Numero dicembre 2011

 

Mostro ma non troppo

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Ristretti Orizzonti

(Anno 13, numero 7, Dicembre 2011)

 

Editoriale

La precisione dell’informazione di Ornella Favero

Capitolo primo: Omicidi colposi

Più attenti e quindi più liberi di Elena Valdini, giornalista, autrice del libro Strage continua

Capitolo secondo: Reati che scuotono l’opinione pubblica, voglia di ergastolo

Voglia di ergastolo di Franco Corleone, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Firenze

Capitolo terzo: Misure alternative, processo lungo e pene ancora più lunghe

Non bisogna confondere la “certezza della pena” con la “certezza del carcere” di Marcello Bortolato, magistrato di Sorveglianza a Padova

Capitolo quarto: Diritto all’oblio

Diritto all’oblio, ma anche a non essere “schedati” a vita di Ornella Favero

Ma io dovrò sempre restare attaccato a quell’articolo di cronaca di 15 anni fa? di Elton Kalica

“Un giornale dopo un giorno serve solo per incartare le patate al mercato” di Mauro Paissan, giornalista e Componente del Garante per la privacy

Potrò mai avere un po’ di silenzio sulla mia storia? di Ulderico Galassini

Capitolo quinto: Carta della pena e del carcere

La Carta della pena e del carcere di Ornella Favero

Un codice deontologico dedicato a chi scrive di condannati, detenuti, delle loro famiglie e del mondo carcerario in genere di Carla Chiappini, Giornalista, vicepresidente dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna

Un benzinaio ucciso a Thiene e le cronache che incitano all’odio di Germano V. redazione di Ristretti Orizzonti

L’altra faccia della medaglia, ovvero “dalla parte del giornalista” di Cristina Gianesini, giornalista del Mattino di Padova

Prospettiva lavoro

Il caffè delle detenute di Pozzuoli Intervista a cura di Paola Marchetti

Arte come veicolo di recupero e di risocializzazione Intervista a cura di Paola Marchetti

inFormaMinore

A 16 anni ho varcato pe la prima volta la soglia del carcere minorile di Luigi Giuda

Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere

Perché una rubrica fissa del nostro giornale dedicata al progetto con le scuole

Ho cominciato a drogarmi per incoscienza, quasi si trattasse di uno scherzo di Marco Cavallini

Quei ragazzi così attenti e così poco superficiali di Qamar Abbas Aslam

Osservavo le facce degli studenti e mi sono ritrovato per un attimo a casa di Santo Napoli

Ri-stettamente utile

Articolo 58 Ter: Persone che collaborano con la giustizia a cura di Antonio Floris

Il 58 Ter spiegato da Alessandro Margara

Radio carcere

Per le carceri meno attenzione che per i canili

Una richiesta alle associazioni animaliste di Santo Napoli

Le campagne contro il maltrattamento degli animali e le carceri sovraffollate indegnamente di Filippo Filippi

Uomo o cane di Alain Canzian

Nelle carceri inizia il terzo anno di emergenza di Antonio Floris

DonneDentro

Aumentare il tasso di umanità delle carceri a cura della Redazione

Ho pensato che dopo la prima lettera non mi avrebbero scritto più di Mimoza

Una sera, per strada, mi hanno messo le manette di Sandra

A mio figlio ho detto tutto, fino all’ultimo particolare di Luminita

Ai miei figli ho detto subito che stavo in questo posto di Margareth

Redazione

Editoriale

 

La precisione dell’informazione

 

di Ornella Favero

 

Questo numero di Ristretti è dedicato al terzo seminario che abbiamo organizzato nella nostra redazione, in collaborazione con l’Ordine dei Giornalisti del Veneto, sui temi della Giustizia, del carcere e dell’esecuzione della pena. Parto allora, ancora una volta, noiosamente forse, dal nostro progetto di confronto con le scuole, perché è diventato un banco di prova fondamentale per capire quello che funziona e quello che non funziona nell’informazione. Quando noi andiamo nelle scuole, nessuno per esempio sa che con il nuovo Codice della strada, se vieni fermato alla guida di un mezzo non dico ubriaco, ma con un tasso alcolico anche di poco superiore a quello consentito (che per giovanissimi e neopatentati è uguale a zero), rischi fino ad un anno di carcere, e quindi ti ritrovi poi con la fedina penale sporca. I ragazzi non sanno che vanno incontro appunto ad un rischio carcere, anche se in questo caso la pena (ma solo la prima volta) può essere sostituita da un lavoro di pubblica utilità.

Adesso, a noi che come associazione abbiamo dato la disponibilità ad accogliere queste persone che devono fare lavori socialmente utili, stanno arrivando moltissime richieste, tanto che fra poco non so come si farà a farvi fronte, perché sono tantissimi ad essere fermati per questo reato, gente giovane, gente meno giovane, professionisti, studenti, impiegati. Da questo quadro si vede una cosa fondamentale: in questi anni si è speculato molto dal punto di vista dei media sul caso del ragazzo Rom che aveva travolto e ucciso quattro persone, ma in realtà queste sono storie nelle quali spesso sono coinvolti i “bravi cittadini” e va fatta una riflessione in proposito, perché l’informazione, quella televisiva in particolare, tende sempre a puntare l’attenzione sui casi estremi, o su quelli nei quali i protagonisti sono “il rumeno ubriaco”, “l’immigrato sotto effetto di sostanze”. Così si pensa sempre che noi potremmo essere vittime di questi reati, e alla fine succedono cose terribili, perché ci sono stati ragazzi giovani che hanno provocato uno scontro e sono scappati, e poi hanno deciso di suicidarsi, e se non l’avessero fatto sarebbero senz’altro stati presentati come i mostri, il “pirata che uccide e scappa”. “Daniel, la morte nei boschi dopo la fuga”, è stata la storia di quel ragazzo che aveva commesso un omicidio sulla strada e poi è scappato per finire a morire da solo.

La nostra richiesta ai giornalisti allora è di affrontare questi temi in un modo meno scandalistico, perché noi che facciamo questo lavoro di confronto ogni giorno nelle scuole ci accorgiamo che i ragazzi spesso non conoscono la legge, non sanno i rischi che corrono rispetto alla guida, e magari leggono la notizia dell’immigrato ubriaco, del moldavo, del rumeno, del Rom e non si rendono conto invece di quanto questa cosa coinvolga veramente tutti.

Noi lavoriamo molto con le parole, io ne voglio sottolineare soltanto alcune: prima di tutto, questa idea che se guidi ubriaco o rispondendo al cellulare, non si tratta di incidente, ma si tratta di uno scontro, perché la parola “incidente” è una parola che attenua la responsabilità.

E ancora, la convinzione che esista la categoria degli “altri”, “tanto capita agli altri”. Tanto capita agli altri perché? Perché spesso giornali e televisione trattano soprattutto casi di reati in cui sono “gli altri” a farlo, cioè danno enorme spazio a certi reati, come gli omicidi colposi, ma anche gli stupri, le rapine in villa, quando a commetterli sono “gli altri”. O magari si finge che siano gli altri, come la storia della ragazzina torinese che ha inventato uno stupro accusando due ragazzi Rom.

La precisione dell’informazione in queste storie credo che sia fondamentale. Il primario del Centro di Unità Spinale di Villanova sull’Arda, che cura ogni giorno persone che subiscono traumi sulla strada, interrogato su come guida lui, ha dato una risposta chiara: conoscere i rischi che si corrono in strada ci può rendere più attenti e quindi più liberi. Ecco allora che anche nell’informazione bisogna essere più attenti alle parole, che vuol dire appunto più liberi, e forse di conseguenza anche meno incattiviti e meno desiderosi di vendetta. Perché queste notizie pubblicate in una certa maniera suscitano soltanto rabbia e desiderio di vendetta, noi vorremmo invece che il padre di una persona uccisa in uno scontro aiutasse, se possibile, i giovani a capire che potrebbe capitare ad un loro amico di morire, ma potrebbe capitare anche a loro di provocare uno scontro, e di finire nel tritacarne della Giustizia, quindi serve davvero una riflessione più seria su “noi” e non sugli “altri”.

 

 

Capitolo primo: Omicidi colposi

 

Come vengono raccontati, come vengono enfatizzati a seconda degli autori.

Ci sono fatti di cronaca nera, come la storia del Rom che ha travolto e ucciso quattro ragazzi, che hanno contribuito pesantemente a far cambiare la legge. E ora la legge è così pesante, che ci sono stati già casi di ragazzi giovani che hanno causato uno scontro (la parola “incidente” forse non è adeguata), sono scappati spaventati e poi hanno preferito suicidarsi, piuttosto che affrontare il giudizio sociale e la Giustizia.

Elena Valdini, giornalista, autrice del libro Strage continua. In Italia ogni giorno dodici persone perdono la vita in scontri stradali, due di loro stanno semplicemente camminando, verosimilmente attraversano la strada. Al contempo, ogni giorno in Italia, circa cinquanta persone riportano ferite gravissime, per esempio perdono l’uso delle braccia o delle gambe. Ma sui giornali se ne parla soprattutto per far emergere “casi esemplari”, quei casi esemplari che hanno provocato una politica di aumento delle pene, invece che un lavoro più serio di prevenzione.

 

 

Più attenti e quindi più liberi

È così che possiamo essere se impariamo a conoscere i rischi che ci sono sulla strada, e se da giornalisti ne scriviamo con precisione e accuratezza

di Elena Valdini, giornalista, autrice del libro Strage continua

 

Vorrei cominciare ponendo l’attenzione sulle parole perché, per chi lavora con i fatti, con le notizie, comunque con le parole, attenzione e precisione sono importanti.

Nel 2009 Ornella Favero e la redazione di Ristetti Orizzonti mi hanno invitato a intervenire nell’ambito del convegno “Prevenire è meglio che imprigionare”, e ricordo di aver cominciato citando alcuni versi da Poesia ininterrotta di Paul Eluard: “Io certifico il reale, io sto attento alle parole, non voglio sbagliarmi, voglio sapere”, versi che ho scoperto leggendo un libro molto bello e importante, “La città degli untori” di Corrado Stajano.

“Io certifico il reale, io sto attento alle parole, non voglio sbagliarmi, voglio sapere”. Basterebbe questo per sintetizzare il senso di quello che proverò a dire.

Mentre scrivevo “Strage continua”, ho riflettuto sul fatto che, se si potesse discutere un’ipotetica “Carta di Roma” sulle vittime della strada e sulla sicurezza stradale, uno dei punti principali su cui confrontarsi dovrebbe essere la sostituzione della parola “incidente” con “scontro stradale”.

Da quando ho cominciato a occuparmi di questo, mi sono confrontata con molte realtà, e mi sono resa conto che la portata è maggiore di quanto immaginabile.

Credo che tutti noi qui si concordi su quanto sia sbagliato usare espressioni tipo “strade killer”. Aggiungo che la strage stradale non è da ricondursi solo alle stragi del sabato sera o all’esodo estivo o agli scontri del fine settimana: l’ultimo rapporto Istat/Aci relativo all’anno 2010 ci parla di 11 morti al giorno, in Italia, ogni giorno, ma nessuno ne dà quotidianamente conto.

Quando ho cominciato a riflettere sul fatto che, forse, la parola “incidente” non era la più appropriata per affrontare questo tema, mi sono anche detta che magari era un pensiero esclusivamente mio, dettato dal mio vissuto, poiché anch’io, come molti altri ragazzi, ho perso degli amici sulla strada. Poi, studiando, documentandomi e provando a comporre tutti gli elementi con cui ricostruire un percorso nella chiarezza, mi sono imbattuta nel “Programma d’azione europeo per la sicurezza stradale – Dimezzare il numero delle vittime della strada nell’Unione europea: una responsabilità condivisa” redatto nel 2001 con l’obiettivo, appunto, di raggiungere il dimezzamento delle vittime entro il 2010, obiettivo rilanciato ora per il 2020.

Il concetto di “responsabilità condivisa” è lì ben evidenziato, così come in un altro documento molto importante, “Preventing road traffic injury: a public health perspective for Europe”, si dice che “è arrivato il momento di smettere di considerare le morti da traffico e le ferite come una conseguenza inevitabile dell’utilizzo delle strade: tali eventi sono prevenibili”.

Per tornare allora alle parole, “precisione” è una parola che secondo me ha molto a che fare con la parola “rispetto” perché credo che il rispetto nasca anche dall’uso corretto dei termini, e penso che entrambe queste parole debbano essere usate nei confronti di tutti, quindi sia della vittima sia nei confronti di chi ha provocato lo scontro.

Alla parola “incidente”, che in qualche modo porta in sé una risposta, quasi risolvesse e assolvesse perché rimanda alla fatalità, alla casualità, e infatti si dice “è stato un incidente” come a dire “non poteva non succedere”, propongo di sostituire la parola “scontro” (solitamente scelta come sinonimo) perché è più asettica. In questo senso, se tutti sono scontri, non tutti sono incidenti.

L’incidente per esempio è il cinghiale che salta sul cofano della mia macchina, mi fa sbandare e volare in canale; quindi, sempre in quest’ottica, forse non posso considerare un incidente, cioè un fatto che non poteva non succedere, quel caso in cui si verifica uno scontro perché c’è stato qualcuno che non ha rispettato le regole perché era alla guida ubriaco, drogato o perché correva troppo.

La sensibilità, anche nei confronti di tale distinzione, è molto cambiata rispetto, per esempio, agli anni Novanta: è aumentata, ma non basta, nel senso che credo bisognerebbe parlarne di più, e in questo senso l’informazione può fare moltissimo.

Attenzione e precisone credo debbano essere usate a pioggia su tutti gli elementi che compongono un articolo, soprattutto quando si tratta di casi di cronaca con vittime.

Ero una ragazzina quando ho cominciato a perdere i miei amici sulla strada: in un caso si trattò della cosiddetta “strage del sabato sera”.

Il lunedì mattina, mentre andavo a scuola, ho comperato il giornale: la cronaca dello scontro riportava l’intervento dei carabinieri, dei sanitari del 118, dei vigili del fuoco… Un articolo, per prendere a prestito le parole di un giornalista che mi ha insegnato molto, “da ragioniere della notizia”. Il pezzo però – forse perché le informazioni raccolte non erano sufficienti, forse perché non c’era stato tempo per verificare meglio (le variabili sono molte, lo so) – si chiudeva riportando dati inesatti su una delle vittime; quelle imprecisioni hanno condizionato le mie scelte future e ho provato a fare delle domande un mestiere.

Ciò che dobbiamo considerare è che dinanzi alla perdita improvvisa e violenta di un figlio, di un genitore, di una sorella, di un compagno, lo stordimento è totale e spesso si ha bisogno di esattezza e precisione.

Allora, se questo è davvero solo un esempio di cosa può provare un amico, pensate a cosa può provare per errori anche molto più ampi, molto più gravi, un familiare.

Ecco perché credo che si dovrebbe lavorare con la maggiore cura possibile pensando anche che magari domani l’articolo sarà letto sia dai familiari della vittima sia dai familiari di chi ha provocato lo scontro. Gli errori esistono, ma è la sciatteria che non va bene.

Se venisse data quotidianamente notizia del numero delle vittime (sappiamo di poterlo fare per esempio con le agenzie, addirittura Google news potrebbe aiutarci: provate a inserire nel motore di ricerca l’espressione “incidenti stradali”, avrete notizia anche delle cronache locali) questo permetterebbe di mantenere alta la soglia di attenzione sui pericoli che si corrono in strada, i cui fattori di rischio non sono solo legati al consumo di alcol e droghe. Questo invece non avviene, i telegiornali del servizio pubblico non se ne occupano giornalmente e la stampa in generale registra le vittime dai 3-4 morti in su.

Una comunicazione più attenta ci aiuterebbe anche a evidenziare che i fattori di rischio, come accennavo, non si chiamano solo alcol e droga ma anche eccesso di velocità, mancate precedenze, semafori e segnaletica non rispettata. Ci aiuterebbe a chiarire che non è solo un problema legato ai giovani (secondo il rapporto Aci/Istat 2010 la categoria più colpita) ma che, come dimostrano i dati per esempio della provincia di Brescia (relativi sia al 2010 che al 2011, aggiornati a novembre) e le statistiche regionali relative all’Emilia Romagna in relazione ai decessi per scontri stradali nel 2011, a essere coinvolti sono soprattutto quarantenni e cinquantenni.

Sono solo alcuni esempi per dire, in sintesi, che il quadro in realtà è molto più ampio e che l’informazione potrebbe aiutare moltissimo, anche a far capire che non possiamo essere prigionieri della paura e che conoscere i reali rischi che si corrono in strada può aiutarci ad essere più attenti e quindi più liberi.

