Capitolo
Terzo: L’uomo del reato e quello della pena
L’autore
del reato è inchiodato dai mezzi di informazione alla sua immagine al momento
del fatto: il suo passato è ricostruito a partire dal reato, e da quel momento
anche il suo futuro sarà schiacciato sul reato e sul carcere. E invece il
reato non esaurisce la storia di una persona, così come il carcere non può
costituire l’unico orizzonte della pena.
Il
condannato infatti durante la fase dell’esecuzione deve diventare soggetto
attivo della propria sorte, in un percorso che inizia con il carcere e dovrebbe
proseguire con i permessi premio e poi le misure alternative: esattamente il
contrario di quanto emerge da un’informazione focalizzata sui luoghi comuni
del “buttare la chiave” e “lasciarli marcire in galera” in nome di una
presunta sicurezza. E invece la sicurezza non comincia e non finisce col
carcere.
Racconto
la mia storia per cercare di capire
quello che ha scardinato la mia
mente
di
Ulderico Galassini,
redazione di Ristretti Orizzonti
Io
vorrei spiegare il modo di informare e portare testimonianze che noi
abbiamo, quando incontriamo migliaia di ragazzi delle scuole. Io parto sempre un
po’ da lontano per spiegare quelli che sono stati i miei percorsi, i percorsi
di una persona che non ha mai pensato di arrivare qui dentro, una persona che è
nata in una famiglia in condizioni di grosse difficoltà di salute e
conseguentemente economiche, che comunque mi ha permesso di raggiungere vari
obiettivi, di arrivare ad avere un diploma, a trovarmi un lavoro gratificante
e a farmi una famiglia, ma purtroppo poi… è successo qualcosa.
Ai
ragazzi racconto di quando io ho conosciuto nel lontano 1972 quella che è
diventata mia moglie, lei aveva delle difficoltà, io le chiamo difficoltà,
legate a una depressione di cui soffriva già nei primi tempi che io l’ho
conosciuta, era stata seguita per questa depressione, ma sempre con l’idea
che doveva rimanere tutto nascosto all’interno della famiglia, prima con sua
mamma, poi con me. Quindi la nostra è stata una condivisione di un percorso
assieme, che poi, nonostante queste situazioni di difficoltà, ci ha
consentito comunque di vivere una vita felice, di costruirci la nostra casa,
avere un lavoro soddisfacente. Io ho anche rinunciato a una carriera più
veloce, perché volevo stare con la mia famiglia. Tanto è vero che nel mio
lavoro, quando ero vicino a casa, anche se era solo per un quarto d’ora, io
staccavo dall’ufficio in banca e me ne tornavo a casa a mangiare con la mia
famiglia, cosi vedevo mia moglie, e poi mio figlio che tornava da scuola. Una
vita dove sì, ci sono stati tanti problemi di salute, ma ci siamo anche
divertiti, abbiamo passato tanti momenti belli, quindi è impensabile che io
possa essere arrivato a una situazione così tragica che ho determinato da
solo.
Una
situazione che molto probabilmente mi è sfuggita di mano, forse per
quell’essermi convinto del fatto che io sapevo gestire un po’ tutto, che
tutto doveva avvenire nel rispetto per mia moglie, per quella che era la sua
volontà che non si parlasse della sua malattia, che i suoi farmaci non li si
doveva comprare in paese, ma fuori perché non si sapesse… E poi magari questa
situazione si è scontrata con un momento in cui io sono entrato in crisi con il
lavoro, non riuscivo a dare delle risposte ai miei clienti, e questa è una
cosa che non dipendeva tanto da me, ma che mi ha messo in difficoltà per dei
mesi. Quindi non mi sono accorto di entrare anch’io in una depressione, sono
ricorso a dei farmaci, questi farmaci li ho cominciati a usare secondo prescrizioni
mediche, ma poi queste prescrizioni mediche ho cominciato a non rispettarle e
a usare anche i medicinali che prendeva mia moglie, tanto avevano la stessa
funzione.
Nonostante
questo, ripeto, anche un mese prima che succedesse il fatto eravamo come al
solito coinvolti nei nostri tanti viaggi, la sera prima eravamo in piazza e ci
siamo divertiti come dei matti, c’era un progetto per il giorno dopo di
andare in piscina, ce lo stavamo
raccontando
mentre tornavamo a casa e lo abbiamo detto a nostro figlio, avevamo tanti
altri piani in mente, dovevamo cambiare casa nel 2010 perché sarei andato in
pensione. Quindi c’erano tanti progetti, ma quella notte i progetti si sono
interrotti.
Ai
ragazzi delle scuole non racconto la tragicità del fatto nei suoi dettagli,
ma che purtroppo mi sono trovato ad aggredire mia moglie, dopodiché ho
aggredito anche mio figlio e lo stesso ho fatto con me stesso.
Quando
mi sono risvegliato in una sala di rianimazione in ospedale ho cercato di
dire: “Ho distrutto una famiglia”, l’ho scritto su un foglio di carta
perché non potevo ancora parlare, mi hanno detto che mia moglie, portata in
un ospedale, è deceduta, e io ho causato la sua morte, mio figlio
fortunatamente stava meglio, e ha saputo non abbandonare il papà subito, molto
probabilmente ha capito che quell’attimo, quel tremendo attimo non era
quello del mostro, è successo qualcosa che anch’io ancora non ho capito.
Io
provo a darmi delle giustificazioni, non giustificazioni per giustificare
l’atto, attenzione, ma per cercare di capire perché io possa avere agito
improvvisamente in quella maniera, quando anche il pensiero di un piccolo taglio
che uno può farsi mi dà fastidio. Ho distrutto tutto quello in cui credevo,
io sono qui in carcere, ma soprattutto ho tolto a mio figlio la madre, con la
quale ho trascorso 35 anni, e non ci siamo mai permessi di offenderci, abbiamo
sempre avuto la massima condivisione di educazione e di comportamenti. E quindi
mi rimane senza risposta quel “perché?”. Allora è questa la riflessione
che io faccio, è una grossa difficoltà raccontarla ai ragazzi, perché ogni
volta che la racconto il film di quello che ho fatto mi ricompare davanti, è
troppo difficile da spiegare. Ma lo faccio, pensando che questo può dare
uno spunto ai ragazzi per capire quello che ha scardinato la mia mente, e per
ricordare se c’è un problema in casa di non tenerlo nascosto, di parlarne con
amici, con adulti di cui si fidano. E poi i farmaci, io ho usato i miei e ho
usato anche quelli di mia moglie, e questo non lo so se è una causa della
perdita di qualsiasi senso della realtà, il carcere non mi ha dato
l’opportunità di andare a scavare e trovare il perché è scattata questa
molla terribile di violenza, ma il dubbio resta, e anche la certezza della
pericolosità di questi farmaci, se usati fuori controllo.
Ora
devo affrontare la carcerazione, e per fortuna sono inserito in una redazione
che mi ha consentito di riflettere e di distogliermi da quella che poteva essere
una reclusione passata tutta all’interno di una cella. Posso solo aggiungere
che mio figlio fortunatamente sta bene, e ripeto, è venuto subito a trovarmi e
mi ha fatto conoscere la sua ragazza in carcere, e ancora chiede qualche
consiglio, quindi mi fa sentire ancora genitore. Ma comunque il rimorso dentro
di me è infinito, quello che posso raccontarvi è solo questo.
