UN SOGNO NUOVO

Se prima davo sempre colpa alle Istituzioni, oggi capisco che c’è qualcosa di più profondo che mi ha portato a rovinarmi la vita

 

di Lorenzo Sciacca

 

Molte persone credono di sapere ascoltare, invece ascoltano ciò che vogliono sentire.

Oggi capisco l’importanza di que­sta parola, ASCOLTARE, a volte crediamo di conoscere il vero significato delle parole, ma la realtà è che diamo una nostra interpretazione, a volte per convenienza, altre perché non abbiamo avuto modo di confrontarci, dunque diamo un senso tutto nostro a parole che hanno in realtà un solo significato.

Ho sempre pensato di avere una grande capacità di ascolto. Grazie al progetto di confronto tra le scuole e il carcere, che vede entrare oltre queste mura di cemento migliaia di ragazzi ogni anno, capisco che non sono mai stato in grado di farlo davvero.

Ho 37 anni con una pena di 30 da scontare e il mio passato ha già visto queste sbarre per 16 anni, dico questo perché oggi mi pongo delle domande, se prima davo sempre colpa alle Istituzioni, oggi capisco che c’è qualcosa di più profondo che mi ha portato a rovinarmi la vita.

Anche se ho una condanna lunga non credo che sia tardi per riscattarmi, la mia priorità è riscattarmi dentro a me stesso, raggiungere la consapevolezza che anch’io sarei stato in grado di rispettare le regole, anche se a volte risultano scomode, e che forse qualcosa di buono potrò farlo in un futuro. Il mio passato non è stato molto bello, a volte ti ritrovi a vivere una vita che non avresti voluto vivere, questo non vuole essere un rimpianto perché, usando un luogo comune, anche se non li sopporto, “meglio tardi che mai”, ma la vita che hai vissuto fino ad ora è l’uni­ca che riconoscevi giusta. Questa è quella realtà distorta che fai tua e lei si appropria di te.

Io devo ringraziare molto il pro­getto che abbiamo con gli studenti: se impari ad ascoltare paure, dubbi, storie di uomini che hanno sbagliato, e a riconoscere che siamo fragili e che abbiamo vissuto solo con maschere, è molto difficile spiegare a parole quello che ti nasce dentro, è un conflitto interiore, una guerra con quello che sei stato e in cui hai creduto fermamente. E arrivare al punto di rimettere tutto in discussione è dura. Questo è quello che accade quando si ascolta. È stupefacente che una parola così semplice abbia un’importanza molto profonda.

I primi giorni che scendevo nella Redazione, in tanti mi hanno consigliato di aspettare ad intervenire, provare prima ad ascoltare, è li che ho capito che non sono mai stato in grado di farlo.

Oggi ho un sogno nuovo, voglio essere ascoltato, voglio raccontarmi per sentirmi perché così potrò raggiungere la mia identità tanto cercata.

 

 

   

La storia di Salvo, una storia “tristemente esemplare”

 

Salvatore ci ha scritto la sua storia nello spazio del sito di Ristretti Orizzonti, che è una linea diretta con i nostri lettori, noi ora questa testimonianza la vogliamo pubblicare integralmente, e darle più spazio, perché è drammaticamente “perfetta”, perfetta per far capire tutto quello che nella nostra Giustizia non funziona, dai grandi problemi come quello di un carcere sempre più “scuola di delinquenza” ai piccoli assurdi come la revoca della patente a una persona sottoposta a una misura di sorveglianza speciale.

