Papa Francesco e i regimi di massima sicurezza

 

La capacità umana di crudeltà

È una definizione di Papa Francesco, questa, che non ci va molto tenero con gli esseri umani e la loro capacità di usare la crudeltà nel punire, per esempio mediante la reclusione in carceri di massima sicurezza

 

di Bruno Turci, Ristretti Orizzonti

 

“Sulla tortura e altre misure e pene crudeli, inumane e degradanti.  L’aggettivo “crudele”; sotto queste figure che ho menzionato, c’è sempre quella radice: la capacità umana di crudeltà.

Quella è una passione, una vera passione!

Una forma di tortura è a volte quella che si applica mediante la reclusione in carceri di massima sicurezza. Con il motivo di offrire una maggiore sicurezza alla società o un trattamento speciale per certe categorie di detenuti, la sua principale caratteristica non è altro che l’isolamento esterno.

Come dimostrano gli studi realizzati da diversi organismi di difesa dei diritti umani, la mancanza di stimoli sensoriali, la completa impossibilità di comunicazione e la mancanza di contatti con altri esseri umani, provocano sofferenze psichiche e fisiche come la paranoia, l’ansietà, la depressione e la perdita di peso e incrementano sensibilmente la tendenza al suicidio”.

(Dal Discorso di Papa Francesco alla delegazione dell’associazione internazionale di diritto penale, 23 ottobre 2014)

 

I regimi penitenziari differenziati. Il 41 bis. Le carceri speciali o di massima sicurezza.

Esistono in Italia da tantissimi anni, ma ci sono anche in tanti altri Paesi del nostro pianeta.

Sono i regimi  detentivi differenziati, le carceri dei circuiti di massima sicurezza di cui ha parlato papa Francesco.

Sono luoghi dove la detenzione è più dura, le regole sono più rigide proprio perché sono luoghi di massima sicurezza, dove spesso la sicurezza diventa l’alibi per violare le garanzie, per negare i diritti più elementari. E il desiderio di sicurezza fa sì che si rafforzi, nell’immaginario di tanti, l’idea che in quei luoghi sia legittimo usare anche la violenza. Così si fa passare il concetto che sia giusto che le persone rinchiuse in quei posti abbiano meno diritti degli altri, giacché si tratta di persone che, “se sono lì, hanno fatto certamente delle cose gravi!”. A loro sono concesse meno telefonate ai familiari (genitori, mogli, figli, fratelli e sorelle) rispetto a coloro, i quali si trovano detenuti nei regimi ordinari: 2 a chi si trova in un circuito di Alta Sicurezza e 4 ai detenuti “comuni”.

Anche le ore di colloquio mensile per incontrare i familiari sono di meno, sono solo 4, mentre ai detenuti nei regimi ordinari ne sono concesse 6.

Esiste un ulteriore circuito detentivo differenziato in cui sono rinchiusi i detenuti sottoposti al regime del 41 bis. Queste persone sono costrette a un costante isolamento da tutti gli altri. A questi detenuti sono concesse soltanto una telefonata al mese di dieci minuti, o in alternativa un’ora di colloquio in una saletta in cui c’è un vetro blindato che separa in due il locale, dove il detenuto sta da una parte e i familiari stanno dall’altra.

Si possono parlare con l’ausilio del citofono. Questa è una realtà davvero degradante in cui la famiglia è penalizzata fortemente. Esistono degli studi con delle statistiche in cui si riscontrano sistematicamente traumi psicologici terribili nei figli di queste persone. Questi figli sono rimasti traumatizzati proprio per le modalità con cui si svolgono gli incontri con i padri sottoposti a quel regime. In questa maniera si formano nelle nuove generazioni dei potenziali nemici delle istituzioni.

I detenuti in 41 Bis o in Alta Sicurezza sono sistematicamente rinchiusi in sezioni detentive speciali lontane dal luogo di residenza dei familiari, e in questo modo in pratica si colpiscono loro, ma principalmente si colpiscono i loro affetti.

Una tortura indicibile estesa alla famiglia incolpevole. Ci sono persone che sono sottoposte a quel regime di isolamento da moltissimi anni. A questi regimi sono assegnati coloro i quali sono stati condannati per i reati che sono compresi nella prima fascia dell’art. 4 bis dell’Ordinamento penitenziario: associazione mafiosa, sequestro di persona a scopo di estorsione, associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, reati con finalità di terrorismo e traffico di esseri umani.

