Capitolo Terzo: L’uomo del reato e quello della pena

 

L’autore del reato è inchiodato dai mezzi di informazione alla sua im­magine al momento del fatto: il suo passato è ricostruito a partire dal reato, e da quel momento anche il suo futuro sarà schiacciato sul rea­to e sul carcere. E invece il reato non esaurisce la storia di una persona, così come il carcere non può costi­tuire l’unico orizzonte della pena.

Il condannato infatti durante la fase dell’esecuzione deve diventare soggetto attivo della propria sorte, in un percorso che inizia con il carcere e dovrebbe proseguire con i permessi premio e poi le misure al­ternative: esattamente il contrario di quanto emerge da un’informa­zione focalizzata sui luoghi comu­ni del “buttare la chiave” e “lasciarli marcire in galera” in nome di una presunta sicurezza. E invece la si­curezza non comincia e non finisce col carcere.

 

 

 

 

Racconto la mia storia  per cercare di capire quello  che ha scardinato la mia mente

 

di Ulderico Galassini, redazione di Ristretti Orizzonti

 

Io vorrei spiegare il modo di in­formare e portare testimonian­ze che noi abbiamo, quando incontriamo migliaia di ragazzi delle scuole. Io parto sempre un po’ da lontano per spiegare quelli che sono stati i miei percorsi, i percor­si di una persona che non ha mai pensato di arrivare qui dentro, una persona che è nata in una famiglia in condizioni di grosse difficol­tà di salute e conseguentemente economiche, che comunque mi ha permesso di raggiungere vari obiettivi, di arrivare ad avere un diploma, a trovarmi un lavoro gra­tificante e a farmi una famiglia, ma purtroppo poi… è successo qual­cosa.

Ai ragazzi racconto di quando io ho conosciuto nel lontano 1972 quel­la che è diventata mia moglie, lei aveva delle difficoltà, io le chiamo difficoltà, legate a una depressio­ne di cui soffriva già nei primi tem­pi che io l’ho conosciuta, era sta­ta seguita per questa depressione, ma sempre con l’idea che doveva rimanere tutto nascosto all’inter­no della famiglia, prima con sua mamma, poi con me. Quindi la no­stra è stata una condivisione di un percorso assieme, che poi, nono­stante queste situazioni di difficol­tà, ci ha consentito comunque di vivere una vita felice, di costruirci la nostra casa, avere un lavoro sod­disfacente. Io ho anche rinunciato a una carriera più veloce, perché volevo stare con la mia famiglia. Tanto è vero che nel mio lavoro, quando ero vicino a casa, anche se era solo per un quarto d’ora, io staccavo dall’ufficio in banca e me ne tornavo a casa a mangiare con la mia famiglia, cosi vedevo mia moglie, e poi mio figlio che tor­nava da scuola. Una vita dove sì, ci sono stati tanti problemi di sa­lute, ma ci siamo anche divertiti, abbiamo passato tanti momenti belli, quindi è impensabile che io possa essere arrivato a una situa­zione così tragica che ho determi­nato da solo.

Una situazione che molto proba­bilmente mi è sfuggita di mano, forse per quell’essermi convinto del fatto che io sapevo gestire un po’ tutto, che tutto doveva avve­nire nel rispetto per mia moglie, per quella che era la sua volontà che non si parlasse della sua ma­lattia, che i suoi farmaci non li si doveva comprare in paese, ma fuori perché non si sapesse… E poi magari questa situazione si è scontrata con un momento in cui io sono entrato in crisi con il lavo­ro, non riuscivo a dare delle rispo­ste ai miei clienti, e questa è una cosa che non dipendeva tanto da me, ma che mi ha messo in diffi­coltà per dei mesi. Quindi non mi sono accorto di entrare anch’io in una depressione, sono ricorso a dei farmaci, questi farmaci li ho cominciati a usare secondo pre­scrizioni mediche, ma poi queste prescrizioni mediche ho comincia­to a non rispettarle e a usare an­che i medicinali che prendeva mia moglie, tanto avevano la stessa funzione.

Nonostante questo, ripeto, anche un mese prima che succedesse il fatto eravamo come al solito coin­volti nei nostri tanti viaggi, la sera prima eravamo in piazza e ci sia­mo divertiti come dei matti, c’era un progetto per il giorno dopo di andare in piscina, ce lo stavamo

raccontando mentre tornavamo a casa e lo abbiamo detto a no­stro figlio, avevamo tanti altri pia­ni in mente, dovevamo cambiare casa nel 2010 perché sarei andato in pensione. Quindi c’erano tanti progetti, ma quella notte i proget­ti si sono interrotti.

Ai ragazzi delle scuole non raccon­to la tragicità del fatto nei suoi det­tagli, ma che purtroppo mi sono trovato ad aggredire mia moglie, dopodiché ho aggredito anche mio figlio e lo stesso ho fatto con me stesso.

Quando mi sono risvegliato in una sala di rianimazione in ospeda­le ho cercato di dire: “Ho distrut­to una famiglia”, l’ho scritto su un foglio di carta perché non pote­vo ancora parlare, mi hanno det­to che mia moglie, portata in un ospedale, è deceduta, e io ho cau­sato la sua morte, mio figlio fortunatamente stava meglio, e ha saputo non abbandonare il papà subito, molto probabilmente ha capito che quell’attimo, quel tre­mendo attimo non era quello del mostro, è successo qualcosa che anch’io ancora non ho capito.

Io provo a darmi delle giustifica­zioni, non giustificazioni per giu­stificare l’atto, attenzione, ma per cercare di capire perché io possa avere agito improvvisamente in quella maniera, quando anche il pensiero di un piccolo taglio che uno può farsi mi dà fastidio. Ho di­strutto tutto quello in cui credevo, io sono qui in carcere, ma soprat­tutto ho tolto a mio figlio la madre, con la quale ho trascorso 35 anni, e non ci siamo mai permessi di of­fenderci, abbiamo sempre avuto la massima condivisione di educa­zione e di comportamenti. E quin­di mi rimane senza risposta quel “perché?”. Allora è questa la rifles­sione che io faccio, è una grossa difficoltà raccontarla ai ragazzi, perché ogni volta che la racconto il film di quello che ho fatto mi ri­compare davanti, è troppo diffici­le da spiegare. Ma lo faccio, pen­sando che questo può dare uno spunto ai ragazzi per capire quel­lo che ha scardinato la mia mente, e per ricordare se c’è un problema in casa di non tenerlo nascosto, di parlarne con amici, con adulti di cui si fidano. E poi i farmaci, io ho usato i miei e ho usato anche quel­li di mia moglie, e questo non lo so se è una causa della perdita di qualsiasi senso della realtà, il car­cere non mi ha dato l’opportunità di andare a scavare e trovare il per­ché è scattata questa molla terribi­le di violenza, ma il dubbio resta, e anche la certezza della pericolosi­tà di questi farmaci, se usati fuori controllo.

Ora devo affrontare la carcerazio­ne, e per fortuna sono inserito in una redazione che mi ha consentito di riflettere e di distogliermi da quella che poteva essere una re­clusione passata tutta all’interno di una cella. Posso solo aggiunge­re che mio figlio fortunatamente sta bene, e ripeto, è venuto subito a trovarmi e mi ha fatto conoscere la sua ragazza in carcere, e ancora chiede qualche consiglio, quindi mi fa sentire ancora genitore. Ma comunque il rimorso dentro di me è infinito, quello che posso raccontarvi è solo questo.