 

Buon giorno mi chiamo Salvo ed è la prima volta che mi metto a chattare per un qualsiasi motivo. Ora questo voi direte che significa? semplice, significa che se io sto facendo uno sforzo del genere avventurandomi in sentieri a me sconosciuti, è perché l’argomento a me interessa molto, visto che mi tocca da vicino e che lo conosco molto bene. Ora vi voglio raccontare i miei trascorsi e le mie deduzioni. Ero un giovane poco più che maggiorenne e anche se abitavo in uno di quei quartieri difficili di Catania, i miei genitori erano riusciti fino a quel momento a tenermi lontano da quel mondo. Andavo a scuola per conseguire un diploma superiore che mi aprisse qualche porta lavorativa in più, e tutta la mia vita scorreva in maniera serena e tranquilla come quella di un giovane perbene, perché era quel tipo di persone che frequentavo, e alle forze dell’ordine ero sconosciuto. Poi il destino mi volle far conoscere l’altro lato della medaglia e fu così che in un giorno tranquillo di bigia da scuola vidi passare un’auto diretta al Pronto Soccorso, in quell’auto c’era mio padre che era stato vittima di un incidente stradale. Fu in quel momento che la mia vita cambiò e io ancora neanche me ne rendevo conto. Mio padre a causa di quell’incidente rimase paralizzato dalla vita in giù e per lui cominciò un calvario lungo 21 anni. Da quel momento la mia famiglia si separò, mio padre e mia madre incominciarono ad essere trasferiti da un ospedale all’altro d’Italia nella speranza di fare riac­quistare l’uso delle gambe a mio padre, e io e mio fratello rimanemmo da soli senza soldi, e senza guida, se non quella di mia nonna che poverina con i suoi 80 anni non poteva di certo mettersi a correre dietro a due adolescenti.

E fu così di colpo che abbandonai la scuola ed incominciai a frequentare quel quartiere in cui per anni avevo abitato ma mai vissuto, per la verità per me rappresentava una sorta di giungla nella quale mi dovei battere per entrare a farne parte, perché in quel momento io vedevo in quella giungla la mia sola ancora di sopravvivenza e la afferrai al volo senza farla scappare. Fu così che potei per la prima volta conoscere la durezza della strada, quella stessa strada che era stata a fianco a me per anni e della quale io non mi ero mai accorto perché i miei genitori mi ci avevano tenuto lontano, ma ora la musica era cambiata, ero passato rapidamente da figlio di famiglia a uomo indipendente che deve provvedere ai suoi bisogni. Ora nei quartieri poveri o malfamati che li si voglia chiamare se non ci sei vissuto non potrai mai sapere come funziona, ed è per questo che la maggior parte dei giovani che crescono in questi quartieri delinquono e la stragrande maggioranza dei giovani dei quartieri bene no. È per questo forse che sarebbe giusto e meglio iniziare a fare una riforma proprio da là, perché se uno è affamato non guarda in faccia a nessuno, tantomeno alle regole di uno stato ladrone che per primo ti dà il cattivo esempio.

 

La galera è come fare un corso d’aggiornamento, entri ladro di bici ed esci rapinatore

 

