Papa
Francesco e i regimi di massima sicurezza
La
capacità umana di crudeltà
È
una definizione di Papa Francesco, questa, che non ci va molto tenero con gli
esseri umani e la loro capacità di usare la crudeltà nel punire, per esempio
mediante la reclusione in carceri di massima sicurezza
di
Bruno Turci,
Ristretti Orizzonti
“Sulla
tortura e altre misure e pene crudeli, inumane e degradanti.
L’aggettivo “crudele”; sotto queste figure che ho menzionato, c’è
sempre quella radice: la capacità umana di crudeltà.
Quella
è una passione, una vera passione!
Una
forma di tortura è a volte quella che si applica mediante la reclusione in
carceri di massima sicurezza. Con il motivo di offrire una maggiore sicurezza
alla società o un trattamento speciale per certe categorie di detenuti, la sua
principale caratteristica non è altro che l’isolamento esterno.
Come
dimostrano gli studi realizzati da diversi organismi di difesa dei diritti
umani, la mancanza di stimoli sensoriali, la completa impossibilità di
comunicazione e la mancanza di contatti con altri esseri umani, provocano
sofferenze psichiche e fisiche come la paranoia, l’ansietà, la depressione e
la perdita di peso e incrementano sensibilmente la tendenza al suicidio”.
(Dal
Discorso di Papa Francesco alla delegazione dell’associazione internazionale
di diritto penale, 23 ottobre 2014)
I
regimi penitenziari differenziati. Il 41 bis. Le carceri speciali o di massima
sicurezza.
Esistono
in Italia da tantissimi anni, ma ci sono anche in tanti altri Paesi del nostro
pianeta.
Sono
i regimi detentivi differenziati, le
carceri dei circuiti di massima sicurezza di cui ha parlato papa Francesco.
Sono
luoghi dove la detenzione è più dura, le regole sono più rigide proprio perché
sono luoghi di massima sicurezza, dove spesso la sicurezza diventa l’alibi per
violare le garanzie, per negare i diritti più elementari. E il desiderio di
sicurezza fa sì che si rafforzi, nell’immaginario di tanti, l’idea che in
quei luoghi sia legittimo usare anche la violenza. Così si fa passare il
concetto che sia giusto che le persone rinchiuse in quei posti abbiano meno
diritti degli altri, giacché si tratta di persone che, “se sono lì, hanno
fatto certamente delle cose gravi!”. A loro sono concesse meno telefonate ai
familiari (genitori, mogli, figli, fratelli e sorelle) rispetto a coloro, i
quali si trovano detenuti nei regimi ordinari: 2 a chi si trova in un circuito
di Alta Sicurezza e 4 ai detenuti “comuni”.
Anche
le ore di colloquio mensile per incontrare i familiari sono di meno, sono solo
4, mentre ai detenuti nei regimi ordinari ne sono concesse 6.
Esiste
un ulteriore circuito detentivo differenziato in cui sono rinchiusi i detenuti
sottoposti al regime del 41 bis. Queste persone sono costrette a un costante
isolamento da tutti gli altri. A questi detenuti sono concesse soltanto una
telefonata al mese di dieci minuti, o in alternativa un’ora di colloquio in
una saletta in cui c’è un vetro blindato che separa in due il locale, dove il
detenuto sta da una parte e i familiari stanno dall’altra.
Si
possono parlare con l’ausilio del citofono. Questa è una realtà davvero
degradante in cui la famiglia è penalizzata fortemente. Esistono degli studi
con delle statistiche in cui si riscontrano sistematicamente traumi psicologici
terribili nei figli di queste persone. Questi figli sono rimasti traumatizzati
proprio per le modalità con cui si svolgono gli incontri con i padri sottoposti
a quel regime. In questa maniera si formano nelle nuove generazioni dei
potenziali nemici delle istituzioni.
I
detenuti in 41 Bis o in Alta Sicurezza sono sistematicamente rinchiusi in
sezioni detentive speciali lontane dal luogo di residenza dei familiari, e in
questo modo in pratica si colpiscono loro, ma principalmente si colpiscono i
loro affetti.
Una
tortura indicibile estesa alla famiglia incolpevole. Ci sono persone che sono
sottoposte a quel regime di isolamento da moltissimi anni. A questi regimi sono
assegnati coloro i quali sono stati condannati per i reati che sono compresi
nella prima fascia dell’art. 4 bis dell’Ordinamento penitenziario:
associazione mafiosa, sequestro di persona a scopo di estorsione, associazione a
delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, reati con finalità di
terrorismo e traffico di esseri umani.
