E
se Alessandro Sallusti avesse scontato la pena in carcere, ma non da detenuto?
È
comunque assurdo che per il suo reato si parli in modo semplicistico di “reato
d’opinione”, perché le parole a volte fanno molto più male di un pugno
A
cura della Redazione
Si
è molto dibattuto, prima che gli concedessero la grazia, sull’opportunità
che Alessandro Sallusti, il giornalista condannato a una pena di 14 mesi per un
reato di diffamazione, andasse in carcere. Avrebbe potuto chiedere
l’affidamento ai Servizi sociali ma non ha voluto, avrebbe potuto pubblicare
una rettifica ma non l’ha fatto, avrebbe potuto pagare un risarcimento di
qualche migliaia di euro ma non l’ha fatto, ed è stato quindi condannato al
carcere con sentenza definitiva. Ora tutti dicono che non è giusto andare in
carcere per un reato di opinione, ma quanti sono i reati per i quali non serve a
niente andare in carcere, e servirebbero davvero pene diverse? Un lavoro di
pubblica utilità, per esempio: la redazione di Ristretti Orizzonti si era
offerta di ospitare Alessandro Sallusti non da detenuto, ma da persona
condannata a un “lavoro di pubblica utilità, e aveva avanzato la proposta
attraverso gli interventi di un redattore-detenuto e della direttrice di
Ristretti Orizzonti. Le cose poi sono andate diversamente, ma forse Sallusti
avrebbe imparato di più da una esperienza più lunga nella redazione di
Ristretti.
Quel
disumano abbandono che troppe persone oggi subiscono all’interno delle carceri
di
Luigi Guida
Penso
che non sia giusto punire Sallusti con il carcere, ma penso anche che a noi, i
giornalisti ci fanno neri quando veniamo arrestati, facendoci passare per dei
mostri senza che nessuno ne paghi le conseguenze. Perché invece quando si parla
di un giudice diffamato, allora la condanna arriva, e pesante? Non ho mai visto
condannare nessuno per aver scritto degli articoli falsi su di noi. Io ho degli
articoli scritti su di me che non corrispondono alla verità, non sono certo
Sant’Antonio, però hanno scritto su di me articoli poi smentiti durante il
processo e con le sentenze. Al massimo quello che ottieni come risarcimento è
che ti dedicano due righe scusandosi, ma io non ho mai visto neppure quelle.
Il
Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha spesso invitato i partiti a
discutere della drammatica situazione carceraria, sollecitandoli a trovare una
soluzione in tempo rapido, partendo da una serie di provvedimenti, che
favoriscano la possibilità di accedere alle misure alternative, senza
escludere un atto di clemenza come l’indulto e l’amnistia. Ma purtroppo, in
attesa che i partiti trovino un punto di incontro, iniziando una discussione
seria su questo argomento, nelle nostre carceri molti detenuti continuano a
togliersi la vita non riuscendo più a sostenere la tortura che il
sovraffollamento gli infligge ogni giorno.
Le
difficoltà dei politici a varare leggi in materia di giustizia e carceri si
verificano però solo quando si tratta di risolvere i problemi del sistema
carcerario, mentre invece si è cercato in tutti i modi di varare una legge ad
hoc per evitare che il direttore del quotidiano “Il Giornale” Alessandro
Sallusti finisse in carcere. Io credo che il carcere debba essere l’ultimo rimedio
almeno per quei reati di minore gravità, quindi questo vale anche per il
direttore Sallusti, ma mi chiedo se sarebbe stato giusto impegnarsi a varare
una legge che favorisca solo una casta, in questo caso quella dei giornalisti,
mentre si continua a prendersela con comodo e superficialità per la restante
parte delle persone che subiscono la drammatica situazione carceraria. Spero
dunque che noi tutti iniziamo a fare una lunga riflessione su questo tema, e a
convincerci che il problema del sistema carcerario inadeguato non è e non può
rimanere solo “affar nostro”, di noi che in galera ci siamo già, e le
morti che avvengono all’interno non devono restare un lutto privato, perché
quando un detenuto arriva a suicidarsi, in quel gesto estremo c’è senza dubbio
una parte di corresponsabilità delle nostre istituzioni. Come può infatti uno
Stato non sentirsi causa di questa ingiustizia, se lascia i detenuti in
situazioni a dir poco incivili, ma soprattutto illegali, e guarda caso in
luoghi dove si dovrebbe ricondurre gli autori di reato al rispetto della legge
attraverso la rieducazione, ma mancano invece le condizioni perché la
Costituzione venga rispettata? Ecco, Alessandro Sallusti nella nostra
redazione potrebbe anche confrontarsi con noi seriamente su questi temi.
La
pena del carcere è sbagliata per il reato di Sallusti, ma anche per tanti altri
reati
di
Ornella Favero
In
galera ci si misura spesso con il fatto di aver visto la propria storia
personale “massacrata” sui giornali, schiacciata sul reato come se a
commettere reati fossero “i mostri”, quindi le riflessioni che si possono
fare sul caso Sallusti a partire da una realtà di informazione dal carcere
come la nostra non assomigliano molto a quelle dei professionisti
dell’informazione.
La
prima riflessione è che questa vicenda non ha insegnato molto a chi ama condire
la sua informazione di “mezze verità”, che a volte fanno più danno delle
menzogne: dopo aver pubblicato sul suo giornale questo articolo pieno di
falsità e non averlo voluto smentire, abbiamo sentito infatti Alessandro
Sallusti dire che lui non vuole accettare di concordare un risarcimento, facendo
credere che il giudice diffamato avesse chiesto i soldi per sé, e non invece
per l’associazione Save the children, come se li intascasse lui insomma, e
quindi da una parte ci fosse un giudice meschino e interessato, dall’altra un
giornalista che piuttosto di cedere a queste miserie accetta di andare in
galera. Un’altra affermazione falsa, che abbiamo sentito fare da tanti, è che
mentre gli stupratori e gli assassini escono in fretta dalla galera, chi fa un
reato di opinione rischia il carcere.
La
seconda questione che ci interessa sottolineare è che la terminologia che
si usa in tante situazioni, “reati di opinione”, “reati contro il
patrimonio”, va forse rimessa in discussione a partire dal fatto che è
fuorviante, perché le vittime sono comunque persone. Quindi io non accetto,
proprio da giornalista che però opera in carcere, in una realtà in cui si
discute seriamente della responsabilità delle persone che commettono reati, che
si parli in modo semplicistico di “reato d’opinione”, perché le parole a
volte fanno molto più male di un pugno, come non mi piace quando si parla di
“reati contro il patrimonio”: se un rapinatore va in banca, minaccia le
persone, le prende in ostaggio, le terrorizza, è banale parlare di reato contro
il patrimonio ed è deresponsabilizzante.