Comunque fu in luoghi come que­sti con la guida e compagnia di persone già più esperte di me che incominciai a commettere i primi furti e a guadagnare i primi soldi, che poi mi portarono verso la tossicodipendenza. Inizio con un primo arresto, due giorni di carcere e via a casa, pena sospesa, dopo una settimana ero di nuovo dentro, altri quindici giorni e via rimesso libertà, altra pena sospesa ancora non risultava agli archivi neanche la prima pena, era passato troppo poco tempo mi disse l’avvocato, andò avanti bene o male così per un po’ di tempo. E questo secondo me è un altro errore, perché con questo comportamento il giudice non fa altro che alimentare in un giovane poco giudizioso l’impressione che si possa fare quello che si vuole, tanto con qualche escamotage in un paio di settimane sei libero, ed invece no bisognerebbe fargliela fare un po’ di pena ad un giovane come me di allora ma non di galera, perché credetemi, per me che ci sono stato e di sicuro ci riandrò a breve, le galere non servono a niente. Sapete qual è l’unico scopo delle galere per lo stato? è tenerti il più possibile fuori dai c. e giustificare i costi gonfiati di un sistema che fa acqua da tutte le parti, con tutto il lerciume che c’è dentro. Per i detenuti invece è come per un lavoratore fare un corso d’aggiornamento, entri operaio ed esci caporeparto, en­tri ladro di bici ed esci rapinatore, perché la parola reinserimento di cui tanti si gonfiano la bocca spesso non esiste né dentro né fuo­ri dal carcere, tutto quello che si dice che si fa sono per lo più bugie, cose inutili fatte apposta a teatrino per dare un posto di lavoro a persone che vorrebbero dare lezioni di vita, loro che spesso buon esempio non lo sono. E le persone che per forza di cose sono diventate lupi aspettano solo che venga aperta la gabbia per andare a caccia in attesa che si riapra di nuovo la gabbia. Ecco a cosa servono le carceri in Italia. Ed è per questo che io dico che ai giovani di primo pelo non bisognerebbe perdonarli cosi velocemente, ma neanche metterli insieme ai lupi e farne dei lupi anche loro, ma bisognerebbe privarli della libertà per un periodo affinché loro comprendano lo sbaglio che hanno fatto e la strada che hanno intenzione di percorrere alla fine dove li porterebbe. Fare un reinserimento serio e non come lo si fa di solito e soprattutto all’uscita da questo periodo di punizione non lasciare precedenti sulla fedina penale, affinché que­sto non precluda la possibilità di fare qualsiasi attività lavorativa, compresa quella di entrare a far parte delle forze dell’ordine, perché non ci sarebbe giudice o guar­dia migliore di chi quelle cose le ha vissute sulla sua pelle e sa quel mondo come funziona.

In quanto a me, oggi ho 38 anni e da 20 ho a che fare con la Giustizia, ormai il sistema lo conosco cotto e crudo, ho quattro figli a cui cerco di dare il meglio e tenerli lontani dai guai, proprio come fecero i miei genitori allora, però lo stato non mi aiuta, non dico economicamente ma giuridicamente, e ora vi spiego il perché, ed il perché ci voglia l’amnistia. Nel 2001 ho conosciuto quella che oggi è mia moglie, nel 2002 abbiamo fatto la classica “fuitina” e siamo poi diventati genitori, ancora a quei tempi non mi era chiaro ciò che mi stava succedendo e quali fossero le mie future responsabilità, e quindi fu normale per me continuare a fare la vita che avevo fatto fino a quel momento. Nel 2003 il giorno prima di capodanno mi arrestarono, mi feci sei mesi ed uscii con l’affi­damento al Ser.T, fu allora che mia moglie mi comunicò l’intenzione di lasciarmi se non avessi cambiato vita di lì a poco. E fu per questo che io, impietosito da quell’esserino piccolo e dalla disperazione di mia moglie, decisi almeno di provarci e mi misi a seguire il programma del Ser.T, che diede buoni risultati grazie alla mia buona volontà, e mi misi alla ricerca di un lavoro, anche se un mestiere effettivamente non ce l’avevo. Per un periodo feci i mestieri più disparati e mal retribuiti, e tiravo a campare sempre con l’acqua alla gola ma tranquillamente. Poi trovai un lavoro come camionista grazie alla patente che mia nonna aveva insistito che prendessi mentre i miei genitori erano fuori casa nel loro tour-calvario, ed ef­fettivamente quello si rivelò essere il mestiere giusto per me. In poco tempo imparai ad essere un guidatore esperto e nel giro di un anno e mezzo riuscii a farmi assumere da un’importante ditta di au­totrasporti con un buonissimo stipendio.