 

 

 

 

La realtà è sempre più complessa  delle “storie di mostri”

 

di Ornella Favero

 

La fatica di Ulderico nel raccontare questa storia mette in luce l’importanza di due verbi: capire e giustificare. Noi vorremmo che l’informazione uscis­se da questa logica, per cui quando si cerca di spie­gare una realtà cosi complessa, si pensa che la per­sona lo faccia per giustificarsi. E invece noi vogliamo che le persone capiscano che non esistono i mostri, che la realtà è sempre più complessa. Certo quando si parla di reati in famiglia ci sono anche storie molto più violente, però ci sono tante vicende diverse, non facciamone un’unica fotografia del mostro, andiamo a ragionarci dentro, a scavare… Io non credo che sia meno interessante per la stampa raccontare una sto­ria anche da questo punto di vista, per capire, per andare a indagare perché è successo.

Gli studenti che ascoltano queste testimonianze im­parano proprio a vedere quanto è complicata la re­altà, imparano a capire che bisogna saper chiedere aiuto, imparano a capire che è inutile aver vergogna della malattia se la malattia è una depressione, e in­vece bisogna avere la forza di parlarne, di condivide­re la sofferenza con altre persone.

Vedete allora quanto una storia del “mostro” può es­sere invece uno stimolo per capire la realtà.

 

 

 

 

Davvero basta allevare canarini  per avere un permesso?

 

di Antonio Floris, redazione di Ristretti Orizzonti

 

Vorrei partire da quella cat­tiva informazione che fan­no certi giornalisti, quando scrivono che: chiunque, accusato e arrestato per gravissimi reati, in poco tempo esce fuori dal carcere, basta che finga di tenere un buon comportamento. Articoli cosi ne sono stati scritti tanti, l’ultimo risa­le a una decina di giorni fa, in que­sta occasione il giornalista, molto conosciuto tra l’altro, non solo ha scritto del falso riferendosi al car­cere, ma addirittura suggerisce un manuale per uscire facilmente. Lui dice che basta allevare canari­ni o fare statuette con la mollica di pane, e il magistrato di Sorveglian­za, definito “una specie di babbo Natale”, vedendolo fare cosi subito concede al detenuto tutti i bene­fici possibili. Questi articoli, oltre a essere offensivi per i magistrati, e anche per i detenuti, fanno credere all’opinione pubblica che le cose siano veramente cosi in car­cere. Ma la realtà è un’altra: il ma­gistrato di Sorveglianza, per dare un permesso premio a una perso­na, la deve conoscere, “osservare” per anni, valutare il suo percorso in carcere, per poi poter ritenere che la persona presumibilmen­te non commetterà più reati, non scapperà, rispetterà le regole, solo allora gli darà il permesso premio. Se il magistrato ha dei dubbi che la persona possa tornare a com­mettere altri reati, permessi non ne dà, io per esempio ho preso il mio primo permesso premio dopo 21 anni di carcere.

Un’altra notizia non rispondente al vero che appare spesso sui gior­nali è quella che dice “…è già libe­ro”, quando per esempio una per­sona, nota alle cronache, è andata in permesso premio dopo anni di carcere. Ma andare in permesso premio non significa essere liberi, i permessi premio prima di tutto hanno moltissime restrizioni, limi­ti di spazi, di orari, bisogna usci­re accompagnati o dai familiari o da qualche volontario, inoltre ci sono prescrizioni di non frequen­tare pregiudicati, non fare uso di bevande alcoliche, di libertà alla fine ne resta “in quantità molto li­mitata”. Ma si può star certi che una persona, per la paura di veni­re chiusa dai permessi, osserva al massimo queste prescrizioni, che quindi gli servono non solo per imparare a rispettare le regole, ma anche a essere più responsabile.

Quando voi giornalisti scrivete di persona uscita in permesso pre­mio, oppure andata in affidamen­to ai Servizi sociali, oppure in se­milibertà, non ha senso dire che è già libera, bisognerebbe spiegare che sta scontando una pena con altre modalità.

Un’altra considerazione che vorrei fare sulle pene riguarda la qualità, il senso che dovrebbe avere una pena, le pene si distinguono in punitive e rieducative, o almeno in parte rieducative, una pena puni­tiva non può essere educativa per­ché una cosa io credo che escluda l’altra. Allora se la pena deve es­sere punitiva va bene il discorso “buttiamo via la chiave” e la perso­na uscirà a fine pena, ma uscirà si­curamente peggiore di quando è entrata, perché scontare una pena punitiva incattivisce e basta, scon­tare una pena rieducativa invece serve a riabilitare le persone.

Far scontare una pena rieducati­va significa prima di tutto usare strumenti per rieducare, tra i qua­li i principali sono le misure alter­native, e poi si dovrebbe ogni tan­to verificare se questa persona ha raggiunto un grado di rieducazio­ne tale, per non essere più consi­derata pericolosa. Io ho scontato 23 anni di carcere, da un anno e mezzo circa sto uscendo in per­messo premio, ho sempre rispet­tato le prescrizioni, ho rispettato gli orari, mi sento rieducato, e non credo che mi potrei rieducare più di cosi, però devo fare altri otto anni e mezzo di carcere, in questi otto anni e mezzo che farò? forse mi educherò più di cosi? Io credo che questo residuo pena che mi resta da fare per me sarà solo carcerazione punitiva e basta, e come me ce ne sono tanti altri, tantissimi che vivono situazioni analoghe.

 

 

 

 

Quando la pena rischia di distruggere la persona,  invece che aiutarla a ricostruirsi

 

di Ornella Favero

 

Per noi è importante anche fare una riflessione in meri­to alla quantità e alla quali­tà della pena. Ci sono molti siste­mi che, ad un certo punto della esecuzione della pena, rivedono la pena stessa per valutare se ha ancora un senso. Perché quando ci sono queste quantità di pena notevoli, con questa poca quali­tà, e quando una persona ha fat­to un percorso, veramente vi è un momento in cui scontare ancora anni di carcere perde di signifi­cato. Ci sono Paesi come la Sve­zia che reputano addirittura che dopo 10 anni di carcere la pena detentiva comincia non solo a non servire più, ma anche ad assumere valore negativo nel di­struggere la persona, invece che aiutarla a ricostruirsi.

Quello che segue è un piccolo contributo concreto, che testi­monia dello “spaesamento” che prova una persona a rientrare in famiglia dopo anni di carcere, e di quanto siano importanti mo­menti come i permessi premio per riallacciare i legami e ritrova­re un proprio ruolo nella socie­tà.

 

 

 

Siamo degli “sconosciuti”,  che devono “ri-conoscersi”

Dopo tanti anni passati in carcere, con mia moglie e mia figlia devo stare attento a non fare qualcosa che possa ferirle

 

di Dritanet Ibersha, redazione di Ristretti Orizzonti

 

Comincio da un po’ lontano, io faccio parte della redazio­ne di Ristretti Orizzonti da quasi sei anni, ma in tutti questi anni trascorsi in carcere, circa 18, non mi era mai passato per la testa di riuscire ad andare in permesso premio, e di poter vedere i miei fa­migliari fuori dal carcere. Questo perché il reato che io ho commes­so è grave, gravissimo. Sentendo l’opinione pubblica, leggendo i giornali, ascoltando un po’ tutte le persone “libere”, convinte che in carcere c’è l’immondizia, la spazza­tura della società, pensavo che io sono parte di quella spazzatura e che non mi avrebbero mai fatto uscire.

