Incontro in redazione con Maria Valcarenghi

 

“Ho paura di me”

Il comportamento sessuale violento, spiegato da Marina Valcarenghi, che per prima ha portato la psicanalisi nelle carceri per curare

 

Di Marina Valcarenghi avevamo letto “Ho paura di me”. Il comportamento sessuale violento, poi l’abbiamo conosciuta nella Giornata di studi “Il male che si nasconde dentro di noi”. E l’abbiamo invitata a tornare in redazione, per continuare la riflessione sul male, anche a partire da un tema sempre ritenuto “tabù” in carcere: i detenuti “protetti”, quelli che vivono in sezioni separate perché autori di reati sessuali. C’è quasi paura a parlarne, come se avvicinarsi ai “mostri” ci facesse diventare improvvisamente complici, ma proprio perché da anni lottiamo per spiegare che non esistono i mostri, ma esseri umani, e gli esseri umani, tutti, sono in grado di fare cose mostruose, vogliamo allora provare a mettere in discussione il pregiudizio più resistente, quello che riguarda i cosiddetti sex offender.

 

a cura della Redazione

 

Ornella Favero: Ci piacerebbe riprendere gli argomenti che hai trattato nel corso del tuo inter­vento al convegno “Il male che si nasconde dentro di noi”. È stato molto coinvolgente, bello, impor­tante. Hai parlato della consape­volezza e della responsabilità del male che c’è in noi. Vorremmo par­tire proprio da questo tema, dalla “graduatoria” del male. È un tema che in carcere è sempre un tabù, quello del mio male che è “meno brutto del tuo”, per cui quelli che sono nella sezione protetti, i sex offenders, sono considerati il peg­gio del peggio. Noi certo in reda­zione ne discutiamo, ma so che poi i detenuti tornano nelle sezio­ni dove c’è un certo clima di rifiuto rispetto a chi ha commesso reati di tipo sessuale. C’è da aggiunge­re anche una cosa: voi venite da un carcere, Bollate, che ha istitui­to un programma di cura rivolto a queste persone, mentre qui non è così. Quindi, tutta la difficoltà che si riscontra in carcere quando si af­fronta questo tema, si riflette poi anche in redazione. La contraddi­zione più forte è che tutti qui den­tro vogliono essere considerati “persone, non reati che cammina­no”, ma quando si parla di chi com­mette reati sessuali, allora non si ragiona più sulla persona, ma sulla tipologia di reato.

 

Marina Valcarenghi: Riguardo all’atteggiamento tradizionale di emarginazione all’interno del carcere di una parte dei detenuti, comincio a rispondere per quella che è la mia esperienza. Rispetto ai protetti, c’è una lunga strada da affrontare perché è difficile scar­dinare delle mentalità che si sono sedimentate per tanto tempo nel corso dei decenni, anzi dei secoli. Prima di tutto, da dove vengono i protetti? Si possono individuare due radici. Da dove viene quest’a­bitudine di isolare una parte dei detenuti dagli altri, considerando qualcuno peggiore? Da una parte viene da un codice d’onore non scritto della malavita dell’Ottocen­to, rispettato da tutti i malavitosi. In questo codice c’era il portare rispetto alle donne e ai bambini. In quel periodo i reati contro le donne e contro i bambini erano considerati infami e quindi richiedevano punizioni aggiuntive, come l’isolamento, per evitare la violenza degli altri detenuti. C’e­ra un atteggiamento violento nei confronti di queste persone, ma davvero si trattava solo di rispetto verso le donne e i bambini? No! Lo stesso atteggiamento veniva tenuto anche nei confronti delle spie o di coloro che avevano fat­to una chiamata di correo. Anche loro erano considerati infami e inseriti all’interno di questo grup­po, e questa è la prima radice che potremmo sintetizzare in “codice della malavita organizzata otto­centesca”.

La seconda radice è invece nel modo in cui l’istituzione carcere ha utilizzato questo fenomeno e come ne ha approfittato. È come se avesse detto: è comoda questa idea dell’isolamento per metter­ci dentro anche tutti quelli che danno fastidio. È dura da dire, ma questa è la mia opinione e, soprat­tutto, questa è la mia esperienza perché io, nel carcere di Opera, nel reparto protetti dove lavoravo ho visto psicotici, ho visto mala­ti terminali, ho visto schizofreni­ci, ho visto persone che nessuno voleva nei reparti perché davano fastidio. Quindi l’istituzione ha uti­lizzato lo strumento dei protetti per dei fini suoi, anche per riuscire a mantenere una certa disciplina: se minaccio di mandare nei pro­tetti, le persone pur di non finirci cercano di soddisfare le richieste dell’amministrazione penitenzia­ria. E così diventa una struttura punitiva all’interno di una struttu­ra punitiva. Per questo io nel mio intervento di maggio avevo detto, rivolgendomi ai detenuti, “siete caduti in una trappola”. Perché in questo modo, mantenendo viva questa situazione di discrimina­zione con dei vostri compagni, voi state facendo inevitabilmen­te anche il gioco delle istituzioni e non è il vostro gioco. Secondo me non è una bella cosa mante­nere viva questa discriminazione perché, al di là di questioni morali (che adesso tralascio), si tratta di una questione politica e l’interesse della gente che sta in carcere è di essere solidale.

