Capitolo primo: Più rieducazione, più sicurezza

 

Le notizie di cronaca nera han­no alla base l’idea che la certez­za della pena significhi certez­za della galera, e quindi una pena che preveda carcere fino all’ultimo, e ancora meglio se di quel carcere si “butta via la chiave”. Ma, come è stato scrit­to di recente da più di cento costituzionalisti al Presidente Napolitano “la giurisprudenza della Corte costituzionale è nel senso di una presa di distan­za dall’originaria concezione polifunzionale della pena, a favore di una valorizzazione in massimo grado della finalità di risocializzazione del reo (che, in quanto testualmente prevista nel dettato costituzionale, non può mai essere integralmente sacrificata)”.

La rieducazione quindi non è un lusso, che si può sacrifica­re in nome della sicurezza, ma è l’essenza stessa della pena: parlare di pene e carcere nel ri­spetto della Costituzione signi­fica quindi parlare di percorsi rieducativi e non di far marcire le persone in galera fino all’ulti­mo giorno.

 

 

 

Solo confrontandomi con la società esterna ho iniziato  a riflettere sul mio reato

I confronti con gli studenti per noi detenuti sono un percorso molto importante, perché ti fanno ragionare, ti fanno riflettere, ma soprattutto ti fanno capire “l’altro”, ti fanno conoscere l’altro.

 

di Qamar Abbas, redazione di Ristretti Orizzonti

 

Sono entrato in carcere per un reato molto grave, un omici­dio in seguito a una aggres­sione sfociata in una rissa. Dopo l’arresto stavo chiuso in cella in­sieme a due miei compagni per ventidue ore al giorno. In quel periodo li e in quelle condizioni in cui ero costretto a stare pensa­vo sempre e solo a sopravvivere, non al male che avevo provocato, in quelle condizioni non riuscivo proprio a riflettere su quello che avevo fatto.

Dopo che sono arrivato qui a Pa­dova, ho avuto l’opportunità di frequentare la redazione di Ri­stretti, e soprattutto ho avuto la possibilità di partecipare al pro­getto che ci fa incontrare tanti studenti delle scuole superiori. Confrontandomi con la società esterna ho cominciato a riflettere sul reato che avevo fatto, ad assu­mermi le responsabilità del male che avevo causato. Questi con­fronti con gli studenti, per noi de­tenuti, sono un percorso molto importante perché ti fanno ragio­nare, ti fanno riflettere, ma soprat­tutto ti fanno capire “l’altro”, ti fan­no conoscere l’altro.

Credo che se rimanevo chiuso in una cella come ho descritto pri­ma, 22 ore al giorno su 24, non sarei una persona consapevole di aver fatto del male, ma, anzi, sa­rei solo incattivito con me stes­so e con le istituzioni del carce­re, anche per le condizioni che ci sono nel carcere adesso, per la mancanza di attenzione da parte di chi dovrebbe occuparsi di noi, per il tanto tempo buttato a non far niente.

Questa è la mia esperienza.

 

 

 

Io sono “figlio” di chi ha deciso di “BUTTARE VIA LE CHIAVI”

Sono cioè il risultato di chi intende la galera solo come punizione, deterrente a tutte le devianze, senza dare la possibilità di ripensare a ciò che si è stati o si è fatto da un altro punto di vista, diverso da quello consueto dell’autore di reato

 

Luigi Guida, redazione di Ristretti Orizzonti

 

Appena arrivato qui in re­dazione ho avuto l’impres­sione che parlare con degli studenti della tua vita fosse come suscitare in loro l’idea di andare a fare una visita allo zoo. Il primo pensiero che mi è venuto è quel­lo. Però posso dire che poi, dopo averlo sperimentato, ho visto che negli incontri e nelle conseguen­ti discussioni nasceva una strana complicità, o meglio il coraggio di uno scambio profondo. A vol­te i ragazzi, quando raccontiamo la storia di Filippo o di Marco che è una storia di tossicodipenden­za, dove loro si soffermano an­che sugli iniziali scivolamenti, più o meno inconsci, le piccole cose “proibite”, fatte anche solo per sentirsi più grandi di quello che si era, e che poi via via li hanno portati nella tossicodipendenza, ecco molti ragazzi hanno alzato la mano ed hanno detto che anche loro, o magari qualche loro amico, potevano rispecchiarsi in alcuni di quei comportamenti. Quindi penso che non sia una visita allo zoo, la loro, perché per esempio alcune cose credo che i ragazzi non le abbiano dette neppure in famiglia, ma le hanno dette qui e i loro professori adesso ne sono a conoscenza e possono aiutarli.

Lo stesso vale quando Rachid rac­conta di un accoltellamento du­rante una rissa, poi rivelatosi mor­tale per la vittima, e Qamar porta la sua testimonianza di aver rea­gito violentemente a una aggres­sione e aver colpito e ucciso una persona, era il primo reato, lui è un ragazzo che fino a quel momento non aveva mai commesso niente di illegale. Molti ragazzi a scuola ci vanno con il coltellino, molti di loro hanno raccontato a noi che loro portano il coltello, e si sono ritrovati, rivisti in queste storie.