Nonostante la pensassi così ho co­minciato ugualmente ad aderire ad un percorso “mio”, perché ad essere sincero l’ho principalmen­te iniziato più per i miei famigliari che per me stesso. Quando sono entrato in carcere mia moglie ave­va 26 anni, mia figlia poco meno di due anni, io in Italia ho girato mol­tissime carceri, circa una ventina, al nord, al sud, al centro, e lo stes­so in tutti questi anni hanno fatto anche mia moglie e mia figlia, per starmi vicino quel poco che po­tevano, quando potevano. Veni­vano a trovarmi ogni tre, quattro, cinque mesi e questo dipendeva da tanti fattori. Nei primi anni di carcere io mia figlia ho potuto ve­derla solo “a metà”, per colpa della barriera divisoria che ci separava, a volte lei cercava di saltare dall’al­tra parte, questo perché in pas­sato i colloqui avvenivano con in mezzo tra di noi un muretto e un vetro, e toccare i propri famigliari era proibito perché il regolamento diceva così.

Io racconto spesso che entrava­no e la piccola mi diceva “Papà mi hanno perquisito, mi hanno tolto le scarpe, mi hanno…”. Ed io le rispondevo scherzando che poteva darsi che le avessero tolto le scarpe per prenderle il suo nu­mero per regalargliene un paio di nuove, e cercavo di farle passare in questi termini la perquisizione.

Ma in realtà non ci conoscevamo, non mi conoscevano, parlavamo solo superficialmente, il nostro dialogo era del tipo “Come stai tu? Voi state bene?”, e i colloqui mol­to spesso si limitavano a questo. Io non sapevo molto di loro, per­ché loro non mi raccontavano mai niente di quei viaggi per venire a trovarmi anche a 1000 chilometri di distanza, delle coincidenze di treni che di notte si fermavano e le costringevano a dormire in ricove­ri di fortuna dentro le stazioni, loro non mi raccontavano queste cose.

Ma un giorno, non solo un gior­no, un bel giorno è venuta Ornella e mi ha detto “Guarda che forse ti hanno concesso un permesso premio, per uscire dal carcere per partecipare ad un incontro in una scuola”, io sono rimasto di stucco, sbalordito, non sapevo che dire, mi mancavano le parole, e poi non volevo dire nulla anche perché in carcere c’è un’usanza consolidata, che è quella che fino a quando non hai in mano un documento uffi­ciale preferisci non parlarne. Ma in realtà non è poi che non le abbia creduto, e infatti dopo poche ore sono stato chiamato dall’ufficio matricola, e noi detenuti di solito quando arriva un documento da quell’ufficio, in questo caso dal magistrato di Sorveglianza, firmia­mo e guardiamo in fondo dove ci può essere scritta una delle due parole più importanti: concede o rigetta. Nel mio caso quella volta diceva “concede”, non ci credevo ma è arrivato, dopo diciassette anni passati senza mettere piede fuori. Sinceramente quando io ho firmato avevo la mano che mi tre­mava e tra me e me pensavo: “…non è per me. Ma come faccio? …e cosa faccio fuori!?”, ero com­pletamente spiazzato, spaesato.

Comunque ho avvisato i miei fami­gliari, mia moglie e mia figlia, e l’11 aprile 2012 sono uscito dal carce­re accompagnato dai volontari di Ristretti Orizzonti, siamo andati in una scuola per un incontro con gli studenti. Mia moglie e mia figlia sono partite dal Piemonte per ve­dermi.

Quel giorno pioveva forte e noi con i volontari siamo andati a pranzare in un bar vicino alla sede esterna di Ristretti, e dall’ombra del vetro ho visto mia figlia che correva ve­loce, sono uscito e l’ho abbraccia­ta in mezzo alla strada, stava pio­vendo a dirotto ma io non sentivo la pioggia, il freddo, l’umido alle ossa, quello che avrebbero potuto pensare i passanti ignari (la gente, i passanti avrebbero potuto pensa­re “ma che cos’hanno questi due, perché non si abbracciano dentro il bar, visto che piove a dirotto?”), co­munque poi siamo entrati dentro, ma io non sono riuscito a mangia­re, non ho bevuto, niente perché non ne avevo voglia, in occasioni come queste lo stomaco si chiude. Così ho detto a mia figlia di uscire fuori dal locale, perché ho pensato che finalmente avevo la possibilità di vederla un po’ da sola. Poi, an­che se avrei voluto parlare, non sa­pevo cosa dirle perché avevo den­tro quel “groppo”, la paura di poter rovinare tutto quel momento. Dico questo perché non è semplice per me parlare con lei, che oggi è una ragazza (la mia bambina quando l’ho lasciata), molto intelligente e sveglia e pure bella.

Poi loro sono tornate in Piemonte, io sono rientrato in carcere, ma sin­ceramente ero molto confuso, non ci ho capito niente: era veramente accaduto, era vero non era vero…

 

La vergogna per tutto quello di prezioso che avevo perduto in tutti questi anni

 

La parte più emozionante è arriva­ta dopo, perché la notte non riuscivo più a dormire, il sonno era completamente svanito. Passato qualche tempo il magistrato di Sorveglianza mi ha concesso un permesso premio per andare di­rettamente a casa, mi ha concesso otto giorni, una cosa bella che di più non c’è, proprio sono rimasto senza parole, anche perché mi è stato notificato una ventina di giorni prima della data prevista e nei giorni che precedevano l’usci­ta sono diventato un po’ nervoso, rompiscatole con le persone. Ma il vero motivo era che con la testa riandavo sempre a quando sarei andato a casa, mi chiedevo come avrei fatto, come sarei ripiombato letteralmente nella loro vita. Per­ché poi anche mia moglie all’epo­ca del mio arresto era una ragazza giovane, per cui molti di questi pensieri mi vorticavano dentro, tutte queste paure, che ad un cer­to punto mi sono anche chiesto se non fosse meglio che rimanessi in carcere. Cosa vado a fare!? Se resto qui dentro in carcere non penso a niente, sto in branda, dormo così non mi pongo tutti questi proble­mi! Poi però sono andato.

Sono uscito di domenica, era ago­sto, e non ero con “l’accompagna­mento” di un volontario, quindi avrei potuto andare in stazione da solo, comprare il biglietto, e tutto il resto. Ma io non so nemmeno comprare il biglietto, e poi chi sa montare sul treno, contare i vago­ni e capire su quale avrei dovuto salire? Ero completamente spae­sato, disabituato a fare le cose che comunemente le persone “libere” fanno, non sapevo più niente di cosa e come fare. Inoltre era di do­menica ed i volontari si riposano un po’. Però sono uscito e ho trova­to ugualmente una volontaria, si chiama Paola, e questo mi ha reso contento, l’ho vista come se fosse uno dei miei famigliari, e lei mi ha accompagnato (quasi preso per mano) a comperare il biglietto, e così sono andato a casa. Questa è stata la cosa più difficile, entrare in casa, e qui mi hanno molto aiutato gli incontri con gli studenti, perché sono tanti anni che li incontriamo e discutiamo con loro e tra di noi, e con questo tipo di incontri strut­turati come sono, non crescono solo gli studenti che incontriamo, gli incontri fanno faticosamente crescere anche noi detenuti che vi partecipiamo. Così mi sono detto “No, entro piano, entro in casa in punta di piedi, entro con estrema cautela, piano, non so come fare ma debbo fare così… debbo capi­re cosa fare, riabituarmi e ritrovar­mi con loro”.