La
realtà è sempre più complessa delle
“storie di mostri”
di
Ornella Favero
La
fatica di Ulderico nel raccontare questa storia mette in luce l’importanza di
due verbi: capire e giustificare. Noi vorremmo che l’informazione uscisse da
questa logica, per cui quando si cerca di spiegare una realtà cosi complessa,
si pensa che la persona lo faccia per giustificarsi. E invece noi vogliamo che
le persone capiscano che non esistono i mostri, che la realtà è sempre più
complessa. Certo quando si parla di reati in famiglia ci sono anche storie molto
più violente, però ci sono tante vicende diverse, non facciamone un’unica
fotografia del mostro, andiamo a ragionarci dentro, a scavare… Io non credo
che sia meno interessante per la stampa raccontare una storia anche da questo
punto di vista, per capire, per andare a indagare perché è successo.
Gli
studenti che ascoltano queste testimonianze imparano proprio a vedere quanto
è complicata la realtà, imparano a capire che bisogna saper chiedere aiuto,
imparano a capire che è inutile aver vergogna della malattia se la malattia è
una depressione, e invece bisogna avere la forza di parlarne, di condividere
la sofferenza con altre persone.
Vedete
allora quanto una storia del “mostro” può essere invece uno stimolo per
capire la realtà.
Davvero
basta allevare canarini per avere un
permesso?
di
Antonio Floris,
redazione di Ristretti Orizzonti
Vorrei
partire da quella cattiva informazione che fanno certi giornalisti, quando
scrivono che: chiunque, accusato e arrestato per gravissimi reati, in poco tempo
esce fuori dal carcere, basta che finga di tenere un buon comportamento.
Articoli cosi ne sono stati scritti tanti, l’ultimo risale a una decina di
giorni fa, in questa occasione il giornalista, molto conosciuto tra l’altro,
non solo ha scritto del falso riferendosi al carcere, ma addirittura
suggerisce un manuale per uscire facilmente. Lui dice che basta allevare canarini
o fare statuette con la mollica di pane, e il magistrato di Sorveglianza,
definito “una specie di babbo Natale”, vedendolo fare cosi subito concede al
detenuto tutti i benefici possibili. Questi articoli, oltre a essere offensivi
per i magistrati, e anche per i detenuti, fanno credere all’opinione pubblica
che le cose siano veramente cosi in carcere. Ma la realtà è un’altra: il
magistrato di Sorveglianza, per dare un permesso premio a una persona, la
deve conoscere, “osservare” per anni, valutare il suo percorso in carcere,
per poi poter ritenere che la persona presumibilmente non commetterà più
reati, non scapperà, rispetterà le regole, solo allora gli darà il permesso
premio. Se il magistrato ha dei dubbi che la persona possa tornare a commettere
altri reati, permessi non ne dà, io per esempio ho preso il mio primo permesso
premio dopo 21 anni di carcere.
Un’altra
notizia non rispondente al vero che appare spesso sui giornali è quella che
dice “…è già libero”, quando per esempio una persona, nota alle
cronache, è andata in permesso premio dopo anni di carcere. Ma andare in
permesso premio non significa essere liberi, i permessi premio prima di tutto
hanno moltissime restrizioni, limiti di spazi, di orari, bisogna uscire
accompagnati o dai familiari o da qualche volontario, inoltre ci sono
prescrizioni di non frequentare pregiudicati, non fare uso di bevande
alcoliche, di libertà alla fine ne resta “in quantità molto limitata”.
Ma si può star certi che una persona, per la paura di venire chiusa dai
permessi, osserva al massimo queste prescrizioni, che quindi gli servono non
solo per imparare a rispettare le regole, ma anche a essere più responsabile.
Quando
voi giornalisti scrivete di persona uscita in permesso premio, oppure andata
in affidamento ai Servizi sociali, oppure in semilibertà, non ha senso dire
che è già libera, bisognerebbe spiegare che sta scontando una pena con altre
modalità.
Un’altra
considerazione che vorrei fare sulle pene riguarda la qualità, il senso che
dovrebbe avere una pena, le pene si distinguono in punitive e rieducative, o
almeno in parte rieducative, una pena punitiva non può essere educativa perché
una cosa io credo che escluda l’altra. Allora se la pena deve essere
punitiva va bene il discorso “buttiamo via la chiave” e la persona uscirà
a fine pena, ma uscirà sicuramente peggiore di quando è entrata, perché
scontare una pena punitiva incattivisce e basta, scontare una pena rieducativa
invece serve a riabilitare le persone.
Far
scontare una pena rieducativa significa prima di tutto usare strumenti per
rieducare, tra i quali i principali sono le misure alternative, e poi si
dovrebbe ogni tanto verificare se questa persona ha raggiunto un grado di
rieducazione tale, per non essere più considerata pericolosa. Io ho
scontato 23 anni di carcere, da un anno e mezzo circa sto uscendo in permesso
premio, ho sempre rispettato le prescrizioni, ho rispettato gli orari, mi
sento rieducato, e non credo che mi potrei rieducare più di cosi, però devo
fare altri otto anni e mezzo di carcere, in questi otto anni e mezzo che farò?
forse mi educherò più di cosi? Io credo che questo residuo pena che mi resta
da fare per me sarà solo carcerazione punitiva e basta, e come me ce ne sono
tanti altri, tantissimi che vivono situazioni analoghe.
Quando
la pena rischia di distruggere la persona, invece
che aiutarla a ricostruirsi
di
Ornella Favero
Per
noi è importante anche fare una riflessione in merito alla quantità e alla
qualità della pena. Ci sono molti sistemi che, ad un certo punto della
esecuzione della pena, rivedono la pena stessa per valutare se ha ancora un
senso. Perché quando ci sono queste quantità di pena notevoli, con questa poca
qualità, e quando una persona ha fatto un percorso, veramente vi è un
momento in cui scontare ancora anni di carcere perde di significato. Ci sono
Paesi come la Svezia che reputano addirittura che dopo 10 anni di carcere la
pena detentiva comincia non solo a non servire più, ma anche ad assumere valore
negativo nel distruggere la persona, invece che aiutarla a ricostruirsi.
Quello
che segue è un piccolo contributo concreto, che testimonia dello
“spaesamento” che prova una persona a rientrare in famiglia dopo anni di
carcere, e di quanto siano importanti momenti come i permessi premio per
riallacciare i legami e ritrovare un proprio ruolo nella società.
Siamo
degli “sconosciuti”, che devono
“ri-conoscersi”
Dopo
tanti anni passati in carcere, con mia moglie e mia figlia devo stare attento a
non fare qualcosa che possa ferirle
di
Dritanet Ibersha,
redazione di Ristretti Orizzonti
Comincio
da un po’ lontano, io faccio parte della redazione di Ristretti Orizzonti da
quasi sei anni, ma in tutti questi anni trascorsi in carcere, circa 18, non mi
era mai passato per la testa di riuscire ad andare in permesso premio, e di
poter vedere i miei famigliari fuori dal carcere. Questo perché il reato che
io ho commesso è grave, gravissimo. Sentendo l’opinione pubblica, leggendo
i giornali, ascoltando un po’ tutte le persone “libere”, convinte che in
carcere c’è l’immondizia, la spazzatura della società, pensavo che io
sono parte di quella spazzatura e che non mi avrebbero mai fatto uscire.