 

Il giudice pensò bene di darmi un anno di sorveglianza con revoca della patente di guida

 

Proprio quando la vita sembrava che mi stava sorridendo arrivò il fulmine a ciel sereno, che stravolse tutto quello che ero riuscito a creare con grandi sacrifici: mi avevano fissato il processo per la sor­veglianza speciale con una proposta fatta almeno sei anni prima, a me che da tempo ormai avevo lasciato le strade del crimine e da più di due anni non avevo fermi con pregiudicati né altri fermi, denunce o arresti, quindi la cosa mi fece sorridere e poco preoccupare, ma mi sbagliavo. Arrivò il giorno del processo ed il giudice, non curandosi che gli avevo dimostrato con prove certe che io lavoravo da tempo con busta paga e contratto d’assunzione a tempo indeterminato e relativi dischetti cronotachigrafi, che servono a dimostrare l’effettiva attività lavorativa svolta, un po’ come timbrare il cartellino lo può essere per un impiegato, il giudice pensò bene lo stesso di darmi un anno di sorveglianza con relativa revoca della patente di guida e obbligo di dimora, mi concesse solo come attenuante la possibilità di uscire dal Comune di residenza previo avviso alle forze dell’ordine. Io dovetti consegnare le dimissioni dove lavoravo perché un autista senza patente non serve a niente, e restai di nuovo disoccupato. La patente mi fu tolta subito, ma la sorveglianza cominciai a scontarla dopo più di un anno, scontato l’anno della sorveglianza dovetti aspettare altri sei mesi come periodo di osservazione, che significa niente fermi e niente denunce, per potere ottenere il permesso di iscrivermi di nuovo alla scuola guida e riconseguire tutte le patenti che avevo. E intanto erano passati già tre anni da quando mi avevano tolto la patente, alla faccia del reinserimento sociale, giusto per dire.

Il posto di lavoro che avevo lasciato non lo potei riottenere più perché la crisi già iniziava a farsi sentire più forte e io in quei tre anni ero riuscito per sopravvivere a rimediare una denuncia per inosservanza degli obblighi, visto che ero rincasato cinque minuti più tardi delle 21 di ritorno da un lavoro di fortuna, e svariate attività di fortuna per poi completare l’ultimo anno e mezzo a fare il facchino per un autotrasportatore che avevo conosciuto ai bei tempi e che tanto mi aveva pregato di lavorare con lui e poi di fargli da autista anche senza patente. Lui sapeva tut­ta la questione e quando gli dissi della patente mi rispose così: ma perché, se tu metti la patente sul seggiolino del camion la patente porta il camion? no! quindi tu porti il camion e se ti fermano gli dici che ti chiami col mio nome e che ti sei dimenticato i documenti.

 

Dopo quasi 12 anni mi portano il conto, mi arriva un definitivo di un anno e quattro mesi

 

Ecco questo è l’aiuto che ti dà lo Stato, qualche volta sei costretto a delinquere per sopravvivere, questa è la verità. Perché ti tolgono una patente che rappresenta un mezzo di lavoro, questo io mi chiedo, forse che per andare a rubare ci vuole la patente ed un permesso? Comunque sia, passato quel periodo che poteva andarmi peggio, riesco a riprendermi la patente e cerco un lavoro migliore, visto che col signore che mi aveva fatto il favore di farmi lavorare soldi se ne vedono sempre meno. Ma niente, ed è a quel punto che su suggerimento di un amico compro a furia di debiti un carro attrezzi e mi metto in proprio, e la cosa incomincia a girarmi di nuovo bene, da uno i mezzi diventano tre, ho un operaio e tutto sembra a posto fino al 2011, anno in cui mi arriva un definitivo di un anno e quattro mesi, residuo pena di una rapina commessa nel 2000. Dopo quasi 12 anni mi portano il conto, quando io mi sento e sono un’altra persona. Entro per forza di cose in carcere perché quel reato prevede così, il 26/11/2011 rientro speranzoso che nel più breve tempo possibile mi diano l’affida­mento. ma in verità ci son voluti sette lunghi mesi. All’uscita di quello che avevo lasciato non era quasi rimasto più nulla, con altri tre mesi finiva la mia pena grazie alla liberazione anticipata, feci domanda per essere affidato al Ser.T come un tempo e mi fu risposto che la cosa si poteva fare ed era pure veloce, c’era solo un problema, che io non mi drogavo più e che quindi quel beneficio non mi toccava più anche se all’epoca dei fatti ero fatto come una scimmia.