Lavorare su questo argomento è difficile, anche perché significa confrontarsi con la “rimozione sociale”: io stessa ho visto e raccolto scongiuri e segni della croce come a dire “meglio tenerle lontano queste brutte cose”. Ma penso che sarebbe un grande passo avanti se passasse il concetto che non è vero che “sono cose che capitano sempre agli altri” e che parlare di sicurezza stradale significa anche parlare di “responsabilità condivisa”.

Mentre lavoravo al libro, ho visitato il Centro di Unità Spinale di Villanova sull’Arda (che è uno dei due Centri dell’Emilia Romagna, l’altro si trova in provincia di Bologna, a Montecatone), ho visto il grandissimo lavoro che vi viene svolto; poi, ho parlato col primario, Sergio Lotta, e gli ho chiesto: “Lei, che da trent’anni si confronta ogni giorno con queste problematiche, come guida?”. E lui mi ha dato la più intelligente delle risposte: che non possiamo essere prigionieri della paura e che conoscere i rischi che si corrono in strada ci può rendere più attenti e quindi più liberi.

Allora è questo, secondo me, lo sguardo da tenere, perché è in positivo, è costruttivo.

Aggiungo ancora un aspetto per ribadire quanto sia importante il ruolo dell’informazione.

Ogni volta che entro in un carcere (ricordo molto bene il primo incontro con la redazione di “Ristretti” qui nel 2009), ogni volta che incontro gli studenti oppure durante un dibattito pubblico c’è sempre qualcuno che interviene riferendosi a quanto ha letto sul giornale, magari citando anche solo titoli e portandoli come punto di riferimento.

Ricordo per esempio che durante l’incontro con la redazione di “Ristretti” (pubblicato in “Ristretti Orizzonti”, aprile 2009) avevo sottolineato quanto i temi legati alla giustizia per le vittime spesso non si ritrovano nei titoli e negli articoli di giornale.

Penso per esempio alla richiesta da parte dell’Associazione italiana familiari e vittime della strada di istituire i Centri di assistenza per le vittime oppure di modificare l’articolo 111 della nostra Costituzione.

Le vittime della strada non sono morti ineludibili. Intervenire si può. L’Inghilterra ci ha dimostrato già nei primi anni Duemila che si può passare da 9 mila morti a 3 mila: questa strada è percorribile da ogni Paese.

Allora, ripeto, in questo contesto il ruolo dell’informazione assume un’importanza altissima: dove si informano le persone? dove possono leggere le notizie legate a questi temi?

Chiudo ricordando le parole di alcuni familiari dell’Associazione italiana familiari e vittime della strada (la giornata mondiale in ricordo delle vittime della strada cade la terza domenica di ogni novembre): “Spesso la stampa chiede la nostra testimonianza, la storia lacrimevole, ma quando passiamo a indicare le proposte e le richieste ci tagliano”.

Già si parla poco di vittime della strada e sicurezza stradale, proviamo almeno a fare in modo che quegli spazi siano il più possibile precisi, completi e costruttivi. Il cambiamento, il miglioramento, si raggiunge anche attraverso questa strada.

 

 

Capitolo secondo: Reati che scuotono l’opinione pubblica, voglia di ergastolo

 

Secondo l’Osservatorio di Pavia, un istituto di ricerca specializzato in analisi della comunicazione, sono 1.023 le notizie che il Tg1 ha dedicato nell’intero 2010 alla criminalità, contro le 60 del Tg tedesco, le 255 di quello francese, le 514 di quello spagnolo.

Si può allora capire come, in questo clima, cresca nel nostro Paese la voglia di galera, e la convinzione che la galera da scontare per certi reati sia sempre troppo poca. Basta pensare a un noto caso di rapimento e omicidio di una giovane donna nel vicentino, in cui l’autore del reato è stato condannato prima all’ergastolo, e in appello poi la pena è stata ridotta a trent’anni, e le cronache sono state piene di commenti con un “solo trent’anni!!!”.

Franco Corleone, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Firenze, autore con Stefano Anastasia del libro “Contro l’ergastolo”: A partire dalle lezioni tenute da Aldo Moro nei suoi ultimi anni di vita, contro l’ergastolo e la pena di morte, Corleone si confronta sulla pena del “fine pena mai”, per capire se e come si potrà fare a meno di questa pena, e quanto possa contribuire invece l’informazione a tenerla ancora in vita.

 

 

Voglia di ergastolo

Per andare invece controcorrente, la via maestra sarebbe quella dell’approvazione di un nuovo Codice penale, e in questo quadro la questione dell’ergastolo assumerebbe un altro valore

 

di Franco Corleone, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Firenze

 

Recentemente mi sono trovato in un laboratorio medico e ho visto un poster di una associazione, che chiede l’istituzione di un nuovo reato, propone cioè la sostituzione dell’omicidio colposo, in caso di disastro stradale, con l’omicidio stradale, con ovviamente un aggravamento delle pene.

Le cose che mi hanno turbato sono due, la prima è che si dà troppo spesso per scontato il fatto che l’omicidio che avviene sulle strade sia dovuto all’alcol e all’uso di droghe, e questo è un problema che bisogna affrontare con i giornalisti, perché si continua a leggere titoli a caratteri cubitali con espressioni del tipo: “in preda all’alcol e alle droghe”, senza mai dire quali sono i tassi di consumo di alcol o quale droga sia stata consumata. Io per esempio sostengo, anche in base a ricerche accreditate, che l’uso di certe sostanze non provoca una incapacità di guida tale per cui ci sia la certezza del rischio di scontro. Appare davvero strano, se non stravagante, che si sottovaluti la causa vera degli incidenti, cioè la velocità che ha una sua motivazione specifica e non deriva necessariamente dall’uso di sostanze, legali o vietate. Si realizza il mito novecentesco del futurismo coniugato a tecnologie sempre più spinte, e noi che ricordiamo l’invito alla lentezza (assieme alla dolcezza e alla profondità) di Alex Langer ci sentiamo impotenti.

Si comprende così che invece fa comodo creare il mostro, e chi è più mostro di uno che è “ubriaco o drogato”? In realtà siamo vittime del pregiudizio, del pregiudizio sulle sostanze, che provocherebbero quasi necessariamente una conseguenza drammatica. E’ una forma di demagogia, di retorica che si è diffusa ovunque, e quindi io penso che anche una campagna interessante come quella che pone in discussione l’omicidio colposo vada ben meditata.

Infatti può essere giusto che la qualificazione di omicidio colposo debba essere tarata con più intelligenza rispetto ai fenomeni di oggi e non su quelli di una società agricola o preindustriale in cui l’omicidio colposo poteva derivare dalla caduta di una tegola dal tetto o dalla perdita di controllo di un animale. L’omicidio va riconsiderato, probabilmente, sulla dimensione delle diverse caratteristiche della nostra società, valutando i comportamenti in base al criterio della responsabilità e delle prevedibili conseguenze degli atti compiuti. Però io non cambierei il codice, in maniera estemporanea, introducendo la nuova figura di omicidio stradale, concetto poi difficile da definire fattualmente.

Ma la cosa che mi ha colpito di più nel messaggio pubblicitario, è la proposta di un “ergastolo per la patente”, cioè la richiesta che a chi ha guidato una volta ubriaco o sotto effetto di droghe venga tolta la patente per sempre. La dizione usata è proprio “l’ergastolo della patente”.

Siamo di fronte al trionfo del simbolico. Il linguaggio usato per una campagna su un fatto sociale sicuramente rilevante come la guida in stato di ebbrezza però ci fa capire quanto sia difficile fare una campagna per l’abrogazione dell’ergastolo vero, se anche per il ritiro della patente, a livello di propaganda, si ritiene efficace evocare l’ergastolo, nel senso che un fine pena mai serva anche in quel caso e che quindi la pena debba essere soltanto retributiva e realizzare una vendetta e non avere l’orizzonte della rieducazione e contenere la sfida del reinserimento.

Veniamo quindi al tema più pregnante, l’ergastolo. Io con Stefano Anastasia ho curato un libretto contro l’ergastolo e insieme abbiamo affrontato questo tema che appare cosi fuori tempo. Fino a pochi decenni fa la battaglia per l’abolizione dell’ergastolo, se pure minoritaria, era riconosciuta come una battaglia di civiltà. Civiltà giuridica, civiltà umana, affermazione di umanità. Oggi invece pare proprio una cosa stravagante.

Il fatto paradossale è che qualcuno per giustificare tale pena sostiene che è solo teorica e che nei fatti non esiste, tanto è vero che anche la Corte costituzionale ha in qualche modo dichiarato che, siccome c’è una possibilità di usufruire della liberazione condizionale dopo 26 anni di carcere, si può considerare che l’ergastolo sia comunque compatibile con il dettato costituzionale.

Non è cosi in realtà, per due motivi, in primis perché vi sono ormai delle forme consolidate di sentenze e misure limitative, per cui l’ergastolo è vero ed effettivo, tanto che si definisce ormai nel linguaggio carcerario e giuridico come l’ergastolo ostativo.

Secondariamente è che gli ergastoli stanno aumentando. Nell’Introduzione al volume, che è stato anche recensito da Ristretti Orizzonti, nell’ambito di una campagna su questo tema, si ricorda che nel ‘92, quando si iniziò a parlare dell’abolizione dell’ergastolo in un convegno con la partecipazione della allora Presidente della Camera dei deputati Nilde Iotti, i condannati all’ergastolo erano 408, alla fine del 2008 erano diventati 1408: un aumento notevole sia in numero assoluto che in proporzione. Non sono in possesso dei dati recentissimi, ma sono certo che sono ulteriormente aumentati, forse di un centinaio, cosi come sono aumentati negli ultimi anni gli ospiti dei manicomi criminali, degli OPG, che si erano fino a qualche anno fa stabilizzati sulla cifra di 1.000 internati e che ora hanno raggiunto la quota impressionante dei 1.500.

È davvero curioso questo dato: aumentano gli ergastoli e aumentano gli ingressi nei manicomi criminali! E la metà degli ergastoli attualmente in esecuzione sono ostativi, cioè sono proprio quegli ergastoli da cui è difficile uscire. Quindi è una pena reale, vera e lunga, infinita che costituisce una caratteristica del nostro Paese, un unicum dell’Italia.

In Spagna per esempio l’ergastolo non c’è, in Norvegia non c’è, e questo fatto lo si è scoperto in Italia proprio quando è accaduta quella strage terrificante, soprattutto di ragazzi socialdemocratici presenti in un meeting sull’isola teatro della violenza perpetrata da un fanatico razzista. La forza della democrazia norvegese è stata quella di dire: noi non ci facciamo condizionare da questo crimine, noi manteniamo la nostra civiltà giuridica e quindi giudicheremo con le pene e le procedure che il codice prevede.

Due Paesi diversi, uno del Mediterraneo, l’altro del nord Europa non hanno l’ergastolo, ma non sono i soli, tanti sono quelli che non ce l’hanno, anche il Brasile ad esempio non ha l’ergastolo. Le polemiche che ci sono state sulla mancata estradizione di Cesare Battisti non sono state purtroppo una occasione per i mass media di discutere sul fatto che anche in Brasile non c’è la pena dell’ergastolo.

Allora forse siamo noi che siamo strani, non gli altri, sulla conservazione di una pena che suscita le stesse perplessità di principio della pena di morte, per la cui abolizione e per la moratoria decisa dall’Onu l’Italia è stata protagonista.

Ma non è stato sempre cosi. La discussione in Italia in passato è stata molto appassionata e di alto spessore, tanto che nel 1998 (davvero possiamo dire un secolo fa!), il Senato della Repubblica approvò una proposta di legge di abolizione dell’ergastolo, a grande maggioranza ricordo, poi purtroppo si arenò alla Camera dei deputati. E da allora molta acqua è passata sotto i ponti.

Il Senato recentemente ha addirittura approvato un disegno di legge che rende più difficile l’accesso ai benefici per i condannati all’ergastolo, ma c’è di più, perché non sarebbe più possibile per chi ha la condanna all’ergastolo accedere al rito abbreviato e quindi poter avere una condanna a 30 anni invece che l’ergastolo. Addirittura poi in questo disegno di legge, approvato quasi all’unanimità al Senato, e questo per dire come certi temi sono trasversali nel senso più orrido, si prevede che le misure alternative alla detenzione siano possibili solo dopo avere scontato almeno 26 anni di reclusione.

Questo è un segno dell’affermazione di un nuovo senso comune e di come sono cambiati i tempi da quando, due anni prima del suo rapimento e della strage della sua scorta, Aldo Moro aveva tenuto una lezione sulla funzione della pena ai suoi studenti all’Università. Abbiamo probabilmente da fare autocritica in tanti, su Aldo Moro, almeno ciò è accaduto a me, dopo aver letto queste pagine che erano sconosciute a noi che lo consideravamo come il capo della Democrazia Cristiana e responsabile del regime di quegli anni. Ebbene ricordo ai più giovani che si diceva che Moro avesse un linguaggio incomprensibile, si parlava di “linguaggio moroteo”, addirittura Leonardo Sciascia e anche Pasolini si sono occupati del linguaggio oscuro di Moro. Tardi, forse troppo tardi abbiamo letto queste parole: “Risolto il problema della qualità della pena, resta il problema della sua quantità, che è un problema estremamente delicato, un problema raffinato di giustizia, l’idea della proporzionalità dice che la pena deve essere commisurata al reato, misurata al reato, adeguata al reato. Quindi la pena non deve essere, se il reato è grave, troppo leggera, cioè sproporzionata, inadeguata a far vivere quel rimprovero sociale dal quale ci attendiamo la restaurazione dell’ordine giuridico.

Non deve essere, però, neppure quantitativamente troppo pesante sì da rappresentare un carico che per la sua eccessività diventa per ciò stesso, esso pure, crudele e disumano e, quindi, non dà alla pena quella risposta pacata, giusta, appassionata, che è propria della pena.

Ricordatevi che la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati: è la risposta calibrata dell’ordinamento giuridico”. E Moro chiude dicendo che “gli interventi del potere sociale non possono abbandonarsi ad istinti di reazione e di vendetta ma devono essere pacatamente commisurati alla necessità, rigorosamente alla necessità, di dare al reato una risposta quale si esprime in una pena giusta”.

Non ho timore di smentita se affermo che siamo di fronte a una scrittura essenziale, a un italiano chiaro e bello. Dunque Aldo Moro, due anni prima di essere sottoposto ad una processo farsa, definito grottescamente popolare, senza difesa, e condannato a morte, condanna poi eseguita crudelmente e stoltamente, aveva pronunciato e scritto parole durissime contro la pena di morte, “una vergogna inimmaginabile in un regime di democrazia sociale e politica”. E sulla pena perpetua aveva detto: “Priva com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento, appare crudele e disumana non meno di quanto lo sia la pena di morte”.

Ecco, ho letto queste parole di Aldo Moro per dire che sì, viene ricordata spesso la strage di via Fani, il sequestro e l’assassinio di Moro, però non vengono ricordate queste parole, che forse aiuterebbero a contrastare quel disastro, quel deserto culturale che si è impossessato della nostra società, per cui il diritto viene piegato ad altre ragioni che non siano invece quelle della nostra Costituzione, dell’articolo 27, perché una pena infinita contrasta inevitabilmente con i principi lì solennemente affermati.

 

Invece di riformare il Codice, noi abbiamo scelto una via “emergenziale”

 

È una convinzione diffusa che una proposta di abolizione dell’ergastolo per via parlamentare sia difficile, se non impossibile oggi, nelle condizioni date e una conferma viene dal fatto che in quest’ultima legislatura non siano state presentate proposte di legge in tal senso. Un segno dei tempi anche questo o meglio della sfiducia e della sconfitta del vero garantismo!

Però io mi sono convinto che per affrontare questa questione e altre ugualmente molto difficili e controverse, la via maestra sarebbe quella dell’approvazione di un nuovo Codice penale, perché nel quadro di una riforma complessiva come è quella di un codice si potrebbe comprendere meglio la ragione di una misura e di un provvedimento, del carattere culturale della scelta giuridica e quindi giustificare l’ assenza di una pena. Riproporre la battaglia per l’abolizione dell’ergastolo isolatamente non ha solo la certezza di una battaglia perduta, ma contiene anche il rischio di rafforzare le pulsioni securitarie negative e di pregiudicare una scelta futura positiva.

Infatti tutte le proposte di riforma del Codice penale delle Commissioni ministeriali Grosso, Nordio, Pisapia prevedono l’abolizione dell’ergastolo. Alcune con la sostituzione della pena perpetua con una reclusione fino a 33 anni, altre con la previsione di meccanismi di sicurezza in casi particolari. Il fatto che giuristi di diverso orientamento siano giunti a soluzioni simili dal punto di vista di principio e della civiltà giuridica, dimostra che questa sia la via praticabile.