Nonostante
la pensassi così ho cominciato ugualmente ad aderire ad un percorso
“mio”, perché ad essere sincero l’ho principalmente iniziato più per i
miei famigliari che per me stesso. Quando sono entrato in carcere mia moglie aveva
26 anni, mia figlia poco meno di due anni, io in Italia ho girato moltissime
carceri, circa una ventina, al nord, al sud, al centro, e lo stesso in tutti
questi anni hanno fatto anche mia moglie e mia figlia, per starmi vicino quel
poco che potevano, quando potevano. Venivano a trovarmi ogni tre, quattro,
cinque mesi e questo dipendeva da tanti fattori. Nei primi anni di carcere io
mia figlia ho potuto vederla solo “a metà”, per colpa della barriera
divisoria che ci separava, a volte lei cercava di saltare dall’altra parte,
questo perché in passato i colloqui avvenivano con in mezzo tra di noi un
muretto e un vetro, e toccare i propri famigliari era proibito perché il
regolamento diceva così.
Io
racconto spesso che entravano e la piccola mi diceva “Papà mi hanno
perquisito, mi hanno tolto le scarpe, mi hanno…”. Ed io le rispondevo
scherzando che poteva darsi che le avessero tolto le scarpe per prenderle il suo
numero per regalargliene un paio di nuove, e cercavo di farle passare in
questi termini la perquisizione.
Ma
in realtà non ci conoscevamo, non mi conoscevano, parlavamo solo
superficialmente, il nostro dialogo era del tipo “Come stai tu? Voi state
bene?”, e i colloqui molto spesso si limitavano a questo. Io non sapevo
molto di loro, perché loro non mi raccontavano mai niente di quei viaggi per
venire a trovarmi anche a 1000 chilometri di distanza, delle coincidenze di
treni che di notte si fermavano e le costringevano a dormire in ricoveri di
fortuna dentro le stazioni, loro non mi raccontavano queste cose.
Ma
un giorno, non solo un giorno, un bel giorno è venuta Ornella e mi ha detto
“Guarda che forse ti hanno concesso un permesso premio, per uscire dal carcere
per partecipare ad un incontro in una scuola”, io sono rimasto di stucco,
sbalordito, non sapevo che dire, mi mancavano le parole, e poi non volevo dire
nulla anche perché in carcere c’è un’usanza consolidata, che è quella che
fino a quando non hai in mano un documento ufficiale preferisci non parlarne.
Ma in realtà non è poi che non le abbia creduto, e infatti dopo poche ore sono
stato chiamato dall’ufficio matricola, e noi detenuti di solito quando arriva
un documento da quell’ufficio, in questo caso dal magistrato di Sorveglianza,
firmiamo e guardiamo in fondo dove ci può essere scritta una delle due parole
più importanti: concede o rigetta. Nel mio caso quella volta diceva
“concede”, non ci credevo ma è arrivato, dopo diciassette anni passati
senza mettere piede fuori. Sinceramente quando io ho firmato avevo la mano che
mi tremava e tra me e me pensavo: “…non è per me. Ma come faccio? …e
cosa faccio fuori!?”, ero completamente spiazzato, spaesato.
Comunque
ho avvisato i miei famigliari, mia moglie e mia figlia, e l’11 aprile 2012
sono uscito dal carcere accompagnato dai volontari di Ristretti Orizzonti,
siamo andati in una scuola per un incontro con gli studenti. Mia moglie e mia
figlia sono partite dal Piemonte per vedermi.
Quel
giorno pioveva forte e noi con i volontari siamo andati a pranzare in un bar
vicino alla sede esterna di Ristretti, e dall’ombra del vetro ho visto mia
figlia che correva veloce, sono uscito e l’ho abbracciata in mezzo alla
strada, stava piovendo a dirotto ma io non sentivo la pioggia, il freddo,
l’umido alle ossa, quello che avrebbero potuto pensare i passanti ignari (la
gente, i passanti avrebbero potuto pensare “ma che cos’hanno questi due,
perché non si abbracciano dentro il bar, visto che piove a dirotto?”), comunque
poi siamo entrati dentro, ma io non sono riuscito a mangiare, non ho bevuto,
niente perché non ne avevo voglia, in occasioni come queste lo stomaco si
chiude. Così ho detto a mia figlia di uscire fuori dal locale, perché ho
pensato che finalmente avevo la possibilità di vederla un po’ da sola. Poi,
anche se avrei voluto parlare, non sapevo cosa dirle perché avevo dentro
quel “groppo”, la paura di poter rovinare tutto quel momento. Dico questo
perché non è semplice per me parlare con lei, che oggi è una ragazza (la mia
bambina quando l’ho lasciata), molto intelligente e sveglia e pure bella.
Poi
loro sono tornate in Piemonte, io sono rientrato in carcere, ma sinceramente
ero molto confuso, non ci ho capito niente: era veramente accaduto, era vero non
era vero…
La
vergogna per tutto quello di prezioso che avevo perduto in tutti questi anni
La
parte più emozionante è arrivata dopo, perché la notte non riuscivo più a
dormire, il sonno era completamente svanito. Passato qualche tempo il magistrato
di Sorveglianza mi ha concesso un permesso premio per andare direttamente a
casa, mi ha concesso otto giorni, una cosa bella che di più non c’è, proprio
sono rimasto senza parole, anche perché mi è stato notificato una ventina di
giorni prima della data prevista e nei giorni che precedevano l’uscita sono
diventato un po’ nervoso, rompiscatole con le persone. Ma il vero motivo era
che con la testa riandavo sempre a quando sarei andato a casa, mi chiedevo come
avrei fatto, come sarei ripiombato letteralmente nella loro vita. Perché poi
anche mia moglie all’epoca del mio arresto era una ragazza giovane, per cui
molti di questi pensieri mi vorticavano dentro, tutte queste paure, che ad un
certo punto mi sono anche chiesto se non fosse meglio che rimanessi in
carcere. Cosa vado a fare!? Se resto qui dentro in carcere non penso a niente,
sto in branda, dormo così non mi pongo tutti questi problemi! Poi però sono
andato.
Sono
uscito di domenica, era agosto, e non ero con “l’accompagnamento” di
un volontario, quindi avrei potuto andare in stazione da solo, comprare il
biglietto, e tutto il resto. Ma io non so nemmeno comprare il biglietto, e poi
chi sa montare sul treno, contare i vagoni e capire su quale avrei dovuto
salire? Ero completamente spaesato, disabituato a fare le cose che comunemente
le persone “libere” fanno, non sapevo più niente di cosa e come fare.
Inoltre era di domenica ed i volontari si riposano un po’. Però sono uscito
e ho trovato ugualmente una volontaria, si chiama Paola, e questo mi ha reso
contento, l’ho vista come se fosse uno dei miei famigliari, e lei mi ha
accompagnato (quasi preso per mano) a comperare il biglietto, e così sono
andato a casa. Questa è stata la cosa più difficile, entrare in casa, e qui mi
hanno molto aiutato gli incontri con gli studenti, perché sono tanti anni che
li incontriamo e discutiamo con loro e tra di noi, e con questo tipo di incontri
strutturati come sono, non crescono solo gli studenti che incontriamo, gli
incontri fanno faticosamente crescere anche noi detenuti che vi partecipiamo.