Io per questo dico che bisogna sperimentare, vedere di perso­na cosa siano mai questi incontri Scuole/carcere, prima di dare un giudizio. Io credo che, altro che visita allo zoo!, è un progetto molto più serio e proprio perché è un progetto più serio io ho iniziato da li, dal fatto che in carcere ci entri con una pena e ci esci magari con una condanna ben più lunga.

Io sono entrato in carcere ed al­tri cinque, sei anni di galera li ho presi all’interno di altri istituti, ho girato undici istituti con la conse­guenza di non essere mai riuscito a prendere la liberazione antici­pata, lo sconto di pena per buona condotta, e insomma sono entra­to che avevo 16 anni, la mia prima esperienza carceraria, da allora ne sono passati quasi altrettanti e ho superato oltre i 12 anni di carce­re, entrando, uscendo, entrando, uscendo avendo solo un tipo di esperienza carceraria, come dico­no in tanti, quella per cui sui gior­nali si scrive “chiudeteli in galera e buttate via la chiave! Metteteli stipati in celle come sardine, trat­tateli male, non meritano niente”.

Allora io posso dire che sono en­trato che frequentavo la prima superiore per un reato di droga, il resto dei reati l’ho fatto imparan­do qui, e questo per dire quanto il carcere non per forza “faccia bene”, perché il carcere diventa in mol­ti casi una scuola di crimine. Per tutto il resto sono stato condan­nato per reati commessi in galera, almeno in quel tipo di galera che reprime, che ti fa vivere 22 ore di cella con altri 8 o 9 detenuti, dove gli unici argomenti ogni giorno sono “quel pezzo di m. del giudi­ce, quel bastardo dell’avvocato”, e pensi solo al male che ti sta fa­cendo l’istituzione, e le addossi la responsabilità di tutto quello che ti sta accadendo…

Ecco questo tipo di esperien­za, poi cosa ti fa maturare? Il disprezzo verso le istituzioni e tu non provi a progettarti il tuo futuro, pensando a come fare per non tornare più qui dentro, ma i tuoi pensieri sono rivolti magari a come riuscire a fare il colpo che ti “risolve la vita”, quello è l’argomento all’ordine del giorno nella maggior parte delle carceri italia­ne. Io dopo aver girato 11 istituti carcerari per mia fortuna sono ap­prodato nella Casa di reclusione di Padova, che non è un’isola felice, è un carcere in parte decente, dico così pensando a tanti miei compa­gni su in sezione che non hanno la possibilità di svolgere attività alcu­na, anche volendo.

Il sovraffollamento non permette a tutti di avere possibilità di impe­gnarsi in un cambiamento vero, e devo dire che per la prima volta io invece ho sperimentato l’idea del­la rieducazione, anzi per la verità il direttore mi ha chiamato per­ché ha visto già che mi stavo un po’ mettendo nei guai, e ha detto “Guida che intenzioni hai?”, si vede che ha letto il mio fascicolo, il pri­mo direttore che finalmente si è letto il mio fascicolo. Mi ha detto anche “Cosa vuoi fare, possibile che a 29 anni (quando sono arri­vato a Padova, ora ne ho 31), con tre figli non riesci a trovare un equilibrio e metterti su un binario positivo?”, e abbiamo discusso in merito al fatto, se avevo voglia di darmi la possibilità di fare qualco­sa d’altro. Ed io ho accettato, e ho detto: se andiamo in quel senso molto probabilmente qualcosa lo si ottiene da me, se lei mi reprime e mi chiude per 23 ore al giorno, continuerò a fare quello che ho fatto in altre carceri fino a quando non troverò un istituto che mi pos­sa offrire qualcosa di radicalmente diverso.

Dico questo, perché come fai tu ad imparare a rispettare le regole, quando negli istituti, dove vieni rinchiuso proprio perché non hai rispettato le regole, non sei dete­nuto in modo “umano”?

Ma il carcere di Padova è una delle poche realtà dove si fa qualcosa, almeno per un certo numero di detenuti, quelli che dovrebbero esserci davvero, il resto è come de­scrivevo poc’anzi.

 

Io sono entrato spacciatore e sono uscito rapi­natore.

 

Io non lo so se dia “senso di sicurezza” reprimermi, buttarmi nei peggiori carceri, perché poi io sono figlio di quello, anche se ci ho messo del mio, mi sono fatto male da solo e non sto giustificandomi.

Però, voglio dire che per la prima volta mi sono stati dati degli “stru­menti diversi”.

Quando sono arrivato qui il primo articolo che ho scritto era privo di qualsiasi punto e virgola, ormai lo sanno tutti perché lo vado spie­gando anche agli studenti, cosa vuol dire una vita senza punti e virgole, tutta vissuta di fretta. Oggi a distanza di due anni, con molta fatica posso dire che mi do da fare e spesso vi è un articolo scritto da me sul Mattino di Padova, e questo solo per fare un esempio a livello di scrittura, come sono partito e il pezzettino di strada che sto facen­do. Ecco il mio primo testo scritto qui è come se rispecchiasse tutta la mia vita, senza vincoli o limi­te alcuno, sono passati due anni, qualcuno dice che noi qui siamo “eletti”, io dico invece che qui si sta solo faticosamente cercando di ri­spettare quel famoso articolo 27 della Costituzione scritto dai padri costituenti subito dopo il fascismo e la seconda guerra mondiale, di cui portavano ancora le ferite. Quindi non mi sento in dovere nei confronti di nessuno, perché lo Stato sta facendo solo il suo lavoro, per adesso i risultati ci sono, sto aspettando la liberazione anti­cipata che prenderò per la prima volta nella mia vita.

