Capitolo
secondo: L’informazione e la richiesta sociale di carcerizzazione
“Il
problema è capire perché cresce la popolazione detenuta pur non crescendo o
non crescendo della stessa entità il numero di reati: è segno di una tendenza
di richiesta sociale verso la carcerizzazione. Questo ci deve far riflettere:
in passato molte situazioni si sono gestite non seccamente con il carcere, ma
con altre misure tendenti a dare un ruolo positivo al sociale.
È
necessario allora toccare i nodi fondamentali del problema carcerario: l’uso
eccessivo della custodia cautelare, la carcerizzazione dei
tossicodipendenti, la ex-Cirielli.
Bisogna
trovare un modo efficace per diversificare tutte le sfumature di reati legati
alle tossicodipendenze; quantomeno intervenendo sul quinto comma
dell’articolo dove si prevede il carcere anche nei casi di lieve entità”
(da un’intervista a Mauro Palma su Leggeweb).
Stare
agli arresti domiciliari non significa affatto essere liberi
di
Klajdi Salla,
redazione di Ristretti Orizzonti
Capita
spesso di leggere sui giornali, a proposito di una persona accusata di aver
commesso un reato, che “è già libera”, intendendo per “libera” anche
la persona che è stata messa agli arresti domiciliari. Questo secondo me non
è il modo migliore per spiegare alla popolazione che cosa sono gli arresti
domiciliari, io che li ho fatti so che non si tratta affatto di essere liberi,
è un modo molto serio di aspettare il processo, certo è meglio che rimanere
in carcere, però ha delle regole molto precise, se si “sgarra” si finisce
dentro e la pena può anche aumentare. La semplice evasione dai domiciliari è
infatti un reato che prima prevedeva da sei mesi a un anno di pena, e dal 2010
comporta da uno a tre anni. A me è successo nel 2005, quando ero agli arresti
domiciliari, che, a un normale controllo dei carabinieri alle due e mezza della
notte, dormivo e non ho sentito il campanello. Dopo 20 minuti i carabinieri sono
ripassati, mi hanno svegliato e mi hanno contestato che non ero presente al
loro primo controllo, ho dovuto affrontare un processo e sono stato condannato
a otto mesi, è inutile dire che i miei familiari non sono stati ascoltati né
minimamente presi in considerazione, anche se erano stati testimoni del fatto.
Questo lo dico non per dire che ero innocente, ma per farvi capire che, pur
essendo in casa, uno può rischiare di “evadere” anche se non è evaso.
Stare
agli arresti domiciliari comporta seguire certe prescrizioni molto precise e
dettagliate che dà la magistratura. Nel mio caso io non potevo neanche uscire
sul balcone, e anche i miei familiari subivano pesanti limitazioni, perché
non potevano più invitare nessun amico, non erano più padroni a casa loro,
perciò la casa di chi vive agli arresti domiciliari diventa un bunker,
diventa un carcere alla fine. Perciò pregherei i giornalisti, quando
scrivono di queste cose, di approfondire di più, perché stare agli arresti
domiciliari non significa essere liberi.
Dalla
“custodia cautelare” alla
“carcerazione preventiva”
L’informazione
contribuisce a dare un’idea molto approssimativa, e anche molto emotiva, del
ruolo e della funzione della custodia cautelare
di
Mauro Palma, Vice-presidente
del Consiglio Europeo
per
la cooperazione nell’esecuzione penale
Non
è la prima volta che vengo all’interno dei Due Palazzi a incontrarmi con la
Redazione di Ristretti ed è sempre un’esperienza bella e positiva. Questa
volta però il mio intervento non avrà come interlocutori le persone che qui
sono detenute, o che qui operano, ma i giornalisti, per il ruolo che la stampa
ha relativamente a questo tema e alla percezione sociale che se ne ha.
Parto
dal mio punto di vista, che negli ultimi 12/13 anni è stato un punto di vista
esterno, quello del Consiglio d’Europa: per anni quello di un organismo che
deve costantemente controllare quale sia la situazione detentiva di ognuno dei
suoi paesi, ora di un altro organismo che ha funzioni di cooperazione e
d’indicazione per favorire cambiamenti e trasformazioni. Comunque sempre si è
trattato e si tratta di un punto di vista esterno. Rispetto alla questione
della stampa, osservo subito che il sistema dell’informazione in Italia è
molto presente su questi temi, ma la sua presenza è di una tipologia
particolare, un po’ quale quella che in alcuni paesi come l’Inghilterra ha
la stampa popolare, con titoli piuttosto urlati e la propensione allo scandalo
urlato; spesso non risolutivo, perché non costruisce consapevolezza e produce
solo reazioni nel tempo breve. Detto senza giri di parole, quello che troviamo
è una informazione approssimativa su questi temi, molto approssimativa:
Accanto a questa caratteristica ne evidenzierei altre due: la prima è che
spesso si tratta di una informazione emotiva più che analitica; la seconda, è
che è fortemente costruttrice di un senso comune. E tale costruzione di senso
comune, indotto dalla stampa urlata, ha una forte incidenza nel porre limiti
all’azione del legislatore e spesso anche a quella dei magistrati, a cui
spetta il compito del decidere, sotto il peso di questa pressione mediatica e
successivamente sociale.