Nel
caso di Sallusti poi non è un reato di opinione, è diffamazione, calunnia, è
un reato che offende una persona, quel giudice è una vittima perché la dignità
di una persona è una cosa seria, e che un magistrato venga spacciato per uno
che costringe a fare abortire le ragazzine non mi pare uno scherzo.
Detto
questo, noi che la galera la conosciamo bene pensiamo che la pena del carcere è
sbagliata per il reato di Sallusti, ma anche per tanti altri reati. Perfino in
un carcere come la Casa di reclusione di Padova, che è un penale dove
dovrebbero stare i detenuti per reati di effettiva pericolosità sociale,
invece ci sono tante persone che dovrebbero fare piuttosto percorsi di cura,
come i tossicodipendenti, o pene alternative, come il lavoro in un Pronto
soccorso per chi commette reati legati al Codice della strada. E non
dimentichiamoci che la “pericolosità sociale” di un giornalista per certi
aspetti poi è enorme, perché lui ha il potere di danneggiare le persone in una
maniera in qualche modo “irreversibile”, visto che un articolo pubblicato
anche in internet non dura più un giorno, ma una vita.
Sarebbe
poi utile che chi critica i giudici per la sentenza Sallusti ragionasse
piuttosto sulla necessità urgente di riformare un Codice Penale indecentemente
vecchio, quindi tutti gli attacchi ai giudici sono strumentali non perché siano
sempre immotivati, pure noi di sentenze criticabili e di pene spropositate ne
abbiamo viste tante, ma perché se si fosse fatta la riforma del Codice Penale
tanti reati sarebbero stati depenalizzati e quindi si sarebbe messo mano anche
alle pene previste per l diffamazione, pensando a pene diverse dal carcere, pene
che impegnino la persona, e non solo il suo portafoglio: per Sallusti per
esempio avrebbe potuto essere la pena di lavorare per qualche tempo qui nella
nostra redazione, confrontarsi con persone che sono state “massacrate”
dall’informazione, vedere come si vive davvero in carcere, quanto è falso
dire che i delinquenti escono subito, quanti pochi “mostri” ci sono dentro
e invece quante persone, che arrivano da storie di vita in cui mai avrebbero
immaginato di varcare la soglia del carcere.
Alessandro
Sallusti, un assaggio di galera e il seme del dubbio
Subito
prima di venire a incontrare la redazione di Ristretti Orizzonti, il direttore
del Giornale, Alessandro Sallusti, aveva dichiarato “non credo di aver bisogno
di essere rieducato”. Noi abbiamo la convinzione che nel nostro Paese di un
serio percorso di rieducazione non avrebbero bisogno solo le persone detenute,
ma anche uno Stato che non rispetta la legge, mantenendo le carceri in
condizioni di totale illegalità, e perché no? Anche quei giornalisti che non
conoscono la galera e giocano a invocarne sempre di più per gli altri, per “i
cattivi”, sentendosi saldamente parte della categoria dei buoni. Lasciamo ai
lettori di giudicare se “sfiorare la galera” più da vicino può aver in
qualche modo cambiato qualcosa nel modo di pensare di Alessandro Sallusti.
La
professione del giornalista raccontata da Alessandro Sallusti ai
detenuti-redattori in un incontro nella Casa di reclusione di Padova
Vi
ringrazio per il vostro invito, veramente è una delle cose più importanti che
mi sono successe di recente ma lo dico sinceramente, tra l’altro appunto mi
vien quasi da ridere perché immagino la sofferenza che ci sia qui dentro nelle
vostre storie, e in confronto la mia è una bazzecola. Sono venuto perché in me
c’era anche la curiosità, quasi il bisogno di vedere in faccia qualcuno che
il carcere lo sta facendo davvero proprio perché quando poi ti tocca, se pure
ti sfiora, perché ripeto la mia vicenda è minimale, comunque delle domande che
non ti sei mai posto in vita tua improvvisamente te le poni e cerchi di
azzardare delle risposte, ma finché poi non vedi, non ti trovi dentro
immagino che siano risposte poco significative…
Detto
questo come prima cosa osserverei che c’è troppa aspettativa ed enfasi sui
giornali e il ruolo dei giornali, cioè i giornalisti non sono degli educatori,
io ho fatto fatica e non so nemmeno se sono riuscito a educare mio figlio, ma mi
è bastato, nel senso che non sono attrezzato. Pensare che i giornalisti siano
degli educatori, che i giornali siano delle specie di bibbie, delle specie di
vangeli, dei sacri testi veramente è inquadrare male il problema. Essere
educatore, cercare di analizzare una notizia, un uomo, un personaggio,
cercare di capire non è il nostro mestiere, e non sarei preparato a farlo. E
non solo non sarei preparato, ma non potrei nemmeno farlo, perché il giornale
non è un film, un film racconta la vita o un fatto dalla nascita alla fine, o
la vita di un uomo dalla nascita alla fine, una storia d’amore dalla nascita
alla fine, e quindi come dire nel suo sviluppo, nel suo essere work in progress
si avvicina alla verità di quello che sta raccontando. Perché la verità non
è mai una fotografia, non è mai quello che appare in un istante, perché
bisognerebbe vedere cosa c’era l’istante prima cosa ci sarà l’istante
dopo e cosa ci sarà dopo un mese di quella vista che hai con la fotografia, e
questo vale anche per un uomo.
Quando
uno di noi, di voi viene arrestato io lo fotografo in quel momento li, io non ho
la più pallida idea da dove viene, perché si trova in quella situazione, che
ne sarà di lui. Per cui un quotidiano è una fotografia di quello che accade
in quel momento, dove per momento si intende veramente un momento, perché
rispetto a una vita, la complessità di un fatto e la complessità di una
persona, quelle poche ore che ogni giorno passano da quando si inizia a fare il
quotidiano a quando lo si mette in stampa sono uno schioccare di dita, sono
una frazione di secondo, e quindi come è possibile che voi pensiate che noi,
che siamo dei comuni mortali con tutti i nostri problemi, difetti, angosce,
incapacità, superficialità, in quello schioccar di dita cogliamo la verità?
(…)
È anche vero però che ognuno di noi ha fatto dieci cose che se messe una in
fila all’altra, estrapolate dal contesto vero, possono far apparire ognuno
un santo o un mascalzone. Io posso arrivare, se mi impegno, a scrivere un articolo
dove anche il Papa sembra un poco di buono, perché se di te prendo dieci cose
che tu sicuramente hai fatto che sono buone, le metto una in fila all’altra
e tolgo tutto il resto e tu sembri un santo, in realtà tu non sei né un santo
né un criminale, tu sei tu con la tua complessità, io non sono né santo né
mascalzone, sono un misto delle due cose. Allora la vera arma che abbiamo noi
giornalisti è esattamente questa, di prendere dalla realtà soltanto ciò che
ci interessa per dimostrare una tesi, che non è falsa, non è falsa ma se io da
questa realtà, che è una cosa inafferrabile, prendo solo degli elementi,
io riesco a sostenere più o meno qualsiasi tesi al mondo, qualsiasi. Dimostrami
che… e io te lo dimostro perché ci saranno dieci fatti che messi in fila
dimostrano questo. Questo sicuramente è un errore che si fa, cioè essere
faziosi nel montare cose vere.
