*La
scrittura che scrive te
di
Adriana Lorenzi, scrittrice,
formatrice,
conduce
laboratori di scrittura autobiografica nelle carceri
La
scrittrice inglese Jeanette Winterson afferma che esistono due diverse
scritture: quella che scrivi tu e quella che scrive te. Lei
considera più importante la seconda e sono convinta anch’io che sia più
interessante, eppure non credo che siano l’una in opposizione all’altra,
piuttosto in una relazione di continuità: è la scrittura che scrivi tu che
porta alla scrittura che scrive te. La prima pone l’accento sul
prodotto e la seconda sul processo che coinvolge sia il testo scritto sia il suo
autore.
La
scrittura è una pratica alla quale ci alleniamo e alla quale ci appassioniamo:
ci sfida e finisce per lavorarci. Si tratta di addomesticarci a questo
strumento, di imparare le regole di produzione di un testo efficace, di una
storia che tenga, rispettando i legami di tipo temporale, spaziale, causale
e linguistico.
Apprendendo
le regole della costruzione di una storia, la scrittura ci educa, ci
trasforma, cambia i nostri atteggiamenti, i nostri riferimenti valoriali e
quindi i nostri comportamenti sociali. Come ha scritto Fabio: “Sto scoprendo
la scrittura in questo periodo, perché non che non ho mai scritto, però in
questo periodo l’apprezzo di più. Mi da delle belle e nuove sensazioni, per
fortuna mi sto ricredendo o forse sono solo meno pigro”. Ed Elena: “Alla
scrittura non avevo mai pensato prima d’ora, anche perché da ragazza non mi
piaceva leggere, mia mamma mi forzava a leggere dei libri ma io non riuscivo
perché mi facevano venire mal di testa. E lei mi diceva: ‘Non capisci un
cavolo!’. E adesso so che aveva ragione”.
La
scrittura che scrive te è quella autobiografica e memoriale che non si
limita a raccontare i fatti, ma costringe a riflettere sul loro significato
collocandoli in un disegno più ampio, quello dell’intera esistenza,
personale e collettiva; a esporsi, correndo il rischio di prendere posizione,
a lavorare con pazienza e impegno sulla scelta delle parole perché la
dimensione in gioco non è solo quella espressiva, ma comunicativa: si scrive
per capirsi e far capire, per raccontare e testimoniare.
Penso
alla scrittura come a un oggetto mediatore capace di aprire orizzonti
nuovi. Abbiamo bisogno di un mediatore per avvicinare chi appartiene a una
cultura e anche a una lingua diversa dalla nostra. Abbiamo bisogno di un oggetto
mediatore capace di collegare il soggetto alla realtà, al mondo che lo
circonda. Ci serve qualcosa, un diaframma per accostarci a una vita ferita,
interrotta e quindi vulnerabile come è quella detenuta in carcere.
La
scrittura può essere questo oggetto mediatore, un paio di occhiali da
indossare per vedere la realtà spogliandola di tante ambiguità o
semplificazioni, per passare da affermazioni come Così è stato ad
ammissioni che sono vere e proprie assunzioni di responsabilità Così ho
fatto. E per nominare anche stati d’animo come la rabbia perché la moglie
non va ai colloqui, il senso di vuoto per non poter seguire la crescita dei
figli, di impotenza perché in carcere si deve chiedere il permesso e fare una
domandina per ottenere qualsiasi cosa.
La
scrittura è un oggetto mediatore che conduce all’attribuzione di senso:
qual è la lezione che imparo dallo sbaglio commesso, dal reato compiuto? Solo
riconoscendo il dato di fatto, il vincolo della detenzione, posso trasformarlo
in risorsa: dipende dalla volontà, dalla capacità di creare e strutturare le
cose per farle accadere.
Da
dieci anni sto proponendo questo tipo di scrittura all’interno della Casa
Circondariale di Bergamo e insieme a Ornella Favero e Paola Marchetti alla
Giudecca di Venezia.
Posso
dire che la proposta ha funzionato perché il mio impegno si è via via
ampliato e trasformato: a Bergamo da dieci incontri annuali sono passata a
incontri settimanali da ottobre a giugno. All’inizio il laboratorio di
scrittura si svolgeva solo nel reparto femminile, poi anche in quello
maschile; adesso comprende sia la realtà giudiziaria sia quella penale e
dall’anno scorso anche i detenuti della Terza Sezione hanno richiesto
l’attività di scrittura e la possibilità di partecipare al giornale del
carcere. Infatti dal 2009 non raccolgo soltanto gli scritti dei partecipanti ai
laboratori, ma ho dato vita ad Alterego. Notizie dalla galera che
viene distribuito all’interno del carcere e per chi è fuori è disponibile
e scaricabile dal sito della Cisl di Bergamo che finanzia il progetto.