Quindi mi ritrovo oggi con tanta buona volontà ad andare avanti ma con uno stato che mi rema contro e che vuole scaricare su gente come me tutte le sue colpe, vorrei andare via dall’Italia ma nemmeno questo mi è concesso, l’unica cosa che ti concedono è di restare in Italia, a delinquere per sopravvivere. Ecco perché ci vuole l’amnistia, perché è giusto che uno paghi ma subito e non con dodici anni di ritardo, quando magari vorresti essere un’altra persona e ti sei rifatto una vita migliore, e il passato torna di nuovo a ripiombarti addosso, quando non ha più senso punirti perché quelle punizioni servono solo a distruggere ciò che di buono c’è, solo perché uno Stato non vuole ammettere le sue colpe e i suoi fallimenti, e noi restiamo là a girare intorno come un cane che si morde la coda. Ci vuole l’amnistia affinché si riparta da zero con tempi più giusti e con leggi che rieduchino e reinseriscano veramente e non “a teatrino” solo per dire e giustificarsi di fare qualcosa, anche se quella poi è la cosa sbagliata.

 

 

 

 

 

Intervista a Luisa Pesante, direttore della Casa Circondariale di Frosinone

 

Può uno sport come il rugby essere anche rieducativo?

È uno sport che induce “una maggior voglia di rimettersi in gioco, di confrontarsi, di avere un diverso atteggiamento nei confronti del prossimo”

 

a cura di Paola Marchetti

 

Il 4 ottobre scorso, a Roma, nella sede del Coni, l’Asi (Associazioni Sportive e Sociali Italiane) e la sua associazione affiliata ‘Gruppo Idee’ hanno presentato la squadra dell’Alta Sicurezza della Casa circondariale di Frosinone, ‘Bisonti Rugby’, che partecipa al campionato di serie C della FIR (Federa­zione Italiana Rugby).

Abbiamo intervistato la Direttrice della Casa circondariale del capoluogo ciociaro, Luisa Pesante, che ha appoggiato il progetto con grande entusiasmo.

Abbiamo letto sul Venerdì di Repubblica della squadra di rugby del carcere, che è una partico­larità, perché non è uno sport molto diffuso nelle carceri, il rugby. Ci racconta un po’ lei come è nata questa idea, chi l’ha segui­ta, chi l’ha sviluppata, insomma la storia di questo progetto

Il progetto nasce da una idea molto bella dell’Associazione “Gruppo Idee”, che è una associazione che si occupa da anni del carcere, del reinserimento delle persone detenute e dei loro percorsi sia all’interno che fuori dal carcere, ed è un’associazione con cui ho lavorato anche in altri istituti. La loro capacità di proporre iniziative interessanti è stata coinvolgente. Anche a Frosinone sono stati di grande aiuto, in particolare per questo progetto, un’attività spor­tiva.

Siamo partiti con i detenuti dell’Alta Sicurezza, poi però la proposta è stata estesa anche alle altre sezioni. Ma i detenuti dell’AS, che beneficiavano di meno attività rispetto ai detenuti comuni, hanno chiesto di investire un po’ di più sull’attività sportiva, per cui, da un’iniziale preparazione atletica, con anche degli interessanti corsi motivazionali, si è passati all’insegnamento tecnico. All’inizio è stato sicuramente un approccio piacevole, hanno spiegato loro quali erano le regole, hanno cercato di trasmettere i valori positivi di questo sport, valori che sono, ovviamente, comuni anche ad altre attività sportive, ma che nel rugby sono ancora più forti. È un gioco di squadra, non si lavora solo per se stessi ma si lavora per gli altri. Del resto, se solo si pensa al cosiddetto terzo tempo, in cui la squadra che gioca in casa offre un rinfresco agli avversari alla fine della partita, comunque siano stati i risultati, ecco, questi sono tutti valori positivi che nel rugby sono molto forti. Quindi, questi valori ci servivano per veicolare una comunicazione diversa con i detenuti, che facesse riemergere certe sensibilità che, spesso, in una situazione come quella detentiva, o di una vita difficile, si perdono.