Il
giorno dopo l’incontro in redazione: Alessandro Sallusti e “Il seme del
dubbio”
I
detenuti
mi hanno posto un problema di coscienza, perché io non ho avuto vergogna di dichiarare
che non solo io non sono un educatore, ma che io produco, confeziono un prodotto
commerciale e quindi il prodotto commerciale deve seguire i desideri del
mercato. Io devo intercettare il sentire della gente che mi compra e
possibilmente allargarlo. Questo sentire è che all’opinione pubblica non
frega nulla dei detenuti, e se gliene frega qualcosa è solo per buttar via la
chiave. Allora in effetti non dico che ho cambiato idea, ma un seme, se sia
giusto assecondare sempre e comunque l’opinione pubblica per vendere una copia
in più o semplicemente per soddisfarla, un dubbio m’è rimasto. E allora
credo che magari si debba lavorare su questo dubbio, senza fare sconti a
nessuno, perché la violenza è violenza. Perché ci sono loro ma anche le
loro vittime, i parenti delle loro vittime, i danni fisici e psicologici che hanno
provocato alle vittime e alla comunità intera - non è questione di fare il
buonista, non ci credo. Credo che se uno commette cose del genere, la comunità
deve essere messa al riparo. Però detto questo rispetto al qualunquismo, di cui
poi noi giornalisti chi più chi meno restiamo vittime, ecco credo che un seme
mi sia rimasto. Credo che d’ora in poi quando dovrò affrontare dei temi del
genere sul giornale una riflessione in più che ieri non avrei fatto credo che
la farò.
Lettera
di un detenuto al direttore Sallusti
di
Clirim Bitri
Egregio
direttore Sallusti, noi siamo certi che un uomo può cambiare, con questa certezza
chiediamo a te di lasciare da parte l’orgoglio e accettare che hai
infranto una legge, forse sbagliata come tante altre, ma che esiste e stavolta
ha toccato te. Quindi ci auguriamo che di questa vicenda tu sappia cogliere
anche gli aspetti positivi e che questi ti inducano a riflettere e a fare di
te un uomo migliore, noi di certo dopo l’incontro con te ci sentiamo più
maturi e se possibile ancora più aperti con le persone che hanno un modello
di detenzione diverso dal nostro.
Ti
vogliamo però anche ricordare che se hai rischiato di entrare in carcere
non è tanto colpa del giudice, quanto piuttosto è colpa della legge, di quelle
cattive leggi che hanno portato in carcere migliaia di persone che qui non
dovrebbero starci, ed è anche colpa tua, della propaganda che ha fatto del
carcere una necessità per ogni reato, anche il più piccolo, e non una
soluzione estrema come invece dovrebbe essere.
E
se ci permetti dall’alto della nostra esperienza siamo contenti che tu abbia
potuto “rinunciare” al carcere, perché nelle condizioni in cui si trovano
oggi, le carceri svolgono solo la funzione di contenitore di carne umana e non
di rieducazione e recupero dei rei.
In
carcere poi ti sarebbe stato difficile tenere vivi i legami affettivi e
famigliari con 10 minuti di telefonata a settimana e 6 ore di colloqui visivi
al mese.
Siamo
contenti che tu abbia potuto rinunciare alla galera per lasciare la branda a un
altro detenuto, che per lasciare il posto a te avrebbe dovuto magari dormire
per terra.
In
un passaggio del tuo discorso hai detto una frase che mi è rimasta impressa,
cioè che fino a quando il carcere non ti sfiora, non ci pensi proprio, nessuno
ci pensa.
Quindi
in base a questa frase e per fare in modo che la galera venga pensata anche da
coloro che non ne vengono sfiorati, ti chiediamo comunque di fare un’attività
riparativa, anche se hai avuto la Grazia, presso questa redazione, dove ci
insegnerai come scrivere degli articoli per far breccia su nuovi lettori e
tenerci quelli che ci seguono da sempre.
Un
carcere più aperto per una informazione più onesta
La
Federazione dell’informazione dal e sul carcere si è riunita a Bologna per
discutere del lavoro delle redazioni e diffondere la Carta delle pene e del
carcere
a
cura della Redazione
La
quinta Giornata Nazionale dell’informazione dal/sul carcere si è svolta il
26 ottobre 2012 a Bologna, su iniziativa dell’Ordine dei Giornalisti
dell’Emilia Romagna, di Ristretti Orizzonti e del progetto “Cittadini
sempre”, promosso dalla Regione Emilia-Romagna, dalla Provincia di
Bologna in collaborazione con la Conferenza Regionale Volontariato Giustizia
Emilia-Romagna.
Hanno
portato il loro saluto Teresa Marzocchi, Assessore alle Politiche Sociali
Regione Emilia – Romagna; Francesco Maisto, Presidente del Tribunale di
Sorveglianza di Bologna; Paola Cigarini, Referente Conferenza Regionale
Volontariato Giustizia dell’Emilia Romagna
Il
primo tema affrontato è stato “Il lavoro delle redazioni all’interno
del carcere: valore educativo e criticità”. Ne hanno parlato Pietro
Buffa, Provveditore alle carceri dell’Emilia-Romagna; Ornella Favero,
Direttore di Ristretti Orizzonti, Adriana Lorenzi, scrittrice,
formatrice, responsabile di laboratori. di scrittura autobiografica nelle
carceri.
Il
secondo tema affrontato è stato “Il lavoro delle redazioni all’esterno:
rapporti coi media e sensibilizzazione dei territori”. Ne hanno
parlato Gerardo Bombonato, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti
dell’Emilia Romagna, Mario Consani, giornalista di cronaca giudiziaria del
quotidiano “Il Giorno”, Andrea Volterrani, Docente dell’Università Tor
Vergata, esperto di Comunicazione sociale, Susanna Ripamonti, Direttore di
“Carte Bollate”.
Nella
seconda parte della giornata le redazioni si sono presentate: Teresa Valiani e
Altin Demiri per “Io e Caino” (Casa circondariale di Ascoli Piceno);
Moreno Pecchioli per “Il miglio rosso” (Casa circondariale di Verona); gli
architetti di U-Boot, gruppo bolognese di progettazione e ricerca sulla
riorganizzazione degli spazi del carcere; Giulia Torbidoni per Fuori Riga
(Casa circondariale di Ancona); Federica Penzo e Andrea Capitanio per
L’impronta (Casa circondariale di Venezia); Francesco Lo Piccolo per Voci di
dentro (Carceri di Chieti, Vasto, Lanciano, Pescara); Enrico Lazara per Carte
Bollate (Casa di reclusione di Bollate); Giada Ceri per il progetto “Articolo
trentadue: informazione e promozione della salute in carcere” (Casa circondariale
di Sollicciano); Grazia Grena dell’Associazione Loscarcere di Lodi;
Operatori del Consorzio Open; volontari di Buona Condotta (Casa circondariale
di Modena); Nicola Rabbi di “Ne vale la pena” (Casa circondariale di
Bologna).