Esaminiamo
allora questi aspetti.
Quando
dico che l’informazione è approssimativa, parto dal fatto che molto spesso la
stampa non conosce neppure gli organismi che si occupano di questi problemi:
per esempio ricordo che Repubblica nel riportare la sentenza della Corte di
Strasburgo sul caso Sulejmanovic, scrisse che l’Unione Europea aveva
condannato l’Italia. Ovviamente il Consiglio d’Europa, nel cui ambito opera
la Corte, è istituzione del tutto diversa dall’Unione Europea. Spesso poi
gli organismi di controllo sono considerati né più né meno che una specie
di strano volontariato sopranazionale: le visite dell’allora Commissario
per i Diritti Umani Thomas Hammarberg, per valutare la questione dei Rom in
Italia, sono state salutate dalla stampa come le visite di uno strano signore,
e non dell’autorità preposta a controllare la tutela dei diritti umani, uno
stravagante signore appartenente più o meno a una specie di organizzazione
non governativa. Ma, soprattutto l’informazione è approssimativa in
alcuni nodi di costruzione di senso; è approssimativa per esempio laddove
implicitamente sostiene che nell’azione dei magistrati inquirenti
l’elemento della legittimazione consensuale debba avere un posto
rilevante. Ora è chiaro che nel sistema ordinamentale di un paese democratico
l’azione della magistratura e del pubblico ufficiale si basa sul principio di
legalità; la legittimazione dell’agire è di tipo legale, cioè dettata
dalla legge, e non certo di tipo consensuale. È illegittima per esempio la
situazione attuale di detenzione proprio perché non rispetta quei diritti che
la legge riconosce e tutela. La stampa invece tende sempre a proporre un
altro concetto, cioè tende a chiedersi quale sia la risposta dell’opinione
pubblica rispetto al provvedimento preso, e alimenta questo concetto, in
particolare nella fase iniziale in cui si sceglie spesso di dare la prevalenza a
una legittimazione consensuale di una società offesa. Per esempio, per un
delitto grave questo comporta che alla custodia cautelare viene dato un ruolo anticipatorio
della sanzione penale, piuttosto che un ruolo funzionale allo sviluppo
dell’indagine.
Su
questo tema occorre essere chiari: la custodia cautelare è una misura che va
adottata come misura estrema, laddove altre misure non sono possibili,
sostanzialmente con tre tipi di motivazioni, per evitare che la persona possa
sottrarsi all’indagine andandosene, che possa inquinare le prove e inquinare
così l’indagine, e infine per evitare che possa commettere un nuovo reato.
Quest’ultima ipotesi non si fonda su una prognosi di generica pericolosità,
quanto piuttosto su una base fattuale, confermata dalla presenza di elementi
che possono portare a supporre che la persona in questione possa davvero
commettere un reato. È importante sottolineare questo aspetto perché molto
spesso la giustificazione viene data su categorie un po’ “lombrosiane”,
dell’essere la persona comunque un delinquente in qualche modo “abituale
o per tendenza” – definizioni che purtroppo abbiamo ancora nel nostro
Codice.
La
custodia cautelare, quindi, è uno strumento provvisorio, funzionale
all’indagine; invece viene fatta percepire come la risposta immediata alla
richiesta di pena che proviene dalla società. Il veicolo perché sia cosi
percepita, e perché conseguentemente le decisioni prese nel periodo di custodia
cautelare siano analizzate sulla base di questa percezione, è rappresentato
proprio dai mezzi di informazione. I mezzi di informazione quasi sempre
agiscono su un’idea di immediatezza della risposta che appartiene poco al
diritto penale, perché – occorre ricordare – che il diritto penale nello
stato moderno non nasce in continuità con la precedente pratica della
vendetta, soltanto affidandola a una modalità non cruenta ed esercitata da un
ente neutro quale lo Stato; al contrario nasce proprio come lotta alla
vendetta, nasce come interruzione di quella pratica, e si basa, quindi, sulla
necessità di accertamento delle responsabilità e di individuazione della
reazione adeguata con una finalità mai vendicativa, bensì di reinserimento:
un’azione che richiede tempo.