Certamente sono passato dalle sezioni dove si fanno i discorsi che dicevo prima a cominciare qui a capire anche quali sono i miei li­miti, quando non andare da qual­che parte perché so che ci andrei a litigare, cioè ho cominciato a ri­flettere in modo diverso. Io prima debbo capire da dove vengo, per capire dove posso o devo anda­re, ma credo non vi sia una ricetta uguale per tutti.

Ecco quello che voglio dire, e che non è facile, però il messaggio che vorrei arrivasse è che neanche io ho “ricette”, che il carcere oggi rac­chiude soprattutto molta dispera­zione e non più solo persone che hanno deciso di delinquere come scelta, per avere soldi e fare “la bel­la vita”. Però la riflessione che vo­glio fare è che io sono “figlio” di chi ha deciso di “buttare via le chiavi”, di chi intende la galera solo come punizione, deterrente a tutte le devianze, senza dare la possibili­tà di ripensare a ciò che si è stati o si è fatto da un altro punto di vista, diverso da quello consueto dell’autore di reato.

 

 

 

 

Parlare di carcere e scrivere sul carcere

(con un occhio alla Costituzione)

 

di Andrea Pugiotto,

Ordinario di Diritto costituzionale, Università degli studi di Ferrara

 

“L’ho letto sul giornale”

 

Comincio mettendo subito i piedi nel piatto. Vi invito a guardare con me le prime pagine dei giornali pubblicati il 12 dicembre 2006. Il giorno precedente, ricordo a tutti, si era consumata l’orrenda macel­leria condominiale in quel di Erba. Di quel massacro saranno poi rico­nosciuti colpevoli Rosa e Olindo, coppia tutta italiana e – fino allora – incensurata, che ha così meritato un posto d’onore nel museo degli orrori (e in non ricordo più quante puntate di Porta a porta).

Nell’immediatezza del fatto di cronaca, però, la stampa racconta con sicumera tutta un’altra storia. E sbatte subito in prima pagina il colpevole, anzi due. Ecco i titoli dei principali quotidiani: Strage in famiglia: “Era fuori per indulto” [Corriere della Sera]; Uscito con l’in­dulto, fa strage [La Stampa]; Strage in famiglia, uccide e brucia 3 donne e un bimbo. Occhiello: È un tunisino scarcerato con l’indulto [la Repub­blica]; Tre donne e un bimbo uccisi e bruciati. Occhiello: Caccia ad un tunisino, scarcerato con l’indulto [Il Messaggero]. Cinque sgozzati in casa: giallo a Erba. Occhiello: Ricer­cato maghrebino uscito con l’indul­to [il Giornale].

L’accusa si sgonfia subito, perché l’incolpevole straniero ha (pur­troppo per molti, verrebbe da dire) un alibi. Non è il colpevole, come non lo era la legge n. 241 del 2006. Eppure, solo il Corriere della Sera il giorno successivo riconoscerà apertamente l’errore, pubblicando un corsivo dal titolo Quel tiro all’in­dulto. Merita la lettura:

«Sarà colpa della fretta, vista la tar­da ora in cui la notizia è arrivata. Sarà anche il frutto di indicazioni investigative che si sono dimostrate, nel giro di poche ore, fragili e fuor­vianti. O anche, a voler concedere un’ulteriore attenuante, l’aspetto di verosimiglianza che tutta la storia, a cominciare dal profilo del suo prota­gonista, ha messo in mostra. Fatto sta che colpisce la facilità con cui tut­ti i telegiornali e i giornali, compreso il nostro, hanno accolto la tesi della colpevolezza del tunisino ingiusta­mente accusato di aver fatto strage della sua famiglia in provincia di Como. E colpisce anche la reiterata attitudine a caricare il provvedimen­to di indulto approvato quest’estate di valenze negative che vanno ben al di là della sua reale portata. Come se l’indulto fosse la causa di una cri­minalità vecchia e nuova che scon­volge l’Italia da ben prima dell’ap­plicazione di quel provvedimento. Discutere dell’indulto è ovviamente lecito e persino doveroso. È dema­gogico invece stabilire un nesso logico ed emotivo permanente tra l’indulto e qualunque manifesta­zione criminale insanguini l’Italia. O gridare all’infamia dell’indulto per ogni omicidio commesso in Italia. È sbagliato creare mostri, sempre. Ma anche fare di una legge un mostro. Sbagliato. E troppo facile”

Gli altri giornali non fanno alcun atto di resipiscenza. Eppure a ri­gor di logica, come ebbe a segna­lare Adriano Sofri in quegli stessi giorni - intitolare “Ha sterminato la famiglia», e completare: “Era uscito per l’indulto», vuol dire che l’indul­to non solo metteva in libertà pri­ma del tempo i delinquenti né solo promuoveva Cesare Previti dagli arresti domiciliari all’affidamento ai servizi sociali (effetti per i quali in molti si gridava al “colpo di spu­gna”), ma autorizzava e provocava la strage degli innocenti.