Da
anni noi sosteniamo che alle persone private della libertà debbono essere
garantiti gli stessi diritti, a tutti, nel rispetto della loro umanità. Con lo
stesso criterio i familiari delle persone condannate hanno diritto di stare
accanto ai loro genitori, marito, moglie, fratello o figlio come lo hanno tutti
i parenti delle persone che non sono sottoposte ai regimi speciali.
Non
si può derogare alle garanzie. I regimi differenziati non si limitano solo alle
carceri di massima sicurezza. Ci sono anche le differenziazioni nel trattamento
introdotte dall’articolo 4 bis. Lo conoscono in pochi, è un articolo
dell’Ordinamento penitenziario, generato da una legge d’emergenza, nata nel
1991, che discrimina non le persone secondo la loro presunta responsabilità o
pericolosità, ma secondo il reato per cui sono state condannate.
Questa
non è un’aggravante che viene contestata durante il processo, è una sorta di
pena aggiuntiva che comporta una discriminante nella concessione dei benefici
penitenziari.
Per
alcuni reati poi l’accesso ai benefici se non completamente negato è
possibile solo se il detenuto collabora con la giustizia, ai sensi dell’art.
58 ter O.P.
Questo
significa anche allontanare le persone detenute dalla famiglia, impedendogli di
accedere alle misure alternative e ai percorsi risocializzanti previsti dalla
legge.
Il
4 bis è una norma che era stata varata nel 1991 durante un periodo di emergenza
per contrastare la criminalità, creando una forma di deterrenza. Dopo più di
ventitré anni questa norma è ancora in vigore, eppure le condizioni di
emergenza sono mutate, oggi non ci sono più le condizioni che possono in
qualche modo giustificare una legge di emergenza di quel tipo. Purtroppo le
emergenze nel nostro Paese non passano mai, non c’è il coraggio per
restituire serenità ed equilibrio alla giustizia. D’altronde questo non
porterebbe voti. È impopolare. Noi denunciamo da anni queste storture, questa
demagogia che schiaccia tutti, indistintamente, inesorabilmente.
E
devo anche dire che sono poche le voci che hanno sostenuto questa battaglia di
civiltà. Ora, però, lo ha detto anche il Papa. E lo ha detto con parole
inequivocabili. Finalmente! C’era davvero bisogno di un Papa così! Lui è il
capo della Chiesa, il Vicario di Cristo, e le cose che dice sono certamente
ascoltate e spero che non si spenga troppo presto l’eco delle sue parole.
Noi
siamo qui proprio per ricordarle sempre, a tutti gli uomini di buona volontà,
cristiani e non.
Le
domande al Papa di tredici ergastolani
a
cura di Francesca de Carolis,
giornalista e scrittrice
e Nadia
Bizzotto,
Comunità Papa Giovanni XXIII
Caro
Papa Francesco, quelle che seguono sono le domande che tredici ergastolani hanno
pensato di rivolgerle. Ergastolani “speciali”, ostativi, che in seguito a un
meccanismo di leggi nate con “l’emergenza mafia” degli anni 90, vengono
esclusi dall’applicazione dei benefici di legge perché non collaboratori di
giustizia. Diversamente da quanto comunemente si crede, e ancora sui mezzi
d’informazione spesso si dice, sono la smentita, in carne ed ossa, del fatto
che “l’ergastolo in Italia non lo sconta nessuno”.
Appartenuti
in passato a varie organizzazioni di stampo criminale, anche solo a livello
regionale, sono in carcere da decenni, molti per lunghi periodi in regime di 41
bis, e scontano una pena che, in base alle nostre leggi, non finirà mai. In
questi anni molto hanno riflettuto sul proprio passato, hanno seguito percorsi
di studio, continuano a lavorare su se stessi. Basti dire che fra questi c’è
chi in carcere si è laureato in giurisprudenza, chi si è diplomato in un
Istituto d’arte, c’è chi è prossimo alla laurea in filosofia, chi ha
approfondito la storia d’Italia e le vicende del nostro Meridione… Convinti
pure che “la vita, se sarai capace di non soffocarla dentro di te, ti offrirà
di vedere e capire”. Ma al pentimento morale il nostro ordinamento non
riconosce alcun valore giuridico. Negando loro di fatto il diritto alla
riabilitazione. Eppure “alcuni di noi sono ormai giunti ad un livello di
maturità tale da non dimenticare nemmeno per un istante il dolore delle
vittime”, con la certezza “che non esistano pene in grado di rafforzare
l’autorevolezza della legge o tali da raggiungere l’obbiettivo di cancellare
il dolore delle vittime dei reati”.