Le
conclusioni sono state tratte da Desi Bruno, Garante dei Diritti delle persone
private della libertà della Regione Emilia-Romagna, che ha affrontato il tema
“L’impegno delle redazioni nella tutela dei diritti: suggerimenti e
sollecitazioni”.
Ha
condotto i lavori Carla Chiappini, vice-presidente dell’Ordine
dei Giornalisti dell’Emilia-Romagna, responsabile della comunicazione per
il progetto “Cittadini sempre”.
Un
carcere più aperto per una informazione più onesta
La
Federazione dell’Informazione dal/sul carcere, riunita venerdì 26 ottobre
2012 a Bologna, sottolinea la particolare gravità delle condizioni nelle
quali si sconta la pena oggi, che richiedono un ulteriore sforzo di trasparenza
e di onestà nell’informare, e chiede:
al
Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di dare spazio e
autonomia alle attività di redazione interne alle carceri, favorendo il
confronto con la società libera allo scopo di promuovere un pensiero più
maturo e consapevole sul tema della pena. Senza un percorso comune al
dentro e al fuori sarà davvero difficile smuovere e far progredire una
cultura da troppi anni ferma al “carcere per tutti”;
all’Ordine
Nazionale dei Giornalisti di approvare con solerzia la “Carta del
carcere e della pena” già presentata a Milano lo scorso settembre 2011 e
di farne materia di formazione deontologica per i colleghi e materia di
esame per gli aspiranti professionisti. Il percorso penale già complesso e
molto doloroso non solo per chi ha subito il reato, ma anche per le
persone denunciate o condannate e soprattutto per le loro famiglie,
richiede attenzione, sobrietà e precisione sui termini per evitare
inutili allarmismi e ulteriori fatiche al momento del ritorno alla vita
libera;
ai
giornalisti impegnati nelle redazioni nazionali e locali di tener
conto del nostro lavoro e dell’opportunità di considerarci fonti
credibili in materia di esecuzione penale
Rieducazione
e reinserimento, o piuttosto adattamento?
L’attività
redazionale all’interno di un carcere è un elemento rieducativo,
responsabilizzante, una attività di ordine politico o è una attività di
“sollievo”?
di
Pietro Buffa, Provveditore
dell’Amministrazione penitenziaria
per
l’Emilia Romagna
Il
mio è un mestiere che si impara giorno per giorno e nel farlo hai spesso il
dubbio di aver preso la strada sbagliata. Avere a che fare frequentemente con
il dubbio ti porta a sviluppare una visione critica e disincantata di ciò che
ti sta davanti. Questo non significa adottare un atteggiamento negativo,
scostante e di chiusura rispetto agli sforzi di umanizzare il sistema
penitenziario e tentare ogni strada possibile per il reinserimento sociale
delle persone detenute. Più semplicemente significa affrontare tali compiti
con una buona dose di consapevolezza degli effetti delle proprie azioni e del
campo in cui queste avvengono, degli interessi e delle contraddizioni che lo
contraddistinguono, del nostro ruolo, dei suoi limiti così come delle sue
potenzialità. Questa visione mi sembra congeniale rispetto ai temi trattati
in questa sessione. Ritengo, infatti, molto stimolante e soprattutto utile parlare
del valore educativo e delle possibili criticità del lavoro delle redazioni
giornalistiche interne agli istituti penali.
Rispetto
al valore e all’effetto educativo delle azioni trattamentali vi è un
episodio che, in tutti questi anni, mi ha sempre fatto riflettere. Molto tempo
fa, infatti, ricevetti una lettera di una persona detenuta nell’istituto che
dirigevo e che frequentava il Polo universitario. In modo ironico quanto
graffiante mi comunicava che, se in quel carcere gli avessero proposto di fare
un corso per fare cerchi di fumo, lui si sarebbe iscritto pure a quello. Il
senso di quelle parole è che la situazione della condizione penitenziaria
determina un adattamento tale per cui ogni iniziativa ha un suo valore, ma non
sempre questo valore è o viene interpretato in maniera corrispondente a
quello costituzionale della rieducazione. Anche questa affermazione abbisogna
di un chiarimento per sgomberare equivoci di sorta, nel senso che questo non
significa essere scettici rispetto ai margini di cambiamento delle persone nel
tempo e nel corso di un percorso penitenziario. È altresì vero che in tutti
questi anni non ho mai pensato che si potesse per norma stabilire la
rieducazione di una persona. Tutto l’Ordinamento, nonostante le ampie
restrizioni che ha subito nel corso di questi ultimi anni, ha un’impostazione
rieducativa classica fondata su interventi “integrativi” nel campo del
lavoro, dell’istruzione e della religione. È come se ancora si pensasse che
è una carenza originaria in questi ambiti a fare di un uomo un delinquente. La
via della rieducazione, messa in questi termini, rischia di essere
anacronistica, a meno che non sia declinata verso la responsabilizzazione
della persona. Un concetto introdotto da Mauro Palma in una miscellanea di
contributi vari pubblicata qualche mese fa1.
Palma afferma: “Il concetto di rieducazione è un concetto ambiguo e vecchio o
stantio, perché sostanzialmente chiede alla persona in carcere un
adattamento”. Questo concetto, secondo Mauro Palma, dovrebbe essere sostituito
con la nuova concettualizzazione, ma soprattutto, con la pratica
responsabilizzante di cui sopra, ovvero l’assunzione di impegni tangibili,
valida di per sé e non per le valutazioni che su questa si possono svolgere.
Se
non si spezza la logica del fare per ottenere diventa difficile evolvere
effettivamente e, purtroppo, il nostro impianto rimane sostanzialmente
“premiale”. La nuova posizione espressa da Palma mi ha fatto tornare i conti
rispetto alle riflessioni sul senso del mio mestiere. Mi riferisco al rovello
alimentato da contraddizioni, sorprese positive e frustrazioni, che coglie in
tanti momenti della quotidianità del carcere rispetto al confronto con
l’umanità ivi contenuta e le logiche che lo percorrono formalmente ed
informalmente. Quei cerchi di fumo mi hanno impartito una lezione di non poco
conto, facendomi capire come in realtà quello che noi facciamo in cambio di
qualche cosa viene assolutamente recepito e tradotto, ma non in termini di
rieducazione e di reinserimento, ma in termini di semplice adattamento. Tornerò
tra breve a questo aspetto critico. Se torniamo all’ambito redazionale,
oggetto del nostro dibattito consentitemi, sommessamente, di porre alcune
questioni. Lo intendo fare non per svalorizzare il lavoro che vi viene svolto,
semmai, per stimolare, attraverso la riflessione, l’attenzione anche verso
altre dinamiche istituzionistiche che, se non bene inquadrate e tenute sotto
controllo, possono determinare effetti distorcenti di non lieve momento.