Queste sono secondo me le due ragioni per cui esistono i protetti, ma c’è da fare anche una precisa­zione storica: la malavita non è più quella dell’Ottocento. Si sciolgo­no i bambini nell’acido, si fanno sparire le donne, si ammazzano le ragazzine di diciassette anni perché forse non collaborano con la mafia, oppure perché forse possono essere sospettate di col­laborare con la giustizia. Dov’è la malavita dell’Ottocento? Siamo nel Duemila, non esiste più il co­dice d’onore della malavita. Allora perché discriminare, perché pen­sare che uno che fa una strage o rapina e ammazza è meglio di uno che violenta una donna o di uno che molesta un bambino? Perché? Ognuno avrà il proprio codice in­terno, considererà o peggio o me­glio una certa situazione o un’al­tra, io posso avere un mio codice morale che magari non coincide esattamente con il codice giuridi­co, però bisogna rispettare la leg­ge, di fronte alla legge siamo tutti uguali. Le persone condannate stanno scontando una pena, ma sono tutte uguali nello scontare la pena. Perché io devo decidere a priori che il mio reato è meno grave del tuo? Un conto è quando esiste un codice condiviso da tutti coloro che trasgrediscono la legge com’era nell’Ottocento. Ma se in­vece questo codice non c’è più e si può fare qualunque cosa, a que­sto punto può avere ancora senso fare queste distinzioni in carcere? Siamo proprio sicuri? E poi ci con­vengono?

È chiaro che dobbiamo rispettare la legge che c’è e la legge che c’è ci dice: tu sei condannato a 10 anni, tu sei condannato a 8 anni, tu a 3 anni e a partire da quel momento siamo tutti uguali, siamo tutti nella stessa barca. Questo concetto implica anche delle considerazioni morali che io avevo cercato di introdurre al convegno di maggio: che chi è senza peccato scagli la prima pietra e che siamo tutti fratelli, e ve lo dice una che non è credente, quindi cito il Vangelo, ma perché secondo me il Vangelo ha un valore a prescindere dalla fede religiosa, e poi comunque ci conviene perché ci aiuta perché la condizione dei protetti, nella grande maggioranza delle carceri, è spaventosa. Bisogna discuterla questa cosa e noi cerchiamo di farlo, cerchiamo di continuare a farlo.

 

Carmelo Musumeci: Sì, è vero la divisione del carcere l’hanno in­ventata i detenuti a partire dall’Ot­tocento, ma una cosa è certa, l’isti­tuzione carceraria l’ha cavalcata inventandosi il regime del 41 bis, l’Area Riservata, l’Alta Sicurezza 1, Alta Sicurezza 2, Alta Sicurezza 3. Il problema è far capire all’opi­nione pubblica e alle istituzioni che davanti alla legge e davanti al carcere dovremmo essere tut­ti uguali, perché è vero, io provo pena verso questi detenuti delle sezioni protette che non hanno una scuola, delle attività e tutte le altre cose che alcuni detenuti hanno. Ma ci sono quelli sottopo­sti al regime di tortura del 41 bis e dell’Alta Sicurezza 1 che sono nelle stesse identiche condizioni. È mol­to difficile capire per quale motivo se uno prende l’ergastolo perché violenta una donna e l’ammazza, a un certo punto del suo percorso potrebbe uscire in permesso e poi in semilibertà, uno invece che am­mazza per non essere ammazzato a sua volta - parlo del Sud perché c’è una certa realtà criminale che noi tutti conosciamo - è visto in un’altra maniera: lui deve morire in carcere, per lui la funzione rie­ducativa della pena non esiste. È difficile capire.

Ornella dice sempre che dobbia­mo partire da noi stessi e dalla nostra responsabilità, ma noi ce la mettiamo tutta, guardi che mi­gliorare in carcere è molto dolo­roso, chi ci riesce poi si ritrova nel mezzo: se tu migliori in carcere infatti diventi più debole, perché non vieni premiato. Quindi io sono dell’idea che per cambiare le cose dobbiamo cambiare tutti insieme, i detenuti devono cambiare, devo­no cambiare i magistrati di Sorve­glianza, deve cambiare la Polizia penitenziaria, dobbiamo cambia­re tutti insieme, perché la legali­tà prima di pretenderla bisogna anche darla. È legittimo che voi ci aiutiate a cambiare, a cambiare questa subcultura, ma ci dovete aiutare. Perché se mi fate studiare, mi fate migliorare e mi fate quindi crescere, ma poi mi dite che il mio fine pena è mai, allora che senso ha migliorarmi se vuol dire farmi del male? Il mio miglioramento mi comporta soffrire di più, io soffro di più adesso che nei primi anni, quando pensavo che il cattivo ero io e voi eravate i buoni. Adesso che cosa è subentrato in me? Io la chiamo “la revisione critica all’in­contrario», cioè ero più felice pri­ma quando la pensavo da crimina­le, che adesso.