Tredici
dei tanti, in Italia si calcola siano più di mille, destinati a morire reclusi.
Ci hanno affidato queste domande, senza nascondere la profonda emozione di chi
nello scrivere si accorge “di quanto sia difficile scegliere le parole”, o
il sussulto di chi temendo di essere la persona meno adatta a porre domande al
Papa chiede “scusa dell’arroganza di questo peccatore, ma la sfrontatezza è
tanta”…
La
sfrontatezza è tanta e tante sono state le domande, alcune simili, ma abbiamo
preferito lasciarle perché emergessero le sfumature, sottili differenze che
ognuno ha portato, riflettendo sul tema della colpa, del castigo e del perdono.
Con uno sguardo anche alla vita generale della Chiesa e al mondo intero, di cui
pure, nonostante il sentire comune li voglia esclusi dal mondo, ciascuno di loro
si sente parte.
In
un momento in cui si richiede l’impegno di tutti nella lotta contro le mafie,
pensiamo che non si possa essere indifferenti alla voce di chi, dopo aver
sofferto e aver raggiunto un profondo intimo cambiamento, potrebbe offrire alla
società la testimonianza del suo percorso.
Con
una sola voce, si rivolgono a Papa Francesco nella speranza di un confronto,
anche solo di un pensiero in risposta a tante domande… perché “sarebbe
bello un giorno poterla incontrare”… “conoscersi serve giacché per
costruire una strada occorre aiuto, e io non mi vergogno di avanzare a
Sua
Santità un’umile richiesta d’aiuto”… Insomma, “Papa Francesco,
aiutaci a vivere o a morire”...
Un
forte abbraccio Francesca de Carolis e Nadia Bizzotto email: ergastolani@apg23.org
Giugno
2014
Una
premessa importante… Non voglio la morte del peccatore, dice il Signore, ma
che egli si converta e viva (Ezechiele, 33 II). Vi è un dramma rappresentato
con grande maestria nel Vangelo di Giovanni, in esso si recita: chi è di voi
senza peccato scagli la prima pietra. C’è da restare senza fiato… “Chi è
di voi…”! Queste sono veramente le cose essenziali. Ma non si trovano in
alcun manuale di psicologia. Piuttosto
si imparano in chiesa o nelle carceri. Curioso anche questo avvicinamento, no?
Tra Chiesa e carcere; qualcosa come mettere insieme inferno e paradiso.
Ma
l’errore, il tremendo errore, sta nel credere che quelli che sono rinchiusi
nel penitenziario siano
dannati.
Il
giudizio, per esser giusto, dovrebbe tenere conto non soltanto del male che uno
ha fatto, ma anche del bene che farà, non solo della sua capacità a
delinquere, ma anche della sua capacità a redimersi.
Dunque:
Caro
Papa Francesco, a proposito del peccato Lei ha detto: se uno non pecca non è un
uomo.
Dobbiamo
supporre che Dio ammette il peccato oppure che nella realtà il peccato, così
come noi lo conosciamo, non esiste?
Il
male e il bene di una persona è il bene di noi tutti, lo ha detto Carlo Maria
Martini.
Papa
Francesco, pensa che Dio sia così severo da gettare un’anima all’inferno e
condannarla ad essere cattiva e colpevole per sempre come accade sulla terra?
Dio
perdona. Possono farlo anche gli uomini o il perdono è solo “cosa divina”?
Ma se il perdono è anche umano, cosa ne pensa e cosa direbbe a quegli Stati che
promuovono la pena di morte e il carcere a vita per chi ha commesso reati di
sangue?
La
condanna all’ergastolo senza fine è disumana. Più che una condanna fisica è
una pena dell’anima, una pena che ti ruba l’amore, ti mangia vivo, ti
succhia la speranza… che ti ammazza lentamente. Si passa l’esistenza a
osservare il proprio passato perché non ci sono giorni davanti che ci
aspettano, ed è difficile diventare buoni con una pena del diavolo da scontare.
Perché i buoni cristiani, che magari vanno a messa la domenica, ci fanno
questo?