Io sono un fautore fanatico della necessità di un nuovo Codice penale. E lo sono ritenendo anche che la Repubblica italiana abbia compiuto un grande errore a non scrivere subito un nuovo Codice penale dopo la Liberazione. Poiché il Codice penale rappresenta il patto della convivenza sociale e delle regole, il non avere adeguato il Codice a un sistema democratico e ai valori della democrazia, ma avere mantenuto ancora il Codice Rocco che era l’espressione dello stato autoritario, il simbolo dello stato etico, sia stato un errore di cui noi abbiamo pagato molte gravi conseguenze.

Abbiamo assistito a una sorta di rivoluzione incompiuta proprio sul piano delicato del diritto (e dei diritti), perché per togliere le storture più clamorose e incompatibili con le libertà, ci si è affidati alla Corte costituzionale, ma l’impianto del Codice è restato quello originario.

La conseguenza più grave è che si è rafforzato sempre più il carattere emergenziale della nostra legislazione, perché si è continuamente legiferato per leggi speciali o eccezionali. Luigi Ferraioli, maestro di diritto, ha affermato il principio della riserva di Codice, per cui tutte le sanzioni penali dovrebbero essere presenti nel Codice, e noi invece abbiamo scelto una via, ormai da tanti anni, contraria e irrazionale.

La legge sulla droghe è quella che provoca più ingressi in carcere ed è una legge speciale. La legge sull’immigrazione è una legge speciale. Quella sulla recidiva anche.

Ma tante leggi, troppe, (anche quella contro le violenze agli animali), hanno questo vizio originario. Succede un fatto di cronaca particolarmente eclatante o che i giornali dipingono come tale? Sorge automatica la richiesta di una legge ad hoc e tutte le leggi speciali ed eccezionali hanno una caratteristica: le pene altissime. Siccome vengono scritte sull’onda dell’emozione, cosa c’è di più eccitante della statuizione di una pena lunga? E quindi pene draconiane.

Ma perfino per la vendita dei cd contraffatti si prevedono pene insensate e che quasi sempre vengono espiate integralmente. E questo è un sistema che poi a cascata arriva ai Comuni, che fanno le ordinanze più stravaganti per il decoro o contro il degrado. In questi giorni a Ferrara la Giunta ha presentato un’ordinanza contro le palle di neve. Io tra l’altro ho appena visto un’ordinanza del Granducato di Toscana del 1700, in cui si deprecava e si sanzionava tale gioco. Quindi niente di nuovo se vogliamo, però il problema è che la carcerazione oggi rischia di essere una via molto pesante, proprio per quell’idea della certezza della pena che in realtà è certezza del carcere. E poi non c’è più nessun equilibrio. Pensate, la pena base per la detenzione o spaccio di sostanze stupefacenti è da 6 a 20 anni di carcere. È una pena alta, altissima. Che equilibrio c’è con le pene per l’associazione mafiosa o la rapina o l’omicidio? Nessuno, siamo di fronte a un uso simbolico del penale con ricadute sociali drammatiche.

Ecco perché io sostengo che il Codice, prima di tutto un Codice laico, oggi dovrebbe affrontare i reati tipici del nostro tempo e quindi, per l’appunto, i reati finanziari, economici, la criminalità informatica, le truffe dei colletti bianchi. Fattispecie che nel 1930 non esistevano e si puniva invece l’abigeato o l’aborto; ma si dovrebbero affrontare in un quadro chiaro e poi avere l’equilibrio delle sanzioni.

Io penso anche che certe sanzioni non detentive potrebbero essere immaginate al momento del giudizio e non affidate al procedimento successivo. Alcuni Codici come quello spagnolo hanno individuato sanzioni riparative, con un equilibrio fra i comportamenti, i delitti e le pene, e noi invece abbiamo inventato la rincorsa a pene sempre più alte. La conseguenza paradossale è che poi accade qualcosa che è incomprensibile per un’opinione pubblica diseducata e incattivita, cioè che le pene edittali siano molto alte e poi nei fatti (non sempre, ma in alcuni casi, ovviamente enfatizzati) diventano troppo diverse nell’esecuzione e sono ritenute troppo tenui.

Quindi io penso che andrebbe rimodellato il Codice e allora, come ho detto, in questo quadro la questione dell’ergastolo o quella degli Ospedali psichiatrici giudiziari e delle Case lavoro assumerebbero un altro valore. Sì perché, a proposito di Case lavoro, noi abbiamo questo reperto incredibile nel nostro ordinamento che non si riesce ad abolire, per cui un persona, anche dopo avere scontata la pena, può continuare a subire una pena ulteriore, infinita, da scontare nelle cosiddette Case lavoro. Il caso di Sulmona in cui non si lavora neppure, perché non c’è lavoro è davvero clamoroso. Quindi il paradosso è che chi subisce questa pena si sente doppiamente vittima, perché ha scontato la pena, ma ha una pena nuova che può essere infinita, perché la pericolosità sociale viene certificata dal magistrato di Sorveglianza. E per di più non lavorando, nonostante sia rinchiuso in una Casa lavoro. Alla faccia del trattamento e del reinserimento!

Ecco, questi sono gli aspetti un po’ arcaici che noi abbiamo nel nostro sistema penale e che dovremmo ripulire, e l’unica strada possibile è quella della riforma, perché anche visioni diverse alla fine probabilmente si ritroverebbero d’accordo. Oggi non sarebbe difficile scrivere un Codice penale rifacendosi a quanto elaborato da Grosso, Nordio e Pisapia - tre commissioni con impostazioni diverse culturalmente – trovando una sintesi accettabile.

Per questo bisogna mettere la giustizia al centro della discussione tra i partiti, non come è stato fatto in questi 15 anni, ma in un modo radicalmente diverso.

La priorità dell’agenda politica appare oggi solo l’economia e la crisi finanziaria, ma la ricostruzione di un Paese richiede un cambio di paradigma più incisivo, che si radichi nelle coscienze e trovi le ragioni della convivenza in un sentimento di condivisione tra passato e futuro e in un patto tra le generazioni, tra uomini e donne solidali.-

 

 

Capitolo terzo: Misure alternative, processo lungo e pene ancora più lunghe

 

A chi parla di automatismi nella concessione delle misure alternative, vale la pena di ricordare per esempio che per l’affidamento in prova ai servizi sociali la forbice nelle percentuali di accoglimento delle istanze è ampia: va dal minimo dell’11,58% di Napoli al massimo del 39,43% di Milano. Marcello Bortolato, magistrato di Sorveglianza a Padova, affronta il tema delle misure alternative, e di come ci sia chi, per esempio con la proposta di legge sul processo lungo, intende rendere ancora più difficile l’accesso a queste misure, nonostante tutte le ricerche dicano che chi ha scontato la pena passando attraverso una misura alternativa recidiva molto meno di chi si fa tutta la pena in carcere.

 

Non bisogna confondere la “certezza della pena” con la “certezza del carcere”

Le parole non solo sono importanti, sono anche pericolose, perché una parola sbagliata in una legge o in una sentenza può provocare dei danni enormi, ma anche una parola sbagliata in un articolo di giornale può provocare dei danni gravi

 

di Marcello Bortolato, magistrato di Sorveglianza a Padova

 

È la terza volta che partecipo a questo seminario con i giornalisti, che considero un’esperienza fondamentale non solo per loro ma anche per noi operatori penitenziari e per gli stessi detenuti.

È fondamentale perché al centro della discussione c’è “l’uso della parola”: con le parole si fanno le leggi, si scrivono le sentenze, le ordinanze, i provvedimenti, con le parole si scrivono gli articoli di giornale. Le parole non solo sono importanti, sono anche pericolose, perché una parola sbagliata in una legge o in una sentenza può provocare dei danni enormi, ma anche una parola sbagliata in un articolo di giornale può determinare conseguenze gravissime.

La prima cosa che vorrei fare è richiamare alla vostra attenzione un bel libro “Il carcere spiegato ai ragazzi” di Patrizio Gonnella e Susanna Marietti.

Gli autori si sono chiesti: “Come possiamo spiegare il carcere a dei ragazzi?”. Noi lo sappiamo, perché con Ristretti Orizzonti, con Ornella Favero, incontriamo migliaia di studenti cui spieghiamo che cos’è il carcere, che cos’è la pena, che cos’è l’ergastolo, che cosa sono i reati. Cercando di spiegarlo ai ragazzi (che parlano a sproposito molto meno degli adulti) lo riusciamo a spiegare agli adulti, che forse sono quelli che hanno sovrastrutture, preconcetti, pregiudizi che i ragazzi invece non hanno. Lo dico per esperienza personale: quando vado a parlare di carcere e di pena coi ragazzi ho delle sorprese meravigliose, perché scopro che i ragazzi si pongono il problema del carcere, dei reati, del detenuto con una mente che spesso è libera. Certo, non è sempre così, bisogna vedere da quale contesto, familiare e sociale, provengono però hanno una mente aperta e quindi spesso riescono a capire molto meglio degli adulti certi concetti.

“Il carcere spiegato ai ragazzi” in realtà si rivolge anche e soprattutto agli adulti. Uno degli aspetti interessanti che il libro analizza è il linguaggio: sia il gergo carcerario usato dalle persone detenute, sia quello burocratico dell’istituzione. Ad esempio certe parole che al di fuori del carcere servono ad esprimere un determinato concetto, in carcere si trasformano: perché il lavoratore in carcere si chiama lavorante? È strano, perché lavorante e non lavoratore? Perché lavorante indica la precarietà di un lavoro che oggi c’è e domani non c’è più, che termina quando esci dal carcere, oppure può terminare perché compi un illecito disciplinare o il direttore decide di togliertelo, o semplicemente perché è a rotazione con altri detenuti.

C’è poi questo linguaggio un po’ infantile che asseconda l’ideologia rieducativa del sistema penitenziario, per esempio per indicare i lavori svolti per conto dell’amministrazione si usano termini come spesino o scopino: ma in quale parte del mondo chi fa la spesa si chiama spesino? O chi spazza per terra si deve chiamare scopino? Vi consiglio di leggere questo libro, perché analizza questi diversi linguaggi e ci fa capire perché questa realtà del carcere si trasforma sotto il profilo anche lessicale.

Siccome è una realtà complessa, difficile da esprimere e rappresentare all’esterno, spesso si ricorre al luogo comune, che impedisce però che ci possa essere un dibattito reale e onesto nell’opinione pubblica. A volte si sente parlare di “Carcere a cinque stelle” oppure si sentono commenti tipo “ma che cosa vogliono i detenuti che appena stanno male li portano in ospedale, mentre il cittadino libero deve aspettare chissà quanto prima di andare al Pronto Soccorso?”; oppure ancora “Cosa vogliono i detenuti che hanno la televisione?”. E tutti “Ah, la televisione! Ci sono famiglie che non hanno la televisione! E i detenuti ce l’hanno tutti, tutte le celle hanno la televisione!”:

Magari si dovrebbe dire che è l’unica cosa che hanno, perché non potendo fare niente tutto il giorno in cella guardano la televisione! Quindi è vero che hanno la televisione, ma non è un lusso che si aggiunge ad altri lussi. Ogni volta che si usano e si assecondano questi luoghi comuni, bisognerebbe sempre fare delle precisazioni, e ricorrere ai numeri.

Allora per esempio si dice che in Italia abbiamo un tasso di carcerizzazione alto, e si dice anche che è alto perché abbiamo una grande criminalità organizzata, ed è verissimo, perché abbiamo delle pericolosissime organizzazioni criminali che hanno nel nostro Paese il dominio di alcuni territori. E di conseguenza si dice anche: “Non possiamo permetterci delle leggi più miti, un regime penitenziario più aperto, perché abbiamo la mafia, abbiamo la camorra, abbiamo la ndrangheta”. Ma forse bisognerebbe vedere chi sono le persone che stanno in carcere e lo vediamo attraverso i numeri, che a volte ci parlano molto meglio e più delle parole. Allora, vado a vedere qual è la percentuale dei detenuti per reati di mafia e di criminalità organizzata in Italia e scopro che sono il 9,2 per cento. Vado poi a vedere quanti sono i detenuti per violazione della legge sulla droga e scopro che sono il 36,9 per cento: e attenzione, ci sono violazioni molto diverse tra loro, c’è chi importa 20 chili di cocaina dal Sudamerica, ma c’è anche chi viene trovato con pochi grammi di hashish, sono puniti in modo diverso chiaramente, ma si trovano entrambi in carcere.

Abbiamo poi il 47,9 per cento in carcere per reati contro il patrimonio, quindi non per reati di violenza, ma contro il patrimonio: ovviamente questi numeri sono destinati ad intersecarsi, perché può esserci un detenuto che è in carcere per droga e nello stesso tempo per rapina, che certamente è un reato grave perché aggiunge alla violazione del diritto di proprietà anche quello della persona.

L’informazione però spesso ci racconta del caso eclatante, del serial killer, del violentatore, del rapinatore abituale e quindi noi pensiamo che le carceri siano piene di assassini, violentatori, rapinatori, mafiosi; non ci racconta che la massa della popolazione carceraria è fatta di persone che magari hanno rubato ripetutamente al supermercato o nelle case e che devono scontare un anno, un anno e sei mesi, due anni, otto mesi, sette mesi.

Poi c’è il 15-20 per cento di persone che hanno problemi di natura psichiatrica, persone che non dovrebbero stare in carcere, perché il carcere non è un luogo di cura, e che invece ci stanno perché oltre ad avere un problema psichiatrico, e spesso proprio perché hanno un problema psichiatrico, hanno commesso un reato.

 

“Di che cosa si lamentano che tanto la pena non la scontano mai fino all’ultimo giorno?”

 

Ma c’è un altro dato importante: il 63,8 per cento dei detenuti ha un residuo di pena inferiore ai 3 anni.

Perché sottolineo 3 anni? Perché 3 anni è quel limite al di sotto del quale si può concedere la misura alternativa e questo ci introduce ad un altro luogo comune, quello sui benefici penitenziari: “Di che cosa si lamentano che tanto la pena non la scontano mai fino all’ultimo giorno?”. Di questo sono convinti in tanti, e ancora, pensano che le misure alternative siano automatiche, perché i giudici di Sorveglianza, i tribunali di Sorveglianza ne concedono a pioggia. Io sono un giudice di Sorveglianza e quindi applico i benefici penitenziari, li concedo da solo quando giudico da solo o insieme ad altri quando compongo il tribunale di Sorveglianza. Ci sono alcuni benefici, quelli più importanti, che vanno concessi da un organo collegiale composto da due magistrati e due esperti, psicologi, medici, criminologi; altri, come i permessi premio, vengono concessi dal solo magistrato di Sorveglianza.

Dico subito che non c’è nulla di automatico! Perché l’unica cosa certa in carcere è che la pena ad un dato punto finisce, tranne per gli ergastolani. Tutto il resto non è automatico, perché i benefici penitenziari vengono dati con un alto tasso di discrezionalità, e questo è vero, infatti è un mestiere difficile il mio, perché è una decisione che si prende per il futuro, non per il passato, che è più facile.

Il giudice della cognizione giudica un fatto, quindi si volta indietro, scatta la fotografia. Il dottor Pavarin, presidente del tribunale di Sorveglianza di Venezia, usa spesso questa immagine molto efficace: il giudice che condanna “scatta la foto”: hai commesso quel reato e questa è la tua pena. Cosa fa invece la magistratura di Sorveglianza? Deve capire cosa c’è dietro a quella foto per valutare se è possibile che la pena stabilita da chi ha scattato quella foto possa essere modificata, in termini qualitativi e quantitativi, prima che scatti il fine pena, così come prevede la Costituzione all’articolo 27.

Perché? Perché se la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, e rieducazione del condannato significa “risocializzazione”, allora quello che interessa allo Stato, ad uno Stato evoluto, democratico, avanzato, è mettere nelle condizioni colui che ha commesso il reato, che ha cioè violato il patto sociale, di non violare più quel patto. Ma allora come si fa ad abituare una persona a non delinquere più? Bisogna innanzitutto osservarla, capire perché ha commesso il reato, guardare ‘dietro la foto’, da dove viene, dove andrà una volta fuori dal carcere, in quale ambiente potrà ricostruire, se possibile, quel legame che ha spezzato con il reato.

Ci sono studi criminologici, giuridici, scientifici, e anche un’indagine statistica promossa dal DAP, che mostrano che chi ha espiato la pena fino all’ultimo giorno in carcere, senza aver mai fatto qualche passo fuori dalle mura, senza essere abituato a riprendere i contatti con la società, ricomincia a delinquere nel 68 % dei casi. Chi invece ha espiato almeno una parte della pena in misura alternativa torna a delinquere nel 19 %.