 

Marina Valcarenghi: Non lo so se era più felice, era più sollevato mi suona un po’ meglio, ma non era più felice. Io non credo che la consapevolezza, la cultura, il sape­re in genere rendano infelici. Gira questa idea: beati gli stupidi, bea­ti gli ignoranti perché soffrono di meno, io non ci credo tanto, non lo so, non è il mio modo di pensa­re. Credo che lei oggi abbia un pri­vilegio, se pensa in un altro modo, pensa in un modo libero, pensa davvero con la sua testa, questo è comunque un grossissimo privile­gio. Quello che conta è capire che non ci sono i buoni e i cattivi, non ci sono più i buoni di qui e i cattivi di là e neanche che si scambiano le parti, siamo tutti buoni e cattivi. È vero che dovremmo lavorare in­sieme, altrimenti perché saremmo qui e perché io farei questo lavo­ro in carcere, visto che guadagno molto di più in studio, e faccio molta meno fatica, perché? Per­ché questa cosa mi interessa, e mi appassiona proprio questa idea di cambiare insieme, perché so be­nissimo che il male è anche dentro di me, non penso di essere io quel­la buona che cura quelli cattivi. Il male e il bene sono dentro ognu­no di noi, nessuno escluso. Allora è più facile se ci si sente insieme, se no c’è sempre un confine che separa quelli di qui e quelli di là e non si va da nessuna parte.

 

Carmelo Musumeci: Sì, ma per chi come me è condannato all’er­gastolo ostativo, è difficile andare avanti senza avere nessuna spe­ranza. C’è solo la possibilità di met­tere un altro al posto tuo, in poche parole tu collabori con la giustizia e accusi altre persone. A quel pun­to acquisisci lo status di collabo­rante della giustizia. Il bello è che tutti dicono che “ormai in Italia l’er­gastolo non lo fa nessuno”. Ecco, io ci soffro mortalmente perché dico che almeno si deve sapere, lo Stato italiano si deve vergogna­re che esista una pena di morte al rallentatore, perché non c’è cosa peggiore di essere consapevole che tu non uscirai mai. Ecco allo­ra la mia domanda: migliorare, ma perché? Il problema è anche quel­lo che molti di noi sono migliorati, sono cresciuti e adesso veramente il carcere diventa più pesante. Io ero più felice prima realmente, se poi lei mi fa una domanda intellet­tuale se era meglio prima o ades­so, è ovvio che la mia è stata una provocazione, però il migliorare a me è costato e ci costa perché non abbiamo un futuro, non abbiamo un fine pena e molti di noi hanno delle mogli, dei figli che li aspetta­no e di noi avranno solo il nostro cadavere. Allora io vorrei essere, come si suol dire, trattato uguale e identico a questi detenuti delle se­zioni protette, avere gli stessi dirit­ti, quei diritti che sono riconosciuti anche a chi violenta una donna e l’ammazza, ma non a noi.

 

Sara Gambino (educatrice della casa di Reclusione): L’idea che mi sono fatta io dell’esistenza del cir­cuito dei protetti è in parte quella di un’effettiva tutela delle persone detenute che, in molti casi, ci chie­dono di non socializzare con altri. A volte non hanno neanche reati sessuali, perché, di fatto, anche la nostra idea di mettere insieme, come qui a Padova, 900 persone solo per il fatto che hanno com­messo un reato non vuol dire per forza che tutti vogliono avere a che fare con tutti, perché anche il carcere è un po’ lo specchio della società. Se penso ai reati di vio­lenza sessuale, io ho avuto l’im­pressione che questi circuiti non esistono in realtà per una gestione migliore da parte dell’istituzione, ma provengano tantissimo dall’i­dea che la società esterna ha di questi reati. Quando a me capita di parlare con cittadini che in car­cere non ci sono mai entrati e non hanno mai commesso un reato, ho capito che è proprio la popo­lazione comune, per una ragione o per un’altra, che ritiene che ci siano “reati peggiori” e “reati mi­gliori”. Comunque c’è una forma di ignoranza rispetto alle ragioni che stanno dietro a un reato sessuale. Io, per via degli studi che ho fatto, mi sono sempre interessata alla salute mentale e per me è sempre stato chiaro quello che diceva lei, il fatto di vedere un reato sessua­le come la manifestazione di un problema che è psichico, che sta all’interno della persona. Pertanto la nostra responsabilità piuttosto che di condannare, deve essere quella di capire quello che c’è die­tro. Quello che però io riscontro all’esterno è che il 90% della po­polazione dà per scontato che ci sia una volontarietà cosciente di abusare un bambino o di violenta­re una donna. Non a caso li chia­mano reati di riprovazione sociale.

 

Bruno Turci (Ristretti Orizzonti): Noi non sappiamo nulla di come si affronta in carcere la cura di que­ste persone, se si possono curare, se vengono seguite e come vivo­no, e vorremmo approfondire chi sono gli autori di reati sessuali e se sia giusto metterli in carcere per tenerli poi nelle sezioni cosiddette protette…

 