Mi
chiedo se dal punto di vista cristiano, umano, tale pena, così come configurata
in Italia, (osta a qualsiasi beneficio di legge, quindi non dà speranza,
annienta l’individuo giorno dopo giorno riducendolo a un vegetale, non più
persona, ma solo corpo, svuotandola della sua essenza umana) sia priva di senso,
sia compatibile con il precetto evangelico.
Tenendo
conto che l’Italia è definita, per antonomasia, culla del diritto, ma
soprattutto è il centro della cristianità, chiedo: è accettabile questa pena
disumana nel paese in cui risiede il cuore della fede cristiana?
Sapendo
che per un ergastolano ostativo la pena non finirà mai, come può un uomo
resistere e superare tutto questo? E dopo aver superato questa prova, può un
uomo ancora considerarsi una persona normale, umana?
Santo
padre, secondo lei, il fatto che in Italia non venga eseguita una vera e propria
pena di morte, sostituita da un “pena di morte viva”, chiamata appunto
ergastolo ostativo, permette alle nostre istituzioni di mettersi la coscienza al
riparo dal senso di colpa che potrebbe procurargli la messa a morte del reo? Non
crede che in questo modo, nonostante l’Italia abbia una costituzione molto
chiara su ogni punto, si ha solo la mera “illusione” di essere in un paese
civile e democratico?
Santo
Padre, secondo lei, che differenza passa tra il vero condannato to a morte e noi
che, seppure non veniamo uccisi all’istante, siamo lasciati vivi in agonia
tutta la vita, venendo però uccisi giorno dopo giorno, anno dopo anno, decennio
dopo decennio, senza che lo Stato si sporchi le mani di sangue?
La
nostra pena è senza fine perché non abbiamo fatto i nomi dei nostri ex
compagni. Negli oratori siamo stati educati al motto di “chi fa la spia non è
figlio di Maria” e con la figura di Giuda, che per aver tradito Gesù e averlo
consegnato allo Stato romano si è impiccato. Oggi ci è chiesto di fare gli
opportunisti e accusare un nostro “fratello in Cristo” per non morire in
carcere. Come nelle peggiori dittature. Una condizione immorale, anche per il
pensiero di un ateo. Una legge che ricatta, lede la dignità, la libertà
religiosa, che è applicata anche a chi si è ravveduto o all’innocente che
non può dimostrare di esserlo. Purtroppo questo ricatto, che non lascia via
d’uscita, quando diventa insostenibile porta molti di noi al suicidio. Per la
Chiesa è un peccato, ma non commette una corruzione più grave chi ci costringe
al suicidio?
Santità,
ritiene cristiana la tortura del 41 bis?
Si
può essere pentiti di puro cuore pur non avendo collaborato con la giustizia.
Non si sbaglia, forse, nel guardare a questo ultimo parametro come unico
elemento indicatore dell’avvenuta conversione?
Non
è illegittimo il trattamento a noi riservato? A noi che siamo in stragrande
maggioranza meridionali… Vien da fare un paragone con quanto letto nel testo
“Patrologia” di Berthold Altaner citando l’Apologeticum, dove emerge
chiaramente la differenza di trattamento fra imputati cristiani e imputati
accusati di altri crimini: per questi la tortura era mirata alla confessione,
per i primi diretta invece ad ottenere un rinnegamento… Per noi ostativi non
esiste nessuna Apologia che possa farci sperare in un futuro da uomini liberi…
Cosa
deve fare e come si deve comportare una persona per essere “redenta”, per
poter essere accettata dalla civiltà esterna senza essere continuamente
additato come criminale?
È
capitato che a persone condannate per reati connessi alla criminalità
organizzata siano stati negati
funerali
religiosi (persone magari morte in carcere dopo 20 anni di pena), nulla sapendo
se tale persona abbia convertito il suo cuore al bene dopo tanti anni.
Considerando la natura di non esclusività della dottrina cristiana, non crede
sia contraddittorio questo comportamento adottato in seno alla Chiesa cattolica?
Giusto condannare sempre il fenomeno della criminalità organizzata, non ritiene
però sbagliato condannare per sempre e comunque l’uomo?
