Papa
Francesco e le famiglie delle persone detenute
Le
sofferenze che provoca il carcere alle famiglie delle persone detenute mettono
indirettamente sotto accusa tutti quelli che vivono liberi e circondati dai
propri affetti e non fanno niente perché quelle famiglie possano avere più
tempo e più spazio per incontrare i loro cari in carcere. Allora abbiamo deciso
di provare a chiedere a Papa Francesco che, dopo che l’ultimo sinodo è stato
dedicato alle famiglie, qualcuno si ricordi anche delle famiglie dei detenuti. E
legga testimonianze come quella di Suela, una ragazza che ha saputo affrontare
con coraggio tutte le difficoltà legate alla sua condizione di figlia di un
detenuto.
a
cura della Redazione
Appello
a Papa Francesco per le famiglie dei detenuti
la redazione
di Ristretti Orizzonti,
Casa di reclusione di Padova
Caro
Papa Francesco, al sinodo dedicato alle famiglie hai rivolto severe critiche ai
“cattivi pastori” che “caricano sulle spalle della gente pesi
insopportabili che loro non muovono neppure con un dito”. Hai idea, papa
Francesco, dei pesi che portano le nostre famiglie, LE FAMIGLIE DEI DETENUTI?
Il
tema della famiglia noi detenuti lo viviamo drammaticamente nella nostra
esperienza di carcere e per alcuni, condannati a un ergastolo senza speranza, si
tratta di una situazione che troverà soluzione solo con la fine della vita.
Ancor
di più, con l’aggravio di non aver fatto nulla per meritarlo, soffrono i
nostri figli, le nostre compagne o compagni, le nostre madri, i nostri padri,
fratelli e sorelle. Di fatto, quando entri in carcere, tutti gli affetti
famigliari vengono recisi. Un
detenuto, al mese, può usufruire in tutto di sei ore di colloqui visivi, in una
sala affollata con sorveglianza a vista, e di una telefonata a settimana di
dieci minuti.
Questo
se sei un detenuto cosiddetto “comune” e sempre che tu abbia la fortuna di
essere assegnato ad un carcere vicino alla residenza della tua famiglia. Per i
detenuti che sono in carcere per reati associativi con il regime duro del 41bis,
le limitazioni sono ancora più strette. Il colloquio è uno al mese della
durata di un’ora, fatto attraverso un vetro, gli ultimi minuti se hai un
bambino piccolo lo puoi tenere con te, ma senza la presenza di un altro parente.
E questo si protrae per anni, disgregando, inevitabilmente, tutti quei legami
che si costruiscono nella quotidianità e nell’intimità di un rapporto, sia
esso con i figli che con la propria compagna o compagno.
Il
mantenimento di affetti validi può davvero aiutare a recuperare una
progettualità di vita “sana”, a far riflettere con responsabilità sugli
errori commessi. Potrebbe davvero considerarsi la prima linea di prevenzione
contro la recidiva e per una società un po’ più sicura.
Un
obiettivo, questo, alla portata anche di un sistema carcerario profondamente in
crisi come il nostro, con costi irrisori, se ci fosse la volontà di tutti per
umanizzare davvero le carceri.
Noi
abbiamo consapevolezza del male che abbiamo fatto e di quanto egoisticamente,
nel commetterlo, non abbiamo nemmeno preso in considerazione che sarebbe
ricaduto anche sulle persone più care, senza che ne abbiano colpa, in modo del
tutto gratuito. Ecco, caro Papa, perché abbiamo pensato di rivolgerTi un
appello proprio per il tema che hai affrontato nell’ultimo Sinodo. Abbiamo
pensato di farlo perché abbiamo imparato a conoscere la Tua sensibilità verso
la fragilità dell’uomo. Perché abbiamo davvero bisogno di aiuto e, più di
noi, le nostre famiglie hanno bisogno di aiuto… un figlio ha bisogno anche di
guardare negli occhi un papà o una mamma che hanno sbagliato ed essere libero
di raccontare il dolore che ha dovuto subire e magari cercare di ricostruire un
rapporto. Un compagno o una compagna hanno bisogno di raccontarsi la delusione e
la sofferenza, la vergogna e magari riprogettare un percorso di vita, di
condivisione.
Oggi
non c’è nessuno spazio per questo nelle carceri La redazione di Ristretti
Orizzonti, dal carcere di Padova, ha lanciato una campagna in difesa degli
affetti delle persone detenute dal titolo “PER QUALCHE METRO E UN PO’ DI
AMORE IN PIÙ”. Noi Ti chiediamo
con forza di dare voce, la Tua voce potente, al grido d’aiuto delle nostre
famiglie, per cercare di offrire un futuro migliore ai nostri figli. Se Tu
aderissi alla petizione che abbiamo promosso (il testo è disponibile online nel
sito www. ristretti.org) e magari
parlassi delle nostre famiglie, questo ci darebbe davvero coraggio.
Caro
Papa, grazie anche per un solo istante che riuscirai a dedicarci.