“Quel
po’ di carcere intanto se lo faccia”…
Un
sistema in cui l’informazione in qualche modo contribuisce a veicolare
un’idea molto approssimativa, e anche molto emotiva, del ruolo e della
funzione della custodia cautelare, si presta a degenerare in un sistema in
cui la funzione di questa misura si riassuma nell’opinione che “quel po’
di carcere intanto se lo faccia”, e che finisca per costituire di fatto la
vera pena: poi quando ci sarà il processo … si vedrà.
L’esito
è che spesso, per alcuni casi minori, al momento del processo la pena è già
stata di fatto scontata, proprio per la custodia cautelare pregressa. Questo
è il primo punto da tener presente nei suoi effetti discorsivi: questa idea di
immediatezza della risposta, che a volte significa anche immediatezza
nell’assegnare un ruolo alla vittima. Trovo, per esempio, violente e
impietose quelle situazioni in cui, alla persona che ha subito il reato, viene
rivolta immediatamente da un giornalista la domanda: “Lei lo perdona”? A
volte cose di questo genere sono di una violenza e di un mancato rispetto alla
vittima molto, molto gravi.
Parallelamente,
sempre su questa questione dell’informazione molto approssimativa, vedo la
tendenza a non entrare nel merito delle questioni e a restringerle in
categorie semplici, di rapido effetto, ma di scarsa riflessione. Per esempio,
spesso la ricerca di cause, individuali o sociali, che sono dietro alla
commissione di un reato è letta come forma di lassismo giustificatorio,
mentre è il modo più valido per inquadrare un fatto e giudicarlo e
sanzionarlo conseguentemente. Allo stesso rischio di interpretazione come
lassismo, sono esposti i provvedimenti legislativi quando attenuano le forme di
privazione della libertà in carcere, restringendole alla loro effettiva
funzione e avendo cura di tutelare comunque i diritti delle persone che a esse
sono sottoposti. Questo atteggiamento ha riguardato l’indulto del 2006,
presentato spesso come causa di successivi reati, correlando impropriamente il
provvedimento all’effettivo problema dell’alta recidività dei reati che
è tema costante e del tutto indipendente da quel provvedimento. Tra l’altro
in questo caso l’approssimazione è veramente paradossale, perché l’indulto
ha soltanto anticipato di un certo periodo l’uscita dal carcere di una
persona, che comunque sarebbe uscita dopo un periodo breve di tempo. Quindi fare
di coloro che ne hanno beneficiato una sorta di categoria a sé è un non
senso anche dal punto di vista logico, giacché non riguarda persone che
sarebbero rimaste per sempre detenute. Bensì persone che sarebbero comunque
uscite e lo sguardo dovrebbe, quindi, essere rivolto a come il carcere influisca
o meno sulla possibilità che una volta uscite si astengano dal commettere
nuovamente reati e non certo al fatto se siano o meno uscite alcuni mesi prima
della scadenza della sentenza.
Torno
su questo primo punto dell’approssimazione: ne ho considerato alcuni
aspetti. In primo luogo quello fondato sulla prevalenza assegnata alla
legittimazione consensuale rispetto a quella legale; in secondo luogo quello
centrato sulla visione del diritto penale come strumento che debba dare una
risposta “immediata e non mediata” a ciò che si è commesso; infine quello
tendente a costruire un’idea della custodia cautelare come elemento
anticipatorio della pena, spesso, appunto, denominata ancora “carcerazione
preventiva”. Ma è lo stesso elemento di approssimazione a presentarsi nel
proporre come naturale l’espulsione degli stranieri illegalmente presenti
nel nostro territorio, senza interrogarsi su quali siano le condizioni dei
paesi verso cui vengono espulsi e senza – aggiungo – riconoscere che tale
“facile” misura è la nostra forma del non voler vedere e non voler
interrogarsi su come risolvere le contraddizioni delle società complesse in un
panorama globalizzato nella circolazione delle merci, nella dislocazione dei
luoghi di produzione e non nella libera circolazione degli individui. Verso la
contraddizione posta da un qualsiasi straniero proveniente da un paese povero,
dove la sussistenza è tuttora un obiettivo difficile da raggiungere, la
risposta è spesso il girare lo sguardo altrove, senza misurarsi con tale
problema, bensì ricorrendo a forme che ne negano l’essenza: la prima forma è
rinchiuderlo, la forma ancor più forte è espellerlo.