Guai
a girarsi dall’altra parte quando sono violati i diritti di qualcuno, gli
orrori della storia lo insegnano: “Un giorno vennero ad arrestare tutti i
negri, ma io non ero un negro e non dissi nulla, il giorno dopo arrestarono gli
ebrei, poi gli zingari e vagabondi. Vennero
di nuovo ma non c’era più nessuno e arrestarono anche me”. Nel Meridione,
ieri briganti, oggi basta etichettare qualcuno come mafioso per sospendergli
ogni diritto con il plauso di tutti, Chiesa inclusa. Ma la Chiesa di Gesù non
avrebbe paura di ricordare pubblicamente, a questa società votata
all’indifferenza, che tutti gli uomini hanno la stessa dignità ed ognuno è
un caso a sé? Qualunque sia
l’etichetta data da altri uomini. I.N.R.I. non dovrebbe ricordare qualcosa?
A
torto o a ragione noi siamo in carcere con una condanna (anche se non
sempre con un giusto processo v.
“leggi d’emergenza”), ma le nostre madri, mogli, figli, non hanno
altra colpa che di amarci. Nessuno pensa che tra le vittime ci sono anche loro.
Il dolore di Maria per il figlio incarcerato e condannato, ricorda qualcosa? Condannate
a “vite sospese nel dolore”, vite di privazioni. Nelle nostre famiglie non
esiste un Natale, Pasqua o altra ricorrenza, perché il pensiero è sempre
velato di tristezza per noi,
rinchiusi come animali. Queste “vittime dell’amore” hanno qualche diritto?
Molte
cose della fede fino ad oggi era impensabile che venissero rivoluzionate, ma
ecco che arriva Papa Francesco a stupirci. Oggi
ci ha stupito con il battesimo in Vaticano del bambino di una coppia sposata con
il rito civile.
Viene
da chiedere… come mai ancora un divorziato non può avere accesso al
sacramento della comunione?
Caro
Papa Francesco, noi cristiani, credenti, comunità, nel professare Gesù Cristo,
la nostra fede, veniamo derisi e criticati dai non credenti, e da quelli che si
sono allontanati dalla fede. Le cause di tutte le continue diatribe sono: la
secolarizzazione, il relativismo e principalmente l’arricchimento personale
che attecchisce nella Chiesa. È possibile da parte sua dare un segnale ancora
più forte, di concretezza, nel correggere questi comportamenti di una parte
della Chiesa, che non sono più tollerabili?
Nel
terzo millennio, ritiene naturale la monarchia assoluta della Chiesa? Non crede
che sia giunto il momento che sia la democrazia a guidare i cattolici? Vedranno
un giorno i cattolici l’abolizione dell’ordine dei cardinali e l’elezione
del Papa da parte dei Vescovi di tutto il mondo?
Pensando
al mondo, pensando al cuore della cristianità… Oltre l’annuncio della sua
visita in Terra Santa, non sarebbe utile anche un suo discorso all’Onu per
cercare di toccare il cuore marmoreo dei potenti della Terra per risolvere
l’eterno scontro tra i poveri Palestinesi e Israeliani? Se si aspetta che
arrivi la pace da un accordo tra quei due popoli dovremmo aspettare che inizi
un’evoluzione nuova dell’umanità e un’altra volta il figlio di Dio dovrà
morire sulla croce…
Sotto
la sua guida il Vaticano ha abolito l’ergastolo. Lo ha fatto perché aveva
perso la sua forza d’applicabilità oppure perché ritiene che condannare al
carcere a vita un essere umano vada contro il senso di civiltà che ogni popolo
si vanta di detenere?
La
Chiesa è in prima fila per l’abolizione della pena di morte nel mondo. Interverrà
il Papa in prima persona per chiedere allo Stato italiano e ai politici
“cattolici” di abolire l’ergastolo ostativo, questa forma camuffata di
pena di morte?
Considera
possibile sostenere l’ambizione di quanti - pur patendo sulla propria pelle
l’ergastolani desiderano realizzare, nonostante tutto, il ritorno nella società
attraverso gli affetti, il lavoro, l’istruzione? E come?
È
ancora possibile sostenere un ergastolano ostativo, l’uomo, a credere di poter
trovare una ragione
per
ridare i colori a un’esistenza segnata da dolore e angoscia? E come abbattere
il muro dell’alterità che separa il dentro dal fuori e sviscerare in tal modo
la paura del diverso che non si conosce?
Paolo
Amico, Claudio Conte, Pasquale De Feo, Marcello Dell’Anna, Antonio Di Girgenti,
Giovanni Farina Domenico Ferraioli, Giovanni Lentini, Giovanni Mafrica, Carmelo
Musumeci, Santo Napoli, Alfredo Sole, Mario Trudu
Papa
Francesco, sogno di finire come Marcellino pane e vino
di
Carmelo Musumeci,
Ristretti Orizzonti
Papa
Francesco, scusa, sono di nuovo io, ti ho già scritto una volta. E lo rifaccio
ancora. So che in questi ultimi tempi, da quando hai abolito l’ergastolo in
Vaticano, ti stanno scrivendo molti ergastolani per chiederti di fare qualcosa
anche per loro.