Marina Valcarenghi: Per quello che riguarda la questione, se sia possibile curare gli abusanti ses­suali oppure se non sia possibile e, eventualmente, come lo faccia­mo noi e se lo facciamo, la nostra esperienza è l’unica difesa che ho, nel senso che la psicanalisi in car­cere in Italia è entrata con me. In nove anni di lavoro io non ho avu­to un solo caso di recidiva, dunque qualche cosa vorrà dire o no? Non può essere casuale, significa che queste persone sono uscite dal carcere senza avere più voglia di molestare bambini e violentare donne. Perché? Perché nel mio la­voro si parte dalla convinzione che il comportamento deviante è col­legato molto spesso, soprattutto in questi casi, a un disagio psichico che molto spesso è anche psicoso­ciale. Risolvendo le cause di que­sto disagio, il disagio non c’è più. Uno può stare in prigione anche venti anni, ma se non vengono tolte di mezzo le cause che lo han­no portato a violentare donne e a molestare bambini continuerà a farlo, mettendo in atto quella che noi chiamiamo “coazione a ripe­tere”. Questo è un fenomeno fre­quente nelle guerre. Molti uomini, implicati nelle operazioni militari che vedono scene di violenza e di stupro come se fossero atti nor­mali quotidiani, non riescono più ad avere rapporti sessuali sereni e normali con le donne, devono avere rapporti violenti, altrimenti non riescono ad avere rapporti. Che la violenza sessuale abbia del­le radici profonde all’interno della psiche è una cosa nota.

Noi non abbiamo avuto recidiva dicevo, e in tutti questi anni la reci­diva l’avremmo vista perché sono usciti quasi tutti quelli che erano in carcere allora. Abbiamo poi costituito un’associazione, anche per formare e poi lavorare con al­tri colleghi, perché adesso sono le carceri che ci chiedono l’interven­to adesso Bollate addirittura è ri­uscita a ottenere che un detenuto venga in studio da me a fare psi­coterapia. Si tratta di un pedofilo recidivo. Siccome esce fra un anno e tutti sanno che quando esce ri­schia di ricominciare, hanno de­ciso di mandarlo in psicoterapia. Il giudice di Sorveglianza ha dato il suo assenso ed è forse la prima volta che succede una cosa del ge­nere nel nostro Paese. Insomma, il carcere ha fiducia in chi fa questo lavoro, il problema è che non ci sono i soldi, quindi per noi il lavoro è doppio, nel senso che dobbiamo andare a caccia di finanziamenti da una parte e dall’altra lavorare, perché una parte di lavoro volon­tario lo facciamo, però più di tan­to il lavoro volontario non si può proporre.

 

Ornella Favero: Ma con che mo­dalità lavorate all’interno del car­cere?

 

Marina Valcarenghi: Noi lavo­riamo con dei gruppi. Voi sapete che la legge del 2009 stabilisce che i sex offender prima di usci­re dal carcere devono passare un periodo di osservazione obbliga­torio, ma noi sappiamo bene che quando “osservi” i sex offender per sei mesi e poi loro escono, non è cambiato niente, quello che ser­ve è occuparsene, non osservare. E questo può richiedere più di sei mesi, perché non basta un lavoro di osservazione – si comportano bene, si comportano male, socia­lizzano, non socializzano, prendo­no farmaci – ecco perché hanno chiamato noi. Perché noi appunto non osserviamo, ma facciamo il nostro mestiere di analisti a tempo indeterminato, finché serve.

Poi abbiamo i detenuti in studio, nella sede della associazione op­pure nei nostri studi privati, ci mandano i detenuti agli arresti domiciliari e questo è un fenome­no sempre più frequente. E poi ci chiedono di seguire i detenuti quando sono in semilibertà o in articolo 21, o quando sono liberi, ma nella prima fase, dopo la scar­cerazione, quando hanno grosse difficoltà per l’inserimento profes­sionale o il reinserimento nel con­testo famigliare. Noi cerchiamo di far fronte a tutte le esigenze, ma non è facile perché non basta es­sere psicanalisti, dobbiamo anche fare una formazione per i colleghi che vogliono lavorare dentro, per­ché è diverso lavorare dentro e lavorare fuori. È diverso non per­ché l’analisi sia diversa, il lavoro è uguale, le persone sono le stesse dentro o fuori, ma la differenza vera è che poi noi usciamo e loro restano lì. E, mentre i pazienti che vengono in studio quando escono vanno a casa, vanno a lavorare, vanno al bar, a fare una passeg­giata, vedono gli amici, in carcere no. Quindi ci sono un’attenzione e una delicatezza particolari e un addestramento a contenere l’ag­gressività negativa che bisogna avere per poter fare questo lavoro senza ferire ancora di più le perso­ne che già qui soffrono.

 

Linda Arata, (Magistrato di Sor­veglianza): Io volevo chiedere un primo chiarimento: i risultati con­seguiti nel trattamento median­te psicoterapia individuale e di gruppo sono stati ottenuti anche per un diverso regime di vita all’in­terno del carcere? Quando abbia­mo fatto dei corsi su questi temi, alcuni educatori di Milano Bolla­te ci avevano parlato di un patto trattamentale tra tutti i detenuti, fatto in modo che anche i detenu­ti “in regime protetto” potessero partecipare ad alcuni momenti di vita sociale e ad alcune attività in comune agli altri. Allora la prima domanda è se l’efficacia o la recidi­va zero dopo anni di trattamento psicoterapeutico è anche dovuta a questo patto trattamentale, oppu­re se il detenuto protetto continua a vivere nel suo piano e non parte­cipa ad alcuna socialità e conduce la vita estremamente limitata dei protetti, la psicoterapia può avere lo stesso un effetto positivo?