Ma tant’è, proprio quella era la percezione comune che si voleva alimentare. Da agosto 2006 era ini­ziato il terrore: “loro”, cioè decine di migliaia di “pendagli da forca”, erano di nuovo tra “noi”. Tornava­no con tre anni di anticipo (fino a tre anni era, infatti, la pena con­donata). Come un temporale fuori stagione.

Sia detto per inciso ai giornalisti presenti. Non crediate che quella campagna stampa non porti qualche responsabilità nella mancata approvazione di un provvedimen­to di clemenza generale in questa Legislatura, che volge ormai al termine. Come cantava Fabrizio De André , “anche se voi vi credete assolti/siete lo stesso coinvolti».

Non è bastato che il Presidente della Repubblica – nel luglio 2011 e poi reiteratamente – denuncias­se l’attuale condizione di sovraf­follamento carcerario come “una questione di prepotente urgenza

sul piano costituzionale e civile” che ha raggiunto un “punto critico insostenibile […] per la sofferenza quotidiana – fino all’impulso a to­gliersi la vita – di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemi­smo”. Né è servito scrivere al Capo dello Stato una lettera-aperta - e poi incontrarlo al Quirinale - affinché, attraverso l’esercizio del suo potere di messaggio, investisse formalmente le Camere della necessità di approvare quel provvedimento di clemenza.

Più forte di tutto è stata l’eco as­sordante di quei giornali e di quel pensiero unico che ha finito per provocare nell’opinione pubblica un senso di smarrimento, quando non di aperta ostilità verso una leg­ge di amnistia e di indulto. Eppure si tratta di due strumenti di politica criminale previsti in Costituzione e pensati esattamente per deflazio­nare carceri e tribunali, quando lo Stato non è in grado di garantire la sua stessa legalità dietro le sbarre (per il sovraffollamento delle car­ceri) e nelle aule di giustizia (per i tempi eterni dei giudizi penali).

Continuiamo così ad attendere una misura di clemenza genera­le che manca da vent’anni (con la sola eccezione della legge del 2006): mai, nell’Italia repubblicana e nell’Italia monarchica, si è regi­strato un ostracismo di così lunga durata verso l’amnistia e l’indulto.

 

La paura fa novanta (e fa consenso)

 

Muovo da questa vicenda perché esemplare di una dinamica cui ab­biamo assistito ripetutamente in questi ultimi anni. Dove stampa e politica si sono avvicendate in un compito comune, perché utile a entrambe: alimentare la paura.

Ai media i fatti di cronaca nera ga­rantiscono tiratura e indici d’ascol­to. E più sono efferati e diffusi, più alto è il picco raggiunto dalle in­serzioni pubblicitarie e nelle ven­dite di copie in edicola.

Quanto alla politica - come ha ri­cordato recentemente Luigi Fer­rajoli - il potere può fare due differenti usi della paura. Facendo paura esso stesso, come accade nei regimi totalitari. Ovviamente di nascosto, occultando la realtà delle cose. Lo ripete spesso Marco Pannella: fateci caso, i paesi tota­litari hanno le “vetrine” sempre in ordine, non si vedono esposte por­cherie. In un paese democratico è diverso: vai per le strade e vedi di tutto, il paese non nasconde nien­te. E la sua stampa è lì a garantire questa visibilità.

L’uso della paura da parte di mol­ti paesi democratici è, invece, più subdolo. Fanno leva sulla paura, alimentandola ed enfatizzandola oltre il reale, al fine di acquisire e conservare il consenso. Perché un popolo impaurito (e disinformato) si comanda meglio.

A ciò si prestano ottimamente i nuovi “esclusi in carne ed ossa” [Zigmund Bauman]: il migrante, clandestino o irregolare. Ma anche il rom di cui si schedano le impron­te digitali e si bruciano i campi. Ma anche il detenuto recluso in un carcere sovraffollato, duro e pu­nitivo, esclusivamente retributivo e non solo privativo della libertà personale (come dovrebbe esse­re), alieno alla sua finalità costitu­zionale di risocializzazione.

Questi nuovi paria rappresentano lo scolo per il risentimento e l’insi­curezza collettiva, convogliata da mirate campagne di informazio­ne e dall’approvazione di leggi-manifesto. Una tenaglia micidiale, capace di trasformare il verosimile in struttura del reale, sostituendo così la percezione soggettiva alla realtà oggettiva delle cose.

Volete una cartina di tornasole? Le statistiche sui reati di omicidio in Italia (i dati sono tratti dalla re­lazione svolta da Luigi Ferrajoli al convegno promosso presso l’U­niversità di Roma Tre sul tema Il carcere oggi: luogo di recupero o discarica sociale? Umanizzazione della pena vs. esigenze di difesa so­ciale, Roma 26 novembre 2012). Lo sguardo lungo si rivela davvero significativo. Nel decennio 1930-1940 il numero complessivo de­gli omicidi commessi risulta pari a 2.500. Nel decennio 1970-1980 scende a 1.500. L’ultimo decennio registra un ulteriore calo: 600 omi­cidi in tutto Un analogo trend negativo si registra anche per altre forme di reato: dalle violenze ses­suali alle lesioni, dai furti agli scippi (queste ultime due fattispecie pe­nali sono addirittura dimezzate).