Da anni noi sosteniamo che alle persone private della libertà debbono essere garantiti gli stessi diritti, a tutti, nel rispetto della loro umanità. Con lo stesso criterio i familiari delle persone condannate hanno diritto di stare accanto ai loro genitori, marito, moglie, fratello o figlio come lo hanno tutti i parenti delle persone che non sono sottoposte ai regimi speciali.

Non si può derogare alle garanzie. I regimi differenziati non si limitano solo alle carceri di massima sicurezza. Ci sono anche le differenziazioni nel trattamento introdotte dall’articolo 4 bis. Lo conoscono in pochi, è un articolo dell’Ordinamento penitenziario, generato da una legge d’emergenza, nata nel 1991, che discrimina non le persone secondo la loro presunta responsabilità o pericolosità, ma secondo il reato per cui sono state condannate.

Questa non è un’aggravante che viene contestata durante il processo, è una sorta di pena aggiuntiva che comporta una discriminante nella concessione dei benefici penitenziari.

Per alcuni reati poi l’accesso ai benefici se non completamente negato è possibile solo se il detenuto collabora con la giustizia, ai sensi dell’art. 58 ter O.P.

Questo significa anche allontanare le persone detenute dalla famiglia, impedendogli di accedere alle misure alternative e ai percorsi risocializzanti previsti dalla legge.

Il 4 bis è una norma che era stata varata nel 1991 durante un periodo di emergenza per contrastare la criminalità, creando una forma di deterrenza. Dopo più di ventitré anni questa norma è ancora in vigore, eppure le condizioni di emergenza sono mutate, oggi non ci sono più le condizioni che possono in qualche modo giustificare una legge di emergenza di quel tipo. Purtroppo le emergenze nel nostro Paese non passano mai, non c’è il coraggio per restituire serenità ed equilibrio alla giustizia. D’altronde questo non porterebbe voti. È impopolare. Noi denunciamo da anni queste storture, questa demagogia che schiaccia tutti, indistintamente, inesorabilmente.

E devo anche dire che sono poche le voci che hanno sostenuto questa battaglia di civiltà. Ora, però, lo ha detto anche il Papa. E lo ha detto con parole inequivocabili. Finalmente! C’era davvero bisogno di un Papa così! Lui è il capo della Chiesa, il Vicario di Cristo, e le cose che dice sono certamente ascoltate e spero che non si spenga troppo presto l’eco delle sue parole.

Noi siamo qui proprio per ricordarle sempre, a tutti gli uomini di buona volontà, cristiani e non.

 

 

 

 

 

 

Le domande al Papa di tredici ergastolani

 

a cura di Francesca de Carolis, giornalista e scrittrice

e Nadia Bizzotto, Comunità Papa Giovanni XXIII

 

Caro Papa Francesco, quelle che seguono sono le domande che tredici ergastolani hanno pensato di rivolgerle. Ergastolani “speciali”, ostativi, che in seguito a un meccanismo di leggi nate con “l’emergenza mafia” degli anni 90, vengono esclusi dall’applicazione dei benefici di legge perché non collaboratori di giustizia. Diversamente da quanto comunemente si crede, e ancora sui mezzi d’informazione spesso si dice, sono la smentita, in carne ed ossa, del fatto che “l’ergastolo in Italia non lo sconta nessuno”.

Appartenuti in passato a varie organizzazioni di stampo criminale, anche solo a livello regionale, sono in carcere da decenni, molti per lunghi periodi in regime di 41 bis, e scontano una pena che, in base alle nostre leggi, non finirà mai. In questi anni molto hanno riflettuto sul proprio passato, hanno seguito percorsi di studio, continuano a lavorare su se stessi. Basti dire che fra questi c’è chi in carcere si è laureato in giurisprudenza, chi si è diplomato in un Istituto d’arte, c’è chi è prossimo alla laurea in filosofia, chi ha approfondito la storia d’Italia e le vicende del nostro Meridione… Convinti pure che “la vita, se sarai capace di non soffocarla dentro di te, ti offrirà di vedere e capire”. Ma al pentimento morale il nostro ordinamento non riconosce alcun valore giuridico. Negando loro di fatto il diritto alla riabilitazione. Eppure “alcuni di noi sono ormai giunti ad un livello di maturità tale da non dimenticare nemmeno per un istante il dolore delle vittime”, con la certezza “che non esistano pene in grado di rafforzare l’autorevolezza della legge o tali da raggiungere l’obbiettivo di cancellare il dolore delle vittime dei reati”.