La seconda domanda riguarda la logica dei circuiti, dobbiamo di­scuterne tutti e vedere se il pro­blema è la sicurezza, perché la logica dei circuiti fa comodo all’i­stituzione, ma è richiesta anche dai detenuti per una esigenza vera, di tutela della persona. E poi una cosa importantissima del suo intervento di oggi è quella della solidarietà, l’unica in grado di su­perare la logica dei circuiti, non solo come logica aggregante con­tro l’istituzione, ma come logica di vita quotidiana. La logica della solidarietà che lei ha indicato è un aspetto per me molto importante, ma basta per superare la logica dei circuiti?

Quanto al discorso sull’ergasto­lo ostativo, è necessario, credo, affrontarlo nell’ambito di una ri­flessione più generale sulla pena dell’ergastolo. A volte nell’usare le parole bisogna però stare un po’ attenti, è più che legittimo proporre una riflessione anche in vista di modifiche legislative, la lo­gica però non credo possa essere quella di “tutti insieme contro le istituzioni”, ma tutti insieme per fare qualcosa. Non c’è un nemico da combattere nelle istituzioni carceri o tra gli educatori o nella magistratura, ma si tratta di sol­lecitare e discutere su importanti temi di riflessione, per introdurre un cambiamento di mentalità e soprattutto per sollecitare modifi­che legislative.

 

Marina Valcarenghi: Sì, è vero la solidarietà è importante, ma se si toglie a un uomo la speranza non c’è più niente, come si può pensare che sia solidale? con chi? per che cosa? Lui è tagliato fuori, no? Io pensavo che ci fosse un momento in cui questa situazione dell’erga­stolo si sbloccasse, non credevo che fosse soltanto denunciando qualcuno che ciò accadeva, e que­sto è veramente vergognoso.

La pena deve tendere alla riedu­cazione e al reinserimento del condannato, non può esserci rein­serimento se non c’è speranza di uscire. Lo so che è molto difficile trovare dei parlamentari che pos­sano proporre delle modifiche di questa legge, però, come diceva Martin Luther King, possiamo ac­cettare modiche quantità di de­lusioni, ma dobbiamo mantenere una speranza illimitata, e questo lo dico anche agli ergastolani, dobbiamo fare tutto quello che è possibile affinché le cose un gior­no possano cambiare e questo tipo di ergastolo non esista più.

Volevo poi rispondere alla doman­da, se dipende dall’ambiente il maggior risultato che si può otte­nere. La mia risposta dovrebbe es­sere no, perché, in realtà, i risultati della recidiva zero, in nove anni di lavoro, li ho ottenuti a Opera, non a Bollate, e Opera non è un carcere per educande, perché c’è il 41bis, ci sono i reparti protetti, insomma, un carcere complicato. Entriamo allora un attimo nel merito. Il la­voro della psicoanalisi - che non è psicologia però, è un lavoro che indaga nella storia di una persona, che scava nei suoi ricordi, nei suoi sogni, in quelle che erano le sue speranze prima, nella storia della sua famiglia – è un lavoro che fa male e fa bene. Chiude chi lo fa in una specie di bolla. Quelle due ore alla settimana in cui ci si ritrovava eravamo in 15, 15 detenuti e io, dentro una stanza, senza nessu­no che sentisse, chiusi nel segre­to professionale, loro e io. Loro in reparto non potevano parlare di quello che era successo lì dentro. Io non potevo dire una sola paro­la, a nessuno, soprattutto a nessu­no del carcere, né all’equipe, né al direttore, e questi erano i patti fin dall’inizio: questo è il lavoro della psicoanalisi in carcere. Questa è stata la novità che abbiamo por­tato dentro nel carcere una ven­tina di anni fa, con quel tentativo pilota a Opera. Adesso ormai si sta diffondendo, vedrete che fra dieci anni la psicanalisi in carcere sarà una cosa normale.

Il contesto esterno in questo senso conta quindi molto relativamente agli effetti del risultato della cura e della flessione della recidiva, per­ché si è chiusi in quella stanza che diventa, come ha detto un giorno un mio paziente, “un territorio li­berato”. Come dire: noi qui siamo persone libere, e parliamo di noi stessi come si parla quando si è li­beri e non come invece purtroppo tende a costruire il sistema peni­tenziario. Non l’istituzione, proprio il sistema come è stato inventato, il carcere è una struttura sadica, ma non è colpa dell’istituzione se la struttura è sadica. La struttura è stata pensata come una struttura vendicativa, punitiva e per niente rieducativa. Allora per noi lo stare lì dentro, in quello spazio, consen­tiva di parlare di cose importanti, di cose serie, di cose che appar­tengono all’essere umano fino in fondo, a tutti gli esseri umani. E invece il carcere come struttura fa tornare piccoli: tutto dipende dall’istituzione, dalla domandina, (e basterebbe questo nome a defi­nire una regressione infantile) e la domandina chi lo sa quando verrà accolta, chi lo sa se risponderanno, chi lo sa cosa risponderanno, non ci sono diritti, ci sono sulla carta ma non ci sono nella realtà, è nella struttura questo. Allora si finisce a parlare della televisione, del vi­cino che russa, di quello che ti ha rubato i gelati, delle minutaglie, si finisce a parlare solo del carcere. E io dicevo invece: non parliamo più del carcere, parla del Paese dove sei nato, di che cos’è la libertà, il sesso, l’amore, i figli, qual è il tuo primo sogno, parliamo della vita. Così si costruisce una struttura li­bera nella quale comincia ad agire la cura, perché la cura non è una flebo, la cura è ritrovare un senso possibile della vita per quando si esce, ritrovare una passione, de­gli interessi, delle curiosità, delle tensioni che ci aiutino a pensare e a costruire la libertà, perché la libertà si costruisce qui. Però, e qui ritorno al discorso che facevi tu Carmelo, ho capito che se poi invece libertà e speranza non ci sono allora il riscatto non c’è, ma se non c’è il recupero del proprio onore interiormente e nemmeno fuori, come facciamo? L’impossibi­lità di riscatto è una depravazione giuridica.