Dal 1975 il nostro Ordinamento penitenziario prevede che il magistrato di Sorveglianza possa modificare la pena stabilita dal giudice della cognizione, se questo serve alla rieducazione come impone la Costituzione, e ciò soprattutto nella parte finale dell’espiazione, attraverso le misure alternative.

Allora i benefici penitenziari che cosa sono? Il permesso premio è la possibilità di uscire temporaneamente dal carcere per coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro a seguito della valutazione dell’équipe che segue il detenuto all’interno del carcere.

Le misure alternative costituiscono invece una modalità diversa di espiare la pena, non è libertà piena e anche su questo c’è un po’ di confusione. Spesso si legge: “È stata data la semilibertà al detenuto X”, che può essere il responsabile anche di gravi reati di sangue, ma cosa significa “semilibertà”? Semilibertà significa esattamente che la persona detenuta sta in carcere di notte e di giorno esce a lavorare. Non una libertà totale quindi, ma una semi-libertà.

Se una persona ha un lavoro a un certo punto della pena può esserle concesso di esercitarlo fuori dal carcere ma sotto controllo, con grosse e giuste limitazioni, e se viola le prescrizioni, anche solo di qualche minuto ad esempio nel rientrare in istituto, può essergli revocata la misura; quindi egli è ancora completamente all’interno della struttura penitenziaria, salvo la possibilità di uscire per alcune ore e solo per lavorare.

Perché? Perché il lavoro innanzitutto rieduca, è uno dei maggiori fattori di rieducazione. Attraverso il lavoro una persona comincia a risocializzare con gli altri, a guadagnare lecitamente, ad apprendere un mestiere; ricordiamo che il 47,9 per cento di reati è contro il patrimonio e dunque lavorando impara a vivere lecitamente e può anche contribuire ai bisogni della famiglia o risarcire la vittima del reato.

Una seconda misura alternativa è la detenzione domiciliare. Voi sapete che da circa un anno in Italia c’è una legge che è intervenuta per limitare il sovraffollamento, stabilendo che tutti i detenuti, ad eccezione di quelli responsabili dei reati più gravi, possano scontare l’ultimo anno di pena a casa. E qui il magistrato non può sindacare più di tanto: è una forma ordinaria di espiazione.

La detenzione domiciliare è sicuramente un beneficio, perché è meglio espiare la pena a casa che in carcere, però comunque ha una forte natura contenitiva e restrittiva, perché il condannato non può uscire per lavorare, non può uscire per portare i bambini a scuola, cioè ha delle restrizione che comunque gli consentono per il momento di rientrare nella famiglia dove poi dovrà rimanere quando la pena sarà terminata. Quindi un po’ alla volta si abitua al rientro nella società, dove prima o poi dovrà tornare.

Infine, c’è l’affidamento in prova al Servizio sociale, una delle misure più ampie, che viene concessa a chi è stato condannato ad una pena inferiore a tre anni o ha un residuo di pena da scontare inferiore a tre anni. Questa misura si concede ai detenuti quando sono giunti ad un grado di rieducazione tale all’interno del carcere da meritare di scontare la pena restante all’esterno; deve esserci anche una situazione familiare e lavorativa idonea a supportare questa ultima fase dell’esecuzione della pena.

L’affidamento è necessariamente condizionato all’esistenza di un domicilio (e di quel 34 % di stranieri in carcere non tutti hanno un domicilio) e di un lavoro, quindi nemmeno in questo caso si può parlare di automatismi.

 

I padri costituenti, reduci da esperienze carcerarie, sapevano cosa voleva dire la galera

 

Un altro luogo comune riguarda il fatto che in Italia non ci sarebbe la certezza della pena: quante volte lo abbiamo detto, lo abbiamo sentito, lo abbiamo letto sui giornali?

Ma cosa significa certezza della pena? Innanzitutto c’è da dire che la Costituzione parla di carcere in un unico articolo, l’articolo 27: i costituenti, che erano stati in carcere, hanno detto sostanzialmente: “Bisogna che parliamo di carcere in Costituzione, perché noi sulla nostra pelle lo abbiamo subito e sappiamo cosa vuol dire”. Hanno quindi scritto due cose fondamentali, loro che sono stati anche torturati: “La pena non deve essere mai contraria al senso di umanità” e “La pena deve tendere alla rieducazione”.

Non hanno voluto attribuire alla pena uno scopo retributivo, ‘male per male’, si punisce con lo stesso male che si provoca (pena di morte di fronte all’omicidio, e così via), né una funzione special-preventiva, cioè per impedire al delinquente, richiudendolo, di delinquere ancora. Né hanno insistito sulla funzione general-preventiva della pena, per cui la pena avrebbe una funzione di intimidazione, di deterrenza per il resto della popolazione: cioè, più alta è la pena, più i consociati che ancora non hanno compiuto il reato si asterranno dal commetterlo, perché hanno paura di finire in carcere.

Si è pensato allora che, a seconda dei tempi contingenti, queste funzioni le avrebbe di volta in volta assegnate il Parlamento, quello che interessava era che in tutti questi tre casi la pena dovesse in ogni caso avere una ‘tensione’ rieducativa. Può essa avere anche un effetto intimidatorio, può anche avere un effetto retributivo, può anche avere un effetto special-preventivo, ma comunque deve tendere alla rieducazione.

Negli ultimi anni invece, ispirandosi a questo principio che la pena deve essere certa, si dice “il recidivo non deve uscire dal carcere”. Ricordate, la legge ex-Cirielli? Il recidivo deve stare sempre dentro fino alla fine. Perché le misure alternative vengono concesse di meno negli ultimi anni? Perché dal 2005, con la legge ex-Cirielli, i recidivi per esempio non possono andare in detenzione domiciliare.

Ma chi sta in carcere se non i recidivi? Chi compie il reato la prima volta, se non è un reato grave, difficilmente va in carcere, lo sanno anche i ragazzi delle scuole! Se compi un reato punito con una pena inferiore ai due anni, e sei incensurato, il giudice ti concede la sospensione condizionale! In carcere ci vai la seconda, la terza volta. Quindi è chiaro che il carcere è pieno di recidivi, dei quali molti sono persone con problemi di tossicodipendenza e lì la recidiva è altissima.

La certezza della pena può essere anche accolta come concetto, nel senso che la pena deve essere eseguita, ci mancherebbe altro! La pena che un giudice ha dato in un processo giusto va eseguita e quindi è certa, ma nei limiti che la legge stessa prevede che sia eseguita.

È la legge che prevede che la pena possa essere eseguita in forme alternative, come con i benefici penitenziari e le misure alternative; la certezza della pena è salvaguardata, si tratta sempre di pena che viene scontata fino all’ultimo giorno, anche in misura alternativa.

Quello che non bisogna mai confondere è la “certezza della pena” con la “certezza del carcere”, che sono due cose diverse: chi scrive deve avere il coraggio di usare le parole giuste, non si può utilizzare “certezza della pena” se invece si vuole dire “certezza del carcere”.

 

 

Capitolo quarto: Diritto all’oblio

 

Se al giornalista si chiede una maggiore precisione nei racconti della cronaca nera, e una verifica più approfondita delle fonti, è anche perché oggi la persona che commette reati, soprattutto per come funziona Internet, non finisce sulle pagine dei giornali o nelle cronache televisive per lo spazio di un giorno, o poco più, ma ci resta a vita attraverso i motori di ricerca generalisti.

Mauro Paissan, giornalista, membro dell’Ufficio del Garante nazionale della privacy, interviene, in risposta ad alcuni quesiti posti da Ornella Favero e Elton Kalica, sulla tutela dei diritti delle persone private della libertà personale rispetto all’informazione, sul diritto all’oblio e come si può tutelarlo “limitando i danni” provocati da notizie, che dovrebbero per lo meno essere reperibili solo negli archivi dei giornali, e non anche attraverso i motori di ricerca come Google.

 

Diritto all’oblio, ma anche a non essere “schedati” a vita

Se si finisce nella cronaca nera, oggi con Internet non se ne esce più. Ma anche se si finisce in un terminale delle forze dell’ordine per una denuncia, si rischia di restare “denunciati a vita”

 

di Ornella Favero

 

In passato se una persona finiva sui giornali, nelle pagine della cronaca nera, anche se l’articolo conteneva magari non sempre notizie vere, a volte anche un sacco di imprecisioni, a volte falsità, o inesattezze di vario tipo, l’effetto di quell’articolo durava qualche giorno, e poi finiva dimenticato da tutti. Oggi con Internet il problema è drammatico, perché la persona resta inchiodata non solo al suo reato, ma anche e soprattutto a come è stato raccontato quel reato! Io credo che i giornalisti si debbano porre oggi molto più che un tempo il problema di quello che scrivono, perché l’approssimazione e la spettacolarizzazione di certe notizie di nera poi hanno degli strascichi infiniti. Due giorni fa ho ricevuto da un detenuto che era in permesso una mail che mi segnalava che, se digita su Google il nome di suo figlio, viene fuori la sua vicenda processuale, lui è in carcere per l’omicidio della moglie e vorrebbe che questa cosa fosse bloccata, perché il ragazzo è ancora piccolo, e ha diritto di non vedere associato il suo nome ogni volta a una storia così pesante.

Cosa è successo? In un quotidiano, La Repubblica, è uscita sette anni fa la cronaca di questo fatto ed è stato citato con nome e cognome il figlio di 5 anni di questa persona, quindi adesso è sufficiente inserire in Google il nome non dell’omicida, ma di questo bambino, per associarlo a questa storia.

Il problema che abbiamo posto a Mauro Paissan ha due aspetti: questo è il primo, il diritto all’oblio, il secondo è un aspetto curioso che forse neppure voi sapete: siccome può capitare anche a uno che non è finito in carcere di avere una denuncia, che cosa succede?

Una persona magari ha una denuncia, poi la cosa viene archiviata o c’è un’assoluzione e tutto finisce lì, ma in realtà non è così semplice, perché nei terminali della polizia la denuncia resta, mentre l’assoluzione o l’archiviazione non risultano da nessuna parte!

Quindi se si fa una ricerca, anche perché quando delle persone devono entrare in carcere come volontari o per partecipare a qualche iniziativa, viene fatto un controllo su di loro ai terminali delle forze dell’ordine, per esempio magari risultano delle denunce. È successo per un direttore di un Dipartimento di Salute mentale, che in tanti anni di vita professionale aveva avuto anche qualche denuncia da parte di pazienti o di loro famigliari, poi era stato assolto, e nemmeno immaginava che ai terminali delle forze dell’ordine lui risulta avere tante denunce quante un pericoloso criminale.

 

 

Ma io dovrò sempre restare attaccato a quell’articolo di cronaca di 15 anni fa?

 

di Elton Kalica

 

Vorrei fare un’introduzione all’intervento di Mauro Paissan, però ponendo anche una domanda. Per fare questo sono costretto a partire da un esempio concreto di una richiesta di oblio: si tratta di una cosa che è successa a me.

Innanzitutto è importante capire se e come è possibile conciliare il “diritto all’oblio” con il diritto all’informazione. Perché è ovvio che quando si parla di cronaca, ogni richiesta legata alla sfera della privacy trova un muro da parte dei giornalisti che rivendicano il diritto di informare.

Io sono uscito dal carcere dopo aver scontato 15 anni. Sono stato condannato per avere fatto, insieme ad altre due persone, un connazionale ed un ragazzo italiano, un sequestro di persona. Ma che cosa è successo davvero? Abbiamo chiesto dei soldi per vecchie questioni ad un connazionale che aveva da tempo un debito con noi, e gli abbiamo detto: “Tu vai a prendere i soldi e la tua ragazza sta con noi”. L’abbiamo portata nel nostro appartamento. Lui è andato a cercare i soldi, non li ha trovati, e ad un certo punto è andato dai carabinieri e ci ha denunciato dicendo “C’è una banda di albanesi che mi ha sequestrato la ragazza e mi chiede un riscatto!”.

Ovviamente ha ingigantito le cose, per cui i carabinieri hanno organizzato una specie di trappola: lui ci ha chiamati, noi siamo andati, ad un certo punto le auto dei carabinieri ci hanno speronati, hanno sparato al conducente, poi ci hanno arrestati, con l’accusa di sequestro di persona a scopo di estorsione. Credo che i carabinieri si fossero resi conto subito che eravamo dei ragazzi di vent’anni più che dei feroci criminali, però ormai si erano preparati ad affrontare una banda di sequestratori armati, e per questo hanno reagito in quel modo. Comunque, gli articoli che hanno accompagnato il mio arresto hanno descritto il fatto come “scontro tra bande di albanesi”, “Conflitto a fuoco con le forze dell’ordine”, quindi come se fossimo armati, in realtà noi non eravamo affatto armati!

Poi al processo, siccome in Italia per il reato di sequestro di persona la pena prevista è dai 25 anni in su, (si immagina sempre che le pene siano basse in Italia, invece credo che siano le pene più alte di tutta l’Europa), ci hanno condannati al minimo della pena, quindi a 25 anni. Però in considerazione del fatto che non avevamo armi, non avevamo usato violenza, non avevamo né legata, né imbavagliata la ragazza, anzi, quando sono andati i carabinieri a casa ha aperto lei la porta, perché aveva le chiavi, era anche andata a fare la spesa nel frattempo, proprio di fronte a questi fatti, ci hanno tolto un terzo della pena, applicando quelle che si chiamano “attenuanti generiche”.

Non c’era stato uno scontro a fuoco con la polizia, non eravamo armati, non eravamo una banda di sequestratori. Ciò nonostante gli articoli che riguardano questa vicenda, che si trovano tuttora in internet, dicono questo! Contrariamente a quella che era la realtà, e contrariamente alla verità processuale.

 

Qualche tempo fa, siccome la verità, anche quella processuale, è un’altra, abbiamo chiesto al Garante della privacy di intervenire e di vedere se era possibile togliere questi articoli dalla rete. Questi articoli si trovano negli archivi del Corriere della Sera.

Il Garante è intervenuto con l’Editore. L’ideale per me sarebbe stato che venissero messe le iniziali invece di nome e cognome. Questo non è stato possibile. Però, attraverso un comando informatico quegli articoli non sono più reperibili con la ricerca di un motore di ricerca generalista, il che significa che se uno mette il nome su Google non trova quegli articoli, e li trova solo se entra nell’archivio del Corriere della Sera.

Sembrava essere una conquista, perché di fronte al rischio che per il resto della mia vita il mio nome rimanesse attaccato a questi articoli di cronaca nera, ho tirato un sospiro di sollievo, con l’idea che un minimo di privacy era stato conquistato.

È successo però che poche settimane prima che finissi la pena alcuni giornali, tipo La Padania, e alcuni notiziari online molto for­caioli, hanno scritto degli articoli che dicevano più o meno: “Ecco, sta uscendo Elton Kalica, responsabile della redazione di Ristretti Orizzonti, che dice di essere entrato in carcere quasi “per sbaglio”, ma in realtà basta andare a leggere gli articoli di cronaca di quindici anni fa e si scopre un’altra verità…”. E così hanno tirato fuori quegli articoli, evidentemente scovandoli dall’archivio del Corriere e riproponendoli in modo integrale, con dei commenti secondo i quali, io appartenevo ad una banda di sequestratori, ero armato e avevo fatto un conflitto a fuoco con la polizia.

Questo è successo pochissimi giorni prima che uscissi dal carcere. Poi il 25 ottobre arriva dopo 15 anni il fine pena, e io penso “finalmente ora sono un uomo libero! Se non posso restare in Italia prendo l’aereo e me ne torno a casa!”. Quella mattina mi prelevano dal carcere e mi portano in questura. Adesso magari sono io che sbaglio a pensare male, però a volte ci si azzecca, e io credo che non sia stata una coincidenza il fatto che arrivato in questura, la funzionaria dice “Kalica è una persona estremamente pericolosa, io non lo faccio andare a casa da solo!”, che significa aspettare l’espulsione coat­ta in un Centro di Identificazione ed Espulsione (che è come andare in un altro carcere).

In questura c’era il mio avvocato, c’era Ornella e altri volontari, persone che erano venute ad aspettare la mia uscita. Ebbene, loro hanno cercato di convincere questa funzionaria che io non avevo nessuna intenzione di restare da clandestino nel territorio italiano, che avevo i soldi, che ero completamente identificato, che mi sarei comprato il biglietto e sarei tornato a casa. Ma lei non ne ha voluto sapere, e così mi ha fatto accompagnare da due poliziotti al CIE di Modena in attesa di essere espulso.

Lì per fortuna, grazie alla documentazione fornita dalla Direzione del carcere e dal Magistrato di Sorveglianza, che attestava il mio pieno recupero e la mancanza di pericolosità, e grazie al lavoro dell’avvocato, il giudice di pace non ha convalidato il trattenimento.