 

Tredici dei tanti, in Italia si calcola siano più di mille, destinati a morire reclusi. Ci hanno affidato queste domande, senza nascondere la profonda emozione di chi nello scrivere si accorge “di quanto sia difficile scegliere le parole”, o il sussulto di chi temendo di essere la persona meno adatta a porre domande al Papa chiede “scusa dell’arroganza di questo peccatore, ma la sfrontatezza è tanta”…

La sfrontatezza è tanta e tante sono state le domande, alcune simili, ma abbiamo preferito lasciarle perché emergessero le sfumature, sottili differenze che ognuno ha portato, riflettendo sul tema della colpa, del castigo e del perdono. Con uno sguardo anche alla vita generale della Chiesa e al mondo intero, di cui pure, nonostante il sentire comune li voglia esclusi dal mondo, ciascuno di loro si sente parte.

In un momento in cui si richiede l’impegno di tutti nella lotta contro le mafie, pensiamo che non si possa essere indifferenti alla voce di chi, dopo aver sofferto e aver raggiunto un profondo intimo cambiamento, potrebbe offrire alla società la testimonianza del suo percorso.

Con una sola voce, si rivolgono a Papa Francesco nella speranza di un confronto, anche solo di un pensiero in risposta a tante domande… perché “sarebbe bello un giorno poterla incontrare”… “conoscersi serve giacché per costruire una strada occorre aiuto, e io non mi vergogno di avanzare a

Sua Santità un’umile richiesta d’aiuto”… Insomma, “Papa Francesco, aiutaci a vivere o a morire”...

Un forte abbraccio Francesca de Carolis e Nadia Bizzotto email: ergastolani@apg23.org

 

Giugno 2014

Una premessa importante… Non voglio la morte del peccatore, dice il Signore, ma che egli si converta e viva (Ezechiele, 33 II). Vi è un dramma rappresentato con grande maestria nel Vangelo di Giovanni, in esso si recita: chi è di voi senza peccato scagli la prima pietra. C’è da restare senza fiato… “Chi è di voi…”! Queste sono veramente le cose essenziali. Ma non si trovano in alcun manuale di psicologia.  Piuttosto si imparano in chiesa o nelle carceri. Curioso anche questo avvicinamento, no? Tra Chiesa e carcere; qualcosa come mettere insieme inferno e paradiso.

Ma l’errore, il tremendo errore, sta nel credere che quelli che sono rinchiusi nel penitenziario siano

dannati.

Il giudizio, per esser giusto, dovrebbe tenere conto non soltanto del male che uno ha fatto, ma anche del bene che farà, non solo della sua capacità a delinquere, ma anche della sua capacità a redimersi.

Dunque:

Caro Papa Francesco, a proposito del peccato Lei ha detto: se uno non pecca non è un uomo.

Dobbiamo supporre che Dio ammette il peccato oppure che nella realtà il peccato, così come noi lo conosciamo, non esiste?

Il male e il bene di una persona è il bene di noi tutti, lo ha detto Carlo Maria Martini.

Papa Francesco, pensa che Dio sia così severo da gettare un’anima all’inferno e condannarla ad essere cattiva e colpevole per sempre come accade sulla terra?

 

Dio perdona. Possono farlo anche gli uomini o il perdono è solo “cosa divina”? Ma se il perdono è anche umano, cosa ne pensa e cosa direbbe a quegli Stati che promuovono la pena di morte e il carcere a vita per chi ha commesso reati di sangue?

La condanna all’ergastolo senza fine è disumana. Più che una condanna fisica è una pena dell’anima, una pena che ti ruba l’amore, ti mangia vivo, ti succhia la speranza… che ti ammazza lentamente. Si passa l’esistenza a osservare il proprio passato perché non ci sono giorni davanti che ci aspettano, ed è difficile diventare buoni con una pena del diavolo da scontare. Perché i buoni cristiani, che magari vanno a messa la domenica, ci fanno questo?