All’inizio il mio vicedirettore (per­ché io ho iniziato a lavorare a Ope­ra pagata dalla Regione) mi ha invi­tato a lavorare perché sapeva che avevo scritto già molti anni fa un libro sui manicomi criminali e pen­sava che io potessi farlo. Nel repar­to c’era aggressività e lui voleva calmare le acque, e così ha deciso di chiamarmi. Poi quando ha visto che le cure funzionavano ha pen­sato di farmi lavorare di più. Così è successo anche a San Vittore. Per noi dell’associazione è importante la difesa sociale, che non ci sia ag­gressività e autoaggressività den­tro nel reparto, che una persona ritrovi la propria libertà interiore e che non abbia più bisogno di compiere gesti di violenza senza dei motivi che lo legittimano, ma soprattutto è importante che una persona ritrovi quello che io chia­mo il senso dell’onore. Non si parla mai dell’onore perché questa pa­rola è stata usata troppo male, ma l’onore esiste. Io ho commesso un errore e l’ho pagato, adesso torno a essere un cittadino libero e ho il mio onore, non sono un ex dete­nuto o un avanzo di galera come si suol dire, no. Io adesso sono un cittadino e devo sentire prima di tutto dentro di me che sono non solo un cittadino libero, ma uno che ha ritrovato il suo onore, il ri­scatto morale.

Il lavoro che facciamo è anche un’autolegittimazione e quindi una capacità di difendersi da chi ti manca di rispetto, no? Per ri­spondere in maniera diretta alla domanda su quanto pesa il con­testo sul nostro lavoro, la risposta è che secondo me si può lavorare dovunque, ovvio che un ambien­te più disteso rende più piacevole quello che si sta facendo e crea un clima più collaborativo anche con l’istituzione, ma il lavoro prescinde da tutto questo.

 

Linda Arata: È solo psicoterapia di gruppo quella all’interno del car­cere o anche individuale?

 

Marina Valcarenghi: Voi sape­te che tutte le istituzioni sono conservatrici e tendono a essere come sono sempre state, quindi già l’idea che c’era una psicanalista in carcere era una cosa stravagan­te, vista malissimo dal personale della polizia penitenziaria perché dava più problemi di controllo. All’inizio si procedeva a passi fel­pati, prima il gruppo poi ho potu­to fare dei colloqui individuali, che con il tempo sono diventati prassi normale, e il reparto protetti è di­ventato sempre più somigliante a un reparto normale, solo che era isolato dagli altri. Mentre a Bollate i “protetti” circolano liberamente e solo la sera vengono isolati. È un primo passo, no?

Una delle cose più difficili da far capire all’istituzione è che il lavo­ro funziona soltanto se la persona lo vuole fare volontariamente, al­trimenti, diciamo noi, diventano gulag staliniani e non è questo che noi vogliamo. Una psicoanalisi coatta non si fa, si propone e poi si vede chi vuole aderire. A Opera avevo fatto così, avevo presentato una scheda che era stata affissa sulla bacheca del reparto protetti dove c’era scritto che esistevo io, che ero disposta ad andare lì due ore a settimana, a parlare con loro di tutto quello che non riguarda il carcere, del ripercorrere la nostra storia, del rivedere i nostri sogni, di vedere che cosa possiamo fare ancora di noi, perché la libertà è qualcosa che va preparata. Ave­vo scritto che i primi 15 che vo­levano parlare con me di questi argomenti sarebbero stati quelli che avrei accettati, e abbiamo co­minciato così. Poi c’è sempre un turnover, uno esce, uno viene tra­sferito, uno parte per un processo lunghissimo e in questi casi loro accoglievano un’altra persona, due altre persone, ma il numero era 15. Adesso, a Bollate, invece, sono 10 nel gruppo. Questo è il criterio di selezione, guai se non è volontario. Ora l’amministrazione penitenziaria ha capito che questo percorso serve e adesso li spinge a fare questo lavoro. E noi continu­iamo a dire: “Guardate che è inuti­le, se vengono perché voi gli pro­mettete qualcosa non funzionerà, in questo lavoro è necessario che la persona senta che ha voglia di provare”, come capita a chi è fuori. Io non vado a cercarmi i pazienti, sono i pazienti che vengono da me. Infatti noi lo capiamo abba­stanza in fretta quando una perso­na è entrata perché le hanno detto che sarebbe stato più facile otte­nere un permesso. Se uno è spinto da questo dopo un po’ va via.