Loro comunque hanno compreso le difficoltà che stavo vivendo (più di tutti mia figlia perché mia mo­glie lavorava sempre), entrambe hanno capito ed hanno comincia­to ad aiutarmi, ad aiutarmi anche troppo, perché questo mi faceva sentire ancora di più la vergogna per tutto quello di prezioso che avevo perduto in tutti questi anni. I sensi di colpa mi facevano spesso pensare “Ma porca miseria, cosa ho perso! Cosa ho fatto!?”.

Mi sono trovato anche a parlare in bagno con lo specchio, perché tutti i loro modi per farmi sentire a mio agio mi facevano stare ancora più male, il senso di colpa per la mia assenza in tutti questi anni si accentuava.

Mia figlia poi mi chiamava spesso papà, ogni due minuti, e io le chie­devo di cambiare parola…

Ma lei continuava perché non ca­piva, era cresciuta senza il papà e adesso che poteva averlo li con lei… Ecco questa cosa mi faceva stare male, perché uno dovrebbe fare il padre per esserlo veramente, non è che padre si possa diven­tare dall’oggi al domani, non è che uno esce dopo 20 anni di galera e diventa come per magia il papà, lei adesso compie 20 anni a marzo ed io l’ho lasciata che ne aveva due, ora è chiaramente molto cresciu­ta, si è diplomata. Ma questo vale anche per mia moglie, io non la conoscevo più, di cosa avremmo dovuto parlare? Abbiamo comin­ciato un po’ a cercare di conoscerci ed abbiamo passato questi otto giorni così. Il secondo, terzo gior­no addirittura mi è passato per la testa di tornare in carcere per “ri­posarmi” un po…

Poi ultimamente sono andato a casa ancora per una decina di giorni, ma è stato se possibile più difficile, perché sinceramente le confidenze cominciano ad essere un po’ di più, con i miei familiari. Ecco se è vero che per me quella è la mia famiglia, per tutti questi anni passati in carcere è inevitabi­le che siamo anche “sconosciuti”, dobbiamo anche ri-conoscerci, e devo stare attento a non fare qual­cosa che le possa ferire.

Per questo la prima notte che sono tornato in carcere non sono riuscito a dormire, perché è dura dopo un permesso a casa rientrare in galera, anche se in galera ci sto da più di 18 anni e la conosco più di casa mia.

 

 

 

 

La pena esemplare  è una pena illegale

L’espressione “pena esemplare” è invece la richiesta che, talora, le forze dell’Ordine e i prossimi congiunti delle vittime di gravissimi reati, rivolgono al Pubblico Ministero, richiesta che mi ha sempre amareggiato e talora offeso

 

di Linda Arata, magistrato di Sorveglianza presso il Tribunale di Padova

 

Sono contenta dell’invito che mi ha fatto la Redazione di Ri­stretti Orizzonti ad interveni­re a questo seminario. Vorrei darvi alcuni messaggi e trasmettervi la mia esperienza di magistrato, anche se solo da un anno con le funzioni di magistrato di Sorve­glianza, avendo svolto in prece­denza altre funzioni, di Pubblico Ministero per nove anni e di giudi­ce per altri nove anni. Innanzitut­to parto dal ruolo della stampa e riprendo il concetto già espresso dal professor Pugiotto, relativo al valore, al dovere e alla respon­sabilità della stampa. La stampa esercita giustamente, e questo è il valore e il dovere, un controllo del potere politico e dell’attività della magistratura. Penso alla doverosa informazione dei provvedimenti di privazione della libertà perso­nale, all’esito di arresti o di misure cautelari. È una notizia doverosa perché, attraverso la stampa, in un paese democratico, si dà notizia di un provvedimento adottato, in base alle norme, ma che comun­que influisce su diritti costituzionalmente garantiti. Questo è il do­vere della stampa, cui corrisponde il nostro diritto di cittadini di esse­re informati. Questo ruolo di con­trollore del potere e della attività della magistratura è importantis­simo, è un dovere ma è anche una responsabilità.

Vorrei anche riprendere un’altra osservazione che abbiamo sentito da Mauro Palma, Vice-presidente del Consiglio Europeo per la coo­perazione nell’esecuzione penale, sul rapporto, talora problematico, tra stampa e vittime del reato. Per parlare di questo rapporto, vorrei riferirvi di un’intervista che ho sen­tito recentemente, in cui si parlava di pena “esemplare”. Da poco vi è stata la ricorrenza della giornata contro la violenza sulle donne, una giornata di riflessione doverosa e in occasione della quale ho avuto modo di sentire un’intervista ra­diofonica a una giovane ragazza vittima di una violenza sessuale. Il colpevole è stato individuato, è stato processato in primo grado, mi pare con una condanna al mas­simo della pena, decurtata di un terzo per il rito prescelto. Il giornalista chiedeva alla ragazza: “Ma non ritiene che nel suo caso do­veva essere comminata una pena esemplare”? e la giovane donna ha risposto: “Mi sembra che sia stato comminato il massimo della pena, quindi sarà la pena giusta, per me poteva stare in carcere tutta la vita, ma seguendo il suo ragionamento in caso di un omicidio, quale sa­rebbe la pena giusta, la pena di morte? Mi sembra assurdo”. Credo che la ragazza, vittima di un gra­vissimo reato, abbia usato proprio la parola “assurdo” nel commenta­re la domanda relativa alla “pena esemplare”. Per commentare que­sta espressione molto utilizzata nella stampa, normalmente con riferimento ad una pena che abbia un contenuto afflittivo superiore a quello correlato al fatto reato, al fine di “dare un esempio” al reo e agli altri potenziali criminali, vor­rei riportare una definizione che ho letto in un commentario del Codice Penale (Romano Grosso) all’art. 133 c.p., per cui la “pena esemplare è una pena illegale”. L’art. 133 c.p. è la norma che indi­vidua i criteri in base ai quali i giu­dici devono determinare la pena, è un po’ il paradigma dell’eserci­zio della discrezionalità di tutto il settore penale, anche nell’ambito della Magistratura di Sorveglianza, perché indica i criteri fondamenta­li su cui si deve basare il giudizio di commisurazione della pena, che fanno rinvio al fatto reato, alla vittima del reato e alla persona del reo, sia quando ha commesso il reato, sia al suo vissuto antece­dente e seguente all’illecito. Quan­do ho letto quel commento mi ero appena laureata e mi sono stupita di trovare una frase che io ritene­vo banale, in quanto se per pena esemplare si ritiene una pena con un quantum superiore rispetto a L’espressione