Comunque ora il punto è questo. Secondo me, grazie anche agli articoli di cronaca scritti con superficialità quindici anni fa, io mi sono fatto due giorni al Cie. Articoli che proprio pochi giorni prima della scarcerazione, sono stati rispolverati da un giornalista “premuroso” di informare la comunità del mio arrivo, e che, temo, mi perseguiteranno per il resta della mia vita, senza che si possa cambiare una virgola nel racconto sbagliato dei fatti.

Adesso mi domando, siccome questi articoli continueranno ad essere lì, è davvero inevitabile il fatto che io per il resto della mia vita sarò quella fotografia di quel ventenne che ha fatto quel sequestro? Insomma resterò per sempre attaccato a quella vicenda, a quell’articolo di cronaca di 15 anni fa? C’è un rimedio a questi effetti devastanti di Internet, che è sì una cosa bella che porta “progresso”, ma che ha anche il potere di conservare e diffondere all’infinito certi articoli di cronaca nera, che sono stati scritti più con l’idea di vendere che con l’idea di fare una informazione corretta e responsabile?

Quindi, per riassumere, la mia domanda per il Garante qui presente è: “Esiste un diritto all’oblio di fronte a Internet e di fronte ad articoli di questo tipo?”

 

 

“Un giornale dopo un giorno serve solo per incartare le patate al mercato”

Oggi questa frase di un grande maestro di giornalismo, Luigi Pintor, non avrebbe più senso. I giornali, anche le notizie più minute, rimangono nel tempo, permangono nella storia e continuano a produrre effetti talvolta drammatici sulla vita delle persone

 

di Mauro Paissan, giornalista e Componente del Garante per la privacy

 

Ieri sono andato su internet e ho digitato il nome e cognome di Elton Kalica per vedere se quello che avevamo fatto resisteva al tempo, e infatti non mi sono ricomparsi gli articoli del Corriere della Sera, che erano quelli più negativi nei suoi confronti e nei confronti della sua vicenda.

Per quanto riguarda gli articoli di cronaca nera reperibili in internet, il problema vero sono i motori di ricerca, non tanto il fatto che nell’archivio storico giornalistico di un quotidiano siano ancora presenti quegli articoli: è giusto che vi rimangano dal momento che c’è una intangibilità degli archivi storici. Se noi ripulissimo tutto, giornali e libri, cambieremmo la storia.

Il salto di qualità è avvenuto coi motori di ricerca generalisti tipo Google, che consentono a chiunque, digitando un nome e cognome, di pescare determinati articoli. Se c’è un fondamento per richiedere di escludere per via informatica quegli articoli dalla “pesca” di Google, questo è un fatto positivo e di tutela che noi abbiamo adottato per una serie di persone che si sono rivolte al Garante e che ha funzionato. Il caso drammatico è quello del bambino, del figlio che digita il nome di suo padre e trova fatti a lui sconosciuti. Il nipote undicenne di un grande banchiere italiano ha scoperto, digitando nome e cognome del nonno, che questi aveva avuto un pesante procedimento giudiziario dal quale era stato prosciolto. Questa persona era stata denunciata per rea­ti molto seri, corruzione, ma poi nessun giornale aveva riportato la notizia della assoluzione, anzi del proscioglimento addirittura durante l’istruttoria. Torneremo su questi temi.

Per quanto riguarda il Ced - il Centro di documentazione delle forze di polizia - che riporta le notizie anche più minute sul nostro conto, va ricordato che se si viene fermati per un normale controllo da una pattuglia dei carabinieri lungo la strada, la notizia va a finire nella scheda personale presso il Ced nazionale, anche se non risulta niente a nostro carico. Decine di migliaia di soggetti sul territorio nazionale possono accedere a queste banche dati. Poi vedremo come è possibile difendersi, in parte almeno, da questa memoria storica, che spesso è una memoria distorta, perché risulta ad esempio la denuncia e non magari l’assoluzione.

Veniamo al diritto all’oblio. C’è un diritto all’oblio nel nostro ordinamento, che cos’è? Per oblio si intende il non essere ricordati come responsabili, come vittime, come testimoni, come protagonisti di una certa vicenda che può essere un reato, ma anche un non reato. Qui ne parliamo soprattutto in relazione all’attività giornalistica, anche se questo è solo un aspetto del problema.

Una riflessione sull’oblio implica un riconoscimento forte della tutela della dignità della persona e un riconoscimento altrettanto forte di quell’articolo della Costituzione che parla di rieducazione, di risocializzazione di chi ha commesso un reato. Il principio di risocializzazione della persona, del detenuto, fa a pugni con le caratteristiche del dibattito pubblico su questi temi che punta a enfatizzare l’insicurezza derivante dalla criminalità o dalla microcriminalità da una parte, e dalla presunta impunità per chi commette reati dall’altra.

Prima di passare più specificatamente al tema dell’oblio voglio ricordare, visto che sono presenti molti giornalisti, due ambiti entro i quali si commettono parecchie offese alla dignità della persona.

Il primo è la ripresa fotografica o televisiva di persone in condizioni di contenzione, manette o simili. Il problema è stato riproposto di recente sul piano internazionale dalla ripresa che aveva riguardato Dominique Strauss Kahn, fatto sfilare a New York di fronte alle telecamere con le manette dietro la schiena. La scena ha fatto rumore perché si trattava del direttore generale del Fondo monetario internazionale, ma quanti poveri cristi, quanti normali cittadini vediamo nei telegiornali, fatti sfilare nei corridoi delle questure e ripresi in condizioni di restrizione, con le manette ai polsi? Talvolta con la grande ipocrisia adottata da alcuni giornali di contornare le manette con una leggera pixellatura, in modo che il Garante della privacy o qualcun altro non possa accusare la testata di essere venuta meno a uno dei principi costitutivi del Codice deontologico dei giornalisti, che vieta la ripresa di persone appunto in stato di detenzione o con ferri e manette ai polsi.

L’altro grande buco nero riguarda la pubblicazione delle foto segnaletiche, vietata anch’essa dal Codice deontologico oltre che da disposizioni del Dipartimento di pubblica sicurezza del Ministero dell’interno. Ne è autorizzata quindi la diffusione solo per comprovati fini di giustizia e di polizia e nel rispetto della dignità personale. Quando parlo di questo problema cito come esempio, e lo ritengo veramente emblematico, la pubblicazione su tutti i giornali italiani della foto dell’attrice Serena Grandi, quando venne arrestata per una vicenda di droga dalla quale poi è stata completamente assolta.

Ebbene, pur essendo facilmente reperibile una foto dell’attrice Serena Grandi negli archivi di tutte le testate italiane o attraverso internet, quel giorno la notizia dell’arresto è stata invece corredata dalla foto segnaletica. Ovviamente ai giornalisti qualcuno la foto l’ha data, e ritraeva Serena Grandi arrestata alle quattro di notte, spettinata, non truccata, con gli occhi gonfi, e già solo quella foto trasmetteva un messaggio di colpevolezza.

È la stessa tecnica fotografica della foto segnaletica a trasmettere un messaggio negativo del viso e della persona, un po’ perché immortala lo spavento e la paura del momento dell’arresto, e un po’ perché sono fotografie scattate in modo tale da non lasciare spazio a bellezza o gradevolezza dell’espressione del viso.

Trattando di cronaca giudiziaria e di cronaca nera è frequente il rischio di incorrere in lesioni gravi alla dignità delle persone. E parlando di dignità delle persone non mi riferisco solamente ai responsabili dei reati, ma al doveroso rispetto delle vittime, o al rispetto dovuto ai testimoni valutando se sia il caso o meno di rivelarne l’identità.

I principi ai quali i giornalisti devono attenersi, scrivendo di cronaca giudiziaria e di cronaca nera, sono l’interesse pubblico di quanto riferito informando (quando informano), la verità del fatto e la forma civile dell’esposizione.

Sono questi i tre criteri individuati quali “principi guida” nel fare informazione. D’altronde documenti internazionali, soprattutto del Consiglio d’Europa, insistono su questi tre aspetti, trattandone anche altri che - visto soprattutto il luogo in cui ci si trova - sono da ritenersi altrettanto importanti: la presunzione di innocenza, tanto bistrattata quando si scrive di cronaca giudiziaria e di cronaca nera; l’accuratezza delle informazioni, perché spesso “tiriamo via” nel dare le notizie; la privacy, cioè la dignità delle persone variamente coinvolte; il diritto all’oblio, in modo specifico.

Il diritto all’oblio si può anche chiamare “il passato che non passa”, oppure “l’eterno presente”.

Il problema si pone, è il primo aspetto, quando la notizia (e quindi la vicenda) viene riproposta così come è stata scritta 5, 10 o 20 anni fa. Un secondo aspetto riguarda gli archivi storici online dei giornali. Il terzo, quando gli stessi archivi storici online dei giornali diventano raggiungibili attraverso i motori di ricerca generalisti. Un quarto aspetto, che io aggiungerei, deriva dalla messa online da parte di quasi tutte le istituzioni pubbliche della loro documentazione storica.

Vediamo rapidamente questi quattro aspetti.

Si possono riproporre fatti vecchi, che consentono l’identificazione dei protagonisti, l’attribuzione di eventuale responsabilità o della qualifica di vittima. Qui non si può essere tranchant. Non c’è una regola che dice “posso o non posso”. Si deve valutare se oggi, riproponendo per esempio un fatto del 1992, permane l’attualità e l’interesse pubblico. Nel ‘92 fu compiuta una rapina della quale fu responsabile Mario Rossi? Forse non è il caso dopo 20 anni di riproporre la vicenda nella sua integralità facendo il nome del signor Mario Rossi. Ma se nel ‘92 c’è stata l’importante inchiesta giudiziaria “Tangentopoli”, le persone implicate in quella vicenda che ha cambiato la storia d’Italia non possono chiedere di non ricordare i nomi di chi è stato arrestato per corruzione, concussione ecc.

Quindi due fatti avvenuti nello stesso anno possono essere trattati diversamente. Ed è sempre necessaria la mediazione del giornalista e la sua capacità di valutare l’attualità della notizia.

La Corte di Cassazione nel 1998 ha stabilito il principio dell’”attualità della notizia” quale ulteriore condizione per il legittimo esercizio del diritto di cronaca stabilendo, con sentenza, la necessità di valutare se oggi il fatto di cronaca riproposto mantenga l’interesse pubblico, per il quale il giornalista possa raccontare non solo la vicenda, ma anche i nomi dei protagonisti.

Un anziano parlamentare - deputato di estrema destra e noto come picchiatore fascista - qualche anno fa chiese alla magistratura di impedire agli organi di informazione che venisse ricordata questa sua attività giovanile, molto intensa nella città di Roma. Il Tribunale di Roma non gli riconobbe il diritto all’oblio, anche in quanto personaggio noto, ritenendo che quella sua esperienza giovanile costituisse l’identità della sua figura politica, così come era conosciuto nel mondo politico ma sopratutto nella città di Roma.

A molti tra coloro che si sono rivolti al Garante, non trattandosi di personaggi pubblici, è stato riconosciuto il diritto a non essere ricordati in vicende trascorse. Soprattutto perché frequentemente queste persone hanno imboccato un nuovo percorso di vita ricostruendo una identità personale completamente nuova e che nulla ha a che fare con la precedente.

Alla nota trasmissione “Un giorno in pretura” il Garante ha impedito di riproporre, in occasione di una puntata speciale riassuntiva, alcune immagini di una ragazza che tra il pubblico inveiva contro i giudici al momento della sentenza di condanna del proprio compagno, imputato nel processo alla Banda della Magliana. La ragazza, ormai donna matura, si era rivolta a noi dicendo che erano ormai trascorsi 16 anni da quella vicenda, che la sua vita era radicalmente cambiata e che non voleva che fosse riproposta quella parte della sua vita con la quale non aveva più nulla a che fare. Noi le abbiamo dato ragione, come in altri casi abbiamo accolto richieste di persone che chiedevano, visto soprattutto il tempo trascorso, di non essere ricordate in contesti specifici.

Ma anche alcune vittime si sono rivolte a noi. Ho presente il caso di un medico trentino - non si è mai capito come e perché successe la cosa - sfigurato con il lancio di acido in faccia. Un cardiologo rovinato, non solo nell’aspetto fisico ma impossibilitato ad esercitare la professione avendo subito danni alla vista. Ad ogni anniversario la vicenda veniva riproposta, complice anche la penuria di notizie cittadine nel periodo estivo, con il pretesto di voler ricordare che ancora non era stato individuato il responsabile del folle gesto. Anche in questo caso è stato riconosciuto il diritto all’oblio, chiedendo ai giornali di rispettare la vittima, ponendo fine a questa riproposizione ciclica dell’evento ed evitando di pubblicarne nome e cognome e fotografie della casa. Perché anche questo facevano i giornali e le pagine locali.

In alcuni casi invece non è stato possibile riconoscere questo diritto. I genitori di Milena Sutter, la ragazza rapita e uccisa negli anni settanta - un caso di rapimento molto emblematico per quegli anni - hanno chiesto che non venisse più ricordato il nome della figlia nella ricostruzione di quel periodo. Il Tribunale non gli ha riconosciuto questo diritto valutando, secondo me giustamente, che si tratta di un caso di cronaca sul quale “si è continuato a discutere e si discute ancora” e che ha segnato la storia del Paese. È stato invece riconosciuto in tutti gli altri casi, quando il personaggio non è pubblico, quando è passato un periodo di tempo sufficiente e quando la riproposizione non è fondata su nuovi fatti - perché invece noi abbiamo dovuto respingere certe richieste di persone che, approssimandosi il processo di appello, richiedevano di non essere più citate, ma era un fatto nuovo il processo di appello e non si poteva certo dire ai giornalisti di parlarne cancellando i nomi degli imputati.

 

Veniamo all’altro aspetto, perché il vero problema non è tanto la riproposizione della notizia ma la permanenza negli archivi storici dei giornali delle vicende e delle informazioni di cronaca. Ormai i maggiori quotidiani hanno messo online decine di anni di archivi storici. In questo modo riemergono, spesso con effetti drammatici, notizie e fatti spesso caduti nel dimenticatoio anche per gli stessi protagonisti.

Mi ricordo che una delle frasi che il mio maestro di giornalismo Luigi Pintor ci trasmetteva era: “Ricordatevi che un giornale dopo un giorno serve solo per incartare le patate al mercato; perciò sappiate anche i limiti della vostra attività, perché è un prodotto che si consuma, si butta via”. E gli archivi allora erano nei sotterranei di qualche giornale e nessuno li consultava.

Oggi questa frase non avrebbe più senso. I giornali, anche le notizie più minute, rimangono nel tempo, permangono nella storia e continuano a produrre effetti talvolta pesanti sulla vita delle persone. E già questo salto di qualità dovrebbe indurre i giornalisti a pensarci qualche secondo in più prima di scrivere, perché una notizia sbagliata, mal scritta, una volta appunto finiva al mercato oggi va in internet, e se c’è un nome attaccato esso riemerge con facilità.

 

Che emerga solo nel sito del giornale che ha l’archivio storico non è devastante. Può essere in certe circostanze negativo, ma non è devastante, perché non penso che una persona che vuole sapere qualcosa di qualcuno vada e digiti www.corrieredellasera.it e metta dentro il nome e cognome. Il problema, appunto, è quando attraverso Google o Virgilio o un altro motore di ricerca generalista si pizzica quell’articolo e lo si ripropone per l’eternità. Questo è il vero problema, più che la presenza dell’archivio della singola testata, perché anche se io compaio in un articolo de La Stampa, chi è che mai andrà su La Stampa a digitare Mauro Paissan? Lo digita sul motore di ricerca generalista ed è li che l’effetto è veramente pesante. Può essere pesante quando ripropone una vicenda che effettivamente è successa, però può succedere la stessa cosa anche di fronte a notizie false o a notizie incomplete - incomplete nel senso che uno può essere arrestato per corruzione o per omicidio e poi assolto, ma attraverso un motore di ricerca io pesco la notizia dell’arresto perché è l’unica pubblicata, perché poi il giornale non è tenuto a seguire la conclusione di quella vicenda.

Allora i problemi qui sono di natura diversa. Ho già detto che è stato possibile per il primo aspetto, cioè quello della reperibilità attraverso il motore di ricerca, far adottare ai giornali che hanno gli archivi storici la copertura di certi articoli senza cancellarli dal loro archivio originale, e questo ridimensiona per molte persone il problema. I maggiori editori di fronte a una nostra richiesta hanno sempre aderito, anche perché noi abbiamo assicurato l’intangibilità dell’archivio storico del quotidiano.

Molto più difficile da risolvere è il problema delle notizie errate o incomplete, perché in questo caso noi dovremmo incidere invece sull’archivio storico del quotidiano, oppure notizie che erano legittime allora quando sono state scritte e non più oggi.