Eppure, in coincidenza con questo calo della criminalità, abbiamo po­tuto leggere in Gazzetta Ufficiale una sequela di provvedimenti le­gislativi (spesso introdotti median­te decretazione d’urgenza, nella scia di una straordinaria necessità costruita su specifici casi di cro­naca artatamente generalizzati), provvedimenti annunciati con la fanfara e gli squilli di tromba della necessaria difesa sociale.

Accontentatevi di un solo esem­pio, davvero indicativo: 2 luglio 2009. Il Parlamento approva la legge recante “Disposizioni in materia di pubblica sicurezza», alle crona­che nota come “pacchetto-sicu­rezza Maroni”, sul quale il Governo Berlusconi appone la questione di fiducia, ottenendola. Esemplifico il suo contenuto.

Vengono introdotte aggravanti a tutela di alcuni soggetti deboli (come i minori, gli anziani, i disabili) vittime di reati contro la persona e contro il patrimonio, presentati come in pericolosa crescita. Come Lazzaro, risorge il reato di oltrag­gio inasprito nella sua pena editta­le (che la Corte costituzionale, nel 1994, aveva dichiarato illegittimo per eccedenza sanzionatoria).

C’è dell’altro. Si prevede un pia­no straordinario di controllo del territorio, con finanziamenti ad associazioni di volontari per la si­curezza (le cd. ronde), con tutti i conseguenti dubbi di una pericolosa deroga al monopolio della forza legittima e della tutela del­la sicurezza spettanti all’autorità pubblica.

Soprattutto, si inasprisce il trat­tamento degli stranieri irregolari introducendo la cd. aggravante di clandestinità, il reato di immi­grazione clandestina e due nuove declinazioni del provvedimento di espulsione, quale misura di sicu­rezza e quale sanzione sostitutiva. Si prolunga a 180 giorni il tratteni­mento nei CIE, trasferendo la com­petenza in materia dal tribunale ordinario ai giudici di pace ed in­ventando un procedimento ad hoc semplificato (e meno garantista) per irregolari e clandestini.

Infine – vera locomotiva che ha fi­nito per trainare tutti gli altri vago­ni, anche quelli di più che dubbia incostituzionalità – l’art. 2, commi 25 e 26, della legge n. 94 del 2009, inasprisce più di quanto già non fosse il regime del cd. carcere duro, attraverso una (ennesima) modifi­ca dell’art. 41-bis dell’Ordinamen­to penitenziario.

Non importa il destino – spesso infelice – di molte di quelle novi­tà normative. Alcune sono cadu­te sotto la scure del controllo di costituzionalità (come, ad esem­pio, l’aggravante di clandestinità annullata con sentenza n. 249 del 2010). Altre sono state ridimen­sionate nella loro estensione applicativa dalle interpretazioni dei giudici, comuni e costituzionali (è accaduto, ad esempio, al reato di clandestinità). Altre ancora sono rimaste sulla carta, inapplicate, perché mere grida manzoniane.

Non importa, perché ciò che si vo­leva era, ormai, già stato acquisito. Alimentare la percezione di insicu­rezza collettiva e, rispondendo ad essa, irrobustirla. Iniettare la paura a girare per strada nel momento stesso in cui si dichiara di volerla combattere. Per citare questa vol­ta Lucio Dalla, “si esce poco la sera compreso quando è festa/e c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra/e si sta senza parlare per intere settimane» quando invece – ma questo lo ag­giungo io – se parlassimo di più ci fregherebbero di meno.

 

Seminare paura fa (doppiamente) male alla democrazia

 

Nasce e si consolida così un senso comune, che è altra cosa dal buon senso. Il buon senso rimanda alla ragionevolezza e all’equilibrio frutto dell’esperienza. Il senso comune coincide, invece, con l’opinione dominante, anticamera della omologazione del pensiero: perché – come già osservava a suo tempo, Mark Twain - conformarci è nella nostra natura. È una forza alla quale pochi riescono a resistere, perché spinta dall’innata approva­zione di sé, che si ottiene dall’ap­provazione altrui. E il suo risultato è sempre il conformismo.

Ebbene, non temo smentite se af­fermo che, oggi, la doxa dominan­te è tutta chiacchiere e distintivo.

Lo si percepisce anche nel vocabo­lario quotidiano, che ha condotto a stravolgere il significato originario e autentico delle parole che usiamo.

Per dire: la parola “sicurezza». Un tempo, in anni di welfare state, il sostantivo si accompagnava all’ag­gettivo sociale, oppure faceva cop­pia con la parola lavoro. Sicurezza sociale (come garanzia di reti di protezione collettiva), sicurezza del lavoro (inteso come diritto) e si­curezza sul lavoro (con riferimento alle condizioni in cui il lavoratore è chiamato a prestare la sua opera). Oggi è tutto un altro parlare: sicu­rezza è esclusivamente sinonimo di protezione di vittime potenziali contro potenziali aggressori (tutti contro tutti), è parola abusata nei discorsi sul contrasto alla criminali­tà (benché, come visto, in diminu­zione).