quella che poteva essere commi­nata considerando i parametri di cui ho detto, mi sembrava ovvio che fosse illegale, perché in caso contrario sarebbe una pena com­minata tenendo presenti criteri di prevenzione generale, che invece non sono considerati dall’art. 133 c.p.. L’espressione “pena esempla­re” è invece la richiesta che, talo­ra, le forze dell’Ordine e i prossimi congiunti delle vittime di gravis­simi reati, rivolgono al Pubblico Ministero, richiesta che mi ha sem­pre amareggiato e talora offeso. Infatti il magistrato rappresentan­te dell’accusa, pur nel suo ruolo di soggetto che ha la responsabilità delle indagini, è un magistrato che deve attenersi alle norme di leg­ge, anche nelle richieste di pena, che deve essere equa (non giusta, espressione che evoca altri valori), determinata ai sensi delle norme vigenti. L’applicazione delle nor­me di legge, secondo la valutazio­ne discrezionale del Giudice, può consentire, ad esempio, che anche nei casi di gravissimi reati, debbano essere richieste e concesse, le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza o di prevalenza sulle aggravanti, alla luce di determinati comporta­menti degli indagati, successivi al fatto reato, quali, ad esempio, la collaborazione con gli investiga­tori o la costituzione in giudizio, anche se detto parametro di giu­dizio può disattendere istanze od aspettative provenienti dalle vittime dei reati o da una parte della società, che, ribadisco, non sono conformi alle norme.

 

La discrezionalità del giudice è un valore e non un disvalore

 

Voi giornalisti lavorate con le paro­le e al primo messaggio, “la pena esemplare è una pena illegale” vorrei aggiungere un altro mes­saggio sulla discrezionalità del giudice. Gli interventi normativi che si sono succeduti, riguardanti le categorie di soggetti da cui la “società” vuole difendersi (quali, gli stranieri, gli autori di reati ses­suali, i recidivi reiterati) sono stati tutti provvedimenti che hanno imbrigliato la discrezionalità del giudice, ne hanno vincolato la decisione, in particolare in tema di determinazione della pena e di esecuzione della pena. Il Giudice penale è stato privato della discrezionalità di valutazione del caso concreto ed è stato obbligato ad applicare, per esempio, un aumen­to della pena, oppure ad applicare solo talune misure alternative e non altre (penso agli aumenti di pena previsti per i recidivi reiterati e al divieto di applicazione della misura alternativa della detenzio­ne domiciliare previsto per i reci­divi reiterati o per gli autori di de­terminati reati rientranti nell’art. 4 bis commi 1 ter e 1 quater O.P.). Questi provvedimenti sono stati visti con favore dall’opinione pub­blica e dalla stampa, che recepisce ovviamente il comune sentire, in quanto limitare la discrezionalità del giudice è considerato un va­lore positivo, perché la discrezio­nalità viene equiparata all’arbitra­rietà. Invece la discrezionalità è un valore e non un disvalore, perché la discrezionalità del giudice vie­ne esercitata secondo parametri normativi, essendo la fonte delle decisioni del giudice la legge e non il consenso popolare. Attra­verso la discrezionalità del giudice penale, nel determinare la pena tra un minimo e un massimo, nel decidere se comminare o meno le circostanze attenuanti generiche o altre, nel decidere il giudizio di bilanciamento tra le circostanze attenuanti e quelle aggravanti, si riesce a dare attuazione a impor­tanti principi costituzionali, quali quello della personalità della re­sponsabilità penale e anche della funzione rieducativa della pena, così come statuito dalla Corte Co­stituzionale in numerose pronun­ce, cito una per tutte, la sentenza 183 del 2011. Questa sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzio­nale di una parte dell’art. 62 bis comma 2 c.p., così come emenda­to dalla legge Cirielli, in materia di trattamento del recidivo reiterato. Vi racconto il caso, si trattava di un processo con imputazione, tra l’altro, di omicidio, in relazione al quale uno degli indagati aveva reso, fin dalle indagini preliminari, interrogatori collaborativi e deter­minanti per l’individuazione dei responsabili dei reati. In questo caso, siccome questo soggetto era un recidivo reiterato e sicco­me oggetto delle imputazioni erano reati gravissimi, attraverso un complesso di norme introdot­te dalla L. Cirielli, è prevista non solo l’applicazione obbligatoria dell’aumento di pena per la reci­diva (art. 99 c. 5 c.p.), ma anche il divieto di concedere le attenuanti generiche motivate con la condot­ta successiva del reo (art. 62 bis comma 2 in relazione all’art. 133 comma 2 c.p.). Nel caso esaminato quindi, stante le norme in vigore, non poteva essere dato alcun rilie­vo alla condotta collaborativa te­nuta dall’imputato, motivo per cui è stata invece sollevata la questio­ne di illegittimità costituzionale, accolta dalla Corte Costituziona­le con questa motivazione. Della funzione rieducativa della pena e della persona del colpevole, non si deve occupare solo il giudice dell’esecuzione o il magistrato di Sorveglianza, ma se ne deve occu­pare in primis il legislatore e in se­condo luogo, anche il giudice nel determinare la pena, perché è at­traverso la discrezionalità del giu­dice e attraverso la possibilità che gli viene data, di applicare le circo­stanze attenuanti generiche, che si dà attuazione ai principi costitu­zionali della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena. Detta pronuncia ribadisce ancora una volta, nel solco di una giurisprudenza consolidata, il va­lore, positivo e non negativo, della discrezionalità del giudice penale.

 

Quando il carcere è inutile

 

Riprendo poi il concetto di “carce­re utile e carcere inutile” evocato nell’intervento della dott.ssa Ornella Favero, per introdurre una riflessione sulla pena detentiva, sanzione su cui si incentra il nostro sistema penale, rafforzata da vari provvedimenti che si sono suc­ceduti nel corso degli ultimi anni, ispirati alla asserita “tutela della sicurezza pubblica”, dandovi con­to di quali effetti hanno sortito le citate modifiche legislative, anche per reati di attenuata offensività, effetti che sfuggono ai terzi non operatori del settore. Vi propongo alcuni esempi.

Un caso riguarda il furto pluriag­gravato, per cui le norme vigenti (art. 656 comma 9 lett. a c.p.p.) impongono al Pm di emettere un ordine di carcerazione, senza sospensione, anche per pene detentive sotto i tre anni. Premetto che la ricorrenza di almeno due aggravanti del delitto di furto non è evenienza rara, anzi rappresenta la normalità, vista l’ampia casistica delle aggravanti tipiche conside­rata dal legislatore, tanto che la giurisprudenza talora ha cercato interpretazioni dell’art. 625 c.p., più benigne, per ovviare alla spro­porzione della pena rispetto al disvalore del fatto concreto (per esempio nel caso di furto in super­mercato viene esclusa l’aggravan­te dell’esposizione alla pubblica fede). Le norme ordinarie in tema di esecuzione della pena deten­tiva, per le pene fino a tre anni, nel caso di reati ritenuti di minore gravità nel caso di soggetti liberi, il Pubblico Ministero è obbligato a sospendere l’ordine di carcera­zione, in attesa della decisione del Tribunale di Sorveglianza per la concessione o meno delle misure alternative. A seguito di modifiche legislative, questa regola generale non si applica ai casi di furto plu­riaggravato, con la conseguenza che il PM ha l’obbligo di emette­re l’ordine di carcerazione, anche nel caso di condanne per furto pluriaggravato, per pene di pochi mesi di reclusione, applicate a sog­getti che non erano stati arrestati in fragranza, per cui non avevano subito un giudizio direttissimo e a cui non erano state applicate misure cautelari, anche non cu­stodiali (quali quelle del divieto di dimora o dell’obbligo di presenta­zione alla polizia giudiziaria), sog­getti per cui l’accesso immediato al carcere, a mio modo di vedere, non è opportuno né “utile”.