Caso classico sono le vittime di violenza sessuale. Un tempo scrivevano nome e cognome della vittima, allora non era - come è invece ora - illegittima la pubblicazione. E qui si apre tutto un campo di attività anche nostra per introdurre la possibilità di incidere in qualche modo anche sugli archivi, apponendo delle note. Sempre se c’è la notizia di un arresto poi non seguita da notizie su come si è conclusa la vicenda, se la persona coinvolta dimostra che è stata prosciolta o assolta, chiediamo che ci sia una nota quando emerge quell’articolo che informa di un determinato fatto. Però questo è un aspetto tutto da costruire.

 

Un’ultimissima riflessione sugli archivi istituzionali, perché noi abbiamo parecchi casi di persone che protestano ad esempio contro gli archivi della Camera e del Senato per la pubblicazione storica di tutte le interrogazioni e interpellanze e di tutti gli interventi in aula. Molte persone si son viste citate con nome e cognome per determinati fatti in interrogazioni presentate a tutela di quelle stesse persone, ma che rese note oggi a distanza di tempo cambiano totalmente di segno.

Faccio l’esempio di un’interrogazione presentata del senatore liberale Bozzi per chiedere come mai un soldato era stato denunciato con l’accusa di aver scritto “Viva le Brigate Rosse” sulla scheda elettorale e quindi accusato di filo terrorismo. Bozzi aveva detto sostanzialmente: “Ma il voto è segreto, come fate a individuare il responsabile di questa cosa?”, e nell’interrogazione aveva fatto il nome e cognome del soldato: “Il signor tal dei tali è accusato di questo e non mi sembra stia in piedi l’accusa”. A distanza di trent’anni il Senato mette in internet tutto l’archivio storico delle interrogazioni ed emerge il nome di questa persona, che è un imprenditore affermato che si vede, come prima notizia uscita su Google, prima ancora del suo sito imprenditoriale, l’accusa di filoterrorismo perché è stata ripescata da Google questa interrogazione presentata da Bozzi a sua tutela. Noi non abbiamo potere di intervento su Camera e Senato e sugli organi costituzionali, però anche questa riproposizione a valanga in internet, offrendolo ai motori di ricerca generalisti, comporta dei problemi.

Il giornalista però non può mai coprirsi nemmeno dietro la fonte più autorevole e autorizzata. Se nello scrivere io ledo il diritto di una persona, non posso dire “Ma l’ha detto il Ministro della sanità o della giustizia, oppure il magistrato”, perché quando si pubblicano cose delicate, cose di evidente lesione del diritto di una persona, non ci si può coprire dietro nemmeno una fonte ufficiale. La responsabilità resta del giornalista.

 

Lo Sdi, il Sistema d’indagine delle Forze dell’ordine

Come accedere alle notizie che ci riguardano e chiedere che vengano aggiornate

 

Su richiesta di qualcuno di voi, voglio dire qualcosa rispetto allo Sdi, le schede detenute dal Centro di documentazione di polizia. Ricordo due diritti che abbiamo come cittadini verso questa schedatura che è a disposizione di molti delle Forze di polizia.

Sdi significa Sistema d’indagine, fa parte del Ced che è il Centro di elaborazione dati dove sono contenute tutte le informazioni che hanno in qualche modo a che fare con le Forze dell’ordine e che è centralizzato a Roma.

Allora, l’interessato ha due diversi diritti nei confronti di questa schedatura.

Primo: il diritto di accesso, cioè io posso chiedere quali dati sono detenuti che mi riguardano personalmente e che riguardano la mia identità. È ovvio che verranno forniti solo i dati con l’esclusione di quelli riguardanti le indagini in corso, perché se si sta facendo un’indagine riservata su una persona non è possibile informare la persona stessa. Il resto sono tenuti a comunicarlo. Questo si può fare attraverso l’accesso diretto a questo servizio o attraverso il Garante, perché il Garante per la privacy esercita - in base alla legge - una attività di controllo sul Centro di documentazione. Però non è necessario passare attraverso il Garante.

Il secondo diritto è quello dell’aggiornamento dei dati perché, anche a questo riguardo, c’è un obbligo normativo che fa capo al Ced di aggiornare via via i dati. Però i canali non funzionano, e nonostante i nostri interventi e le nostre sollecitazioni, questo obbligo che il Ced ha di assicurare l’aggiornamento periodico delle informazioni su di noi non viene attuato, perché le Forze dell’ordine periferiche non sempre comunicano al Centro l’evoluzione di queste vicende, soprattutto perché non c’è - come noi auspicavamo e auspichiamo - un canale informatico diretto tra il Casellario giudiziario centrale e il Centro. Un’eventuale sentenza di assoluzione o un proscioglimento in corso di indagine non viene comunicato al Ced, e quel dato quindi non è aggiornato. Allora io consiglierei di attivarsi appena si ha il dubbio che i propri dati non siano stati aggiornati, fornendo non solo gli estremi ma la copia autentica della sentenza di assoluzione o della decisione di archiviazione che riguarda quel determinato fatto. Perché con in mano la copia autentica il Ced deve procedere all’aggiornamento dei dati. Non chiedete la cancellazione perché loro non cancelleranno mai nessuna notizia che vi riguarda, possono al massimo aggiornarla, cioè annotare su quell’indagine o quella denuncia l’esito finale.

 

Ecco, questi sono i due diritti che il cittadino può chiedere di far valere. In entrambi i casi, ripeto, potete passare per il Garante ma non è necessario, io lo farei in seconda istanza quando l’accesso diretto non ha dato soddisfazione.

L’indirizzo è: Ministero della Pubblica Sicurezza Dipartimento centrale di polizia criminale Servizio per il sistema informativo interforze

Via Torre di Mezzavia 9/121

00173 Roma

 

 

Potrò mai avere un po’ di silenzio sulla mia storia?

Basterebbe che i giornalisti si chiedessero: “E se tra gli imputati ci fosse mio figlio?”

 

di Ulderico Galassini

 

Il grave reato che ho commesso immediatamente mi ha scaraventato per più giorni sulle pagine dei giornali ed anche sullo schermo TV. Giusto informare, ma in quale modo?

Preciso che, prima di varcare la soglia del carcere, sono stato ricoverato in un ospedale in seguito a un tentato suicidio, e non ero neppure in grado di leggere i giornali che riportavano il mio terribile gesto. Ogni volta poi che dovevo essere portato in Tribunale, ecco che mi trovavo di nuovo in prima pagina, ed ecco di nuovo l’ossessiva ripetizione sulle pagine dei giornali dell’accaduto con una altrettanto ossessiva descrizione delle modalità di esecuzione dell’atto da me compiuto. Raccontare “l’abisso” di una persona, scendere nei minimi particolari, che senso ha? Certamente non è utile per una prevenzione di tragedie famigliari come la mia, ed è esasperante il continuo riportare alla ribalta tutti i casi di reati in famiglia considerati in qualche modo “simili”, non è neppure utile, anzi incita alla vendetta. Forse avrebbe più senso un’attenzione sociale diversa, tesa ad analizzare in modo costruttivo quali sono le cause che possono indurre una persona, che fino a quel momento non era mai stata aggressiva, a compiere atti mostruosi, tenendo presente che nessuno può sentirsi esente da rischi.

L’ultima riproposizione della mia vicenda risale al giorno precedente l’udienza presso la Corte di Appello di Venezia: i titoli dei giornali sono rimasti gli stessi, e quello che mi ha fatto star male è l’impatto che hanno avuto su mio figlio, pure lui una mia vittima. Un mio amico mi ha scritto di averlo incontrato davanti all’edicola del paese, seduto sul suo scooter con lo sguardo fisso sulle locandine poste a richiamo all’ingresso della rivendita di giornali: stava leggendo il titolo e scuoteva la testa.

In un articolo poi che parlava delle condizioni di sovraffollamento delle carceri, riportando alcuni dati della situazione di uno specifico istituto penitenziario relativi alla presenza di detenuti, non so con quale finalità è stato riportato quanto segue: “È presente fra questi (nome e cognome mio), ex direttore di banca che ha ammazzato la moglie, ferito il figlio e cercato di suicidarsi”.

Potrebbe essere facile rispondermi: ma potevi pensarci prima! Per la mia sfortunata esperienza ritengo di poter dire che chi commette un reato in determinate condizioni non è in grado di pensare alle conseguenze, al rischio di avere delle vittime dirette e indirette, al carcere, a una vita stravolta, alla possibilità di trascinare i propri cari in un baratro. Per quelli che sono i miei confusi ricordi, ho agito non coscientemente e con nessun progetto, nessun interruttore ha spento una macchina che era fuori controllo.

Ecco perché credo sarebbe preferibile se chi fa informazione non proponesse scene doppiamente crudeli rispetto alla realtà dei fatti, e non si trasformasse da giornalista a giudice, a volte basterebbe poco per cambiare rotta, basterebbe che anche i giornalisti si chiedessero: “E se accadesse a me?, e se tra gli imputati ci fosse mio figlio, o mio padre?”. Forse allora nello scrivere i loro articoli farebbero il loro mestiere di informare, lasciando alle Forze di Polizia il lavoro di indagine, ai Giudici la determinazione di una pena “civile”, a criminologi, psichiatri ed altre figure professionali le restanti perizie. E forse anche la gente comune vivrebbe con più serenità, senza sentirsi oppressa dall’insistenza di una informazione “esagerata” che vuole occuparsi anche di ciò che non è strettamente di sua competenza. Non chiedo di nascondere i reati, ma oggi ancora di più è necessaria l’attenzione, anche perché Internet si allarga dappertutto e i suoi archivi contengono pezzi di vita di tanti cittadini del mondo, e basta un clic per farli apparire su uno schermo e rinnovare ogni volta il dolore che possono suscitare.

 

Capitolo quinto: Carta della pena e del carcere

La proposta di un codice deontologico per giornalisti e operatori dell’informazione che devono dare notizie concernenti cittadini privati della libertà o ex-detenuti.

Carla Chiappini, vicepresidente dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna, e responsabile del giornale del carcere di Piacenza, Sosta forzata, ne parla con detenuti, volontari, operatori della redazione di Ristretti Orizzonti e della Casa di reclusione.

 

 

La Carta della pena e del carcere

di Ornella Favero

 

Pochi giorni fa mi trovavo con alcuni detenuti ed ex detenuti della redazione in una scuola a Thiene, ed eravamo tutti abbastanza spaventati, perché c’era appena stata per televisione la cronaca dell’uccisione di un benzinaio, cronaca terribile, con interviste di persone incattivite che urlavano “Ci faremo giustizia da soli”, oppure “Che i colpevoli se ne stiano a marcire in galera!”. E noi eravamo lì con persone che raccontavano la loro esperienza di come erano finita a commettere reati, esperienze durissime, di cui una era anche la storia di un omicidio.

Eppure proprio a Thiene a pochi giorni da un fatto di sangue così violento, noi su queste questioni, anche su reati come l’omicidio siamo riusciti a dialogare con 150 ragazzi in una maniera interessante, onesta, attenta. Mi ha colpito questa cosa che noi siamo riusciti con tanti ragazzi a superare lo scoglio terribile di come era stata presentata quella notizia, ma non è stato certo facile. La responsabilità che ha chi si occupa di informazione nel raccontare la cronaca nera io credo che debba essere anche più forte oggi, perché la situazione sociale è molto più complessa e carica di tensioni e non dobbiamo alimentare noi certe rabbie e certe paure. Per questo l’idea di una Carta della pena e del carcere ha particolare rilevanza.

 

 

Un codice deontologico dedicato a chi scrive di condannati, detenuti, delle loro famiglie e del mondo carcerario in genere

 

di Carla Chiappini, Giornalista, vicepresidente dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna

 

La Carta della pena e del carcere è nata nelle redazioni di “Ristretti Orizzonti” a Padova e del giornale “Carte Bollate” a Milano - Bollate, poi i colleghi mi hanno chiesto una sintesi ed io ho fatto il lavoro di taglia e cuci che mi è piaciuto perché così ho potuto studiarla più da vicino.

La Carta è nata con qualche dubbio rispetto all’opportunità di fare un nuovo documento deontologico e le perplessità erano sorte proprio nell’ambito dell’Ordine dei Giornalisti del Veneto. In linea di massima possiamo essere d’accordo su questa questione perché l’Ordine ha diverse carte deontologiche che rischiano di essere poco conosciute e, quindi, inapplicate.

Però poi nella realtà, lavorando all’interno di un ordine professionale, ci si accorge che la carta deontologica stabilisce dei parametri più chiari, promuove maggiore responsabilità. Cioè se io dico, per esempio, che occorre osservare la massima attenzione nel trattamento delle informazioni, questa cosa è indiscutibile ma piuttosto vaga; se io, invece, invito a “usare termini appropriati in tutti i casi in cui un detenuto usufruisce di misure alternative”, definisco in modo molto più preciso il tema di cui ci stiamo occupando e preciso una situazione che non è così facilmente deducibile nell’ambito di un più generico codice deontologico.

Quindi io ritengo che la Carta vada presentata al più presto al CNOG,Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, perché, tra l’altro, testimonia e promuove una nuova sensibilità al tema dell’esecuzione penale spesso oggetto di tanta comunicazione imprecisa e dannosa contro cui non è semplice combattere, specialmente partendo da situazioni di grande debolezza come quelle in cui si muovono le persone indagate, già condannate, attualmente detenute, ex detenute o in misura alternativa. Anche la nostra Carta di Milano, come quasi tutte le carte deontologiche (la Carta di Treviso, la Carta di Trieste…) nasce dal basso, cioè dalla società civile, da chi opera in quei mondi e li conosce da vicino e ha, quindi, una conoscenza non solo tecnica del problema ma anche umana e personale.

Io dubito che i miei colleghi, per esempio, avrebbero avuto a cuore di tutelare il condannato che sceglie di parlare coi giornalisti così come sollecita la Carta di Milano; non è nel nostro DNA professionale farlo. Penso che invece sia un altro tema molto delicato, perché lavorando in carcere, e prima in una comunità terapeutica, mi sono accorta che le persone spesso, a un certo punto del loro percorso, attraversano una fase di grande generosità per cui accettano di farsi intervistare, e non chiedono una tutela della propria identità, senza riflettere su tutte le cose che noi qui fuori sappiamo benissimo! Cioè che quelle immagini restano, che magari poi esci dal carcere e hai un bambino di 3 anni che adesso non capisce, ma quando ne avrà 6, 7, 8 capirà e rischierà di ritrovare magari in internet quella intervista e magari ne sarà turbato o infastidito.

Io più volte ho frenato dei ragazzi che lavorano nella redazione con me da questo entusiasmo generoso, perché, ho detto loro, i vostri bambini ora sono talmente piccoli che non ci pensate, ma non sono piccoli all’infinito. Queste notizie sono come i passeri, cioè quando sono andate poi non riesci in alcun modo a rinchiuderle, quindi io porrei queste questioni al centro dell’attenzione, e ne aggiungerei un’altra, che riguarda la riproposizione di storie passate. Anni fa mi è successo proprio un caso di coscienza rispetto al riproporre una storia passata. Un detenuto che era in redazione con me nel carcere di Piacenza mi ha portato una lettera e mi ha detto “è urgentissima!”

L’ho aperta, lui mi pregava di chiedere al giornale locale, in occasione di un imminente processo, di non riprendere la notizia, di parecchi anni prima, di una sua condanna per un tentativo di stupro. È stato veramente difficile decidere cosa fare, perché ho anche pensato che magari il mio collega non lo sapeva nemmeno e io, andando a parlargli, potevo risvegliare la sua curiosità. Alla fine gliene ho parlato e credo di averlo convinto a non tirar fuori quella storia quando gli ho detto “Guarda, tu non sai bene che, se esce una notizia del genere, a questa persona cambia la vita! Cioè lui adesso sta tra i detenuti comuni, ma se domani mattina esce questa notizia lui deve finire assolutamente nella sezione dei protetti, perché in carcere chi ha commesso reati di tipo sessuale sta in una sezione a parte”. E devo dire che in quel caso, dopo una discussione veramente lunga ma non banale, siamo arrivati a condividere le ragioni della persona detenuta.

 

Numerose e complesse sono le tematiche che riguardano la comunicazione in ambito di esecuzione penale e di carcere per cui ritengo che davvero la “Carta del carcere e della pena” possa essere considerata uno strumento prezioso a livello formativo molto più e molto prima che sanzionatorio, e per questo gli Ordini Regionali di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna che l’hanno già sostenuta e presentata a Milano, si impegneranno a sostenerla e farla approvare in tempi rapidi anche dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti.