Questo percorso è stato così positivo nei risultati che, a distanza di un anno e mezzo, è venuto naturale dire - tra l’altro erano tutti molto partecipi, molto bravi - “perché non li iscriviamo al campionato di serie C?” Abbiamo quindi avviato le procedure per l’iscrizione al campionato di serie C, che è stato insieme una meta ma anche un inizio, un inizio di un progetto molto più ambizioso, che ci sta dando tante soddisfazioni, anche se è appena cominciato. Stiamo andando avanti, il campionato è iniziato il 6 ottobre e, adesso, appunto, dovrebbe finire in primavera, alla fine di aprile (al 20 di dicembre i Bisonti Rugby sono al settimo posto in classifica con 11 punti seguiti da due squadre, una a un solo punto, e una a zero punti)

 

Il progetto è iniziato con l’Alta Sicurezza, ma poi come sono stati coinvolti anche gli altri detenuti?

Per i campionati di serie C no, ri­guarda soltanto i detenuti dell’AS perché, ovviamente, la squadra è stata creata con loro. Loro avevano la preparazione atletica e anche di conoscenza delle regole, che gli consentiva l’iscrizione al campionato, perché avevano già lavorato un anno e mezzo. Per gli altri detenuti c’è un avvicinamento a questo sport, si sta lavorando anche con loro per coinvolgerli in questa attività.

 

Come riesce la squadra a far fronte agli impegni, dato che un campionato di serie C prevede trasferte?

Ovviamente abbiamo avuto una serie di deroghe, non tante, ma qualcuna sì. La prima è stata di giocare tutte le partite in casa. Non potevamo fare diversamente con i detenuti dell’AS visto che ci sono difficoltà maggiori ad ottenere uscite e permessi, rispetto ai detenuti comuni. E per quanto riguarda, invece, il rispetto delle procedure per la loro privacy… abbiamo dovuto, ovviamente, federare tutti i detenuti, ma anche per la procedura di tesseramento con la Federazione Italiana Rugby, abbiamo avuto delle regole particolari che ci hanno permesso di mettere all’esterno alcuni dati sensibili.

 

Quindi, voi avete avuto una col­laborazione particolare da parte della Federazione?

Sì, la Federazione Italiana Rugby è stata entusiasta nell’aderire a questo progetto, questa adesione è stata possibile proprio per il tramite dell’Associazione Gruppo Idee, che è federata all’ASI, e quindi si è creata questa collaborazione a tre, con il Gruppo Idee, ASI e con la Federazione Italiana Rugby.

 

Quanti detenuti ci sono nel carcere di Frosinone?

Nel carcere di Frosinone ci sono una media di 550 detenuti, di cui circa 130 appartengono al circuito AS, e di questi, una trentina sono i tesserati nella squadra, anche se devo dire che abbiamo fatto in modo che poi questo progetto coinvolgesse l’intero carcere, per cui, ogni volta che c’è una dome­nica di campionato, tutti gli altri detenuti sostengono moralmente la squadra. Noi diciamo sempre ai nostri ospiti che, anche se non sono tutti lì, presenti in campo, sono idealmente tutti presenti e vicini ai loro compagni di squadra anche se nelle loro stanze.

Noi pensavamo che andassero tutti quanti alla partita la domenica di campionato …

No, sarebbe stato impossibile. Voi che lavorate per la rivista Ristretti Orizzonti sapete benissimo che, purtroppo, i meccanismi dell’istituto, i controlli, il rapporto personale-detenuti non rendono possibile far accedere tutti al campo. Però, abbiamo fatto in modo che ogni domenica ci sia una rappre­sentanza di detenuti che, a giro, partecipano alla partita.