Eppure – come ha ricordato di re­cente ancora Luigi Ferrajoli - quella parola nasce con ben altro signifi­cato. Nel suo Lo spirito delle leggi, Montesquieu così scrive: “La libertà politica, in un cittadino, consiste in quella tranquillità di spirito che proviene dalla convinzione, che ciascuno ha, della propria sicurez­za e, perché questa libertà esista, bisogna che il governo sia organiz­zato in modo da impedire che un cittadino possa temere un altro cit­tadino” (Libro XI). Ma ciò – secondo Montesquieu - non si ottiene con l’aggravante di clandestinità o ina­sprendo le pene edittali dei reati di strada. Semmai rispettando la legalità costituzionale e facendo della legge non un ostacolo alla libertà, bensì una sua condizione di esistenza. Quella sicurezza si mette in sicurezza sottoponendo il potere a regole ed a controlli. Per­ché la Costituzione a questo serve: a domare il potere ed a garantire i diritti attraverso gli strumenti del diritto.

A questo compito di controllo è chiamata anche la stampa, quan­do si occupa di reati, di carcere, di scelte legislative penali. Quando se lo dimentica – scegliendo di an­dare al traino della doxa dominan­te e seminando paura – fa male alla democrazia. E lo fa due volte.

In primo luogo perché rinuncia al suo ruolo di contropotere. Si legge in un classico del costituzionalismo moderno (Alexis de Tocqueville, La democrazia in Ame­rica, 1835-1840) che “la sovranità del popolo e la libertà di stampa sono due cose del tutto correlate: la censura e il suffragio universale sono, al contrario, due cose che si contraddicono reciprocamente». Chi afferma l’una (la sovranità po­polare) deve allora accettare ne­cessariamente l’altra (la libertà di manifestazione del proprio pen­siero).

È per questo che la Costituzione americana qualifica la libertà di stampa come assoluta e mai limitabile dal legislatore (tanto che i suoi lati perimetrali sono tutti esclusiva­mente di origine giurisprudenzia­le). Ecco perché – è ancora Tocque­ville a rilevarlo - “nulla è più raro in questo paese che il vedere un procedimento giudiziario contro un giornale. La ragione è semplice: gli Americani, ammettendo il dogma della sovranità del popolo, l’hanno sinceramente applicato».

Sono citazioni che risalgono a circa due secoli fa, eppure mantengono una straordinaria attualità. Ci rive­lano un dato decisivo: tra la libertà di stampa e la democraticità di un ordinamento esiste un rapporto simbiotico, perché la democrazia si fonda sul consenso, ma il con­senso politico (non diversamente da quello ai trattamenti medici), per essere davvero tale, deve esse­re informato.

Quando un giornalista scrive un articolo di giornale, un’intervista, un titolo rinunciando al pensiero critico e accomodandosi nel ruolo di megafono degli stereotipi e dei pregiudizi, tradisce innanzitutto se stesso.

In secondo luogo, seminando pau­ra, la stampa fa male alla democra­zia perché la paura è un fattore di disgregazione sociale: logora le relazioni interpersonali, spande a piene mani diffidenza, ostilità, sfi­ducia. E la paura di uscire di casa è la spia più evidente dello sfalda­mento di una comunità.

E così, a poco a poco, con l’ineso­rabilità di una goccia d’acqua che finisce – giorno dopo giorno – per erodere il sasso, si arriva a negare la natura inclusiva della Carta co­stituzionale, con i suoi diritti e le sue garanzie. Un piano inclinato di cui sarà bene conoscere la china:

«prima di tutti vennero a prendere gli zingari/ e fui contento perché rubacchiavano./ Poi vennero a prendere gli ebrei/ e stetti zitto perché mi stavano antipatici./ Poi vennero a prendere gli omosessuali/ e fui sollevato perché mi erano fastidiosi./ Poi vennero a prendere i comunisti/ ed io non dissi niente perché non ero comunista./ Un giorno vennero a prendere me/e non c’era rimasto nessuno a protestare» [Martin Ni­emoeller].

Il memento citato ha pregio costi­tuzionale. Ci dice che le società di­ventano più sicure e più prospere se e quando la titolarità dei diritti è garantita al massimo numero di persone possibili. Ci avverte che è dalla scarsa fiducia dei cittadini nella propria dignità di persone ti­tolari di diritti che origina la crisi di legalità dell’ordinamento.

È dunque restituendo questa di­gnità a se stessi e, prima ancora, ai più esclusi che si può sperare di invertire di segno l’attuale populi­smo penale.

 

La Costituzione dietro le sbarre

 

Questa opera di ricostruzione di una cultura smarrita del diritto e dei diritti trova il suo campo di ele­zione nell’attuale realtà carceraria.

Quale sia lo stato delle cose, dietro le sbarre, è noto. Non è un retro­scena o un’opinione, ma un fatto certo.