Innanzitutto le offerte trattamentali, di qualunque genere, non possono, per
vari motivi, coinvolgere tutti e questo determina una selezione. Nei nostri
istituti c’è grande povertà, non solamente materiale ma anche umana. Non
tutti nelle galere italiane sono nelle condizioni di poter appropriarsi di una
opportunità.
Non
so quanta consapevolezza ci sia rispetto alle conseguenze che derivano quando
introduciamo una risorsa all’interno di un carcere. Non vuol essere una
critica, ma la pratica quotidiana spesso poi ti offusca la vista, a meno che non
ci si stropicci gli occhi tutti i giorni fino a farli diventare rossi.
Quando
noi introduciamo una opportunità, nasce una competizione in cui i forti, se
l’istituzione e tutti coloro che vi collaborano non sono particolarmente
attenti, vincono. L’istituzione premia la forza e punisce la debolezza e la
fragilità. Non
è una condizione necessaria e ineliminabile, questa. Si può ovviamente
lavorarci, ma bisogna essere coscienti, ora avere questa coscienza implica
uno sforzo grande da parte di tutti noi. In un carcere che sostanzialmente è
sempre più un carcere di poveri ci sono forze e capacità diverse; non essere
coscienti di questo significa fare dei danni. Un vecchio comandante, in modo un
po’ greve, diceva: “intelligenza in galera fa pari con delinquenza”.
Credo che una limitata consapevolezza di queste dinamiche possa costituire una
seria criticità, non solamente nelle redazioni di giornali in carcere, ma
per ogni attività che noi prospettiamo in termini rieducativi o responsabilizzanti.
Riprendendo
la questione della tendenza all’adattamento, una seconda potenziale criticità
è il grado di consapevolezza e di approfondimento relativamente a questa
naturale tendenza dell’uomo di fronte alle situazioni estreme. Quanto
adattamento chiediamo, più o meno consapevolmente, ed otteniamo nel nostro
laborioso proporre e fare? Non che questa dimensione sia da criminalizzare perché
intrinseca, soprattutto in un mondo coatto, ma perché il suo rendersi palese
rende più chiare le posizioni, i risultati e gli effetti delle iniziative.
Queste considerazioni introducono l’ultima delle possibili criticità.
Rispetto
all’attività dei giornali e dell’informazione dal carcere, anche qui,
credo che occorra fare estrema chiarezza. Così come Mauro Palma parla di
ambiguità nel concetto di rieducazione, quindi nella pratica di rieducazione
penitenziaria, credo che si debba fare altrettanta chiarezza su altri tipi di
ambiguità relativi agli obiettivi che ci si pone attraverso lo sviluppo delle
redazioni e dell’informazione dal carcere. Nelle prime battute di questo incontro
ho sentito affermazioni che, per la loro vastità d’intenti, mi creano alcune
difficoltà di comprensione. Ovvero: l’attività redazionale
all’interno di un carcere è un elemento rieducativo, spunto
responsabilizzante, è una attività di ordine politico, è una attività di
sollievo alias cerchi di fumo, quali di queste cose è? Perché sono cose
distinte, nel senso che vanno bene tutte, basta esattamente definire quali sono
gli obiettivi. Viceversa credo che si possa generare confusione e fraintendimento.
Tanto per essere ancor più chiaro, anche la storia dei cerchi di fumo non è
una banalità perché in condizioni di vita estremamente degradate e
soprattutto in assenza di risorse per contrastare l’ozio forzato, il
problema di “inventarsi la quotidianità” non è secondario. Inventarsi
qualunque cosa per poter dare cerchi di fumo alias sollievo sarà anche un
obiettivo minimo, ma non per questo meno dignitoso. Preciso questo in modo da
chiarire che le mie perplessità non riguardano i contenuti di questo piuttosto
che di quell’obiettivo, ma la necessità di chiarire in anticipo quello che si
intende realizzare in modo da fare una offerta chiara e da procedere con
coerenza. Va bene il sollievo, però diciamolo chiaramente senza poi
presentarlo come altro. Possiamo anche pensare che sia un’attività
responsabilizzante, ma allora facciamo che sia effettivamente quello, che è
cosa diversa che dare sollievo. Riteniamo di rieducare, allora definiamo bene a
priori cosa significa e quali sono i risultati che ci attendiamo, oppure
facciamo politica, ammesso che si possa fare la politica, perché allora li c’è
un problema di rappresentanza. In questo caso le domande da porsi
riguarderebbero chi rappresenta chi, con quale mandato e con quali meccanismi
di delega in un contesto così delicato e percorso da regole dinamiche e forze
di non semplice lettura. Credo di aver posto una serie di questioni delicate
che, tuttavia, possono essere riassunte in una unica avvertenza. Occorre
estremo rigore e profonda consapevolezza delle dinamiche che si incontrano e
che si generano. Su queste basi non solo le attività possono immaginare di
procedere con maggiore successo, ma quella responsabilizzazione alla quale si
cerca oggi di legare il fare penitenziario potrebbe meglio svilupparsi
slegandosi dalle contraddizioni di cui ho accennato. Non tener conto di ciò
può significare produrre dei danni.
Un
“dialogo-botta e risposta” tra Ornella Favero e Pietro Buffa
Nelle
redazioni noi lavoriamo per aprire dei varchi, per allargare gli spazi
E
sono prima di tutto spazi di confronto, perché per riaffrontare “la libertà”
non serve un detenuto educato all’obbedienza e all’adattamento a quello che
vuole da lui l’istituzione, serve che tutti siano disponibili a rimettere in
discussione il loro ruolo
di
Ornella Favero
Comincio
da una citazione un po’ particolare: “Rispetto al qualunquismo di cui spesso
noi giornalisti rimaniamo vittime, credo che un seme mi sia rimasto, credo che
d’ora in poi quando dovrò affrontare temi di questo tipo sul giornale, farò
una riflessione in più che ieri non avrei fatto”. Bene, queste sono parole di
Alessandro Sallusti, direttore del quotidiano Il Giornale, dopo che è stato
nella nostra redazione, parole che mi fanno dire che la rieducazione è
possibile, anzi, necessaria. Il problema vero è che non credo però che la
rieducazione riguardi esclusivamente le persone detenute. Vorrei partire
proprio da questo strano incontro che abbiamo fatto con Sallusti nella nostra
redazione. Quando poi ne ho discusso con i detenuti di Ristretti, uno mi ha fatto
una piccolissima osservazione: “Che strano, Sallusti non ha neppure preso un
appunto, non aveva neanche carta e penna” . Ecco, mi ha colpito che un mio
redattore abbia fatto questa considerazione, perché le mie battaglie in redazione
partono da questo, dagli appunti. Io credo che gli strumenti che noi usiamo in
certe redazioni - nella mia senz’altro – siano gli strumenti che nella vita
libera non siamo più capaci di apprezzare, di cui non si riesce più a capire
il valore. Il punto è proprio questo: non esiste serietà in una professione,
meno che mai in quella del giornalista, se non si impara a prendere appunti,
perché prendere appunti significa che la persona che hai davanti è
importante, più di te in quel momento, significa cogliere il valore di quello
che dice, imparare un ASCOLTO GENEROSO. E se si pensa che all’origine dei
reati c’è una totale disattenzione all’altro, allora imparare ad
ascoltare gli altri e a cogliere il valore di quello che dicono ha un senso
anche maggiore.