Su
un punto vale la pena soffermarsi: sulla misura della detenzione
domiciliare. Una misura verso cui l’informazione è quasi sempre povera di
analisi. Io personalmente penso che la detenzione nel proprio domicilio sia
una misura sostanzialmente iniqua, perché enfatizza la differenza sociale.
Innanzi tutto perché non è adottata nei confronti di persone che non hanno un
domicilio definito, che offra al magistrato tutte le garanzie necessarie, in
secondo luogo perché è una misura che enfatizza le differenze. Ricordo
benissimo la detenzione domiciliare di un illustre ex ministro nel superattico
in una delle zone più in di Roma e vedo l’impossibilità di paragonarla con
la detenzione domiciliare di una persona in una casa-alloggio, messa a
disposizione da una organizzazione non governativa, proprio perché questa
misura potesse essere concessa. Questa impossibilità di comparazione non è
un fattore secondario perché il diritto penale, così come altri strumenti
che l’ordinamento prevede, generalmente dovrebbe favorire la diminuzione delle
diversità dei soggetti, sul piano sociale e della protezione personale. Le
persone, sappiamo bene, sono diverse dal punto di vista della propria forza
sociale, della rete di legami protettivi di cui dispongono, non solo in base
alla diversità economica, ma anche in base alla diversità delle relazioni
sociali più o meno forti di cui possono servirsi; con tali diversità
arrivano nella scena processuale, e questa, piuttosto che diminuirle, le
enfatizza, le amplia, perché diversa è la difesa di cui essi dispongono,
diversa è la possibilità di usufruire delle garanzie che la legge prevede,
per ignoranza, per scarsa assistenza legale. Il carcere amplia ancor di più la
differenza perché diverso è l’accesso alle stesse misure alternative, che
per molti restano puramente teoriche.
Abbiamo,
quindi, un sistema che, pensato anche come strumento per il riequilibrio -
giacché la pena è teoricamente misura uguale per tutti - amplifica la
disuguaglianza.
L’informazione
ha bisogno di un concetto “adrenalinico” di sicurezza
L’altro
aspetto della modalità approssimativa dell’informazione riguarda il suo
far leva sull’emotività e il costruire opinione attorno a essa. La scena
penale “emotiva” ha luogo come un’eco di quella ufficiale sulla carta
stampata e anche in quei “teatrini” delle trasmissioni pomeridiane
televisive; ha luogo come elemento di rappresentazione simbolica della
necessità del penale e come costruttore di una mai appagata richiesta di
sicurezza. Qui si torna alla questione anche linguistica relativa al termine
“sicurezza”: purtroppo la lingua italiana non ci aiuta perché in italiano
con un solo termine indichiamo due concetti diversi, quello del sentirsi
sicuri poiché all’interno di una realtà che tutela i tuoi diritti e quello
del sentirsi sicuri poiché all’interno di una realtà che esclude
potenziali aggressori. Possiamo indicare questi due diversi concetti di
sicurezza come “sicurezza di …” e “sicurezza da …”. Sia in inglese
che in francese si utilizzano due termini diversi perché diverse sono le
connotazioni dei due concetti che si vogliono esprimere: in inglese è molto
diverso parlare di safety o parlare di security, entrambi traducibili in
italiano con il solo termine sicurezza, così come in francese è molto diverso
parlare di sûreté e parlare di sécurité. Il nostro utilizzo di una sola
parola ha finito col marcare il significato sul secondo aspetto piuttosto che
sul primo. L’esempio che si è più volte fatto è se sia più sicura una
città ove alla sera girano gli autobus, con molte persone e quindi con un
controllo reciproco naturale o una città ove alla sera tutti utilizzano mezzi
propri e nelle strade dove nessuno cammina a piedi circolano ronde per
sconsigliare eventuali aggressori. La prima ipotesi punta al luogo safe, la
seconda al luogo secure e credo che il primo modello garantisca molto di più la
complessiva sicurezza.
Ma
l’informazione ha bisogno di un concetto adrenalinico di sicurezza. E tale
approccio si riflette nel lessico, nelle immagini, nei titoli più che negli
articoli stessi, nei modi di dire che sono costruttori del senso comune. I media
hanno un grande ruolo, ma anche una grande responsabilità rispetto al senso
comune, come è ovvio, e proprio il lessico ne è un indicatore: quando per
esempio gli agenti di polizia penitenziaria vengono tuttora chiamati
“secondini”, o “guardie carcerarie”, certamente non si dà un contributo
alla comprensione di cosa sia e cosa debba essere il carcere del 2013, quale
complessità racchiuda e quali siano problemi, limiti e anche professionalità
di chi opera al suo interno. Così come la rappresentazione mediatica e il
lessico da essa usato hanno grande responsabilità nell’indurre di fatto
un’idea di “irreversibilità” delle persone che sono in carcere, quasi
fissandole al momento della commissione del reato, ferme a quel fotogramma
della loro esistenza, ferme all’immagine allora costruita.