Così mi sono detto “No, entro piano, entro in casa in punta di piedi, entro
con estrema cautela, piano, non so come fare ma debbo fare così… debbo capire
cosa fare, riabituarmi e ritrovarmi con loro”.
Loro
comunque hanno compreso le difficoltà che stavo vivendo (più di tutti mia
figlia perché mia moglie lavorava sempre), entrambe hanno capito ed hanno
cominciato ad aiutarmi, ad aiutarmi anche troppo, perché questo mi faceva
sentire ancora di più la vergogna per tutto quello di prezioso che avevo
perduto in tutti questi anni. I sensi di colpa mi facevano spesso pensare “Ma
porca miseria, cosa ho perso! Cosa ho fatto!?”.
Mi
sono trovato anche a parlare in bagno con lo specchio, perché tutti i loro modi
per farmi sentire a mio agio mi facevano stare ancora più male, il senso di
colpa per la mia assenza in tutti questi anni si accentuava.
Mia
figlia poi mi chiamava spesso papà, ogni due minuti, e io le chiedevo di
cambiare parola…
Ma
lei continuava perché non capiva, era cresciuta senza il papà e adesso che
poteva averlo li con lei… Ecco questa cosa mi faceva stare male, perché uno
dovrebbe fare il padre per esserlo veramente, non è che padre si possa diventare
dall’oggi al domani, non è che uno esce dopo 20 anni di galera e diventa come
per magia il papà, lei adesso compie 20 anni a marzo ed io l’ho lasciata che
ne aveva due, ora è chiaramente molto cresciuta, si è diplomata. Ma questo
vale anche per mia moglie, io non la conoscevo più, di cosa avremmo dovuto
parlare? Abbiamo cominciato un po’ a cercare di conoscerci ed abbiamo
passato questi otto giorni così. Il secondo, terzo giorno addirittura mi è
passato per la testa di tornare in carcere per “riposarmi” un po…
Poi
ultimamente sono andato a casa ancora per una decina di giorni, ma è stato se
possibile più difficile, perché sinceramente le confidenze cominciano ad
essere un po’ di più, con i miei familiari. Ecco se è vero che per me quella
è la mia famiglia, per tutti questi anni passati in carcere è inevitabile
che siamo anche “sconosciuti”, dobbiamo anche ri-conoscerci, e devo stare
attento a non fare qualcosa che le possa ferire.
Per
questo la prima notte che sono tornato in carcere non sono riuscito a dormire,
perché è dura dopo un permesso a casa rientrare in galera, anche se in galera
ci sto da più di 18 anni e la conosco più di casa mia.
La
pena esemplare è
una pena illegale
L’espressione
“pena esemplare” è invece la richiesta che, talora, le forze dell’Ordine
e i prossimi congiunti delle vittime di gravissimi reati, rivolgono al Pubblico
Ministero, richiesta che mi ha sempre amareggiato e talora offeso
di
Linda Arata,
magistrato di Sorveglianza presso il Tribunale di Padova
Sono
contenta dell’invito che mi ha fatto la Redazione di Ristretti Orizzonti ad
intervenire a questo seminario. Vorrei darvi alcuni messaggi e trasmettervi la
mia esperienza di magistrato, anche se solo da un anno con le funzioni di
magistrato di Sorveglianza, avendo svolto in precedenza altre funzioni, di
Pubblico Ministero per nove anni e di giudice per altri nove anni. Innanzitutto
parto dal ruolo della stampa e riprendo il concetto già espresso dal professor
Pugiotto, relativo al valore, al dovere e alla responsabilità della stampa.
La stampa esercita giustamente, e questo è il valore e il dovere, un controllo
del potere politico e dell’attività della magistratura. Penso alla doverosa
informazione dei provvedimenti di privazione della libertà personale,
all’esito di arresti o di misure cautelari. È una notizia doverosa perché,
attraverso la stampa, in un paese democratico, si dà notizia di un
provvedimento adottato, in base alle norme, ma che comunque influisce su
diritti costituzionalmente garantiti. Questo è il dovere della stampa, cui
corrisponde il nostro diritto di cittadini di essere informati. Questo ruolo
di controllore del potere e della attività della magistratura è importantissimo,
è un dovere ma è anche una responsabilità.
Vorrei
anche riprendere un’altra osservazione che abbiamo sentito da Mauro Palma,
Vice-presidente del Consiglio Europeo per la cooperazione nell’esecuzione
penale, sul rapporto, talora problematico, tra stampa e vittime del reato. Per
parlare di questo rapporto, vorrei riferirvi di un’intervista che ho sentito
recentemente, in cui si parlava di pena “esemplare”. Da poco vi è stata la
ricorrenza della giornata contro la violenza sulle donne, una giornata di
riflessione doverosa e in occasione della quale ho avuto modo di sentire
un’intervista radiofonica a una giovane ragazza vittima di una violenza
sessuale. Il colpevole è stato individuato, è stato processato in primo grado,
mi pare con una condanna al massimo della pena, decurtata di un terzo per il
rito prescelto. Il giornalista chiedeva alla ragazza: “Ma non ritiene che nel
suo caso doveva essere comminata una pena esemplare”? e la giovane donna ha
risposto: “Mi sembra che sia stato comminato il massimo della pena, quindi sarà
la pena giusta, per me poteva stare in carcere tutta la vita, ma seguendo il suo
ragionamento in caso di un omicidio, quale sarebbe la pena giusta, la pena di
morte? Mi sembra assurdo”. Credo che la ragazza, vittima di un gravissimo
reato, abbia usato proprio la parola “assurdo” nel commentare la domanda
relativa alla “pena esemplare”. Per commentare questa espressione molto
utilizzata nella stampa, normalmente con riferimento ad una pena che abbia un
contenuto afflittivo superiore a quello correlato al fatto reato, al fine di
“dare un esempio” al reo e agli altri potenziali criminali, vorrei
riportare una definizione che ho letto in un commentario del Codice Penale
(Romano Grosso) all’art. 133 c.p., per cui la “pena esemplare è una pena
illegale”. L’art. 133 c.p. è la norma che individua i criteri in base ai
quali i giudici devono determinare la pena, è un po’ il paradigma
dell’esercizio della discrezionalità di tutto il settore penale, anche
nell’ambito della Magistratura di Sorveglianza, perché indica i criteri
fondamentali su cui si deve basare il giudizio di commisurazione della pena,
che fanno rinvio al fatto reato, alla vittima del reato e alla persona del reo,
sia quando ha commesso il reato, sia al suo vissuto antecedente e seguente
all’illecito. Quando ho letto quel commento mi ero appena laureata e mi sono
stupita di trovare una frase che io ritenevo banale, in quanto se per pena
esemplare si ritiene una pena con un quantum superiore rispetto a L’espressione
quella
che poteva essere comminata considerando i parametri di cui ho detto, mi
sembrava ovvio che fosse illegale, perché in caso contrario sarebbe una pena
comminata tenendo presenti criteri di prevenzione generale, che invece non
sono considerati dall’art. 133 c.p.. L’espressione “pena esemplare” è
invece la richiesta che, talora, le forze dell’Ordine e i prossimi congiunti
delle vittime di gravissimi reati, rivolgono al Pubblico Ministero, richiesta
che mi ha sempre amareggiato e talora offeso. Infatti il magistrato
rappresentante dell’accusa, pur nel suo ruolo di soggetto che ha la
responsabilità delle indagini, è un magistrato che deve attenersi alle norme
di legge, anche nelle richieste di pena, che deve essere equa (non giusta,
espressione che evoca altri valori), determinata ai sensi delle norme vigenti.