Faccio circolare il giornale anche all’esterno portandolo nelle attività di
scrittura che conduco in diverse strutture, cercando di costruire e mantenere un
legame prezioso e indispensabile tra dentro e fuori.
La
scrittura che per me è esposizione - alla vita e anche alla morte – ha
chiamato, ha invitato altri soggetti a esporsi. Chi scrive per Alterego ha
cominciato a firmarsi con uno pseudonimo oppure con le iniziali puntate di nome
e cognome e poi ha voluto che venisse scritto per intero nome e cognome; mi
chiede copie del giornale da regalare ai parenti, agli amici. Chi scrive invita
altri a scrivere, a fare domanda per partecipare agli incontri.
La
redazione è uno spazio–tempo privilegiato che promuove discussioni
appassionate. Confronto tra detenuti e persone che vengono dall’esterno e
porta alla scrittura di testi pubblicabili, dunque significativi sia sul piano
individuale che collettivo. Come ha detto Lino Martemucci: “Io riesco a
scrivere solo qui in redazione e non in cella perché qui ci sono i libri che mi
ispirano”.
Quando
un ispettore, una suora, oppure un volontario fa i complimenti a un detenuto o
a una detenuta per un articolo scritto, me lo riferiscono compiaciuti perché,
come mi ha detto Giuseppe, “Sono apprezzamenti importanti quelli che
vengono dagli altri”. Gli altri costituiscono la popolazione non detenuta.
E ancora: “Mi sembra di essere normale”, ossia non solo un detenuto.
Ho
verificato che più partecipano al laboratorio di scrittura imparando a
esprimersi e ad ascoltare, a produrre individualmente e a discutere dei testi
scritti, più aderiscono ad altre attività proposte in carcere, sia
scolastiche sia teatrali, artistiche. Dentro il laboratorio di scrittura hanno
maturato la loro decisione di iscriversi a scuola, di prendere un diploma, di
iscriversi all’università
Andando
nelle scuole con il progetto Il carcere entra a scuola, la scuola entra in
carcere, si sono intrecciati scambi epistolari tra studenti e detenuti e
detenute: gli studenti domandano sulla vita in carcere e i detenuti rispondono.
Chi
esce in misure alternative, in comunità o arresti domiciliari, continua a
mandare i suoi testi per contribuire alla redazione di Alterego: penso a
Vincenzo Santisi che mi ha scritto di dargli i compiti perché lui fa parte di
Alterego, dall’inizio.
Acquisire
mezzi espressivi significa dotarsi di un paraurti o un paracadute utile per
l’impatto con il mondo dell’esterno. Significa creare qualcosa e ogni
fatto creativo è proprio dell’anima umana. Come scrive Anna Maria Ortese “Creare
è una forma di maternità; educa, rende felici e adulti in senso buono. Non
creare è morire e prima irrimediabilmente invecchiare”.
Sappiamo
bene che in carcere si invecchia e si muore anzitempo.
Il
pezzo scritto non è un riflesso della realtà, ma una risposta e
un’aggiunta alla condizione che si sta vivendo.
Ho
imparato in carcere quanto sia preziosa la parola che nomina ma anche il
silenzio, e la parola spesso non è annientamento del mistero che avvolge la
vita e la morte, ma è la rivelazione dello stesso e gli rende giustizia.
In
tanti anni di attività, ho individuato alcuni elementi che guidano
l’adesione al laboratorio di scrittura:
La
vocazione: e
intendo la chiamata a svolgere quel lavoro di ripensamento e ristrutturazione
di ciò che è stato. La vocazione ti arriva incontro, ti senti chiamato e devi
rispondere per libera scelta.
La
vocazione è, per dirla con la filosofa Roberta De Monticelli, l’ethos che
fa fiorire il soggetto, dispiega le sue ricchezze e si traduce in beni che ne
vengono al mondo. La vocazione è il diritto a vivere e fiorire secondo ciò
in cui si crede.
Per
seguire il mio laboratorio di scrittura, i detenuti saltano l’ora d’aria,
rinunciano alla palestra.
Sono
convinta che la vocazione risvegli il senso di responsabilità nel fare bene
le cose, anzi al meglio delle proprie capacità: finiamo per dedicarci
interamente, per appassionarci, disposti a non considerare il tempo. La fine
dell’incontro arriva sempre troppo presto e sono gli agenti a sollecitare
l’abbandono dell’aula.