Certo,
gli appunti, ma anche la scrittura. Io racconto spesso che quando un mio
detenuto, uno di quelli con storie di galera molto complicate, mi ha presentato
il suo primo “articolo” in cui in un’intera pagina c’era un solo punto,
io non ho pensato che in quel testo bisognava proprio metterci le mani, era
troppo caotico e disorganizzato, no, ho cercato di capire il perché, e mi
sono resa conto che quel ragazzo esprimeva in questo tipo di scrittura tutta una
vita. Perché se in un testo tu non metti né punti né virgole, non sai
neanche dove la frase va a finire, non hai il senso dei limiti, non hai il senso
della misura, non hai il senso che la frase non può essere lunga chilometri,
perché altrimenti imporrebbe a chi la legge di restare senza fiato. Quindi
vuol dire che forse, insieme alla punteggiatura, devi imparare cose ben più
importanti, come le regole minime del rispetto degli altri, l’accettazione
dei tuoi limiti, la consapevolezza di quando ti devi fermare.
La
scrittura, la punteggiatura, la precisione sono fondamentali nel nostro lavoro,
sono strumenti che mi fanno dire che forse il concetto di rieducazione non è né
sbagliato né vecchio, forse va solo rivisitato, va ripensato. Ci deve indurre a
una riflessione, io credo, per trovare, appunto, strade nuove.
Noi
che usiamo così tanto le parole, una strada nuova ce l’abbiamo davanti. Con
Sallusti l’abbiamo detto, parlando della diffamazione, quanto sono
importanti le parole, e quanto possono far male, molto male. Nella mia
redazione, prendo un verbetto da niente, il verbo “combinare”. Sapete quante
volte io sento le persone detenute – ma anche le persone fuori – dire di un
atto, magari particolarmente grave, “ho combinato qualcosa”? È un verbo
orrendo che minimizza la responsabilità, minimizza quello che è l’atto
compiuto. È un esempio di quanto può essere rieducativo riprendere possesso
delle parole e lavorarci. E questo è rieducativo per le persone detenute,
ma secondo me è “rieducativo” anche per Sallusti. Quindi io credo che il
concetto fondamentale che dovrebbe essere alla base del nostro lavoro, è che
non esiste rieducazione senza RECIPROCITA’. La rieducazione non può
significare che io mi prendo il detenuto e gli dico quello che DEVE fare e lui
SI ADATTA. Non è questa la rieducazione, la rieducazione è un percorso con
al centro la responsabilizzazione delle persone. Se ci sono persone, a cui non
dico che le regole non gliele hanno insegnate mai, ma che le hanno
dimenticate, come Sallusti probabilmente ha dimenticato le regole di un giornalismo
serio, perché io non posso riparlarne, ridiscutere con loro di queste regole?
Forse questa è rieducazione, se una persona la sua educazione probabilmente
l’ha dimenticata, probabilmente qualcosa non ha funzionato, perché dobbiamo
avere paura di questa parola?
Pietro
Buffa: Tu
parli di responsabilizzazione, ma la pratica quotidiana in carcere non è
questa. La pratica della rieducazione secondo l’Ordinamento Penitenziario
significa ancora lavoro, religione, istruzione. Noi tutti abbiamo visto nella
carcerazione “normale” cosa vuol dire rieducare, quali sono i parametri
dell’amministrazione. Quindi noi parliamo di cose che hanno livelli diversi.
La redazione – e credo che tutti te ne diano merito – di Ristretti Orizzonti
è un luogo diverso, dove si fanno attività importanti, e questo ha voluto
dire fatica, impegno, ma cosa si fa per la grande maggioranza dei detenuti? Ho
letto un libro che non ha un punto, che è stato scritto da un ragazzo
tossicodipendente che ha conosciuto il carcere. Bene, sapete perché lui ha
scritto così? Perché quello è il carcere! Il carcere non ha un punto da
nessuna parte. Si tratta di angoscia carceraria. E l’angoscia impedisce di
fare altri ragionamenti finché non si modifica questo sistema.
Ornella
Favero:
Io in ogni caso non credo che si possa parlare di politica dei “due tempi”,
prima modificare radicalmente il sistema, poi rimettere in discussione i
cardini della rieducazione. Quindi noi lavoriamo per aprire dei varchi già
oggi, per allargare gli spazi, per sperimentare il più possibile “il senso
della rieducazione in un paese poco educato”. In carcere si parte sempre
dall’idea che è il detenuto che deve essere rieducato, punto e basta. Ma
come si arriva al concetto di responsabilità? Io credo che ci si arrivi anche
con un lavoro di rieducazione reciproca, cioè di rimessa in discussione della
propria formazione, della propria cultura, delle proprie scelte. Perché per
avere un’idea chiara della responsabilità, si deve lavorare su scelte minime
come quelle che ho detto prima, sulla scelta delle parole per esempio. E si
devono rivedere anche certi ruoli. Ristretti Orizzonti non è un’isola
felice, e non è che abbiamo scelto i detenuti più forti, più attrezzati,
non è così. Però, stando lì dentro, anche quelli più fragili, più deboli,
hanno acquistato forza a partire dall’idea che non c’è nessuno che non sia
rieducabile, neanche Sallusti, e nessuno che non abbia bisogno di rimettersi in
gioco. E credo che in carcere ci voglia più coraggio nel mettersi in gioco,
perché è tutto rigidamente regolato per impedire di farlo. E invece
dovrebbero farlo tutti, comprese le istituzioni che governano la sicurezza,
compreso chi un ruolo nella rieducazione dovrebbe averlo per eccellenza, gli
educatori.
Rimettere
in gioco la propria professione. Non esiste rieducazione se non c’è una
reciprocità, cioè se tu non credi che la persona che hai davanti ti possa
insegnare qualcosa che ti faccia cambiare. Penso che sia questo il nodo
fondamentale: il ruolo che ha nel percorso di rieducazione e di
responsabilizzazione il confronto. Porre al centro il tanti, come le regole
minime del rispetto degli altri, l’accettazione dei tuoi limiti, la
consapevolezza di quando ti devi fermare.