 

Alcune domande sulla Carta della pena e del carcere

 

Io faccio il cronista e vivo in un paese vicentino che è diventato celebre alcuni mesi fa perché un nonno vigile davanti alla scuola elementare è stato investito e ucciso da un’auto che viaggiava a folle velocità.

Dopo la cronaca dei fatti, ci è stato chiesto dalla redazione di sentire le persone del quartiere, le persone che lo conoscevano, e lì le parole erano quelle che tutti possono immaginare, anche perché poi questa persona era il nonno un po’ di tutti - è un paese piccolo - era conosciutissimo.

Cosa fare allora in quelle occasioni? Far finta di non sentire certe parole, che non siano state dette? Perché credo che il nostro lavoro sia anche quello di rispecchiare come un paese si comporta – io parlo da giornalista di un giornale locale – cosa le persone pensano, anche se poi per noi è sbagliato. Non possiamo far finta di non sentire. Volevo sapere secondo la vostra sensibilità come trattare certe prese di posizione di certi cittadini, che magari in un momento di pathos immediatamente dopo un incidente dicono delle parole molto gravi.

 

Risponde Carla Chiappini

È una domanda intelligente ed è una questione su cui ci interroghiamo molto spesso perché, per esempio, nell’ambito di un reato sessuale due o tre anni fa all’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna avevamo un titolo da analizzare del tipo “Glielo tagliamo …”. E io su questa cosa ho avuto molto da eccepire. Abbiamo chiamato il giornalista e lui ha sostenuto questa posizione: “L’ha detto questa signora”.

Allora, io credo che valga il principio che noi siamo responsabili di quello che mettiamo in pagina, e su questo non c’è il minimo dubbio. Ora, è vero che se c’è un forte disagio, una forte emotività bisognerebbe anche restituirla nell’articolo, ma forse nei toni e nelle espressioni più corrette. Cioè, mi viene in mente che quel titolo lì probabilmente non era proprio necessario, bastava restituire la forte indignazione in un modo più decoroso. E non per ipocrisia, ma perché veramente un giornale deve avere una sua dignità, e lì eravamo andati oltre di un bel po’.

Io penso così, però è vero che è un tema sempre molto delicato, perché poi i colleghi ti dicono: “Ma se lo ha detto lui, io cosa c’entro?”. Ed è la stessa cosa con i campi rom: quando a Milano succede qualcosa vicino alle zone dei campi rom, nei giornali si trovano delle espressioni di una violenza insostenibile.

Io trovo che sia veramente non rispettoso riportare certe espressioni, ritengo che si possa raccontare il problema in un modo più corretto.

 

Questa Carta se venisse approvata dall’Ordine nazionale potrebbe servire anche per tutelare i giornalisti “deboli” da un punto di vista contrattuale, ai quali a volte viene imposto di trattare la notizia in modo sensazionalistico?

 

Risponde Carla Chiappini

Anche questo è un altro tema di discussione. Perché quando si chiede ai giovani colleghi di spingere su certe notizie, specialmente sui minori, questo è imbarazzante per uno che ha poca forza contrattuale.

Però è vero che se uno fa riferimento con il suo direttore alla Carta di Treviso, non risulterà simpatico ma il direttore farà fatica a ignorare questo richiamo, quindi le carte tutelano chi vuole fare il suo mestiere bene, in maniera seria, anche perché è vero che sui ragazzi più giovani c’è questo pressing molto forte.

A mio avviso, quindi, la deontologia scritta e difesa nelle carte è molto importante, perché a volte la coscienza da sola non ti dà argomenti abbastanza convincenti, specialmente se, proprio all’interno delle redazioni, c’è questa spinta a spettacolizzare una notizia.

Recentemente mi hanno raccontato che una collega che faceva una telecronaca da Vigevano si è messa a piangere perché il direttore al telefono le urlava che se non aveva almeno una dichiarazione della mamma di Chiara Poggi, la giovane donna uccisa, per il cui omicidio era stato accusato Alberto Stasi, il compagno, non so cosa succedeva. Questo francamente non mi sembra un giornalismo sostenibile.

 

 

Un benzinaio ucciso a Thiene e le cronache che incitano all’odio

Molti aspetti di queste storie, che potrebbero essere importanti per capire da che percorsi di vita si può arrivare a commettere reati, non vengono mai spiegati

 

di Germano V., redazione di Ristretti Orizzonti

 

Quando leggo i titoli nella prima pagina di un quotidiano o ascolto come una notizia viene presentata in un telegiornale, specialmente se si tratta di fatti di cronaca nera, anche se sono in carcere e conosco tanti protagonisti di storie analoghe, il più delle volte come primo impatto rimango impressionato. E mi è successo di recente con la rapina e l’omicidio del benzinaio di Thiene, anche perché sapevo che due detenuti in permesso dovevano andare a incontrare proprio una scuola di Thiene, e temevo che non avrebbero avuto una accoglienza “benevola”.

Spesso ho l’impressione che chi racconta certe vicende non abbia alcuna certezza su come un fatto sia realmente accaduto, ma cerchi piuttosto di raggiungere il suo obiettivo principale, che qualche volta sembra essere quello di attirare ad ogni costo l’attenzione piuttosto che quello di informare.

E così invece che essere informata, la gente viene influenzata dai tanti luoghi comuni che per lo più passano proprio attraverso i mezzi di informazione e che associano certi reati a determinate persone.

Infatti fa sempre più notizia se a fare una rapina in villa è stato uno dell’est Europa, o se ad investire qualcuno è stato uno zingaro ubriaco, oppure se un omicidio a Roma è collegabile alla banda della Magliana.

Oltre a parecchi giornali e programmi televisivi, ci sono anche persone che ricoprono ruoli importanti nelle istituzioni che trasmettono alla gente ancora più insicurezza di quella che già vive, convincendola poi, forse senza volerlo, o forse si, che il modo migliore per affrontare certe situazioni sia la rabbia, l’irrazionalità o la vendetta.

Sicuramente la prima causa dell’insicurezza della gente sono i fatti di criminalità che purtroppo avvengono, però è pur vero che certa informazione cerca di creare ed aumentare allarmismo, per esempio riportando alla luce, ogni volta che succede qualcosa, tutti i fatti analoghi accaduti in precedenza, oppure intervistando subito la gente, sia direttamente che indirettamente coinvolta, per farci poi sentire, come spesso succede, la rabbia delle persone, quasi a voler rendere tutto più drammatico di quanto a volte non lo sia già.

Quando alcuni giorni fa a Thiene, nel Veneto, durante una rapina ad un distributore di benzina è stato ucciso il gestore, puntualmente è stato subito riportato quanto era già accaduto pochi mesi fa a Roma, dove, sempre durante un’altra rapina, ha purtroppo perso la vita per mano del rapinatore un altro gestore di un distributore di benzina.

Su quanto accaduto a Thiene, l’informazione ha subito parlato di un feroce rapinatore e le reazioni di molte persone non potevano che essere rivolte verso gli stranieri. A distanza di poco tempo l’assassino è stato identificato e arrestato e si è scoperto però che era un italiano del posto.

Questo non toglie che quanto questa persona ha commesso sia un fatto gravissimo, però fa riflettere che specialmente alcuni abitanti di quei luoghi non credevano che a commettere certi crimini potesse essere una persona cresciuta lì e conosciuta. Hanno rivolto frasi tipo “negri di m…”, perché spinti dal pregiudizio che solo uno straniero, o comunque uno che la società tende ad identificare come un “predestinato” a diventare un delinquente, può commettere rea­ti simili.

Poi quando si viene a scoprire che a commettere un crimine può essere anche la persona che ti abita vicino, ci si confronta con un’altra realtà e forse ora l’aria che si respira in quella cittadina, ma anche in tanti altri posti, è ancora più di incertezza e di insicurezza. Perché poi il rischio di chi si lascia travolgere da reazioni istintive a certi fatti è di avere la sensazione di aver sbagliato a limitare la propria rabbia ad alcune categorie di persone, che non bisognava limitarsi agli stranieri, ma che era più giusto guardarsi intorno e difendersi da tutti, nessuno escluso.

Certo è che non si possono trovare giustificazioni per chi commette qualsiasi tipo di reato, però almeno ci si potrebbe impegnare un po’ a capire che cosa può spingere una persona a compiere un crimine, perché comunque dietro ad ogni persona c’è una storia.

Questo non significa giustificare, lo ripetiamo sempre perché non ci siano fraintendimenti, e il fatto che uno possa aver commesso un reato per un motivo, piuttosto che per un altro, non allevia assolutamente il dolore per la scomparsa di una persona, come non rende meno grave un reato.

Ma molti aspetti di queste storie, che potrebbero essere importanti per capire da che percorsi di vita si può arrivare a commettere reati, non vengono mai spiegati, per certa informazione è più importante far vedere solo i dettagli più violenti, per raggiungere l’effetto di colpire la fantasia delle persone, e il loro bisogno di notizie forti, magari anche “cattive”. Questo non aiuta ad andare a fondo, a capire, a diventare più critici e meno pronti a giudicare.

 

 

L’altra faccia della medaglia, ovvero “dalla parte del giornalista”

Di questi tempi fare il cronista di giudiziaria diventa sempre più difficile, perché tanti sono i limiti che ci sono stati imposti, quindi arrivare a conoscere un fatto nella sua complessità è ogni giorno più faticoso

 

di Cristina Genesin, giornalista del Mattino di Padova

 

Sono una giornalista, mi occupo di cronaca giudiziaria da 15 anni – prima della giudiziaria ho fatto per qualche anno la cronaca nera – e lavoro al Mattino di Padova.

Si è parlato durante questo incontro dell’approccio alle tematiche che riguardano la cronaca nera e i fatti di cronaca quotidiana e del modo in cui i giornali e i giornalisti li riportano. Si è parlato di luoghi comuni, di demagogia del linguaggio, di enfasi, di non precisione della notizia, di foto di persone arrestate che sembrano già far apparire come colpevole chi si ritrova al centro di un procedimento giudiziario che può concludersi in tanti modi, con la condanna ma anche con un giudizio di assoluzione o addirittura con il proscioglimento prima di arrivare al processo; si è parlato di cautela, di precisione, di codice deontologico.

Allora, io faccio, ripeto, la giudiziaria da 15 anni e oltre che giornalista sono anche imputata di procedimenti per diffamazione, ho cause civili, mi è capitato anche di aver avuto qualche avvertimento per aver violato delle regole deon­tologiche, eppure non mi ritengo una professionista che fa un giornalismo “di assalto”, nel senso che uno dei criteri del mio lavoro è quello di tutelare la dignità delle persone, di non rendere mai riconoscibili le vittime, di non enfatizzare troppo i fatti. Anche se riconosco che nei giornali, e pure nel mio - e questa linea non mi trova d’accordo - spesso si enfatizzano toni, fatti e alle volte, è vero più nei titoli che nei pezzi, anche luoghi comuni. Però ritengo che questa problematica vada affrontata anche un po’ dalla parte del giornalista, guardando l’altra faccia della medaglia.

Il nostro è un lavoro difficile, un lavoro complesso. Le notizie che ci vengono date, specialmente per chi fa cronaca nera e cronaca giudiziaria, arrivano spesso da fonti istituzionali, e le fonti istituzionali sono quelle che a volte tendono un po’ a sottolineare, a rilevare certi aspetti, in particolare quando ci sono arresti su fatti che hanno lasciato il segno nell’opinione pubblica. Poi, quando il cronista di giudiziaria comincia a seguire gli interrogatori di convalida o di garanzia, magari gli capita di vedere qualche atto e poi segue il processo, allora i fatti vengono raccontati nella loro complessità anche sul giornale, perché abbiamo la possibilità di conoscerli più in profondità.

Ecco, quindi, io credo che il problema di fondo non sia soltanto quello di un approccio facile, enfatico e impreciso da parte del giornalista. Il giornalista cerca di raccontare la realtà tra mille difficoltà e la prima difficoltà è quella di accedere alla notizia e di accertarne la verità.

Di questi tempi poi fare il cronista di giudiziaria in particolare diventa sempre più difficile, perché tanti sono i limiti che ci sono stati imposti. Abbiamo difficoltà a parlare con i magistrati perché i magistrati non possono parlare con i giornalisti e quindi ci è difficile arrivare a conoscere un fatto nella sua complessità, rischiamo di essere, per esempio, in mano agli avvocati e gli avvocati fanno il loro specifico interesse o quello del loro cliente, magari quello che paga di più.

Ecco, dicendo questo ovviamente non voglio assolvere il giornalista, che ha dei doveri e delle regole da rispettare. Però mi fa molta paura sentire sempre più parlare di restrizioni e regole nell’ambito della nostra professione.

Ora, è chiaro che le regole devono esistere, che un giornalismo selvaggio, un giornalismo spazzatura, che pure si incontra su certe testate e che vediamo quasi quotidianamente, va sanzionato, però regole eccessive che mi impediscano di raccontare dei fatti io le trovo estremamente pericolose. Come trovo pericoloso censurare o imbavagliare quella che può essere una libera informazione storica che può circolare nella rete.

Certo, è giusto tutelare chi non è un personaggio pubblico, chi ha dei figli, tutelare il diritto all’oblio, però io volevo anche richiamare l’attenzione sul fatto che porre troppe restrizioni ad una professione che deve raccontare la realtà che ci sta intorno è estremamente pericoloso.

Io cerco di affrontare con onestà intellettuale le discussioni sul taglio da dare a un pezzo, non nascondo le cose, quindi non ho forme di autocensura, cerco di raccontare la verità dei fatti, o almeno quella che a mio giudizio ritengo essere, con un approccio problematico alle cose della vita, la verità dei fatti.

 

 

Prospettiva lavoro

 

Il caffè delle detenute di Pozzuoli

Si tratta per lo più di donne che non hanno mai fatto un lavoro vero e proprio, e per questo la Cooperativa “Lazzarelle” ha voluto avviare l’esperienza di un lavoro vero in carcere, una torrefazione di caffè di gran qualità

 

Intervista a cura di Paola Marchetti

 

Realizzato dalle detenute della Casa circondariale femminile di Pozzuoli, ottenuto con tostatura rigorosamente artigianale da una miscela di chicchi provenienti da Brasile, Costa Rica, Colombia, India e Uganda, il caffè “Lazzarelle” è un prodotto di grande qualità che esce da un luogo che di qualità ne ha poca, come un carcere. “Lazzarella” è un termine dialettale napoletano che sta a indicare affettuosamente una ragazza un po’ monella (lazzarona). Il termine è diventato famoso grazie alla celebre canzone dal titolo omonimo scritta nel 1957 da Riccardo Pazzaglia, musicata da Domenico Modugno e interpretata da diversi cantanti napoletani, tra cui Carosone e Aurelio Fierro.

Di questo caffè ottimo e che fa del bene alle donne detenute abbiamo parlato con Paola Maisto, presidente della cooperativa che è stata creata ad hoc proprio per l’attività di torrefazione del caffè.

 

Da chi è nata l’idea di questa attività?

Il progetto è nato da tre associazioni del napoletano: Il Pioppo, l’associazione Giancarlo Siani e la Coopertiva Officine.ecs (si tratta di una federazione internazionale di città sociale di Napoli). Noi abbiamo scritto questo progetto e chiesto un finanziamento alla Regione Campania, che ci è stato concesso. A fine progetto, cioè nel marzo dello scorso anno, è nata l’idea della cooperativa e così l’abbiamo costituita e sono stata nominata presidente.

La cooperativa ha in comodato d’uso i macchinari e la struttura che sono all’interno dell’istituto penitenziario.

 

Come vi è venuta in mente l’idea del caffè torrefatto dentro il carcere?

Beh, intanto è una cosa tipica di Napoli… qui è come bere acqua! Abbiamo cominciato a fare un po’ di indagini e abbiamo visto che era un’attività facile da iniziare e da sviluppare. Non era un lavoro molto complicato e non era faticoso, le donne lo potevano portare avanti tranquillamente. Inoltre, non aveva bisogno di macchinari mastodontici e quindi era realizzabile all’interno del carcere, dove c’è sempre un deficit di strutture. In più ci piaceva moltissimo il discorso del mercato equo e solidale con la possibilità di contattare direttamente i campesinos (o la struttura che si occupa di commercializzare tale prodotto dal Sudamerica n.d.r.) che producono il caffé alle fonte. Originariamente il progetto prevedeva il nostro spostamento in Guatemala per contrattare direttamente con i campesinos il costo del caffè. Tutti sanno che nei paesi dove si coltiva il caffè, che sono paesi sottosviluppati, la materia prima viene pagata pochissimo mentre qui arriva a dei costi esorbitanti. Ci piaceva quest’idea. Però col tempo non è stato più possibile, perché il budget del carcere non l’ha più permesso. Purtroppo l’amministrazione penitenziaria non pensa che sia possibile fare questo discorso etico per una questione burocratica e di appalti. Da adesso in poi però, visto che è la cooperativa a sostenere i costi e a decidere le cose, compreremo il caffè equo. Poi, per una questione di raccolta differenziata, abbiamo chiesto un imballaggio diverso da quello precedente: invece delle solite buste con un film d’alluminio all’interno abbiamo chiesto un materiale tutto plastico che si può buttare nei raccoglitori differenziati per la plastica.