I
detenuti si sentono chiamati a parlare agli studenti che considerano figli,
nipoti e ai quali cercano di dire “state attenti perché si può finire in
carcere” oppure come ha detto loro Michele “Guardate che la legalità
e l’illegalità camminano su un binario a lama di rasoio e ci vuole
pochissimo a cadere dalla parte sbagliata. Oggi con tutte le trasgressioni che
piacciono ai giovani, il baratro è sempre pronto ad accogliere chi cade dal
lato sbagliato. Pensateci”.
Si
sentono chiamati a rispondere alle loro lettere che contengono domande
impertinenti, addirittura urticanti come: “Non potevi pensarci prima!?”.
Il
coraggio: ci
vuole un po’ di coraggio per raccontare la storia della propria vita,
tornare indietro nel tempo, risvegliando i fantasmi dei rimorsi, dei rimpianti,
dei sensi di colpa, dell’irrimediabilità del trascorso. Per Anna Maria
Ortese: “Essere è cosa che non finisce e dipende dal coraggio”.
il coraggio è una paura superata.
Il
coraggio di nominare l’omicidio commesso dopo avervi continuamente alluso,
la dipendenza dalla Bianca, la cocaina, la costruzione di un io aggressivo per
sopravvivere in un ambiente dove il rispetto non si guadagna con il cervello,
ma con i pugni, come ha scritto Cristian, “se no vieni schiacciato” finché
la morte di un amico in una rivolta tra bande rivali non scopre la fragilità
dell’io.
La
fatica: la
costruzione della propria storia avviene scegliendo le parole come se fossero
i mattoni che servono al manovale per edificare una casa. Scrivere con carta e
penna è un lavoro fisico che impiega energie e sfianca. Eppure, nel contempo,
tempra come accade ogni volta che si fa fatica e il corpo suda.
Di
solito quando propongo alcuni temi, i detenuti reagiscono “Eh ma questa
volta è difficile”, oppure “Tu metti il coltello nella piaga!”. Io
non rinuncio e alla fine si arrendono, accettano di impugnare la penna e
scrivere sul foglio che hanno di fronte. “Ma che fatica che mi hai fatto a
fare”, mi dicono alla fine, proprio mentre mi allungano con orgoglio il
pezzo scritto, per esempio sul proprio padre e sul proprio modo di vivere la
genitorialità a distanza, in assenza fisica.
Da
anni sostengo la ‘pedagogia della fatica’ perché è facendo fatica che si
pensa l’impensato, che si trovano soluzioni impreviste fino a quel momento.
La
verità: credo
che ogni persona si definisca nel suo rapporto con la verità. Si tratta di
distinguere tra il modo in cui le cose stanno e i nostri punti di vista sempre
limitati, le nostre conoscenze sempre parziali. Si può aspirare a
giustificare tutto il nostro dire e il nostro fare, possiamo vivere una vita che
aspiri alla ragione solo se ammettiamo che una realtà ci sia e trascenda il
nostro sapere e renda adeguate o inadeguate le nostre azioni e le nostre parole
(R. De Monticelli).
La
verità non esiste se non viene esposta e scritta, messa in piazza. Sarà anche
un lampo, ma deve essere registrata, espressa e trasmessa. Scrivendo, la si
manifesta, la si costruisce e ci si costruisce.
Lino
Martemucci, rispetto alle bugie ha scritto: “Non so il vero motivo per il
quale dici le bugie, ma penso che sia per nascondere una verità che non vuoi
dire o non vuoi sentirti dire. Le bugie non ti conducono a niente, solo
adesso ho capito veramente l’importanza di non dire bugie. Qualche anno
addietro, ai miei genitori ho raccontato un baule di bugie per non far sapere
loro che lavoro svolgevo: ero sempre in giro per l’Europa, perché in realtà
non potevo rientrare in Italia e così quando telefonavo loro, ero costretto a
raccontare bugie. Quello che stavo svolgendo come lavoro non aveva nulla a che
fare con quello che loro mi avevano insegnato. Ecco fatto, il conto è
arrivato… Le bugie dette per nascondere una verità importante, hanno le
gambe corte, o meglio non servono a nulla, perché, dal momento che vengono
scoperte, ti rendi conto che sono servite per prendere tempo nella speranza di
non far scoprire la verità. Un tempo inutile. Mi spiace che mio papà continui
a mantenere una bugia con le sue sorelle che abitano in Puglia, nel paese
originario della mia famiglia. A due sorelle non è riuscito a dire dove sto,
in carcere, e quindi risponde in modo vago quando loro gli chiedono dove sia,
cosa faccia… Io vorrei che glielo dicesse perché sarebbe meglio. Sono
convinto che le zie si preoccupano per me, sono il primo nipote amatissimo e
anche un po’ monello. Se sapessero, non mi vorrebbero meno bene e mio papà
dormirebbe sonni tranquilli e io anche”.