Questo
spiega il consenso che la stampa ha sempre dato a tutto ciò che è molto
restrittivo, a pene come l’ergastolo, alle misure che non prevedono
flessibilità, modi di ripensarsi e ripensare gli altri. Ho avuto una forte
polemica sulla stampa con un giornalista di grido, Marco Travaglio, per il suo
presentare ogni timido provvedimento in materia di alternativa al carcere come
porta verso un’apocalisse in cui tutti sarebbero usciti, spesso definendola un
“indulto mascherato”. Quando è stata approvata la legge 199, il
provvedimento che prevedeva la detenzione domiciliare nell’ultimo anno di
pena, poi aumentato ai 18 mesi, Travaglio introdusse il neologismo, poi
ripreso da tutti i giornali, “svuota carceri” per definire quel provvedimento.
A distanza di un certo numero di mesi, io scrissi un articolo sugli errori della
sua valutazione ed egli mi rispose su “Il Fatto quotidiano” con toni anche
di scherno: ecco dopo due anni di applicazione di quel provvedimento forse
qualche domanda sulla giustezza di quel nome “svuotacarceri” andrebbe pur
posta. Ma, ormai quella definizione ha costruito un senso comune e la domanda
non viene posta; al contrario la definizione ritorna per il provvedimento
attualmente in discussione in Parlamento sulla introduzione della messa alla prova,
un provvedimento timido che forse non sarà neppure approvato.
Ma,
cito Travaglio non per farne oggetto specifico di critica; soltanto per dire
che spesso questa linea emozionale è una linea vincente, centrata come è su
alcuni pilastri: il ruolo assegnato alla vittima come parametro per la decisione
penale, la richiesta di immediatezza della soluzione, la richiesta di
irreversibilità delle misure prese e soprattutto la richiesta di
affermazione di un concetto di sicurezza, che vorrebbe rendere non visibili
conflitti e problemi e le persone che di fatto ne sono espressione concreta.
Infine,
la modalità approssimativa dell’approccio nasconde i nodi centrali del
problema della detenzione attuale in Italia, pur in un grande riferimento a
dati, statistiche, informazioni. Quasi un’informazione ampia che non
produce però consapevolezza.
Pochi
ricordano che nel 1990 questo Paese aveva 29mila detenuti e 3mila persone in
misure alternative, oggi questo Paese ha 66mila detenuti e più di 20mila
persone in misure alternative. Quindi nel ‘90 questo Paese aveva un’area penale
complessiva che coinvolgeva circa 32mila persone, mentre ora ha un’area penale
che ne coinvolge quasi centomila: in poco più di venti anni si è triplicata.
Possiamo forse dire che tutto ciò è avvenuto per maggior incidenza della attività
investigativa? Certamente no. Possiamo dire che è avvenuto perché è
cresciuto il numero dei reati? La risposta è ancora negativa. In realtà è
avvenuto perché si è costruito un senso comune in cui la complessità delle
relazioni sociali, la complessità e i problemi che in tale contesto si
pongono, sono stati sempre più elusi, ricercando soltanto quelle misure
apparentemente semplici, secondo le quali ogni problema è lineare, e può essere
risolto rinchiudendo le persone che vengono viste come causa del problema
stesso e non come suo risultato. Questa apparente linearità di situazioni che
sono invece complesse e che richiedono una varietà d’interventi è qualcosa
di molto profondo, molto difficile da estirpare, che rappresenta la cifra del
presente. Potremo anche cambiare leggi oggi – e io ovviamente lo spero e me
lo auguro – ma se non riusciremo a modificare le culture che in questo
ventennio che abbiamo alle spalle si sono costruite e sedimentate,
difficilmente apriremo una stagione di mutamento reale.
Non
è un processo semplice. Se la stampa e i mezzi di comunicazione sapranno
mettersi in gioco nell’attuazione di questo processo, daranno un
contributo fondamentale alla ricostruzione culturale di questo Paese. Se si
porranno invece “a valle”, semplicemente registrando gli umori del Paese,
costituiranno un ulteriore problema e non uno strumento per la sua soluzione.