L’applicazione delle norme di legge, secondo la valutazione discrezionale
del Giudice, può consentire, ad esempio, che anche nei casi di gravissimi
reati, debbano essere richieste e concesse, le circostanze attenuanti generiche
con giudizio di equivalenza o di prevalenza sulle aggravanti, alla luce di
determinati comportamenti degli indagati, successivi al fatto reato, quali, ad
esempio, la collaborazione con gli investigatori o la costituzione in
giudizio, anche se detto parametro di giudizio può disattendere istanze od
aspettative provenienti dalle vittime dei reati o da una parte della società,
che, ribadisco, non sono conformi alle norme.
La
discrezionalità del giudice è un valore e non un disvalore
Voi
giornalisti lavorate con le parole e al primo messaggio, “la pena esemplare
è una pena illegale” vorrei aggiungere un altro messaggio sulla
discrezionalità del giudice. Gli interventi normativi che si sono succeduti,
riguardanti le categorie di soggetti da cui la “società” vuole difendersi
(quali, gli stranieri, gli autori di reati sessuali, i recidivi reiterati)
sono stati tutti provvedimenti che hanno imbrigliato la discrezionalità del
giudice, ne hanno vincolato la decisione, in particolare in tema di
determinazione della pena e di esecuzione della pena. Il Giudice penale è stato
privato della discrezionalità di valutazione del caso concreto ed è stato
obbligato ad applicare, per esempio, un aumento della pena, oppure ad
applicare solo talune misure alternative e non altre (penso agli aumenti di pena
previsti per i recidivi reiterati e al divieto di applicazione della misura
alternativa della detenzione domiciliare previsto per i recidivi reiterati o
per gli autori di determinati reati rientranti nell’art. 4 bis commi 1 ter e
1 quater O.P.). Questi provvedimenti sono stati visti con favore dall’opinione
pubblica e dalla stampa, che recepisce ovviamente il comune sentire, in quanto
limitare la discrezionalità del giudice è considerato un valore positivo,
perché la discrezionalità viene equiparata all’arbitrarietà. Invece la
discrezionalità è un valore e non un disvalore, perché la discrezionalità
del giudice viene esercitata secondo parametri normativi, essendo la fonte
delle decisioni del giudice la legge e non il consenso popolare. Attraverso la
discrezionalità del giudice penale, nel determinare la pena tra un minimo e un
massimo, nel decidere se comminare o meno le circostanze attenuanti generiche o
altre, nel decidere il giudizio di bilanciamento tra le circostanze attenuanti e
quelle aggravanti, si riesce a dare attuazione a importanti principi
costituzionali, quali quello della personalità della responsabilità penale e
anche della funzione rieducativa della pena, così come statuito dalla Corte Costituzionale
in numerose pronunce, cito una per tutte, la sentenza 183 del 2011. Questa
sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una parte
dell’art. 62 bis comma 2 c.p., così come emendato dalla legge Cirielli, in
materia di trattamento del recidivo reiterato. Vi racconto il caso, si trattava
di un processo con imputazione, tra l’altro, di omicidio, in relazione al
quale uno degli indagati aveva reso, fin dalle indagini preliminari,
interrogatori collaborativi e determinanti per l’individuazione dei
responsabili dei reati. In questo caso, siccome questo soggetto era un recidivo
reiterato e siccome oggetto delle imputazioni erano reati gravissimi,
attraverso un complesso di norme introdotte dalla L. Cirielli, è prevista non
solo l’applicazione obbligatoria dell’aumento di pena per la recidiva
(art. 99 c. 5 c.p.), ma anche il divieto di concedere le attenuanti generiche
motivate con la condotta successiva del reo (art. 62 bis comma 2 in relazione
all’art. 133 comma 2 c.p.). Nel caso esaminato quindi, stante le norme in
vigore, non poteva essere dato alcun rilievo alla condotta collaborativa tenuta
dall’imputato, motivo per cui è stata invece sollevata la questione di
illegittimità costituzionale, accolta dalla Corte Costituzionale con questa
motivazione. Della funzione rieducativa della pena e della persona del
colpevole, non si deve occupare solo il giudice dell’esecuzione o il
magistrato di Sorveglianza, ma se ne deve occupare in primis il
legislatore e in secondo luogo, anche il giudice nel determinare la pena,
perché è attraverso la discrezionalità del giudice e attraverso la
possibilità che gli viene data, di applicare le circostanze attenuanti
generiche, che si dà attuazione ai principi costituzionali della
responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena. Detta pronuncia
ribadisce ancora una volta, nel solco di una giurisprudenza consolidata, il valore,
positivo e non negativo, della discrezionalità del giudice penale.
Quando
il carcere è inutile
Riprendo
poi il concetto di “carcere utile e carcere inutile” evocato
nell’intervento della dott.ssa Ornella Favero, per introdurre una riflessione
sulla pena detentiva, sanzione su cui si incentra il nostro sistema penale,
rafforzata da vari provvedimenti che si sono succeduti nel corso degli ultimi
anni, ispirati alla asserita “tutela della sicurezza pubblica”, dandovi conto
di quali effetti hanno sortito le citate modifiche legislative, anche per reati
di attenuata offensività, effetti che sfuggono ai terzi non operatori del
settore. Vi propongo alcuni esempi.
Un
caso riguarda il furto pluriaggravato, per cui le norme vigenti (art. 656
comma 9 lett. a c.p.p.) impongono al Pm di emettere un ordine di carcerazione,
senza sospensione, anche per pene detentive sotto i tre anni. Premetto che la
ricorrenza di almeno due aggravanti del delitto di furto non è evenienza rara,
anzi rappresenta la normalità, vista l’ampia casistica delle aggravanti
tipiche considerata dal legislatore, tanto che la giurisprudenza talora ha
cercato interpretazioni dell’art. 625 c.p., più benigne, per ovviare alla
sproporzione della pena rispetto al disvalore del fatto concreto (per esempio
nel caso di furto in supermercato viene esclusa l’aggravante
dell’esposizione alla pubblica fede). Le norme ordinarie in tema di esecuzione
della pena detentiva, per le pene fino a tre anni, nel caso di reati ritenuti
di minore gravità nel caso di soggetti liberi, il Pubblico Ministero è
obbligato a sospendere l’ordine di carcerazione, in attesa della decisione
del Tribunale di Sorveglianza per la concessione o meno delle misure
alternative. A seguito di modifiche legislative, questa regola generale non si
applica ai casi di furto pluriaggravato, con la conseguenza che il PM ha
l’obbligo di emettere l’ordine di carcerazione, anche nel caso di condanne
per furto pluriaggravato, per pene di pochi mesi di reclusione, applicate a soggetti
che non erano stati arrestati in fragranza, per cui non avevano subito un
giudizio direttissimo e a cui non erano state applicate misure cautelari, anche
non custodiali (quali quelle del divieto di dimora o dell’obbligo di
presentazione alla polizia giudiziaria), soggetti per cui l’accesso
immediato al carcere, a mio modo di vedere, non è opportuno né “utile”.