La
sofferenza di nascondermi raccontando “favole” su dove fosse mio padre
di
Suela, figlia
di un detenuto
Io
sono Suela, sono figlia di un detenuto ed entro nelle carceri da quando avevo
sei anni circa. Sono entrata in tante carceri in quanto mio papà per varie
ragioni veniva trasferito, quindi ho visto diverse realtà andando a fare
colloqui da Cuneo a Napoli, Larino, Novara, Sulmona, Padova e altri istituti che
non ricordo o meglio tendo a rimuovere.
Non
ho mai raccontato a nessuno la storia della mia vita, non ho mai parlato e
raccontato a nessuno quello che provavo, tranne ad una mia amica quando avevo 14
anni, perché pensavo che potevo fidarmi, e forse è stato cosi, non lo so, ma
per colpa dei vari dubbi e del timore che gli altri lo venissero a sapere ho
smesso di parlarne e non ho più detto niente a nessuno.
Mi
sono fidanzata e il mio fidanzato non sapeva niente, passano dei mesi e incontro
Silvia Giralucci, anche lei con una storia paradossalmente simile alla mia, in
quanto anche lei vittima, come vittima lo è stato prima di tutto suo padre,
ucciso dai terroristi delle Brigate Rosse nel 1974. Come era vittima lei ero e
sono vittima anche io, ma io mi vergognavo da morire che gli altri lo venissero
a sapere, per la paura di essere esclusa dal gruppo o comunque che gli altri
avessero dei pregiudizi nei miei confronti. Quando incontrai Silvia parlammo
molto, mi sfogai, lei riuscì a capirmi, senza avere pregiudizi, e mi disse che
non dovevo farmi tutti questi problemi, non dovevo tenermi tutto dentro, ma ne
dovevo parlare con le persone vicine a me, perché conoscessero la mia vita, per
avere la possibilità di essere anche sincera e non dovermi nascondere. Passò
forse un mese, e decisi di scrivere al mio fidanzato un messaggio raccontandogli
in breve di mio padre, aspettai e me lo ritrovai in casa che mi invitava a
continuare il discorso con un semplice “dicevi???” , bene pensai che era
arrivato il momento di parlarne e gli raccontai tutto da quando sono nata fino a
quel momento, e lui mi ha capito e mi ha detto che avrei potuto dirglielo prima
perché io non ho colpa, non c’entro niente, anzi era molto dispiaciuto perché
ho sofferto abbastanza e si era aggiunta una ulteriore sofferenza, che era
quella di nascondermi tutti questi anni, raccontando “favole” su dove fosse
mio padre e su cosa facesse, e sul perché andavo spesso su e giù per tutta
Italia.
Da
quel giorno mi sono sentita bene, perché una delle persone più vicine a me
sapeva, capiva e mi stava vicino.
Per
me ora parlare con le persone della mia vita è davvero una cosa meravigliosa,
perché oltre a sfogarmi posso essere sincera, posso stare bene perché loro
sapranno di mio padre e non mi faranno domande scomode tipiche delle persone che
non sanno, ad esempio “tuo papà che lavoro fa ?”, questo è il minimo, ma
ecco anche una domanda cosi semplice può risultare molto difficile.
Qualche
mese fa, mi arriva una telefonata dalla mia migliore amica, molto arrabbiata,
dispiaciuta e confusa. Mi dice che il padre di sua nipote era finito in carcere,
e alla bambina di cinque anni veniva impedito dalla famiglia della mamma di
incontrare il padre: secondo loro infatti vedere il papà in carcere sarebbe
stato un trauma. Cercai di farle capire che se la bambina voleva bene al padre e
aveva desiderio di vederlo, avrebbe sofferto di più a non vederlo che vederlo lì
dentro.
Tra
l’altro era in un carcere in cui non c’era più il muro con un vetro, di
circa mezzo metro, che divideva i famigliari dalla persona detenuta, come
succedeva a me, ma avrebbe fatto un colloquio un po’ meno crudele di quelli
che facevo io. Lei era stupita e mi ha chiesto cosa ne potessi sapere io, che
come lei non ho provato queste cose. Quello
fu un momento molto difficile per me, perché non avevo tempo di pensare se era
meglio parlarne o meno, allora mi feci coraggio e le raccontai di me, le ho
detto che io entro nelle carceri da quando ho sei anni e non mi sono
traumatizzata nel vedere mio padre in carcere, quanto piuttosto per il dolore
che ho provato in tutti questi anni di solitudine, con una madre poco presente
perché doveva lavorare per regalarmi una vita dignitosa, un padre in carcere
lontano e io figlia unica. Lei si è stupita e mi ha detto che se io pensavo
fosse giusto cosi, lei l’avrebbe detto anche a sua sorella.
Mi
sono sentita bene, fiera, perché forse ho aiutato quella bambina, mi sono
impegnata per far sì che potesse vedere suo padre e un giorno, da grande, lei
potrà continuare ad avere un rapporto normale con la madre, senza il rancore
che proverebbe se lei le avesse proibito di vedere suo padre.
E così ho capito che raccontando la mia storia, posso aiutare me stessa, ma anche gli altri.