 

Mi chiedo se dal punto di vista cristiano, umano, tale pena, così come configurata in Italia, (osta a qualsiasi beneficio di legge, quindi non dà speranza, annienta l’individuo giorno dopo giorno riducendolo a un vegetale, non più persona, ma solo corpo, svuotandola della sua essenza umana) sia priva di senso, sia compatibile con il precetto evangelico.

Tenendo conto che l’Italia è definita, per antonomasia, culla del diritto, ma soprattutto è il centro della cristianità, chiedo: è accettabile questa pena disumana nel paese in cui risiede il cuore della fede cristiana?

 

Sapendo che per un ergastolano ostativo la pena non finirà mai, come può un uomo resistere e superare tutto questo? E dopo aver superato questa prova, può un uomo ancora considerarsi una persona normale, umana?

 

Santo padre, secondo lei, il fatto che in Italia non venga eseguita una vera e propria pena di morte, sostituita da un “pena di morte viva”, chiamata appunto ergastolo ostativo, permette alle nostre istituzioni di mettersi la coscienza al riparo dal senso di colpa che potrebbe procurargli la messa a morte del reo? Non crede che in questo modo, nonostante l’Italia abbia una costituzione molto chiara su ogni punto, si ha solo la mera “illusione” di essere in un paese civile e democratico?

Santo Padre, secondo lei, che differenza passa tra il vero condannato to a morte e noi che, seppure non veniamo uccisi all’istante, siamo lasciati vivi in agonia tutta la vita, venendo però uccisi giorno dopo giorno, anno dopo anno, decennio dopo decennio, senza che lo Stato si sporchi le mani di sangue?

 

La nostra pena è senza fine perché non abbiamo fatto i nomi dei nostri ex compagni. Negli oratori siamo stati educati al motto di “chi fa la spia non è figlio di Maria” e con la figura di Giuda, che per aver tradito Gesù e averlo consegnato allo Stato romano si è impiccato. Oggi ci è chiesto di fare gli opportunisti e accusare un nostro “fratello in Cristo” per non morire in carcere. Come nelle peggiori dittature. Una condizione immorale, anche per il pensiero di un ateo. Una legge che ricatta, lede la dignità, la libertà religiosa, che è applicata anche a chi si è ravveduto o all’innocente che non può dimostrare di esserlo. Purtroppo questo ricatto, che non lascia via d’uscita, quando diventa insostenibile porta molti di noi al suicidio. Per la Chiesa è un peccato, ma non commette una corruzione più grave chi ci costringe al suicidio?

 

Santità, ritiene cristiana la tortura del 41 bis?

 

Si può essere pentiti di puro cuore pur non avendo collaborato con la giustizia. Non si sbaglia, forse, nel guardare a questo ultimo parametro come unico elemento indicatore dell’avvenuta conversione?

 

Non è illegittimo il trattamento a noi riservato? A noi che siamo in stragrande maggioranza meridionali… Vien da fare un paragone con quanto letto nel testo “Patrologia” di Berthold Altaner citando l’Apologeticum, dove emerge chiaramente la differenza di trattamento fra imputati cristiani e imputati accusati di altri crimini: per questi la tortura era mirata alla confessione, per i primi diretta invece ad ottenere un rinnegamento… Per noi ostativi non esiste nessuna Apologia che possa farci sperare in un futuro da uomini liberi…

 

Cosa deve fare e come si deve comportare una persona per essere “redenta”, per poter essere accettata dalla civiltà esterna senza essere continuamente additato come criminale?

 

È capitato che a persone condannate per reati connessi alla criminalità organizzata siano stati negati

funerali religiosi (persone magari morte in carcere dopo 20 anni di pena), nulla sapendo se tale persona abbia convertito il suo cuore al bene dopo tanti anni. Considerando la natura di non esclusività della dottrina cristiana, non crede sia contraddittorio questo comportamento adottato in seno alla Chiesa cattolica? Giusto condannare sempre il fenomeno della criminalità organizzata, non ritiene però sbagliato condannare per sempre e comunque l’uomo?

 

Guai a girarsi dall’altra parte quando sono violati i diritti di qualcuno, gli orrori della storia lo insegnano: “Un giorno vennero ad arrestare tutti i negri, ma io non ero un negro e non dissi nulla, il giorno dopo arrestarono gli ebrei, poi gli zingari e vagabondi.  Vennero di nuovo ma non c’era più nessuno e arrestarono anche me”. Nel Meridione, ieri briganti, oggi basta etichettare qualcuno come mafioso per sospendergli ogni diritto con il plauso di tutti, Chiesa inclusa. Ma la Chiesa di Gesù non avrebbe paura di ricordare pubblicamente, a questa società votata all’indifferenza, che tutti gli uomini hanno la stessa dignità ed ognuno è un caso a sé?  Qualunque sia l’etichetta data da altri uomini. I.N.R.I. non dovrebbe ricordare qualcosa?