Vi
dico un altro esempio, anche se rischio di essere un po’ banale, però è solo
dai casi concreti che si possono percepire gli effetti dell’applicazione di
talune norme. Il caso riguarda le ipotesi di violenza sessuale nei casi di
minore offensività. Nel nostro ordinamento, doverosamente, è stata riformata
la normativa in materia di reati sessuali ed è stata assorbita nella nozione
del delitto di violenza sessuale, anche la vecchia nozione degli atti di
libidine (i “toccamenti lascivi”), giustamente costituenti reato. Il
legislatore ha previsto tuttavia una differenza sanzionatoria tra i vari casi
di violenza sessuale, prevedendo per i casi di minore gravità, quelli
rientranti nella precedente nozione di atti di libidine, in buona sostanza,
l’applicazione di una pena di minore gravità. Allora il legislatore
nell’inasprire il trattamento sanzionatorio in generale previsto per queste
categorie di reati, ha inserito l’art. 609 bis c.p. nell’elenco
dell’articolo 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, con la conseguenza che,
anche nei casi di “violenza sessuale attenuata”, per cui il giudice della
cognizione ha ritenuto di comminare una pena modesta in ragione della minore
gravità del fatto, è obbligatoria la carcerazione. In questo caso il Pm ha
l’obbligo di emettere immediatamente un ordine di carcerazione spesso nei
confronti di soggetti a cui non erano state applicate misure cautelari, vista la
non gravità del fatto o a carico di persone con disturbi mentali, inquadrabili
o meno in un disturbo di personalità o comunque con dei disturbi
comportamentali o deficit intellettivi marcati, che richiederebbero altri
interventi dei Servizi preposti.
Da
ultimo vorrei parlare di un terzo caso, più delicato, che riguarda le persone
che hanno definito la loro posizione processuale a distanza di anni dal fatto,
anche oltre un decennio, a cui viene notificato un ordine di carcerazione per
una pena contenuta entro i tre anni, ma riguardante reati di una certa gravità
(quelli rientranti nell’elenco dell’art. 4 bis comma 1 ter O.P. per
intenderci, come ad esempio la rapina aggravata). Ritengo che, in taluni casi,
anche per questa categoria di soggetti l’ingresso immediato in carcere sia
inutile o sia addirittura inutile la carcerazione. Questa considerazione
comporta una riflessione sul tema dei tempi del processo penale, che sono
lunghi, per assicurare un giusto diritto di difesa, ma anche per una disfunzione
del sistema. Provate a pensare al caso di soggetti liberi, a cui non sono mai
state applicate misure cautelari, persone che nel tempo di definizione del procedimento
penale, anche se hanno compiuto gravi reati, a distanza di dieci anni dal fatto,
si sono ricostruiti una famiglia, hanno trovato un lavoro lecito, persone che
vivono con la spada di Damocle di una carcerazione che deve essere eseguita
obbligatoriamente con la possibilità di una valutazione solo successiva del
Tribunale di Sorveglianza per la concessione di misure alternative. Su questo
tema una riflessione è doverosa, soprattutto con voi giornalisti, che
normalmente vi occupate solo della prima fase del procedimento penale, quella
della commissione del reato.
Il
carcere utile e la speranza che la rieducazione sia possibile
Vi
vorrei parlare adesso invece di carcere utile. Il carcere utile, utopia o
realtà, non lo so, è quello che rieduca. Sulla realtà attuale della
situazione carceraria molto si è detto e molto già voi conoscete, però io
accolgo l’appello di Ornella Favero quando dice “cerchiamo di dare anche
una visione del carcere non come un altro pianeta, un mondo lontano, ma di
qualcosa molto vicino a noi” e, aggiungo io, vorrei trasmettere anche il messaggio
che la rieducazione, anche in un contesto assai difficile, come la realtà
carceraria, sia un obiettivo che dobbiamo perseguire. Il mio lavoro si basa su
questa speranza, che si concretizza attraverso la concessione dei benefici
penitenziari, intesi non quale strumento per ridurre la presenza dei detenuti
nelle carceri, ma quali strumenti per favorirne la rieducazione. Vorrei
soffermarmi a parlare di taluni benefici penitenziari che invece vengono
svalutati dall’opinione pubblica in nome della cosiddetta “certezza della
pena”, convinzione recepita e alimentata dalla stampa, perché c’è sempre
questa sorta di cortocircuito, tra notizie pubblicate e “comune sentire”,
cui anche altri relatori oggi accennavano.
Già
da alcuni interventi dei detenuti, alcuni messaggi sono stati dati e li
ripropongo come magistrato di Sorveglianza. I benefici penitenziari tutti non
sono un regalo, ma sono l’esito di una faticosa e quotidiana conquista dei
detenuti. Sono sottoposti a un rigoroso vaglio dei presupposti non solo di
legittimità e ammissibilità, ma anche di meritevolezza, aspetto delicatissimo
della discrezionalità del magistrato di Sorveglianza. Ai benefici accede una
parte ridotta di detenuti, in parte per loro colpa, perché secondo la
valutazione dei magistrati di Sorveglianza, non ne hanno diritto, in parte perché
non hanno avuto la possibilità di accedere a quelle offerte trattamentali che
avrebbero consentito loro di maturare come persone e in questo contesto non può
non essere considerata la drammatica realtà di vita nelle carceri, che
impedisce a molti detenuti di avere anche una minima offerta trattamentale,
circostanza che in sé esclude qualsiasi possibilità di un’effettiva
rieducazione.
Anche
parlando dei benefici penitenziari, vorrei proporre degli esempi. Sto pensando
in primo luogo alla liberazione anticipata, a questo tanto vituperato sconto di
pena previsto dall’Ordinamento Penitenziario, di 45 giorni per ogni semestre
di detenzione. Questo sconto di pena non è gratis, non è un regalo che viene
fatto a tutti, ma è un beneficio concesso solo nel caso di una provata corretta
condotta durante la detenzione e non viene concesso, ad esempio, se un detenuto
riporta un rilievo disciplinare. Spesso qualche detenuto nei colloqui mi dice:
“Dottoressa, mi creda basta un niente per avere un rapporto disciplinare,
per avere un’osservazione e perdere la liberazione anticipata”. Allora non
so se basta un niente, certo è che i rilievi disciplinari sono una realtà che
dovete conoscere, vengono elevati talora per gravissimi fatti, che a volte
minano anche la sicurezza all’interno del carcere, e non penso solo alle
risse e alle colluttazioni, ma penso anche a quegli atteggiamenti di
supremazia, che a volte assumono alcuni detenuti sugli altri, che sono
estremamente deleteri all’interno della vita in carcere. Ma basta molto meno
per riportare un rilievo disciplinare, che può essere elevato, per una condotta
certamente non corretta nei confronti degli operatori, ma attuata in un momento
di frustrazione o debolezza, in un momento di alterazione, ma del tutto isolato,
magari in anni di specchiata e regolare condotta detentiva, cosi come tra
l’altro viene anche indicato in molte relazioni comportamentali. Al
magistrato di Sorveglianza è rimessa la valutazione della rilevanza o meno
dei rilievi disciplinari, ai fini della concessione o meno della liberazione
anticipata. Ma il messaggio che vi vorrei trasmettere è questo: il valore di
questa norma non è nello sconto di pena in sé, ma nella condotta responsabile
e corretta che deve assumere il detenuto per ottenerlo. Quindi “lo sconto di
pena” valutato negativamente dall’opinione pubblica perché riduce la pena
inflitta, è in realtà uno strumento importante e positivo per stimolare il
detenuto a mantenere una corretta condotta in carcere.