 

Linda Arata: La diffidenza verso la psicoterapia all’interno del carcere è il riflesso anche della diffidenza che ancora c’è della psicoterapia in alcuni contesti della società. Ma esiste credo una remora impor­tante che deve essere menzionata ed è il possibile rischio di suicidio dei detenuti mentre affrontano un percorso di analisi profonda del loro vissuto. In che modo si colgono gli eventuali momenti di disagio della persona che sta fa­cendo questo percorso? È un dato di fatto che scavare a fondo signi­fica anche mettere la persona in situazioni di profonda instabilità o criticità. Come viene affrontato questo problema?

 

Bruno Turci (Ristretti Orizzonti): Aggiungo una riflessione su que­sta questione. Noi sappiamo che molto spesso le persone che sono in carcere per reati sessuali tendo­no a negare il loro reato per una sorta di rimozione. A noi è capitato di avere tanti compagni della re­dazione che quando hanno incon­trato gli studenti e hanno parlato dei reati per cui sono stati condan­nati, hanno raccontato di avere sempre negato di fronte ai giudici, ma quando ci si trova di fronte ai ragazzi delle scuole non si riesce a prenderli in giro, non si riesce a mentire, è come trovarsi di fronte ai propri figli, in tanti sentono un dovere di verità. Un conto è però chi ha negato al processo perché sperava nell’assoluzione, un conto chi ha rimosso la sua responsabi­lità. Ma se le persone che negano i reati sessuali riescono invece a rendersi conto di che cosa hanno fatto, come possono reagire?

 

Marina Valcarenghi: Allora, fac­ciamo un passo indietro. Noi sia­mo il Paese in cui, in carcere, la gente si ammazza di più, senza fare psicoterapia. Quindi, que­sta è già, come dire, la premessa, no? Siamo fuori da tutti i parame­tri dell’Unione Europea e questo lo sapete tutti. Quindi il suicidio in carcere è molto più che un ri­schio, è una realtà, a prescindere dall’intervento specialistico no­stro. L’intervento nostro comporta sempre dei rischi, fuori dal carce­re e dentro al carcere. Il rischio di fasi depressive, di momenti bui, di grande disperazione, tristezza ci sono e, direi, sono quasi norma­li perché chiunque di noi, anche non in carcere, che riesamini la propria storia, ci trova dei buchi neri, tutti ce li abbiamo. È giusto sollevare questo problema perché è vero che ci sono questi momen­ti, ma la psicoanalisi è un aspetto particolare della psicoterapia che esamina l’inconscio e i sogni e tut­to quello che il paziente non sa di sé. Non solo possiamo monitorare delle situazioni a rischio di carat­tere depressivo come quelle che lei ha presentato, ma anche altre situazioni. Nel gruppo di Ope­ra che seguivo c’era un ragazzo, uno stupratore seriale che ave­va sempre cercato di uccidere le sue vittime, lui le strangolava, ma quando queste persone sveniva­no lui credeva che fossero morte e le mollava. Quando rinvenivano non lo denunciavano e quindi lui continuava. Ogni volta che aveva una crisi psicotica partiva questo circuito: usciva di casa e faceva quello che doveva fare, dopo di che manteneva un ricordo molto vago di questa situazione, ma lo manteneva. L’ultima volta a furia di stringere la donna è morta. Solo allora l’omicidio è stato indagato e l’hanno messo in carcere. Non gli hanno dato l’infermità mentale e lo hanno messo in carcere come se non avesse problemi. Quan­do è arrivato nel gruppo questo ragazzo poteva avere l’età di mio figlio, 25 anni. Ogni tanto aveva una crisi psicotica e la si vedeva venire. Anche i suoi compagni di gruppo erano allertati e dicevo: “Nel caso avvisate naturalmente gli infermieri e gli agenti”, poi gli facevano un calmante in vena e la cosa finiva lì, ma il problema non si risolveva. Quando arrivava la crisi psicotica era sommerso da un’on­data di violenza, gli si trasforma­va la voce e attaccava o chi aveva davanti o se stesso, sbattendo la testa sul muro. I suoi compagni lo riuscivano a contenere ed è sem­pre stato così all’interno del re­parto protetti, fino a quando sono riuscita a farlo trasferire in una struttura più adeguata. Questo per dire che i rischi ci sono perché sicuramente ci sono delle perso­ne che stanno male, ma non solo perché sono depresse. In linea di massima il percorso psicoanalitico li risolve, i problemi. Certo, attra­versando delle fasi di rischio, ma per arrivare in cima alla montagna magari si attraversano dei burroni, dei crepacci e bisogna stare at­tenti perché un margine di rischio effettivamente c’è, ma è sempre minore del rischio che si corre se non si fa niente.

