Atti del seminario di formazione per i giornalisti organizzato da Ristretti Orizzonti in collaborazione con l’Ordine dei Giornalisti del Veneto

REATI, PERSONE, SICUREZZA SOCIALE

Conoscere il carcere per raccontarlo

 

di Ornella Favero

 

Vorrei partire dal perché abbiamo intitolato un se­minario dedicato ai gior­nalisti “Conoscere il carcere per raccontarlo”. Noi siamo abituati a vedere due tipi di rappresen­tazioni del carcere: il carcere che io chiamo dei “santini”, Bollate, i panettoni a Padova, ma anche Ristretti Orizzonti per certi ver­si rischia di diventare un “san­tino”, nel senso che quando si vuole parlare di qualcosa di po­sitivo si va sempre a racconta­re questi aspetti che esistono, e sono importanti, ma sono nel carcere purtroppo delle realtà estremamente limitate. E poi il carcere del sovraffollamento, anche nei migliori documentari il sovraffollamento è raccontato con questi corpi ammassati, ma sono purtroppo corpi nei quali non riusciamo a “identificarci”, a immaginare che in qualche modo assomiglino a noi “perso­ne perbene”.

Vedere quelle situazioni fa scat­tare due tipi di reazioni: una, che chi è già sensibile a questi temi lo diventa di più, ha ancora la capacità di scandalizzarsi, ma tutti gli altri, quelli a cui noi vor­remmo far capire com’è davve­ro il carcere, non si identificano, cioè pensano che quella real­tà li, quella realtà di tutte quel­le persone compresse in una massa indistinta di corpi non è la loro realtà, a loro non suc­cederà mai. Il limite di questa rappresentazione, anche fatta da chi racconta il disastro del­le carceri con onestà, è esatta­mente questo: di non far scatta­re nelle persone una possibilità di identificazione, non far scat­tare l’idea che “potrebbe succe­dere anche a me…”. Noi invece raccontiamo esattamente que­sto, quanto è facile, quanto può succedere alla persona che ha una storia regolare uno “scivo­lamento”, perché noi parliamo di scivolamento in comporta­menti illegali, non è sempre una scelta il reato. Ecco perché biso­gna raccontarlo in modo diver­so, il carcere è pieno di persone che sono “scivolate” in compor­tamenti a rischio a partire da si­tuazioni di assoluta regolarità, normalità. Quindi noi fatichia­mo tantissimo perché dobbia­mo accorciare la distanza tra il carcere e la società, che inve­ce un certo tipo di informazio­ne rende incolmabile, tanto è vero che si parla spesso di “pia­neta carcere”, ma questo non è un pianeta, questo è un pezzo della società in cui potete tutti benissimo trovarvi, identificavi perché ci sono persone che arri­vano da storie come le vostre, le mie qui dentro.

Noi abbiamo molte persone che fanno lavori di pubblica utilità qui in carcere con la no­stra associazione perché han­no violato le norme del Codice della strada, basta aver bevuto un po’ più del consentito per ri­schiare il carcere, e solo se è la prima volta la pena del carcere può essere trasformata in un la­voro di pubblica utilità.

Ma che cosa mi colpisce di que­sti lavoratori che sono qui con noi a fare volontariato in car­cere per evitare di farsi la gale­ra da detenuti? Sono con noi a fare questa esperienza un foto­grafo, un ingegnere, una per­sona che gestisce un’enoteca, uno studente universitario, un maestro precario, un’impiega­ta di banca, e mi colpisce la ver­gogna e l’imbarazzo con cui si sono rivolti a noi. Quando ti ca­pita che il carcere ti sfiora, que­sto sentimento di vergogna è fortissimo, quindi vuol dire che nella nostra società non c’è nes­suna comprensione del carcere e che esserne in qualche modo sfiorati ti crea vergogna e ti co­stringe a nasconderti, immagi­narsi quando poi ti capita dav­vero nella vita, immaginarsi poi quando le famiglie sono colpi­te da un evento come la carce­razione di un proprio caro, che cosa vuol dire.

Noi abbiamo avuto ospite qui il direttore del Giornale, Ales­sandro Sallusti, a me interes­sa sottolineare due o tre cose che sono emerse, perché il caso Sallusti in qualche modo è em­blematico di una serie di com­portamenti che rappresentano tutti i luoghi comuni sul carce­re. Nei giorni in cui è stato in de­tenzione domiciliare Sallusti si è accorto della vergogna e l’umi­liazione di chi gli vive intorno, dei controlli che uno deve subi­re, delle difficoltà di un regime come la detenzione domiciliare. Noi allora gli abbiamo ricordato che la legge che rende la deten­zione domiciliare molto pesan­te, soprattutto aggravando le pene per l’evasione, è stata vo­luta dalle forze politiche che il suo giornale appoggia. Ma l’e­vasione spesso significa sempli­cemente affacciarsi su un bal­cone, andare in giardino, salire al piano superiore per andare a trovare tua madre, la deten­zione domiciliare quindi è un regime molto duro e qualsiasi violazione è punita duramen­te. Questo per dire che il caso Sallusti ci ha messo di fronte a una situazione di pene esage­rate e sempre carcerarie, volute soprattutto da una certa parte politica. Ma quello che dovreb­be venir fuori è anche che non è solo Alessandro Sallusti che non dovrebbe andare in carce­re, ci sono tantissimi reati per i quali è assurdo il carcere, c’è un detenuto magrebino che deve scontare dodici anni, e non un anno e due mesi come Sallusti, per vendite ripetute di CD con­traffatti.

Ma perché il carcere? Perché continuiamo a diffondere sui giornali e alla televisione questa idea che il carcere è l’unico tipo di pena, nel nostro Paese esiste solo il carcere come pena anche nelle teste di chi fa informazio­ne, e quindi è inevitabile che l’i­dea che se ne fanno i cittadini è che per qualsiasi reato l’unica soluzione è il carcere.

Questo per esempio abbiamo detto a Sallusti: che cominci a riflettere se è solo lui che non deve andare in carcere.

Io per finire vorrei sottolinea­re che la responsabilità di chi scrive o racconta certe realtà è enorme, perché le parole dif­fuse dai mezzi di informazione possono fare infinitamente più male della violenza fisica, e la persona che viene offesa dalla diffamazione è una persona che fa fatica a riprendersi, le paro­le sono come armi… Allora qui in carcere facciamo riflessioni continue sull’uso della violen­za, sui comportamenti aggressi­vi, sui reati che hanno al centro atti violenti, ma attenzione per­ché la violenza che c’è dentro alle parole non fa meno male. E quindi se noi condanniamo la violenza fisica, una riflessio­ne va fatta anche sulla violenza delle parole.

Alla base di questa idea che tie­ne lontano il carcere dalla socie­tà ci sono quelle parole stupide e violente del “teneteli dentro e buttate via la chiave”, e questa è presentata come la scelta pe­nale che rende sicura la società. Certo finché uno è in galera non fa danni, questo è evidente, ma dovremo pure avere uno sguar­do lungo sulla realtà, dovremo pure smetterla di fermarci alla fase della carcerazione e capire che le persone escono dal car­cere, e quindi se noi fermiamo una persona oggi e buttiamo via le chiavi facendola marcire in galera, fra un po’ quella per­sona avrà una potenzialità di cattiveria infinitamente supe­riore a quando è entrata: quale sicurezza sociale potrebbe ge­nerare allora un carcere di que­sto tipo?