L’altro
beneficio penitenziario di cui volevo parlare, che è forse l’ambito più
delicato di esercizio della discrezionalità del magistrato di Sorveglianza,
esercitata in forma monocratica, è quello dei permessi premio. Anche in relazione
a questo beneficio, alcune osservazioni che volevo proporre sono state
anticipate da alcuni detenuti. Innanzitutto ci sono alcuni pregiudizi da
sfatare, tra cui quello del rischio di evasione, poiché la percentuale di
evasione dai permessi premio quale dato nazionale, è irrisoria (un dato,
forse non aggiornato, attesta una percentuale dello 0,8%). Le sentenze per
evasione emesse riguardano infatti, nella maggior parte dei casi, indebiti
allontanamenti dal luogo di esecuzione della misura cautelare degli arresti
domiciliari o dal luogo di esecuzione della misura alternativa della
detenzione domiciliare. Secondo pregiudizio da sfatare riguarda i soggetti cui
in concreto viene concesso il beneficio. Infatti ai permessi premio accede una
categoria ristretta di detenuti e non tutti i detenuti che hanno maturato i
termini minimi per la concessione dei permesso premio. Mi preme farvi capire le
valutazioni che fa il Magistrato di Sorveglianza ai fini della decisione di un
permesso premio. Si valuta il percorso compiuto dal detenuto, non solo la
regolarità della condotta carceraria, perché questo è il requisito minimo
per ottenere in genere la liberazione anticipata, ma all’evidenza il permesso
premio è beneficio di più ampia portata. Nel caso dei premessi premio deve
essere valutato il percorso di riflessione compiuto dal detenuto sulle
conseguenze della sua condotta delittuosa, nei confronti delle vittime dei
reati, in relazione alla sua vita e a quella della sua famiglia, percorso che
alcuni detenuti fanno o raggiungono e altri no.
Per
taluni detenuti si può anche ritenere che l’esperienza del carcere sia
stata positiva e questo lo dico anche se so che metà della platea può non
gradire questa affermazione. Molte volte nel corso di colloqui, soprattutto di
giovani detenuti che hanno commesso gravissimi reati, mi sono sentita dire la
frase: “per fortuna mi hanno arrestato, altrimenti non so dove sarei potuto
arrivare”, riconoscendo al momento privativo della libertà e al percorso
di espiazione sofferto, doloroso e drammatico, lo stimolo di un cambiamento totale
della loro personalità e delle loro convinzioni. In questo cambiamento io ci
credo, ci devo credere per la funzione che svolgo, ma sono convinta di avere
appurato in numerose occasioni, una presa di distanza genuina e non fittizia e
strumentale per ottenere un benefico, da parte di alcuni detenuti,
dall’ambiente in cui vivevano al momento della commissione del reato.
Dritan
ha proposto alcune interessanti riflessioni sul significato del permesso
premio ove concesso presso il domicilio della famiglia o per coltivare gli
affetti famigliari. Le sue osservazioni sono analoghe a quelle contenute nelle
lettere che ricevo e nei colloqui che ho avuto con i detenuti dopo il primo
permesso premio. Vengono riferiti sentimenti di gioia e di ringraziamento al
magistrato che ha dato questa opportunità, ma anche sentimenti di profondo
disagio, di disorientamento e a volte anche di paura. Perché la famiglia in cui
“rientrano” le persone dopo molti anni di forzato allontanamento, è una
famiglia inevitabilmente cambiata, in cui i ruoli sono cambiati, in
particolare quello della donna, moglie o compagna è cambiato, perché la donna
è diventata la persona che ha gestito e gestisce in prima persona
l’andamento della famiglia. Spesso i detenuti usano queste parole riferite
anche, mi sembra, da Dritan: “Devo entrare piano in casa” oppure “Devo entrare
in punta di piedi”, espressioni che denotano un senso di rispetto, unito al
senso di colpa e alla vergogna, che prova la persona, rimasta lontana dalla
famiglia per sua responsabilità. Allora voi mi direte: ma noi dobbiamo anche
occuparci dei rapporti affettivi o dei rapporti famigliari di un detenuto,
di una persona che ha commesso reati? Si! Ed è un dovere, perché non è
pensabile, per me, parlare di un reinserimento del detenuto nella società, nel
lavoro, nella comunità se prima non vi è un reinserimento nella sua
famiglia.
Voglio
anche parlarvi dell’esperienza dei permessi premio per i detenuti che invece
la famiglia non l’hanno e non hanno nemmeno un domicilio, e non si tratta
solo di detenuti stranieri ma di altre persone che non hanno alcun riferimento
esterno al carcere. E per questi detenuti, a cui viene data la possibilità di
partecipare a iniziative organizzate da volontari, oppure di accedere a case
di accoglienza, il permesso premio è un’esperienza forse ancora più importante,
perché queste persone hanno una possibilità di approccio con la realtà
esterna, di una prima mediazione con la realtà esterna, a cui nemmeno pensavano
di poter arrivare prima della scarcerazione definitiva. La ratio dei permessi
premio, come delle altre misure alternative, è infatti quella di evitare che
a un certo punto, a fine pena, una persona sia scaraventata nel mondo reale,
di cui non sa nulla o sa quel poco che viene trasmesso dalla televisione. Detta
funzione dei benefici penitenziari risponde quindi anche ad un interesse
utilitaristico della società, perché preparare il detenuto alla vita fuori del
carcere, in un contesto graduale e controllato dai vari Servizi, significa
avere più sicurezza e quindi prevenire il rischio di recidiva.
L’affidamento
in prova ai Servizi sociali e la prescrizione riparatoria
Voglio
parlare brevemente dell’affidamento in prova al Servizio sociale, quella
che secondo me è la misura alternativa per eccellenza. L’affidamento al
Servizio sociale significa che negli ultimi tre anni di pena, il condannato
possa essere affidato ai Servizi sociali dell’Ufficio Esecuzione Penale
Esterna, che lo seguono nel suo percorso di reinserimento lavorativo e nella
società. Non si tratta solo di una misura che consente ai detenuti di scontare
l’ultima porzione di pena fuori dal carcere, ma si tratta di una misura, che
nell’ottica di un illuminato legislatore, ha contenuti molteplici, tra cui
quello inerente il rapporto condannato-affidato con la persona offesa dal reato
o con la società in generale. Mi vorrei soffermare infatti su una prescrizione
imposta dall’art. 47 O.P., che è quella “riparatoria”, prescrizione
misconosciuta dai più, anche dagli operatori del diritto che non approcciano
l’esecuzione penale. Tra le prescrizioni imposte dalla legge nel caso di
concessione dell’affidamento in prova vi è anche quella del risarcimento
alla persona offesa o comunque di attività riparatorie da svolgere in relazione
alla vittima del reato o di attività da svolgere a favore della collettività.