Oggi, in Italia, la detenzione è – in senso tecnico giuridico - tratta­mento inumano e degradante. Lo attesta la giurisprudenza della Corte EDU come ricorderò a breve. Ne sono indizi il sovraffollamento carcerario: parola a suo modo abnorme (perché abnorme è la situazione che descrive) nata dal­la fusione di due superlativi. Lo provano i suicidi dietro le sbarre (e tra gli agenti penitenziari) che hanno conosciuto una crescita esponenziale spaventosa: dai 100 nel decennio 1960-1970 ai 600 nel decennio 2000-2010, cioè il 300% in più di quando era ancora in vi­gore il regolamento penitenziario del 1931 e la legge Gozzini non era stata neppure concepita. Ne sono vittime i diritti alla salute, al lavoro risocializzante, a percorsi riabilitativi pure imposti dalla fi­nalità costituzionale delle pene che – secondo l’art. 27, III comma, Cost. - “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» (e dove l’accento – come insegna la Corte costituzionale – cade non sul tendere ma sul devono)

Potrei snocciolare dati ufficiali. Ma le statistiche, nella loro asetti­ca freddezza, non restituiscono il senso delle cose. Le testimonianze di oggi da parte di chi è detenuto ci permetteranno – molto più au­tenticamente – di entrare, anche per un solo istante, nelle vite degli altri.

Il paradosso è che a denunciare l’illegalità di Stato è lo Stato stes­so. Attraverso le circolari del DAP. Reiterando, anno dopo anno, de­creti del Governo che dichiarano lo stato di emergenza carceraria (ora prolungato fino a dicembre 2013). L’illegalità dello Stato è de­nunciata con esternazioni ufficiali provenienti dai colli più alti, Quiri­nale compreso. Mediante sessioni parlamentari straordinarie auto­convocate. Attraverso gli atti di sindacato ispettivo di deputati e senatori e le risposte ministeriali.

Riflettiamo un momento. È una re­altà che si avvita su se stessa, come certi disegni di Escher: lo Stato che punisce chi vìola le sue leggi, at­testa di violare la Costituzione, la CEDU, l’ordinamento penitenzia­rio, il suo regolamento di attuazio­ne.

Questo è il punto fondamentale. Non di un problema umanitario stiamo parlando, ma di legalità violata.

Ecco perché – ripeto – non si trat­ta di essere generosamente più umani verso chi ha sbagliato ed è dietro le sbarre. Si tratta, semmai, di essere fedeli alle regole che il nostro Stato di diritto si è dato e che la Costituzione gli impone di rispettare e garantire a tutti, fosse anche il più fetente dei criminali.

Mi limiterò ad un solo esempio: il problema del cd. sovraffollamento carcerario.

 

Il sovraffollamento carcerario (e le parole per dirlo)

 

Evidentemente lo spread è una categoria applicabile anche all’universo penitenziario. Il sovraffollamento, infatti, altro non è che la differenza tra i detenuti presenti a una certa data negli istituti di pena e il numero dei posti effettivamente disponibili, a cui ci si riferisce come “capienza regolamentare”. Convenzional­mente misurata in 9 mq a persona (come stabilito dal Decreto del Mi­nistro della Sanità, 5 luglio 1975), alla data del 31 luglio 2012 tale ca­pienza regolamentare è determi­nata in 45.588 posti (dove vengo­no stipati 66.009 detenuti).

Verso la fine degli anni novanta, in concomitanza con la crescita esponenziale della popolazione carceraria, dal cappello magico dell’amministrazione penitenzia­ria è apparso un nuovo indicato­re del sovraffollamento: quello di “capienza tollerabile”, miracolosa­mente capace, anno dopo anno, di ridurre (ma non di azzerare) lo spread tra spazio e corpi stipati dietro le sbarre. Quali ne siano le unità di misura non è dato sapere. Sospetto che la sua determinazio­ne abbia una natura – come dire? – consuetudinaria.

Lo mette bene in luce l’8° rapporto di Antigone sulle condizioni della detenzione in Italia (Edizioni dell’A­sino, 2011) attraverso le parole di un detenuto: “prima si era abituati a stare in due in cella – anche se le carceri erano state costruite con l’idea di celle singole – e il numero tollerabile era due; adesso hanno cominciato ad aggiungere le terze brande, e siccome è più di un anno qua che c’è la terza branda, fra un anno il numero tollerabile è questo qui (…). L’unico parametro, alla fine, è l’abitudine». E, aggiun­go io, lo strumento di misurazione è molto probabilmente l’elastico.

Eppure il trucco c’è. E si vede. Per dire: se viaggiate in sei su un’auto­mobile omologata per quattro e venite fermati ad un posto di bloc­co, provate a convincere la polizia stradale che la vostra auto ha una capienza tollerabile superiore a quella regolamentare e che, dun­que, il codice della strada non è violato. Dubito che ve la cavereste.

Eppure, sembra che la rigida legali­tà valida per un mezzo di trasporto diventi improvvisamente modula­bile e flessibile se in gioco ci sono corpi in cattività. Assistiamo così – come è stato detto - ad una sorta di verticalizzazione della pena: il ricorso massiccio ai letti a castel­lo. I letti a castello sono ovunque la vera soluzione (e pazienza se il detenuto ai piani alti non ha lo spazio per piegare le ginocchia o se si deve fare a turno per stare in piedi).