Vi dico un altro esempio, anche se rischio di essere un po’ banale, però è solo dai casi concreti che si possono percepire gli effetti dell’applicazione di talune norme. Il caso riguarda le ipotesi di violen­za sessuale nei casi di minore of­fensività. Nel nostro ordinamento, doverosamente, è stata riformata la normativa in materia di reati sessuali ed è stata assorbita nel­la nozione del delitto di violenza sessuale, anche la vecchia nozione degli atti di libidine (i “toccamenti lascivi”), giustamente costituenti reato. Il legislatore ha previsto tut­tavia una differenza sanzionatoria tra i vari casi di violenza sessuale, prevedendo per i casi di minore gravità, quelli rientranti nella pre­cedente nozione di atti di libidine, in buona sostanza, l’applicazio­ne di una pena di minore gravità. Allora il legislatore nell’inasprire il trattamento sanzionatorio in ge­nerale previsto per queste catego­rie di reati, ha inserito l’art. 609 bis c.p. nell’elenco dell’articolo 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, con la conseguenza che, anche nei casi di “violenza sessuale attenua­ta”, per cui il giudice della cogni­zione ha ritenuto di comminare una pena modesta in ragione del­la minore gravità del fatto, è obbli­gatoria la carcerazione. In questo caso il Pm ha l’obbligo di emette­re immediatamente un ordine di carcerazione spesso nei confronti di soggetti a cui non erano state applicate misure cautelari, vista la non gravità del fatto o a carico di persone con disturbi mentali, in­quadrabili o meno in un disturbo di personalità o comunque con dei disturbi comportamentali o deficit intellettivi marcati, che ri­chiederebbero altri interventi dei Servizi preposti.

Da ultimo vorrei parlare di un terzo caso, più delicato, che riguarda le persone che hanno definito la loro posizione processuale a distanza di anni dal fatto, anche oltre un decennio, a cui viene notificato un ordine di carcerazione per una pena contenuta entro i tre anni, ma riguardante reati di una certa gravità (quelli rientranti nell’elen­co dell’art. 4 bis comma 1 ter O.P. per intenderci, come ad esempio la rapina aggravata). Ritengo che, in taluni casi, anche per questa categoria di soggetti l’ingresso im­mediato in carcere sia inutile o sia addirittura inutile la carcerazione. Questa considerazione comporta una riflessione sul tema dei tem­pi del processo penale, che sono lunghi, per assicurare un giusto diritto di difesa, ma anche per una disfunzione del sistema. Provate a pensare al caso di soggetti liberi, a cui non sono mai state applicate misure cautelari, persone che nel tempo di definizione del proce­dimento penale, anche se hanno compiuto gravi reati, a distanza di dieci anni dal fatto, si sono rico­struiti una famiglia, hanno trovato un lavoro lecito, persone che vi­vono con la spada di Damocle di una carcerazione che deve essere eseguita obbligatoriamente con la possibilità di una valutazione solo successiva del Tribunale di Sorveglianza per la concessione di misure alternative. Su questo tema una riflessione è doverosa, soprattutto con voi giornalisti, che normalmente vi occupate solo della prima fase del procedimento penale, quella della commissione del reato.

 

Il carcere utile e la speranza che la rieducazione sia possibile

 

Vi vorrei parlare adesso invece di carcere utile. Il carcere utile, uto­pia o realtà, non lo so, è quello che rieduca. Sulla realtà attuale della situazione carceraria molto si è detto e molto già voi conoscete, però io accolgo l’appello di Ornel­la Favero quando dice “cerchiamo di dare anche una visione del car­cere non come un altro pianeta, un mondo lontano, ma di qualco­sa molto vicino a noi” e, aggiungo io, vorrei trasmettere anche il mes­saggio che la rieducazione, anche in un contesto assai difficile, come la realtà carceraria, sia un obiettivo che dobbiamo perseguire. Il mio lavoro si basa su questa speran­za, che si concretizza attraverso la concessione dei benefici peniten­ziari, intesi non quale strumento per ridurre la presenza dei detenu­ti nelle carceri, ma quali strumenti per favorirne la rieducazione. Vor­rei soffermarmi a parlare di taluni benefici penitenziari che invece vengono svalutati dall’opinione pubblica in nome della cosiddetta “certezza della pena”, convinzione recepita e alimentata dalla stam­pa, perché c’è sempre questa sorta di cortocircuito, tra notizie pubbli­cate e “comune sentire”, cui anche altri relatori oggi accennavano.

Già da alcuni interventi dei detenu­ti, alcuni messaggi sono stati dati e li ripropongo come magistrato di Sorveglianza. I benefici peni­tenziari tutti non sono un regalo, ma sono l’esito di una faticosa e quotidiana conquista dei detenu­ti. Sono sottoposti a un rigoroso vaglio dei presupposti non solo di legittimità e ammissibilità, ma anche di meritevolezza, aspetto delicatissimo della discrezionalità del magistrato di Sorveglianza. Ai benefici accede una parte ridotta di detenuti, in parte per loro colpa, perché secondo la valutazione dei magistrati di Sorveglianza, non ne hanno diritto, in parte perché non hanno avuto la possibilità di acce­dere a quelle offerte trattamentali che avrebbero consentito loro di maturare come persone e in que­sto contesto non può non essere considerata la drammatica realtà di vita nelle carceri, che impedisce a molti detenuti di avere anche una minima offerta trattamenta­le, circostanza che in sé esclude qualsiasi possibilità di un’effettiva rieducazione.

Anche parlando dei benefici pe­nitenziari, vorrei proporre degli esempi. Sto pensando in primo luogo alla liberazione anticipata, a questo tanto vituperato sconto di pena previsto dall’Ordinamento Penitenziario, di 45 giorni per ogni semestre di detenzione. Questo sconto di pena non è gratis, non è un regalo che viene fatto a tutti, ma è un beneficio concesso solo nel caso di una provata corretta condotta durante la detenzione e non viene concesso, ad esempio, se un detenuto riporta un rilievo disciplinare. Spesso qualche dete­nuto nei colloqui mi dice: “Dotto­ressa, mi creda basta un niente per avere un rapporto disciplinare, per avere un’osservazione e perdere la liberazione anticipata”. Allora non so se basta un niente, certo è che i rilievi disciplinari sono una realtà che dovete conoscere, vengono elevati talora per gravissimi fatti, che a volte minano anche la sicu­rezza all’interno del carcere, e non penso solo alle risse e alle collut­tazioni, ma penso anche a quegli atteggiamenti di supremazia, che a volte assumono alcuni detenuti sugli altri, che sono estremamen­te deleteri all’interno della vita in carcere. Ma basta molto meno per riportare un rilievo disciplinare, che può essere elevato, per una condotta certamente non corretta nei confronti degli operatori, ma attuata in un momento di frustra­zione o debolezza, in un momento di alterazione, ma del tutto isola­to, magari in anni di specchiata e regolare condotta detentiva, cosi come tra l’altro viene anche indi­cato in molte relazioni comporta­mentali. Al magistrato di Sorve­glianza è rimessa la valutazione della rilevanza o meno dei rilievi disciplinari, ai fini della concessio­ne o meno della liberazione antici­pata. Ma il messaggio che vi vorrei trasmettere è questo: il valore di questa norma non è nello sconto di pena in sé, ma nella condotta responsabile e corretta che deve assumere il detenuto per ottener­lo. Quindi “lo sconto di pena” valu­tato negativamente dall’opinione pubblica perché riduce la pena inflitta, è in realtà uno strumento importante e positivo per stimo­lare il detenuto a mantenere una corretta condotta in carcere.