Il carcere di Frosinone non è gran­dissimo, ma non è neppure piccolo.

Ovviamente questo progetto è stato possibile perché noi avevamo un soggetto proponente particolarmente valido. Il Gruppo Idee ci ha agevolato tantissimo. È stata questa Associazione che ci ha risolto le problematiche che, ovviamente, l’istituzione penitenziaria ha rispetto ad alcune situa­zioni. Sono loro che hanno sensibilizzato la Federazione Italiana Rugby a venirci incontro, che hanno organizzato una conferenza stampa molto bella, in cui si è dato un quadro esaustivo di quello che è questa attività e di quello che è il mondo penitenziario, e che sostengono tanto, nella motivazio­ne, le persone che partecipano a questo progetto.

 

Lei è direttore di questo carcere da molto?

Io sono nell’Amministrazione penitenziaria e faccio questo lavoro da quasi 23 anni, però sono a Frosinone da circa 2 anni.

A Frosinone sono stata fortunata perché ho trovato dei colleghi, degli operatori penitenziari, sia della polizia penitenziaria sia dell’area educativa, molto sensibili, perché, ovviamente, se non avessi trovato la loro condivisione in questo progetto, non sarei riuscita a realizzarlo così come mi era stato prospettato, con questi risultati così positivi.

 

Ma lei era già prima appassionata di rugby, oppure ha avuto questa proposta e l’ha presa al volo?

A me piaceva il rugby per i suoi valori, però non avevo una conoscenza così approfondita come ora, dopo questo anno e mezzo di “avventura”, nel quale ovviamente posso dire di aver fatto una esperienza straordinaria, perché ci hanno dato delle bellissime emozioni, anche prima dell’iscrizione al campionato. Il ritorno, in termini di comunicazione con la popolazione detenuta di Frosinone, devo dire che è stato assolutamente positivo.

 

Adesso magari è un po’ presto, però lei può percepire dei risultati a livello risocializzativo e rieducativo nei detenuti che partecipano a questo progetto?

Sì, secondo me sono già ben sensibili ora. Lo dico perché vedo una maggior serenità, pur vivendo queste persone una situazione che sicuramente non è felice, come quella della privazione della libertà, ma vedo anche una maggior voglia di rimettersi in gioco, di confrontarsi, di avere un diverso atteggiamento nei confronti del prossimo. Davvero io ritengo che ci siano stati dei risultati positivi.

 

Questa Associazione a cui lei si è appoggiata per l’organizzazione di questa attività, era già presente a Frosinone prima che lei arrivasse? Lei la conosceva già? Perché ce ne ha parlato in termi­ni di grande apprezzamento…

Sì, e sono molto riduttivi rispetto al lavoro che fanno. Il Gruppo Idee ha lavorato in moltissimi istituti penitenziari, in particolare della Regione Lazio. A Roma è presente da tantissimo tempo, e anche in tanti istituti della Regione, però a Frosinone non aveva mai lavorato. Si occupa di carcere e di reinserimento dei detenuti, di rieducazione, di volontariato da molti anni. Sono venuta da Rebibbia N. C. a Frosinone, e loro sono stati disponibili e mi hanno dato un aiuto anche su Frosinone, portando i loro progetti, la loro propositività, il loro volontariato.

 

Quindi, in qualche modo l’hanno seguita.

Sì. Tra l’altro, vi faremo avere il nostro giornale - il primo numero è uscito alla fine di settembre - Adesso stiamo procedendo a fare le spedizioni, e dato che, ovviamente, anche i nostri detenuti leggono Ristretti Orizzonti, ci tenevano a scambiarci idee, e, quindi, vi arriverà una copia del nostro giornale.

 

Anche questa è una nuova nascita operata con l’aiuto del Gruppo Idee?

È stata una nuova nascita, ma è anche un prosieguo di attività che col Gruppo Idee erano state avviate in altri istituti e, dato che anche queste sono state esperienze positive, sono state esportate a Frosinone.