Siamo seri. Sarà bene, dunque, non accreditare l’uso di un simi­le indicatore, tanto inattendibile quanto pericoloso. Inviterei i gior­nalisti presenti a parlare e scrivere esclusivamente di “capienza co­stituzionale”: un concetto, questo, che non può limitarsi al numero di posti letto (veri o presunti, sempre più a castello) e che ha la capaci­tà di rammentare come la legalità della detenzione si misuri nel ri­spetto della sua finalità (la risocia­lizzazione del reo) e della sua natu­ra (il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità), che l’art. 27, III comma, della Costituzione im­pone a tutti, amministrazione pe­nitenziaria compresa.

Nel frattempo, è il Consiglio d’Eu­ropa a tenerci sotto osservazione, preoccupato di un nostro contagio.

Siamo infatti lo Stato membro – dopo la Serbia – con il più alto tasso di sovraffollamento delle carceri. Siamo stati condannati, tra il 2009 e il 2012, ben cinque volte per le condizioni inumane e degra­danti in cui sono ristretti i detenuti. Il Comitato dei Ministri sta valutan­do l’esecuzione della sentenza sul caso Sulejmanovic, e più in genera­le quanto finora fatto dal Governo italiano per risolvere le cause strut­turali della condanna. Pendono a Strasburgo oltre 1.200 ricorsi da parte di detenuti nelle carceri ita­liane che denunciano la violazione dell’art. 3 CEDU. Ed è realistico attendersi, dati anche i precedenti, una sentenza-pilota di condanna dell’Italia per le condizioni in cui teniamo ristretti, senza distinzione alcuna, detenuti definitivi e in atte­sa di giudizio1.

Conosco l’obiezione. Se il proble­ma è lo spazio dietro le sbarre, la soluzione è nella costruzione di nuove galere. Il mitico “piano-car­ceri” impostato dal governo Ber­lusconi e proseguito dal governo Monti.

In realtà è la logica di fondo del piano carceri a non convincere. Perché il problema in Italia non è che ci sono pochi istituti peni­tenziari. Semmai che troppi sono i detenuti. Sarebbe sufficiente conoscere la legge fisica dei vasi comunicanti per sapere che più carceri costruiamo più ne riempiamo: ecco perché l’attivazione di nuovi posti, nel breve-medio termine, lungi dal produrre un decremento dello stato di sovraf­follamento, induce un incremen­to della popolazione reclusa, con il conseguente mantenimento, o addirittura con un peggioramen­to, degli standard di sovraffollamento.

La soluzione va dunque colloca­ta altrove. A monte, ovviamente, non a valle. Sono i rubinetti normativi che producono carcerizza­zione a dover essere chiusi. Quali siano lo si capisce guardando alla composizione della popolazione detenuta: stranieri, tossicodipen­denti, recidivi cui è precluso l’ac­cesso a pene alternative, imputati in attesa di giudizio, individui che permangono per un breve fazzo­letto di tempo in carcere. Quei ru­binetti, dunque, sono facilmente riconoscibili: si chiamano legge Bossi-Fini, legge Fini-Giovanardi, legge Cirielli, una custodia caute­lare adoperata quale anticipazio­ne di una condanna che (nel 50% dei casi) mai interverrà, l’abuso dello strumento penale (che do­vrebbe invece rappresentare una extrema ratio).

Se, dunque, si alza lo sguardo ol­tre la contingenza, si scopre che il sovraffollamento carcerario è figlio (chi si rivede!) del populismo penale e di una risposta sanziona­toria che gravita tolemaicamente attorno alla detenzione muraria. Come dare torto, allora, alla pen­na caustica di Adriano Sofri?

Invece di sgombrare e restituire uno spazio appena vivibile ai di­sgraziati destinati a restare reclu­si, si proclama: “Occorre costrui­re nuove carceri”. Che può anche sembrare una buona idea: soprat­tutto per i costruttori di carceri. E per gli inauguratori.

Inaugurare cose è infatti la prero­gativa più invidiabile delle auto­rità. Inaugurare carceri è una meraviglia. Tant’è vero che, quando ne inaugurano una, poi tornano a inaugurarla parecchie altre volte.

Quell’altro modo di affrontare l’af­follamento, metter fuori dalle gale­re una parte di quella maggioranza di persone che ci stanno senza al­cuna vera necessità, non piace alle autorità. È come se, durante un’al­luvione, le autorità provvedessero dicendo: “Bisogna costruire nuove dighe. E prendere un secchiello, e dare una mano a svuotare l’acqua che sale, e soccorrere i disgraziati con l’acqua alla gola? Le carceri pie­ne non hanno infatti niente di nor­male, e invece assomigliano a un’al­luvione: ma abbastanza deliberata. Fino a un certo punto, si trattava di mancata manutenzione degli argi­ni e di omissione di soccorso. Ora si tratta di disastro doloso.

Costruiamo nuove carceri. Epoca di costruttori”.

 

1 La sentenza pilota è stata adottata l’8 gennaio 2013.