Io
invece questa volta se scrivo di nuovo è per raccontarti un episodio della mia
infanzia.
Papa
Francesco, una volta in collegio un prete mi raccontò la storia di un bambino
che parlava con Gesù. Si chiamava Marcellino. Era un trovatello. E i frati si
erano presi cura di lui. Un giorno Marcellino aveva trovato nel solaio del
convento un grande crocefisso con un Gesù inchiodato. Lui iniziò a parlargli.
E Gesù a rispondergli. Marcellino iniziò pure a portargli un po’ di pane e
vino.
E
per questo in seguito i frati chiamarono il bambino “Marcellino pane e
vino”.
La
storia finiva bene. Bene per modo di dire, a seconda dei punti di vista:
Marcellino si era gravemente ammalato. Ed era morto. E Gesù se l’era portato
in cielo.
Papa
Francesco, anch’io volevo che la mia storia finisse bene. E dopo un paio di
giorni che avevo sentito questo racconto ero andato in chiesa di nascosto per
parlare con Gesù. Lui stava inchiodato in un grosso crocefisso di legno con la
testa inclinata da un lato. Gli parlai guardandolo negli occhi. Gli domandai
cosa dovevo fare nella vita. Se c’era differenza fra morire e vivere. E poi
piansi davanti a lui per essere nato diverso dagli altri bambini. Piansi
per i sogni che avevo diversi dagli altri bambini. Piansi per essere nato
grande. Piansi per essere nato senza amore intorno a me. Piansi perché
immaginavo che un giorno sarei diventato quello che non avrei voluto. Piansi per
la vita che non avrei mai avuto. Piansi perché non riuscivo a smettere di
piangere.
Papa
Francesco, quel giorno chiesi a Dio se faceva morire anche me. E se mi portava
in cielo con lui, come aveva fatto con Marcellino. Una volta montai persino su
una sedia per arrivare fino a lui per baciargli la fronte. E per dirgli in un
orecchio: “Ti voglio bene”. Un’altra volta cercai di togliergli la corona
di spine che aveva in testa. Un giorno piansi per tanto tempo, ma se il cuore di
Dio è duro, quello di Gesù lo fu ancora di più, perché continuò a non
rispondermi. E un altro giorno vidi persino che Gesù abbassava gli occhi per
non guardarmi.
Papa
Francesco, devi sapere che Gesù non mi rispose mai. Non mi parlò il primo
giorno. E neppure tutti gli altri giorni che lo andai a trovare di nascosto.
Neppure quando, per arruffianarmelo, gli portai un po’ di pane e un po’ di
vino che avevo rubato dalla dispensa dei preti. Si potrebbe dire che il primo
furto l’ho fatto per Gesù. E per ringraziamento lui non si degnò mai di
scendere neppure un attimo da quella croce. Non mosse mai un muscolo. Neppure
quella volta quando lo abbracciai.
Quando
gli baciai i piedi inchiodati nella croce. E quando lo pregai di farmi morire
come aveva fatto con Marcellino pane e vino. Già a quell’età non vedevo
nessuna differenza fra vivere e morire.
Papa
Francesco, a quel tempo qualche preghiera l’avevo imparata, ma le stelle per
me non hanno mai brillato. E non c’è stato nulla da fare. Nonostante le mie
preghiere Gesù non mi rispose mai. E mentre quel fortunato di Marcellino pane e
vino se lo era portato in cielo, a me mi aveva lasciato in questo disgraziato di
mondo.
Papa
Francesco, ti ho raccontato questo episodio della mia infanzia perché nella mia
prima lettera ti avevo scritto che gli uomini ombra del carcere di Padova ti
aspettavano, io per primo. Tu però non sei venuto, non ancora. Lo so che hai
tante cose da fare, devi vedere tante persone e non puoi sprecare il tuo tempo
per un migliaio e poco più di ergastolani ostativi, né morti né vivi.
Io
lo sapevo che non saresti potuto venire, non so se neppure Papa Francesco
potrebbe osare tanto
da andare a trovare gli ultimi dannati della terra, ma il bambino dell’episodio che ti ho raccontato, che è ancora dentro di me, crede ancora ai miracoli.