La
scrittura, la punteggiatura, la precisione sono fondamentali nel nostro lavoro,
sono strumenti che mi fanno dire che forse il concetto di rieducazione non è né
sbagliato né vecchio, forse va solo rivisitato, va ripensato. Ci deve indurre a
una riflessione, io credo, per trovare, appunto, strade nuove.
Noi
che usiamo così tanto le parole, una strada nuova ce l’abbiamo davanti. Con
Sallusti l’abbiamo detto, parlando della diffamazione, quanto sono
importanti le parole, e quanto possono far male, molto male. Nella mia
redazione, prendo un verbetto da niente, il verbo “combinare”. Sapete quante
volte io sento le persone detenute – ma anche le persone fuori – dire di un
atto, magari particolarmente grave, “ho combinato qualcosa”? È un verbo
orrendo che minimizza la responsabilità, minimizza quello che è l’atto
compiuto. È un esempio di quanto può essere rieducativo riprendere possesso
delle parole e lavorarci. E questo è rieducativo per le persone detenute,
ma secondo me è “rieducativo” anche per Sallusti. Quindi io credo che il
concetto fondamentale che dovrebbe essere alla base del nostro lavoro, è che
non esiste rieducazione senza RECIPROCITA’. La rieducazione non può
significare che io mi prendo il detenuto e gli dico quello che DEVE fare e lui
SI ADATTA. Non è questa la rieducazione, la rieducazione è un percorso con
al centro la responsabilizzazione delle persone. Se ci sono persone, a cui non
dico che le regole non gliele hanno insegnate mai, ma che le hanno
dimenticate, come Sallusti probabilmente ha dimenticato le regole di un giornalismo
serio, perché io non posso riparlarne, ridiscutere con loro di queste regole?
Forse questa è rieducazione, se una persona la sua educazione probabilmente
l’ha dimenticata, probabilmente qualcosa non ha funzionato, perché dobbiamo
avere paura di questa parola?
Pietro
Buffa: Tu
parli di responsabilizzazione, ma la pratica quotidiana in carcere non è
questa. La pratica della rieducazione secondo l’Ordinamento Penitenziario
significa ancora lavoro, religione, istruzione. Noi tutti abbiamo visto nella
carcerazione “normale” cosa vuol dire rieducare, quali sono i parametri
dell’amministrazione. Quindi noi parliamo di cose che hanno livelli diversi.
La redazione – e credo che tutti te ne diano merito – di Ristretti Orizzonti
è un luogo diverso, dove si fanno attività importanti, e questo ha voluto
dire fatica, impegno, ma cosa si fa per la grande maggioranza dei detenuti? Ho
letto un libro che non ha un punto, che è stato scritto da un ragazzo
tossicodipendente che ha conosciuto il carcere. Bene, sapete perché lui ha
scritto così? Perché quello è il carcere! Il carcere non ha un punto da
nessuna parte. Si tratta di angoscia carceraria. E l’angoscia impedisce di
fare altri ragionamenti finché non si modifica questo sistema.
Ornella
Favero:
Io in ogni caso non credo che si possa parlare di politica dei “due tempi”,
prima modificare radicalmente il sistema, poi rimettere in discussione i
cardini della rieducazione. Quindi noi lavoriamo per aprire dei varchi già
oggi, per allargare gli spazi, per sperimentare il più possibile “il senso
della rieducazione in un paese poco educato”. In carcere si parte sempre
dall’idea che è il detenuto che deve essere rieducato, punto e basta. Ma
come si arriva al concetto di responsabilità? Io credo che ci si arrivi anche
con un lavoro di rieducazione reciproca, cioè di rimessa in discussione della
propria formazione, della propria cultura, delle proprie scelte. Perché per
avere un’idea chiara della responsabilità, si deve lavorare su scelte minime
come quelle che ho detto prima, sulla scelta delle parole per esempio. E si
devono rivedere anche certi ruoli. Ristretti Orizzonti non è un’isola
felice, e non è che abbiamo scelto i detenuti più forti, più attrezzati,
non è così. Però, stando lì dentro, anche quelli più fragili, più deboli,
hanno acquistato forza a partire dall’idea che non c’è nessuno che non sia
rieducabile, neanche Sallusti, e nessuno che non abbia bisogno di rimettersi in
gioco. E credo che in carcere ci voglia più coraggio nel mettersi in gioco,
perché è tutto rigidamente regolato per impedire di farlo. E invece
dovrebbero farlo tutti, comprese le istituzioni che governano la sicurezza,
compreso chi un ruolo nella rieducazione dovrebbe averlo per eccellenza, gli
educatori.
Rimettere
in gioco la propria professione. Non esiste rieducazione se non c’è una
reciprocità, cioè se tu non credi che la persona che hai davanti ti possa
insegnare qualcosa che ti faccia cambiare. Penso che sia questo il nodo
fondamentale: il ruolo che ha nel percorso di rieducazione e di
responsabilizzazione il confronto. Porre al centro il confronto significa tra
l’altro mettere in discussione tante prassi dell’Amministrazione
penitenziaria di chiusura, di ghettizzazione nei circuiti, di paura di esporsi
al giudizio e alla critica del mondo esterno, e anche tante modalità di lavoro
dei giornali dal carcere, che sono, su versanti opposti, spesso
autoreferenziali, perché il confronto significa invece APERTURA, significa
carceri e redazioni come laboratori il più possibile aperti alla società
“civile”, significa non metterci secoli per le autorizzazioni per far
entrare qualcuno.
I
redattori della mia redazione perché sono riusciti, anche con Sallusti, ad
essere efficaci nella comunicazione e capaci di un vero confronto? perché
Sallusti quando è arrivato credo che si aspettasse una redazione di
detenuti che si sarebbero lamentati sulla condizione delle carceri, sui diritti
che non vengono rispettati, sul sovraffollamento che rende insopportabile la
convivenza. Ma non è stato così! Lui si è confrontato con delle PERSONE. Ha
sentito delle PERSONE con dei pezzi delle loro storie, per niente autoassolutori,
tanto è vero che ha detto che “se addirittura degli analfabeti senza scrupoli
riescono a esprimere dei ragionamenti di una tale originalità e profondità,
vuol dire che in fondo l’uomo c’è ancora”. Molto interessante questa
cosa, perché Alessandro Sallusti parla di “originalità” e “profondità”.
E questo significa che si può arrivare, anche in un luogo come il carcere, a
una originalità, e a una profondità molto superiore alla sua, a quella che
ha espresso lui dal mondo libero di un giornalismo che ha molto potere, molti
mezzi, molte risorse, ma poco confronto, poca capacità di “rieducare e
rieducarsi”. Chi ha avuto questa abilità non erano dei detenuti molto
potenti, anzi forse i più “scalcinati” sono stati quelli che gli hanno
dato una lezione più chiara. Quindi io credo che si possano ribaltare le
situazioni, ma che ci voglia coraggio, e anche fantasia, e risorse, ma
soprattutto risorse umane.