L’altro beneficio penitenziario di cui volevo parlare, che è forse l’ambito più delicato di esercizio della discrezionalità del magistra­to di Sorveglianza, esercitata in forma monocratica, è quello dei permessi premio. Anche in rela­zione a questo beneficio, alcune osservazioni che volevo proporre sono state anticipate da alcuni de­tenuti. Innanzitutto ci sono alcuni pregiudizi da sfatare, tra cui quel­lo del rischio di evasione, poiché la percentuale di evasione dai permessi premio quale dato na­zionale, è irrisoria (un dato, forse non aggiornato, attesta una per­centuale dello 0,8%). Le sentenze per evasione emesse riguardano infatti, nella maggior parte dei casi, indebiti allontanamenti dal luogo di esecuzione della misura cautelare degli arresti domiciliari o dal luogo di esecuzione della mi­sura alternativa della detenzione domiciliare. Secondo pregiudizio da sfatare riguarda i soggetti cui in concreto viene concesso il be­neficio. Infatti ai permessi premio accede una categoria ristretta di detenuti e non tutti i detenuti che hanno maturato i termini minimi per la concessione dei permesso premio. Mi preme farvi capire le valutazioni che fa il Magistrato di Sorveglianza ai fini della decisione di un permesso premio. Si valuta il percorso compiuto dal detenuto, non solo la regolarità della con­dotta carceraria, perché questo è il requisito minimo per ottenere in genere la liberazione anticipata, ma all’evidenza il permesso pre­mio è beneficio di più ampia por­tata. Nel caso dei premessi premio deve essere valutato il percorso di riflessione compiuto dal detenuto sulle conseguenze della sua con­dotta delittuosa, nei confronti del­le vittime dei reati, in relazione alla sua vita e a quella della sua fami­glia, percorso che alcuni detenuti fanno o raggiungono e altri no.

Per taluni detenuti si può anche ritenere che l’esperienza del car­cere sia stata positiva e questo lo dico anche se so che metà della platea può non gradire questa af­fermazione. Molte volte nel corso di colloqui, soprattutto di giovani detenuti che hanno commesso gravissimi reati, mi sono sentita dire la frase: “per fortuna mi hanno arrestato, altrimenti non so dove sarei potuto arrivare”, riconoscen­do al momento privativo della li­bertà e al percorso di espiazione sofferto, doloroso e drammatico, lo stimolo di un cambiamento to­tale della loro personalità e delle loro convinzioni. In questo cambiamento io ci credo, ci devo cre­dere per la funzione che svolgo, ma sono convinta di avere appu­rato in numerose occasioni, una presa di distanza genuina e non fittizia e strumentale per ottenere un benefico, da parte di alcuni de­tenuti, dall’ambiente in cui viveva­no al momento della commissio­ne del reato.

Dritan ha proposto alcune interes­santi riflessioni sul significato del permesso premio ove concesso presso il domicilio della famiglia o per coltivare gli affetti famigliari. Le sue osservazioni sono analo­ghe a quelle contenute nelle lette­re che ricevo e nei colloqui che ho avuto con i detenuti dopo il primo permesso premio. Vengono riferiti sentimenti di gioia e di ringrazia­mento al magistrato che ha dato questa opportunità, ma anche sentimenti di profondo disagio, di disorientamento e a volte anche di paura. Perché la famiglia in cui “rientrano” le persone dopo molti anni di forzato allontanamento, è una famiglia inevitabilmente cam­biata, in cui i ruoli sono cambiati, in particolare quello della donna, moglie o compagna è cambiato, perché la donna è diventata la per­sona che ha gestito e gestisce in prima persona l’andamento della famiglia. Spesso i detenuti usano queste parole riferite anche, mi sembra, da Dritan: “Devo entrare piano in casa” oppure “Devo en­trare in punta di piedi”, espressioni che denotano un senso di rispetto, unito al senso di colpa e alla vergogna, che prova la persona, rima­sta lontana dalla famiglia per sua responsabilità. Allora voi mi direte: ma noi dobbiamo anche occupar­ci dei rapporti affettivi o dei rap­porti famigliari di un detenuto, di una persona che ha commesso re­ati? Si! Ed è un dovere, perché non è pensabile, per me, parlare di un reinserimento del detenuto nella società, nel lavoro, nella comunità se prima non vi è un reinserimen­to nella sua famiglia.

Voglio anche parlarvi dell’espe­rienza dei permessi premio per i detenuti che invece la famiglia non l’hanno e non hanno nem­meno un domicilio, e non si tratta solo di detenuti stranieri ma di al­tre persone che non hanno alcun riferimento esterno al carcere. E per questi detenuti, a cui viene data la possibilità di partecipare a iniziative organizzate da volon­tari, oppure di accedere a case di accoglienza, il permesso premio è un’esperienza forse ancora più im­portante, perché queste persone hanno una possibilità di approccio con la realtà esterna, di una prima mediazione con la realtà esterna, a cui nemmeno pensavano di poter arrivare prima della scarcerazione definitiva. La ratio dei permessi premio, come delle altre misure alternative, è infatti quella di evi­tare che a un certo punto, a fine pena, una persona sia scaraven­tata nel mondo reale, di cui non sa nulla o sa quel poco che viene trasmesso dalla televisione. Detta funzione dei benefici penitenziari risponde quindi anche ad un in­teresse utilitaristico della società, perché preparare il detenuto alla vita fuori del carcere, in un conte­sto graduale e controllato dai vari Servizi, significa avere più sicurez­za e quindi prevenire il rischio di recidiva.