 

A torto o a ragione noi siamo in carcere con una condanna (anche se non sempre con un giusto processo  v. “leggi d’emergenza”), ma le nostre madri, mogli, figli, non hanno altra colpa che di amarci. Nessuno pensa che tra le vittime ci sono anche loro. Il dolore di Maria per il figlio incarcerato e condannato, ricorda qualcosa?  Condannate a “vite sospese nel dolore”, vite di privazioni. Nelle nostre famiglie non esiste un Natale, Pasqua o altra ricorrenza, perché il pensiero è sempre velato di tristezza  per noi, rinchiusi come animali. Queste “vittime dell’amore” hanno qualche diritto?

 

Molte cose della fede fino ad oggi era impensabile che venissero rivoluzionate, ma ecco che arriva Papa Francesco a stupirci.  Oggi ci ha stupito con il battesimo in Vaticano del bambino di una coppia sposata con il rito civile.

 Viene da chiedere… come mai ancora un divorziato non può avere accesso al sacramento della comunione?

 

Caro Papa Francesco, noi cristiani, credenti, comunità, nel professare Gesù Cristo, la nostra fede, veniamo derisi e criticati dai non credenti, e da quelli che si sono allontanati dalla fede. Le cause di tutte le continue diatribe sono: la secolarizzazione, il relativismo e principalmente l’arricchimento personale che attecchisce nella Chiesa. È possibile da parte sua dare un segnale ancora più forte, di concretezza, nel correggere questi comportamenti di una parte della Chiesa, che non sono più tollerabili?

 

Nel terzo millennio, ritiene naturale la monarchia assoluta della Chiesa? Non crede che sia giunto il momento che sia la democrazia a guidare i cattolici? Vedranno un giorno i cattolici l’abolizione dell’ordine dei cardinali e l’elezione del Papa da parte dei Vescovi di tutto il mondo?

Pensando al mondo, pensando al cuore della cristianità… Oltre l’annuncio della sua visita in Terra Santa, non sarebbe utile anche un suo discorso all’Onu per cercare di toccare il cuore marmoreo dei potenti della Terra per risolvere l’eterno scontro tra i poveri Palestinesi e Israeliani? Se si aspetta che arrivi la pace da un accordo tra quei due popoli dovremmo aspettare che inizi un’evoluzione nuova dell’umanità e un’altra volta il figlio di Dio dovrà morire sulla croce…

 

Sotto la sua guida il Vaticano ha abolito l’ergastolo. Lo ha fatto perché aveva perso la sua forza d’applicabilità oppure perché ritiene che condannare al carcere a vita un essere umano vada contro il senso di civiltà che ogni popolo si vanta di detenere?

 

La Chiesa è in prima fila per l’abolizione della pena di morte nel mondo.  Interverrà il Papa in prima persona per chiedere allo Stato italiano e ai politici “cattolici” di abolire l’ergastolo ostativo, questa forma camuffata di pena di morte?

 

Considera possibile sostenere l’ambizione di quanti - pur patendo sulla propria pelle l’ergastolani desiderano realizzare, nonostante tutto, il ritorno nella società attraverso gli affetti, il lavoro, l’istruzione? E come?

 

È ancora possibile sostenere un ergastolano ostativo, l’uomo, a credere di poter trovare una ragione

per ridare i colori a un’esistenza segnata da dolore e angoscia? E come abbattere il muro dell’alterità che separa il dentro dal fuori e sviscerare in tal modo la paura del diverso che non si conosce?

 

Paolo Amico, Claudio Conte, Pasquale De Feo, Marcello Dell’Anna, Antonio Di Girgenti, Giovanni Farina Domenico Ferraioli, Giovanni Lentini, Giovanni Mafrica, Carmelo Musumeci, Santo Napoli, Alfredo Sole, Mario Trudu

 

 

 

 

 

Papa Francesco, sogno di finire come Marcellino pane e vino

 

di Carmelo Musumeci, Ristretti Orizzonti

 

Papa Francesco, scusa, sono di nuovo io, ti ho già scritto una volta. E lo rifaccio ancora. So che in questi ultimi tempi, da quando hai abolito l’ergastolo in Vaticano, ti stanno scrivendo molti ergastolani per chiederti di fare qualcosa anche per loro.

