questi programmi sia molte di più di quanto non dicano loro stesse.

Ci sono poi le difficoltà normali: risorse scarse, programmi che non procedono come dovrebbero, persone che non riescono a fare quello che vorrebbero o dovrebbero, disguidi organizzativi, insomma, quello che succede ovunque: ma, ripeto, le difficoltà vere sono quelle dell’intendersi e del costruire una volontà comune, sapendo che nessuna componente, da sé, riuscirà a modificare la situazione.

 

 

Vorremmo conoscere più dettagliatamente i particolari legati agli aspetti istituzionali: siete riusciti a stipulare convenzioni, protocolli d’intesa, così da coinvolgere quanto più possibile altri enti e realtà?

Il più importante aspetto istituzionale riguarda gli studenti e il lavoro dei docenti, dal momento che gli accordi di collaborazione sono importantissimi, ma prima di tutto era importante che l’Università riconoscesse il lavoro del suo personale come lavoro normale, istituzionale, appunto; allo stesso tempo era importante che riconoscesse quegli studenti esattamente come gli altri, anzi, come un gruppo svantaggiato.

Come in ogni lavoro professionale, anche quello universitario ha una sua componente di gratuità: voglio dire che in queste attività che fanno della relazione un elemento centrale, c’è sempre una componente di volontarietà, direi di gratuità. Questo vale sia nella condizione degli studenti che in quella dei docenti. In generale, nel lavoro delle persone c’è sovente questa dimensione, che di solito è poco valorizzata, soprattutto ora che si tende a privilegiare piuttosto la competizione come fattore di produttività. Il coinvolgimento istituzionale dell’Università fa sì che quello che facciamo sia una parte, pur piccola, delle innovazioni che introduciamo.

La nostra presenza in carcere è dunque diversa da quella dei volontari, e questo spiega anche il maggiore impatto reciproco tra università ed ambiente penitenziario. Fare di questo progetto qualcosa di istituzionale significherà, in futuro, che studenti universitari potranno avere dei contatti con la realtà penitenziaria: penso a studenti dell’area psicologica, biomedica, educativa, del servizio sociale che potranno svolgere esperienze di tirocinio, preparare elaborati, condurre ricerche. Mi aspetto, gradualmente, un "ritorno" sull’Università attraverso le esperienze di docenti e studenti. Gli accordi e i protocollo nascono quando si sviluppano delle strategie di comunicazione e di collaborazione: essi sono, in genere, un punto di arrivo di qualcosa che matura e l’apertura di possibilità che si costruiscono e si ampliano nel tempo, sempre che si riesca ad instaurare quella comunicazione basata sul reciproco riconoscimento di cui prima accennavo.

 

 

Come avete fatto fronte al reperimento delle risorse economiche necessarie a far funzionare un progetto così articolato ed impegnativo?

Come in ogni altro campo, la pratica dei diritti costa: la somma delle risorse per istruzione, salute, assistenza e previdenza assorbe ogni anno una grande quantità della ricchezza che produciamo, ma, al tempo stesso, rappresenta un investimento sotto molti punti di vista. Per noi è lo stesso: le risorse che vengono impegnate sono minime in proporzione alle grandi cifre, sicuramente piccole rispetto al costo di una struttura come quella carceraria. Esse sono tuttavia significative e devono essere un investimento innanzitutto per gli studenti, ma anche per l’Università, per l’Amministrazione Penitenziaria, per la società toscana. Certamente si tratta di un investimento a lungo termine e con un certo rischio, ma pur sempre di un investimento.

Nessuno dei tre contraenti il protocollo d’intesa poteva investire da solo, e l’unica possibilità era quella di mettere insieme delle risorse e, con questo impegno, chiedere all’esterno. L’accordo ha reso credibile l’iniziativa e due Fondazioni (l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze e l’Ente Cassa di Risparmio di Prato) hanno risposto, con grande sensibilità, fino dall’inizio: la firma del protocollo a Pisa e a Siena vedrà certamente altri impegni di questo tipo. Per parte loro, Università e Regione sostengono anche il lavoro di monitoraggio e di valutazione del progetto. Ma ancora non basta, perché né la Regione né l’Università possono affrontare le mille questioni che ci sono in un ambiente come quello penitenziario: in questo senso, l’apporto di due associazioni di volontariato, (Associazione Volontariato Penitenziario ed Associazione l’Altro Diritto) è stata una delle condizioni essenziali.

L’avvio del progetto, proprio per l’impegno istituzionale e per le motivazioni ricordate, ha portato anche l’Azienda Regionale per il Diritto allo Studio Universitario nella sua articolazione sui tre atenei, a decidere quest’anno l’inserimento di questi studenti nel bando per le borse di studio, seguendo i criteri già stabiliti per un altro gruppo di studenti svantaggiati, i portatori di handicap, il che significa allungare i tempi degli studi e determinare una soglia di crediti più bassa ai fini dell’ottenimento di una borsa di studio. Questo ha fatto sì che dieci studenti abbiano potuto presentare la domanda e che, c’è da sperarlo, una parte almeno di loro, la possano ottenere.

L’Università, per suo conto, ha ridotto le tasse di iscrizione alla sola "quota statale" (110 euro), quota che chi può se la paga e chi non può viene sostenuto dal volontariato attraverso i fondi esterni. I diritti costano e ci sono anche molte persone che pensano che consentire questo a dei carcerati sarebbe iniquo, perché prima dovremmo occuparci di tutti gli altri. In linea generale, però, io sono convinto che non sono mai i soldi che mancano, essendo più difficile elaborare idee e progetti, saper spendere in modo efficace, mobilitare le persone con le loro risorse, essere capaci di riflettere continuamente su ciò che facciamo.

 

 

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