Questa, secondo me, è la prescrizione più importante dell’affidamento in
prova, che ha la funzione di ricostruire quella violazione al patto sociale
determinata dal fatto reato, di riparare la lesione cagionata alla vittima di
un reato. Attraverso questa prescrizione si possono dare significativi spunti
di riflessione alla persona che deve espiare un reato su quello che ha fatto.
Vi faccio un esempio. Come Tribunale di Sorveglianza di Venezia abbiamo concesso
l’affidamento in prova a una persona responsabile di un omicidio colposo per
sinistro stradale, si trattava di un fatto abbastanza datato in cui erano
rimaste coinvolte due persone offese. In questo caso, dato che il risarcimento
del danno era già stato effettuato, anche per l’intervento delle
assicurazioni, il Tribunale ha segnalato all’UEPE la necessità di individuare
un’attività di volontariato presso associazioni che si occupassero di
persone traumatizzate da incidenti stradali. Ritengo che in questo caso, la
prescrizione di un’attività a favore della collettività, mirata a mettere
in contatto l’affidato con le vittime di incidenti stradali, possa essere la
vera messa alla prova della persona, che dovrà essere valutata, tra gli altri
aspetti, ai fini della valutazione dell’estinzione o meno della pena.
Infatti altro aspetto che non è conosciuto dell’affidamento in prova riguarda
la non automatica estinzione della pena, decorso il periodo di durata della
sanzione comminata dal Giudice, perché il Tribunale può non ritenere positivo
l’esito dell’affidamento in prova, con la conseguenza che il condannato deve
nuovamente espiare la parte della pena relativa al periodo della prova.
Vorrei
concludere parlando delle persone vittime dei reati, soggetti con cui i
giornalisti vengono in contatto o comunque le cui vicende sono oggetto degli
scritti pubblicati, anche per collegarmi ai precedenti interventi. Dalla mia
esperienza ho constatato che le istanze delle persone offese sono talora pretese
risarcitorie, talora anche richieste di pene esemplari, ma la richiesta
principale delle vittime di reato è, anche quella di poter esternare il loro
dolore. Ricordo spesso un episodio occorso in un processo per stalking, instaurato
con rito immediato dopo l’entrata in vigore della nuova legge, nel 2009,
quindi con celebrazione diretta del dibattimento avanti al giudice
monocratico. Dopo un lungo esame testimoniale di un testimone, presunta vittima
di questo reato, esame che per me era esaustivo, invitavo le parti a cercare di
concludere, ma il testimone, con molta veemenza, mi ha detto: “Giudice, mi
lasci parlare, io DEVO parlare”, perché era la prima occasione che aveva
avuto, di dire quello che aveva provato e di comunicare tutta la sua sofferenza,
alla persona ritenuta responsabile della sua angoscia, presente in aula.
Quella frase: “Mi lasci parlare” mi è rimasta impressa e forse in essa
c’è la chiave di lettura della vera richiesta di giustizia delle vittime di
reati.
Un
punto di vista particolare
di
Marco Crimi,
avvocato del Foro di Padova
Chi
scrive queste righe è iscritto sia all'Ordine degli Avvocati, che a quello dei
Giornalisti e quando si è trovato, prima nello scorso ottobre (il 19 per la
precisione a Ca' Foscari) al convegno organizzato dai due Ordini sull'ICC
(International Criminal Court, il Tribunale per i Crimini Internazionali) e
poi lo scorso 5 dicembre nella redazione di Ristretti Orizzonti a discutere
di informazione e carcere, si è trovato in una situazione di imbarazzo, consistente
nel fatto che molte, troppe volte mentre i colleghi giornalisti scrivono vere e
proprie fandonie e gonfiano troppe notizie per ovvi motivi, allo stesso tempo
tanti, troppi colleghi avvocati avvicinano gli stessi temi del carcere con
troppa leggerezza, senza attribuire cioè alla libertà personale il giusto
valore, quello imposto anche dalla nostra Corte Costituzionale (ed è ben
triste, anche se fantastico, che a ricordarlo a tutti sia un comico come
Roberto Benigni, anziché politici, giornalisti e avvocati!). Bene, anzi ben
poco: proprio il giorno prima del convegno su carcere e informazione (e mi
sarebbe piaciuto dirlo, se il tempo lo avesse consentito) i giornalisti locali
di Padova scrivevano dell'arresto di un boss del traffico di stupefacenti,
detto “il gobbo”, e del fatto che lui avrebbe esteso le sue attività
criminali fra Piemonte, Veneto ed Emilia. Mancava la Romagna! In verità, si
trattava del povero Ben N. K., da me assistito e, in verità, soprannominato
“giovedì”, per via del fatto che tanta era la sua miseria da far pensare
che non sarebbe mai arrivato al venerdì, giorno di digiuno... Altro che
grande trafficante: ma tant'é, dalle informazioni dei quotidiani risultava
che lo stesso fosse stato condannato a Torino, Padova e Modena ed ecco, il
gioco era fatto! In effetti le condanne c'erano, ma a Torino per poco hashish, a
Modena per qualche dose di polverina e a Padova per aver insultato e
minacciato la propria convivente, altro che grosso criminale. Fra l'altro non
si trattava neppure dell'arresto, ma del suo rintraccio e del suo rimpatrio
perché privo di documenti: un misero clandestino, altro che boss!
Questo
per dare la misura di come poi l'opinione pubblica si possa facilmente
pilotare o suggestionare su temi quali la tanto sventolata “sicurezza” e/o
su quello della presunta pericolosità addebitata in automatico a certe
etnie...
Ma
c'è di più: la cosiddetta informazione, che tanto si diletta in
amplificazione iperbolica di notizie neppure degne di essere annoverate come
tali, dimentica poi di dare reale contezza dei veri argomenti urgenti e
significativi come lo stato di indegnità in cui vive chi è oggi detenuto, lo
stato di paralisi del lavoro in carcere sia per i reclusi, che per gli stessi
operatori, compresi i lavoratori della Polizia Penitenziaria che si trovano,
a fronte di decine di migliaia di detenuti, in numero assolutamente
inadeguato.
Infine
proprio lo scorso 20 dicembre, a coronamento di un anno da dimenticare, il
Magistrato di Sorveglianza di Padova ha affrontato alcune decine di reclami da
parte di reclusi, che giustamente stanno da mesi lamentando che in un istituto
come la Casa di reclusione di Padova, essendo in quasi 900 stipati in poco più
di 360 posti, lo spazio per ogni detenuto (essendo in tre in stanze pensate
come singole!) è inferiore a quello previsto da tutte le norme nazionali ed
internazionali perché la reclusione non diventi TORTURA. Così come resta
spesso senza risposte la richiesta di poter lavorare, ciò che sarebbe diritto
fondamentale per ogni cittadino e obbligo per chi sconta una pena...
Chi
ha informato su questo?