Io invece questa volta se scrivo di nuovo è per raccontarti un episodio della mia infanzia.

 

Papa Francesco, una volta in collegio un prete mi raccontò la storia di un bambino che parlava con Gesù. Si chiamava Marcellino. Era un trovatello. E i frati si erano presi cura di lui. Un giorno Marcellino aveva trovato nel solaio del convento un grande crocefisso con un Gesù inchiodato. Lui iniziò a parlargli. E Gesù a rispondergli. Marcellino iniziò pure a portargli un po’ di pane e vino.

 E per questo in seguito i frati chiamarono il bambino “Marcellino pane e vino”.

 La storia finiva bene. Bene per modo di dire, a seconda dei punti di vista: Marcellino si era gravemente ammalato. Ed era morto. E Gesù se l’era portato in cielo.

Papa Francesco, anch’io volevo che la mia storia finisse bene. E dopo un paio di giorni che avevo sentito questo racconto ero andato in chiesa di nascosto per parlare con Gesù. Lui stava inchiodato in un grosso crocefisso di legno con la testa inclinata da un lato. Gli parlai guardandolo negli occhi. Gli domandai cosa dovevo fare nella vita. Se c’era differenza fra morire e vivere. E poi piansi davanti a lui per essere nato diverso dagli altri bambini.  Piansi per i sogni che avevo diversi dagli altri bambini. Piansi per essere nato grande. Piansi per essere nato senza amore intorno a me. Piansi perché immaginavo che un giorno sarei diventato quello che non avrei voluto. Piansi per la vita che non avrei mai avuto. Piansi perché non riuscivo a smettere di piangere.

Papa Francesco, quel giorno chiesi a Dio se faceva morire anche me. E se mi portava in cielo con lui, come aveva fatto con Marcellino. Una volta montai persino su una sedia per arrivare fino a lui per baciargli la fronte. E per dirgli in un orecchio: “Ti voglio bene”. Un’altra volta cercai di togliergli la corona di spine che aveva in testa. Un giorno piansi per tanto tempo, ma se il cuore di Dio è duro, quello di Gesù lo fu ancora di più, perché continuò a non rispondermi. E un altro giorno vidi persino che Gesù abbassava gli occhi per non guardarmi.

Papa Francesco, devi sapere che Gesù non mi rispose mai. Non mi parlò il primo giorno. E neppure tutti gli altri giorni che lo andai a trovare di nascosto. Neppure quando, per arruffianarmelo, gli portai un po’ di pane e un po’ di vino che avevo rubato dalla dispensa dei preti. Si potrebbe dire che il primo furto l’ho fatto per Gesù. E per ringraziamento lui non si degnò mai di scendere neppure un attimo da quella croce. Non mosse mai un muscolo. Neppure quella volta quando lo abbracciai.

Quando gli baciai i piedi inchiodati nella croce. E quando lo pregai di farmi morire come aveva fatto con Marcellino pane e vino. Già a quell’età non vedevo nessuna differenza fra vivere e morire.

Papa Francesco, a quel tempo qualche preghiera l’avevo imparata, ma le stelle per me non hanno mai brillato. E non c’è stato nulla da fare. Nonostante le mie preghiere Gesù non mi rispose mai. E mentre quel fortunato di Marcellino pane e vino se lo era portato in cielo, a me mi aveva lasciato in questo disgraziato di mondo.

Papa Francesco, ti ho raccontato questo episodio della mia infanzia perché nella mia prima lettera ti avevo scritto che gli uomini ombra del carcere di Padova ti aspettavano, io per primo. Tu però non sei venuto, non ancora. Lo so che hai tante cose da fare, devi vedere tante persone e non puoi sprecare il tuo tempo per un migliaio e poco più di ergastolani ostativi, né morti né vivi.

Io lo sapevo che non saresti potuto venire, non so se neppure Papa Francesco potrebbe osare tanto

da andare a trovare gli ultimi dannati della terra, ma il bambino dell’episodio che ti ho raccontato, che è ancora dentro di me, crede ancora ai miracoli.