Ognuno di noi può uccidersi, così come ognuno di noi può commet­tere un omicidio. Si tratta di vedere quando raggiunge il livello di limi­te di sopportazione di una situa­zione oltre la quale c’è solo la follia o la morte, perché sia la follia che la morte liberano dalla sofferenza. Tutti abbiamo una soglia oltre la quale ci uccidiamo, oppure diven­tiamo psicotici, pazzi, schizofrenici ed è un modo di uscire dalla vita diverso, ognuno di noi quindi può uccidersi e ci sono tante persone che non raggiungono mai il livello di guardia oltre il quale non ce la fanno e quindi continuano a vive­re. Questo non significa che non esiste un limite, che è ovunque, in carcere e fuori. Perché la tendenza al suicidio in carcere è così alta in Italia rispetto all’incidenza di sui­cidi nella popolazione? Perché le condizioni di detenzione nel car­cere aiutano le persone ad arrivare a superare quel limite di soppor­tazione di cui si parlava, più che in altre situazioni, più che in altri Paesi, e quindi è vero che questo rischio c’è. Il livello di sofferenza è quello che è, non aumenta perché noi ne parliamo, anzi forse tende a diminuire. Una delle condizioni caratteristiche della detenzione è uno stato di solitudine angoscio­sa. Anche se si fraternizza, se si mangia insieme, anche se ci si dà una mano, c’è una solitudine di fondo dovuta al fatto che tutta la vita fuori, quella di prima, non può essere condivisa.

Ognuno arriva da realtà diverse, da storie diverse, da famiglie diverse, da mondi diversi e anche da Paesi diversi e come si fa? C’è un nucleo di solitudine molto dolo­roso, in più c’è la sofferenza della detenzione e la privazione della sessualità, la lontananza della fa­miglia, la mancanza del lavoro. Se si dice poi che la psicoanalisi en­trando in carcere può aggravare questa situazione, non sono d’ac­cordo, altrimenti non ci andrei. Penso invece che entrare in una bolla dove si parla di cose impor­tanti – la giustizia, l’amore, la liber­tà, la famiglia, il paese natale, i so­gni – e da qui si arriva lentamente a parlare di sé, sia un aiuto concre­to per continuare a vivere e non a vegetare. Per quanto riguarda la questione della negazione del reato, questo è un problema che non ho mai avuto, lo riconoscono tutti, ma non se si sentono sotto interrogatorio. Noi ce ne freghia­mo completamente del reato, non vogliamo neanche saperlo. Io non ho mai guardato un fascicolo, me ne parlano se vogliono e a un cer­to punto vogliono tutti. Quando si comincia ad avere fiducia l’uno nell’altro. Quando ci si comincia a fidare e si parla a cuore libero e si sa che nessuno parla al di fuori di lì, allora si costruisce un gruppo, a quel punto nessuno nega il reato.

Si dice che i sex offender nega­no tutti il reato, abbiamo fatto il gruppo e nessuno ha negato il reato. Perché? Perché non c’è mo­tivo per negarlo, ma se io non mi sento capito, non mi sento amato, non mi sento rispettato e mi sento trattato solo come un detenuto, allora perché dovrei ammetterlo? Me ne viene unicamente un dan­no e allora nego fino all’evidenza, è un’autodifesa normale. Ha senso ammetterlo se una persona si tro­va in una situazione calda, umana e affettuosa dove l’analista non è quello bravo che sta bene e che sa tutto e l’altro è quel povero sfi­gato che ha commesso il reato e quindi deve pagare, ammettendo di averlo compiuto. Non è proprio così. Si crea una situazione diversa ed è liberatorio, soprattutto quan­do arrivano i sogni.

Vi faccio un esempio. Un giorno uno di loro, uno che era presente a un omicidio che era stato fatto durante una rapina per prendere la droga, ha sognato che era su un autobus con un suo cugino a cui era molto affezionato, del suo paese nel Sud, e chiacchierava con lui. Questo cugino era oggetto di ammirazione. Mentre parlavano, a un certo punto, lui vedeva sotto il sedile dell’autobus tutto quello che serviva per drogarsi - lacci, si­ringhe, cucchiaini, fiale - e lo face­va vedere a suo cugino, dicendogli “guarda lì cosa c’è”, e l’altro rispon­deva “Ah sì” e la lasciavano lì, scen­devano dall’autobus e se ne anda­vano. Allora io gli ho detto “Vedi, neanche se vuoi puoi drogarti an­cora, tu adesso sei fuori perché hai sognato che hai visto la droga e sei uscito con il cugino, che è quello che rappresenta il tuo ideale, e hai lasciato là la roba. Adesso sei libero, puoi scendere da quell’au­tobus, visto che insieme abbiamo potuto rivedere perché sei arriva­to a drogarti”.

Questo è esattamente caricarsi della nostra responsabilità, ma in un modo secondo me produtti­vo e moralmente comprensibile, nel senso che non è come fanno i detenuti molte volte quando addossano la colpa alla società e all’istituzione facendo le vittime, ma non è neanche il contrario, l’autoflagellarsi. Ecco, questo è prendersi la responsabilità e non spinge al suicidio, anzi. Restituisce forza, energia, entusiasmo e infat­ti quella stessa persona quando è uscita e si è fermata a Milano, si è sposata con una ragazza peruvia­na che aveva due figli già grandi che vivevano in Perù. Li ha fatti venire qui, ha aperto un bar dove lavorano tutti insieme e quando vado a trovarlo al bar passo sem­pre momenti bellissimi, perché nel suo sguardo c’è l’orgoglio di aver­cela fatta. Io non posso escludere che in generale qualcuno possa rischiare il suicidio anche se non è mai successo, ma è molto più probabile che succeda quando un detenuto è solo e viene lasciato in branda con i suoi pensieri neri.