 

L’affidamento in prova ai Servizi sociali e la prescrizione riparatoria

 

Voglio parlare brevemente dell’af­fidamento in prova al Servizio so­ciale, quella che secondo me è la misura alternativa per eccellenza. L’affidamento al Servizio sociale significa che negli ultimi tre anni di pena, il condannato possa esse­re affidato ai Servizi sociali dell’Uf­ficio Esecuzione Penale Esterna, che lo seguono nel suo percorso di reinserimento lavorativo e nella società. Non si tratta solo di una misura che consente ai detenuti di scontare l’ultima porzione di pena fuori dal carcere, ma si trat­ta di una misura, che nell’ottica di un illuminato legislatore, ha con­tenuti molteplici, tra cui quello inerente il rapporto condannato-affidato con la persona offesa dal reato o con la società in generale. Mi vorrei soffermare infatti su una prescrizione imposta dall’art. 47 O.P., che è quella “riparatoria”, pre­scrizione misconosciuta dai più, anche dagli operatori del diritto che non approcciano l’esecuzione penale. Tra le prescrizioni imposte dalla legge nel caso di concessio­ne dell’affidamento in prova vi è anche quella del risarcimento alla persona offesa o comunque di attività riparatorie da svolgere in re­lazione alla vittima del reato o di attività da svolgere a favore della collettività. Questa, secondo me, è la prescrizione più importante dell’affidamento in prova, che ha la funzione di ricostruire quella violazione al patto sociale deter­minata dal fatto reato, di riparare la lesione cagionata alla vittima di un reato. Attraverso questa prescrizione si possono dare si­gnificativi spunti di riflessione alla persona che deve espiare un rea­to su quello che ha fatto. Vi faccio un esempio. Come Tribunale di Sorveglianza di Venezia abbiamo concesso l’affidamento in prova a una persona responsabile di un omicidio colposo per sinistro stra­dale, si trattava di un fatto abba­stanza datato in cui erano rimaste coinvolte due persone offese. In questo caso, dato che il risarci­mento del danno era già stato effettuato, anche per l’intervento delle assicurazioni, il Tribunale ha segnalato all’UEPE la necessità di individuare un’attività di volonta­riato presso associazioni che si oc­cupassero di persone traumatiz­zate da incidenti stradali. Ritengo che in questo caso, la prescrizione di un’attività a favore della col­lettività, mirata a mettere in con­tatto l’affidato con le vittime di incidenti stradali, possa essere la vera messa alla prova della perso­na, che dovrà essere valutata, tra gli altri aspetti, ai fini della valuta­zione dell’estinzione o meno della pena. Infatti altro aspetto che non è conosciuto dell’affidamento in prova riguarda la non automatica estinzione della pena, decorso il periodo di durata della sanzione comminata dal Giudice, perché il Tribunale può non ritenere po­sitivo l’esito dell’affidamento in prova, con la conseguenza che il condannato deve nuovamente espiare la parte della pena relativa al periodo della prova.

Vorrei concludere parlando delle persone vittime dei reati, sogget­ti con cui i giornalisti vengono in contatto o comunque le cui vi­cende sono oggetto degli scritti pubblicati, anche per collegarmi ai precedenti interventi. Dalla mia esperienza ho constatato che le istanze delle persone offese sono talora pretese risarcitorie, talora anche richieste di pene esempla­ri, ma la richiesta principale delle vittime di reato è, anche quella di poter esternare il loro dolore. Ri­cordo spesso un episodio occorso in un processo per stalking, in­staurato con rito immediato dopo l’entrata in vigore della nuova legge, nel 2009, quindi con cele­brazione diretta del dibattimen­to avanti al giudice monocratico. Dopo un lungo esame testimonia­le di un testimone, presunta vitti­ma di questo reato, esame che per me era esaustivo, invitavo le parti a cercare di concludere, ma il te­stimone, con molta veemenza, mi ha detto: “Giudice, mi lasci parlare, io DEVO parlare”, perché era la pri­ma occasione che aveva avuto, di dire quello che aveva provato e di comunicare tutta la sua sofferen­za, alla persona ritenuta responsa­bile della sua angoscia, presente in aula. Quella frase: “Mi lasci par­lare” mi è rimasta impressa e forse in essa c’è la chiave di lettura della vera richiesta di giustizia delle vit­time di reati.

 

 

 

 

 

Un punto di vista particolare

 

di Marco Crimi, avvocato del Foro di Padova

 

Chi scrive queste righe è iscritto sia all'Ordine degli Avvocati, che a quello dei Giornalisti e quando si è trovato, prima nello scorso ottobre (il 19 per la precisione a Ca' Foscari) al convegno organizzato dai due Or­dini sull'ICC (International Crimi­nal Court, il Tribunale per i Crimini Internazionali) e poi lo scorso 5 di­cembre nella redazione di Ristret­ti Orizzonti a discutere di informa­zione e carcere, si è trovato in una situazione di imbarazzo, consi­stente nel fatto che molte, troppe volte mentre i colleghi giornalisti scrivono vere e proprie fandonie e gonfiano troppe notizie per ovvi motivi, allo stesso tempo tanti, troppi colleghi avvocati avvicina­no gli stessi temi del carcere con troppa leggerezza, senza attribui­re cioè alla libertà personale il giu­sto valore, quello imposto anche dalla nostra Corte Costituzionale (ed è ben triste, anche se fantasti­co, che a ricordarlo a tutti sia un comico come Roberto Benigni, an­ziché politici, giornalisti e avvoca­ti!). Bene, anzi ben poco: proprio il giorno prima del convegno su car­cere e informazione (e mi sarebbe piaciuto dirlo, se il tempo lo aves­se consentito) i giornalisti locali di Padova scrivevano dell'arresto di un boss del traffico di stupefa­centi, detto “il gobbo”, e del fatto che lui avrebbe esteso le sue attività criminali fra Piemonte, Veneto ed Emilia. Mancava la Romagna! In verità, si trattava del povero Ben N. K., da me assistito e, in verità, soprannominato “giovedì”, per via del fatto che tanta era la sua mise­ria da far pensare che non sareb­be mai arrivato al venerdì, giorno di digiuno... Altro che grande traf­ficante: ma tant'é, dalle informa­zioni dei quotidiani risultava che lo stesso fosse stato condanna­to a Torino, Padova e Modena ed ecco, il gioco era fatto! In effetti le condanne c'erano, ma a Torino per poco hashish, a Modena per qual­che dose di polverina e a Padova per aver insultato e minacciato la propria convivente, altro che gros­so criminale. Fra l'altro non si trat­tava neppure dell'arresto, ma del suo rintraccio e del suo rimpatrio perché privo di documenti: un mi­sero clandestino, altro che boss!

Questo per dare la misura di come poi l'opinione pubblica si possa fa­cilmente pilotare o suggestionare su temi quali la tanto sventolata “sicurezza” e/o su quello della pre­sunta pericolosità addebitata in automatico a certe etnie...

Ma c'è di più: la cosiddetta infor­mazione, che tanto si diletta in amplificazione iperbolica di noti­zie neppure degne di essere anno­verate come tali, dimentica poi di dare reale contezza dei veri argomenti urgenti e significativi come lo stato di indegnità in cui vive chi è oggi detenuto, lo stato di para­lisi del lavoro in carcere sia per i reclusi, che per gli stessi operato­ri, compresi i lavoratori della Poli­zia Penitenziaria che si trovano, a fronte di decine di migliaia di de­tenuti, in numero assolutamente inadeguato.

Infine proprio lo scorso 20 dicem­bre, a coronamento di un anno da dimenticare, il Magistrato di Sor­veglianza di Padova ha affrontato alcune decine di reclami da parte di reclusi, che giustamente stan­no da mesi lamentando che in un istituto come la Casa di reclusione di Padova, essendo in quasi 900 stipati in poco più di 360 posti, lo spazio per ogni detenuto (essen­do in tre in stanze pensate come singole!) è inferiore a quello previ­sto da tutte le norme nazionali ed internazionali perché la reclusione non diventi TORTURA. Così come resta spesso senza risposte la ri­chiesta di poter lavorare, ciò che sarebbe diritto fondamentale per ogni cittadino e obbligo per chi sconta una pena...

Chi ha informato su questo?