Ornella
Favero: Io
appartengo a quella categoria di persone che ritengono che si possa svuotare
l’oceano con un cucchiaino, o meglio, credo alle imprese impossibili.
Certo non so se una esperienza come quella di Ristretti Orizzonti sia patrimonio
comune, non so se le istituzioni siano pronte a confrontarsi accettando di
venire ad imparare qualcosa, però so che il sovraffollamento non può essere
un alibi per non tentare strade “diverse”. E credo anche che gli operatori
possano fare molto per rovesciare il loro modo di lavorare, di porsi nei
confronti dei detenuti, di ripensare al concetto di rieducazione. Ci sono
tanti esempi di piccoli ribaltamenti nel modo di lavorare. In redazione siamo
reduci da un confronto con i magistrati di sorveglianza, gli educatori e il
direttore, durante il quale il magistrato ha raccontato che ha iniziato a
fare degli incontri collettivi, cioè ad andare nelle sezioni, anche le più
disastrate, a incontrare i detenuti perché anche quello è un modo di crescere
e di far crescere.
La
seconda considerazione riguarda il fatto che lo scandalo è che ci si stupisca
che all’interno delle carceri ci siano persone originali e capaci. Questo è
il vero scandalo, perché la media del pensiero è che, una volta in galera,
tu hai uno stigma che ti riduce ad essere un subumano. La questione del subumano
è l’anticamera della tortura, dei campi di sterminio. Lo scandalo è che si
debba mettere il naso dentro alle carceri per poter dire “sono uguali a
noi”!
Ornella
Favero: Io
credo però che alcuni cambiamenti, un certo modo di rivedere il concetto della
rieducazione, e i percorsi conseguenti, sono possibili ovunque, e se siamo qui
a confrontarci, le redazioni presenti in tante carceri oggi, è perché ci si
deve incuneare in tutti gli spazi che ci sono in questo sistema per riuscire a
portare dentro questi concetti, il discorso fondamentale del cambiamento e della
rieducazione o responsabilizzazione, che passa attraverso il confronto. È
impossibile che una persona che entra in carcere e resta dentro senza avere un
confronto con il mondo esterno, esaurisca il suo bisogno di cambiamento in uno
o due o tre colloqui con l’educatore. Quello che chiediamo noi è
un’apertura maggiore delle carceri, è l’idea che se il carcere dovrebbe
avere il compito di “risocializzare” le persone, tenendole però
paradossalmente fuori dalla società, l’unico modo per ridurre il danno della
carcerazione è rendere le carceri più aperte possibile. È un passo
fondamentale per il rispetto della Costituzione, che pone l’accento
esclusivamente sulla funzione rieducativa della pena, ma non esiste rieducazione
in un carcere chiuso, questo credo che dovrebbe essere un concetto chiaro a
tutti.
C’è
prima di tutto necessità di un confronto con gli operatori che abbia modalità
nuove, ed è fondamentale perché loro sono le persone che hanno in mano il
destino della persona detenuta, è inutile negarlo, ed è ovvio che la scalata
verso la libertà fa parte della vita di una persona in carcere, ma per
riaffrontare la “libertà” non serve un detenuto educato all’obbedienza
e all’adattamento a quello che vuole da lui l’istituzione. A me di questo
incontro che abbiamo fatto con i magistrati e gli operatori è piaciuto quando
il magistrato ha detto di aver rivisto alcune sue convinzioni sulla revisione
critica, e questo significa che ha colto l’aspetto fondamentale di questo
rapporto che deve essere di reciprocità, altrimenti accade quello che
chiamiamo l’adattamento, il “sono come tu mi vuoi” che è il grande
rischio della rieducazione, ed è quello che noi dobbiamo scardinare, ed è in
questo che noi come giornali possiamo avere un ruolo.
C’è
un altro capitolo che noi abbiamo aperto in questo discorso della reciprocità
che è il confronto con le vittime. Anche lì bisogna innanzitutto far
capire che il carcere, così come è adesso, rappresenta per le vittime la fine
di qualsiasi tipo di responsabilizzazione dell’autore del reato.
Il
fatto è che quando si entra in carcere il reato diventa l’ultimo dei
pensieri, perché il primo diventa se stessi e la propria sofferenza, quindi il
carcere com’è concepito oggi, invece di dare soddisfazione alle vittime,
toglie qualsiasi senso di responsabilità all’autore di reato rispetto a loro.
Il confronto che noi abbiamo avviato non è solo con le vittime di eventi che
hanno coinvolto tutto il nostro Paese, come il terrorismo, ma anche con
l’insegnante presa in ostaggio durante la rapina, o la donna che ha avuto il
figlio ucciso da una automobilista che guidava parlando al cellulare. Ecco,
l’incontro con la sofferenza delle vittime inchioda le persone alla propria
responsabilità rispetto al reato, e a non dire più “ho combinato
qualcosa” come in un gioco da bambini.
Per
ultimo, quello che ha fatto crescere tantissimo tutti i detenuti è stato il
confronto con gli studenti. Ecco, lì il concetto di responsabilizzazione e il
concetto di rieducazione si intrecciano io credo, perché prima di tutto c’è
un bisogno di verità di fronte ai ragazzi che non c’è di fronte a nessun
altro. E poi c’è un’altra questione fondamentale, l’idea di mettere a
disposizione degli altri la propria esperienza del “male”. Questa
esperienza non si può cancellare o fingere di non vederla, questa esperienza
però può insegnare qualcosa, può aiutare a far capire che il reato non è
sempre una scelta razionale, che a volte è frutto di un lento scivolamento in
comportamenti sempre più al limite, che nessuno è al riparo dal rischio di
incorrere in comportamenti punibili con il carcere. Quando Alessandro Sallusti
è venuto nella nostra redazione, ha scoperto questo, che il male ci riguarda
tutti, il male ci appartiene e credere che riguardi solo alcune categorie è
devastante nella vita delle persone. Questo è un esempio di quali temi i
nostri giornali devono trattare, come devono lavorare per far capire ai
ragazzi che conoscere il male più da vicino significa attrezzarsi nella vita
a capire e fare le scelte giuste, significa allenarsi a pensarci prima.
Ecco
quindi qual è il nostro apporto alla “rieducazione” dei ragazzi, perché
non possiamo far crescere dei ragazzi che non sanno cosa è il male, questo è
il “regalo” che la persona che sta dentro fa agli studenti. E quando il
dottor Buffa nella sua relazione parlava di tante attività organizzate più
che altro per dare “sollievo” a chi sta in carcere, vorrei dirgli che le
nostre redazioni non danno sollievo, perché se si affronta il tema del reato,
dove sta il sollievo? Io nella situazione carceraria attuale non disprezzo
neanche le attività “ricreative” che creano un po’ di sollievo, però la
cosa più interessante è arrivare a fare un lavoro che non dà sollievo, o
meglio, dà il sollievo di dire “anche della peggiore esperienza della mia
vita, quella più negativa, io posso fare qualcosa di utile”.