Giuseppe
Secreti: “Mi sono presentato a una persona sconosciuta, dicendo subito
che ero un detenuto e che lo sarei stato ancora per un altro anno, fino al
febbraio 2013. Mi ha guardato con occhi sgranati e ho pensato che forse era
meglio se fossi stato zitto, o avessi detto una bugia ma poi mi sono accorto che
ero felice di non avere mentito. Non sopporto l’idea di mostrarmi per ciò
che non sono e, comunque, avrei cominciato una conoscenza con il piede
sbagliato”.
La
dignità: raccontare
significa coltivare il riconoscimento del proprio valore che si misura sulla
capacità di affrontare le difficoltà, gli errori, le situazioni, di lavorare
per la produzione di beni utili alla propria sopravvivenza e anche a quella
altrui.
La
dignità nasce dal coraggio di dire, dalla ricerca di verità perseguita e
dalla capacità di trasformare in forza la debolezza, coltivando la facoltà
di parola. La dignità sta nella maturità raggiunta, si vede quando la persona
alza la testa e prende posizione rispetto alla propria eredità culturale,
morale, spirituale, vagliandola, rifiutandola o assumendola.
Sono
convinta che la dignità sia la più alta forma di libertà. Molti non sono
capaci di conquistare la dignità per debolezza e altri se ne fanno privare. La
dignità può dare alla persona umana il senso della sua integrità e della sua
appartenenza al mondo.
Riesco
a toccare con mano la dignità dei detenuti quando si presentano a qualcuno
di esterno dicendo che fanno parte della redazione di Alterego o quando,
all’uscita del giornale, ammettono con soddisfazione “Abbiamo fatto un
buon lavoro”. Oppure quando mi dicono “facciamo finta che siamo
giornalisti” e si appassionano al gioco della stesura di brani vivendolo
come una questione importante, di vita e di morte così come si faceva da
bambini nei giochi di cortile.
Ciascuno
e ciascuna di loro acquista dignità dal momento in cui porta avanti
un’educazione alla cittadinanza, insegnando cosa sia il carcere a chi non ne
sa niente.
Carol:
“Sono stata arrestata il 29/11/2009 per spaccio di stupefacenti, cocaina
per la precisione. Riassumo: sono stata condannata in appello a cinque anni di
carcere e non mi sono stati dati gli arresti domiciliari, nonostante fossi
incensurata, fino all’esibizione di un programma di recupero con il SerT. Ho
fatto cinque mesi e mezzo di carcere, non duro come si vede nei film, ma
comunque pesante. L’11 giugno scorso mi sono stati concessi gli arresti
domiciliari e quindi sono sei mesi che sono a casa…Devo ammettere che ho
sbagliato, ma sto pagando tutto di mio e alcune volte sono contenta di stare
chiusa in queste quattro mura, perché mi sento protetta dagli sguardi, dai
commenti. I media al tempo mi hanno descritta come una spacciatrice incallita,
che forniva la “Bergamo bene”!!! Ho sempre avuto conoscenze in diversi
ambiti ma non ho mai mischiato la mia vita lavorativa con la mia vita privata e
il commercio di cocaina, ma combattere contro l’informazione fasulla non
è facile e provo ancora un notevole senso di vergogna. Del carcere mi manca
la compagnia di alcune concelline a cui mi ero affezionata e le ore di scuola
erano un grande momento di evasione, dovuto anche all’enorme considerazione
degli insegnanti nei nostri confronti, ti facevano sentire delle persone
assolutamente normali. Questa sorta di stima mi manca, era un’ottima forza
per continuare questo cammino tutto in salita…”.
È
scrivendo che i detenuti riescono a dire: Io resisto. Anzi, ho resistito
e continuerò a resistere.
Nell’asprezza
di questi nostri tempi non credo che ci sia niente di più importante che
riconoscersi il fatto di essere riusciti a resistere. R-esistere è più di
sopravvivere, porta con sé i segni di un fermento di attività, significa
passare attraverso le tante stagioni della vita senza farsele scivolare addosso:
esistere con forza, senza arrendersi allo scoramento, imparando dagli errori,
dai fallimenti senza sentirsi sminuiti, perseguitati dalla sfortuna o segnati da
un’incapacità innata. Resistere significa individuare i propri limiti,
percorrerli per conoscerli e accettarli.
Chi
resiste ha qualcosa da insegnare agli altri, a quanti leggeranno le sue
parole, ascolteranno la sua storia che è sempre la storia di una comprensione.
*Intervento al seminario organizzato dalla Federazione dell’Informazione dal/sul carcere il 26 ottobre 2012 a Bologna