 

Questa è una novità perché caffè in confezioni di tutta plastica non se ne trova facilmente…

C’è solo quello del commercio equo Fairtrade.

 

La vostra distribuzione avviene attraverso le botteghe?

Attraverso le botteghe del commercio equo e le botteghe di Libera, ovviamente della Campania, perché per ora distribuiamo solo lì, inoltre distribuiamo il nostro caffè anche alle signore ospiti nella struttura di Pozzuoli.

 

In che anno avete cominciato la produzione?

Nel gennaio del 2010 abbiamo acceso le prime macchine! E devo dire che sono bellissime!

Non è sempre così facile. A volte ti vai a scontrare con una serie di difficoltà, ad esempio l’impossibilità di comprare il caffe attraverso il mercato Fairtrade. Dipende dalla rigidità delle istituzioni, che siano carcere, regione, provincia o comune si deve fare una gara d’appalto punto e basta. Non contemplano un sistema diverso.

 

Che spazi occupate?

Gli spazi sono all’interno delle mura di cinta, anche se sono in un edificio vicino a quello dell’area di detenzione. Di fatto le signore che vengono a lavorare sono in art. 21: praticamente escono fuori dall’area di detenzione ma rimangono all’interno delle mura di cinta.

All’esterno invece abbiamo una ventina di punti vendita, abbiamo partecipato anche alla fiera “Fa’ la cosa giusta” che c’è stata a Milano, “Terra Futura” a Firenze, e “Sbarco Gas” a L’Aquila. Abbiamo approfittato della trasferta per portare con noi anche una detenuta che il magistrato ha affidato a me e a un’altra socia della cooperativa. Quella di Milano per noi è stata la prima fiera, perché di solito facciamo dei banchetti e solo qui in zona. È stato un trampolino per prendere contatti con altre botteghe del nord. Prima non avevamo contatti, così invece siamo riusciti a prendere accordi con una bottega di Alessandria e una di Pavia che hanno acquistato il caffè.

 

Le detenute seguono un percorso di formazione prima di incominciare a lavorare?

No, la formazione la facciamo in itinere. Praticamente si passano il testimone. Perché all’inizio sono state assunte dieci persone come prevedeva il progetto. Poi noi ad aprile del 2010 ci siamo fermati perché era finito il finanziamento e come cooperativa abbiamo chiesto un altro finanziamento e siamo ripartiti a dicembre e adesso ce ne sono assunte 3. Prima non avevano un contratto d’assunzione, erano pagate dal carcere e venivano remunerate con le mercedi. Ma siccome loro fanno un lavoro vero e proprio, qualificato, e lo fanno anche bene (il prodotto è un ottimo prodotto) abbiamo combattuto per ottenere un contratto da mercede di tipo A, sostenendo la professionalità di queste donne. L’amministrazione penitenziaria prevede la remunerazione delle mansioni, non secondo il contratto collettivo nazionale, ma secondo le mercedi, un sistema che non è proporzionato al lavoro stesso, adesso hanno un regolare contratto di assunzione, un contratto a tempo deteminato part-time.

 

Come vengono selezionate le detenute che lavorano?

È il carcere che di solito ci dà una rosa di nomi di detenute che possono avere l’art. 21 e che possono uscire dal carcere, perché noi facciamo anche allestimenti per catering e dei banchetti per la vendita del caffè e portiamo le detenute con noi. Pensiamo all’allestimento del buffet, al caffè, ai dolci…

Abbiamo iniziato quando abbiamo fatto l’inaugurazione per la torrefazione e siamo riusciti a preparare un evento molto carino. Poi qualche mese dopo sono capitate altre occasioni e siamo diventate sempre più brave!

 

Quindi siete riuscite a crescere grazie al passaparola?

Si, ci hanno chiesto se volevamo allestire dei catering e noi abbiamo accettato, anche perché è un modo per fare uscire le signore detenute dal carcere. Abbiamo preparato l’inaugurazione della biblioteca pubblica di Pozzuoli e un evento che il garante ha realizzato alla Regione Campania. Piccole cose insomma, però…

 

Quante persone occupate?

Adesso ce ne sono tre. Tre donne detenute assunte e due socie della cooperativa, ma ci sarebbero gli spazi per aumentare il lavoro. La struttura che abbiamo non è per niente piccola, la metratura è abbastanza ampia. Siamo nella ex-mensa del carcere. Quindi non una struttura proprio piccola. Abbiamo una bilancia, una zona deposito dove teniamo i sacchi di caffè grezzo, tre macchine torrefattrici, un silos, due banchi da lavoro, alcuni macinini, una macchina sottovuoto e degli scaffali.

Volendo potremmo anche allargarci.

Una cosa curiosa è che abbiamo avuto una donna detenuta, ora agli arresti domiciliari, che agli inizi di marzo è andata a discutere la semilibertà con il magistrato e il magistrato le ha concesso la semilibertà in torrefazione. Praticamente, noi lavoriamo dalle 9 alle 13 e lei la mattina… esce dalla struttura alle 8, prende un caffè e aspetta le 9. Dalle 9 alle 13 lavora e poi dalle 13 alle 20.00 esce e va a casa. La sera rientra in carcere. È una cosa un po’ strana, noi non l’avevamo mai sentita però il magistrato…

Poi è un lavoro che a loro piace. Sono tutte donne che non hanno mai fatto un lavoro vero e proprio e per questo noi abbiamo voluto cominciare l’esperienza di un lavoro vero in carcere. Speriamo che lasci il segno. Anche perché non è il lavoro dello scopino o dello spesino… in carcere il lavoro viene molto svalutato, non è una cosa molto dignitosa. Noi invece volevamo un lavoro in cui le detenute potessero imparare qualcosa che permettesse loro di spendersi anche dopo, e soprattutto volevamo trasmettere loro l’impegno del lavoro.

 

L’educazione passa anche attraverso il lavoro dunque…

…questo! Nelle quattro ore in cui lavorano fumano sì e no due sigarette mentre di solito ne fumano pacchetti e pacchetti. E poi magari nelle quattro ore in cui lavorano la sigaretta se la dividono. E non si ammalano perché sanno che se anche una sola si ammala entriamo in crisi con la produzione e le altre devono fare anche il lavoro di quella malata.

 

Voi non avete ancora avuto il tempo materiale per vedere se questo tipo di attività è utile una volta che la persona esce, no? Forse è troppo poco tempo che siete attivi. E delle donne che sono uscite sapete qualcosa?

Non abbiamo avuto il tempo ancora. Delle donne che sono uscite, dopo aver lavorato con noi, alcune le ho perse di vista; con qualcun’altra sono ancora in contatto ma sono tutte in misura alternativa, non sono libere di scegliere cosa fare. Perché finché escono con noi è un conto, ma quando escono legate ad altre realtà non è possibile. Per esempio quella che è uscita in semilibertà la sentiamo spesso. Quando eravamo a Milano ci ha chiamate più volte per sapere come andava. Noi proviamo a fare da collante, ma per ora la nostra è un’attività molto ristretta. Tutto quello che c’è da fare lo si fa dentro. L’unica cosa che si può fare fuori è la distribuzione.

 

Sembri molto coinvolta, ho letto che hai solo trentatré anni, è bello che una persona così giovane si butti in un’attività del genere, in una missione così coinvolgente.

Si, mi sono buttata! Perché è vero che venivo dall’associazionismo e lavoravo già in carcere, ma questo nuovo lavoro è proprio da imprenditori! C’è la lavorazione, la concorrenza con i produttori… E poi le macchine: se non funzionano dobbiamo stare attente al fatto che l’uomo che le aggiusta ci prenda poco sul serio, Anche perché siamo tutte donne e se a volte questo è un vantaggio, altre è uno svantaggio: non capendoci niente di certe cose possono dirci le più grandi fesserie. E in carcere non puoi fare entrare nessuno, non è che dici: faccio venire un attimo una persona fidata. Per cui dobbiamo stare sempre attente ad ogni cosa. E dobbiamo fare le nostre gare d’appalto per cercare il prodotto che più ci piace ad un costo inferiore. Si fa l’imprenditore, insomma…

 

Ma in tutte queste cose, nelle gare di appalto, nella scelta delle buste, nell’organizzazione del lavoro coinvolgete anche le detenute?

Si, ovviamente per quello che possiamo fare. Perché non è che possono scegliere le cose insieme a noi quando andiamo dal fornitore. Però per esempio la decisione di scegliere delle buste in plastica riciclabili l’abbiamo presa insieme a loro. Anche se quando noi proviamo a spiegare loro che cos’è il commercio equo, cosa significa comprare il caffè biologico per loro è sempre una cosa un po’ difficile da percepire. Per loro noi diamo i numeri, siamo due folli. Però adesso che siamo stati a Milano la persona detenuta che era con noi ha preso un sacco di informazioni e ha detto: “Ma allora sono vere queste cose, voi le dite perché davvero la gente si interessa a queste cose!”. E allora hanno capito.

 

Bisogna considerare che nelle famiglie e nei circuiti da cui provengono le detenute spesso queste cose non esistono.

Certo. Le signore detenute che sono venute con noi a Milano a Firenze e a L’aquila hanno vissuto in zone degradate di Napoli. Per cui portarle a Milano con 70.000 presenze alla Fiera e un mondo che si apre per loro è stato uno sbandamento. Sembrava loro assurdo che ci fossero delle associazioni che facessero delle cose per i bambini in Africa piuttosto che per la tutela dell’acqua o contro il nucleare. Che le persone potessero pensare a queste cose per loro era davvero inconcepibile.

Sì, abbiamo aperto loro un mondo. Tutto era diverso!

 

Ma questo caffè si può assaggiare, si può fare un ordine?

Sì, e noi provvediamo alla spedizione. Ci sono tutte le informazioni sul nostro sito.

Www.caffelazzarelle.jimdo.com

Noi facciamo anche delle spedizioni ai GAS (Gruppi di acquisto solidale), ne abbiamo diversi sparsi per l’Italia.

 

 

Arte come veicolo di recupero e di risocializzazione

A Rebibbia materiale di recupero usato per il “recupero” delle persone

 

Intervista a cura di Paola Marchetti

 

C’è a Roma un’associazione culturale che si occupa di arte contemporanea. Già, cosa c’entra l’arte contemporanea con la galera visto che questa rubrica si occupa di lavoro in carcere? Tra gli obiettivi di Artwo, oltre a quello di promuovere gli artisti e i designer italiani in Italia e all’estero, c’è quello di “perseguire concretamente non solo la rieducazione dei detenuti, ma anche il loro effettivo reinserimento nel tessuto sociale dopo la fine della pena”. Per capire come attraverso l’arte contemporanea si potessero reinserire i detenuti, abbiamo intervistato Luca Modugno, che per l’associazione si occupa di tutto quello che ha a che fare con il carcere.

 

Da dove è partita l’idea che è alla base delle vostre attività?

Da ciò che da sempre accade in carcere; al suo interno ogni persona deve reinventare la propria vita e nel farlo si aiuta utilizzando le poche cose che ha.

La prima volta che sono entrato a Rebibbia sono rimasto sorpreso dalla creatività sviluppata dai detenuti nel decontestualizzare i pochi oggetti loro concessi. Un esempio per tutti: le bottiglie d’acqua minerale in plastica con le loro scanalature diventano degli stendi panni perfetti una volta inserite tra le sbarre…

 

Del resto se uno non ha niente..

Ed è anche questo il motivo per cui ho trovato terreno fertile all’interno del carcere di Rebibbia. Mi interessava sviluppare ulteriormente la creatività dei detenuti. “Dentro” non si ha la percezione di ciò che accade “fuori”, soprattutto nel campo delle arti. L’intento era di portare all’interno del carcere materiale ed esperienze, per sviluppare, assieme alle persone recluse, nuove idee. Ci siamo riusciti attraverso artisti e designer che, entrando nel laboratorio del carcere, hanno svolto un periodo formativo per i detenuti ed elaborato assieme a loro progetti creativi.

Siamo riusciti in questo modo ad aprire una finestra sul mondo esterno e sulla creatività.

 

Soprattutto quando c’è bisogno di rimanere ancorati alla realtà vera e non a quella che ci si costruisce chiusi dentro alle quattro mura. Lo sviluppo della crea­tività in situazioni del genere credo sia molto importante per la crescita personale. La risposta che lei ha trovato all’interno del carcere da parte dei detenuti è stata soddisfacente rispetto alle aspettative?

Assolutamente, anche se lei sicuramente saprà che le persone recluse vengono indirizzate nelle varie attività/laboratori da educatori che hanno ben presenti i loro profili caratteriali e le loro attitudini. Nel mio laboratorio sono passate persone che in libertà lavoravano come falegnami, ceramisti, idraulici o elettricisti. Tutti quindi dotati di una certa manualità. Ma anche se la richiesta è tanta, in realtà poi all’interno del laboratorio non sono molti…

 

Quante persone occupate attualmente?

Per adesso nel laboratorio del G8 ci sono sei persone (per fortuna alcuni sono usciti). Mi sto attivando anche per organizzare un laboratorio esterno per accogliere chi, in affidamento o in semilibertà, deve tentare un reinserimento nel tessuto sociale. Come sappiamo è proprio questo il problema. Fino ad oggi le cooperative sociali hanno spesso beneficiato di sovvenzioni che talvolta non sono state utilizzate per gli scopi dovuti…

 

Voi quindi state facendo in modo di creare un laboratorio all’esterno per dare continuità ed anche un’opportunità a quelli che escono?

Sì, questo è sempre stato lo scopo del mio progetto. Purtroppo in tutti questi anni ho fatto tutto da solo, senza nessun finanziamento. Ho costruito il laboratorio e procurato materiali e macchine professionali con i proventi della vendita degli oggetti che mano a mano ho venduto, ma in questo periodo la cosa sta diventando molto pesante. I finanziamenti della legge Smuraglia non esistono quasi più e l’unico modo per sostenere una Cooperativa Sociale è farla diventare una vera e propria azienda, seguendo tutta la filiera produttiva (nel mio caso, recupero del materiale di scarto, produzione, distribuzione e vendita).

Oggi, attraverso la Cooperativa Sociale appena costituita, sto cercando di ottenere un finanziamento ad un tasso agevolato con cui acquistare i macchinari necessari per avviare una nuova attività commerciale. Nel frattempo da parte delle Istituzioni, tante strette di mano e complimenti, ma nient’altro.

 

Siete all’interno della Casa di Reclusione, quindi avete una certa stabilità nell’approccio con i detenuti che lavorano per voi?

Sì, ci sono persone che sono già da sette anni con noi.

 

Come le è venuta questa idea del recupero di materiali in carcere?

Per mia forma mentis ho sempre amato il recupero, dare una seconda vita agli oggetti. L’idea mi è venuta da una passione per l’arte contemporanea e per il design.

Tutto è nato discutendo con un artista in particolare, che poi è stato il primo a partecipare al progetto Artwo: Carlo de Meo, che in quel periodo lavorava tagliando, piegando e unendo oggetti d’uso comune come secchi, spugne, pinne, ecc., trasformandoli, cambiandogli i connotati. Quel mondo ironico e divertente mi ha affascinato immediatamente.

Ho visto come lo stesso oggetto poteva cambiare forma ed anche utilizzo. Ho capito che si potevano utilizzare gli oggetti in modo non tradizionale, e questo poteva incuriosire e divertire ancora.

Ecco lo spunto da cui è nata Artwo: volevo che gli artisti si confrontassero con il design, creando nuovo dal nuovo mediante l’utilizzo di materiale povero. Decontestualizzare oggetti d’uso comune in modo spiazzante. Ogni oggetto sarebbe stato firmato dall’artista e a tiratura limitata.

Ho creduto che tutto questo avrebbe potuto avvicinare la gente all’arte, che sarebbe stata più seducente, divertente, disponibile e fruibile per tutti.

Ma se il tentativo doveva essere dare nuova vita ad un oggetto usato recuperandolo, perché non utilizzare la stessa filosofia nella produzione? Mi sono messo quindi in contatto con comunità di recupero e carceri. Un’amica poi mi ha fatto conoscere il Direttore del Carcere di Rebibbia Nuovo Complesso di Roma, il Dottor Cantone, che ha subito accolto la mia idea mettendomi a disposizione uno spazio per formare il laboratorio. Abbiamo iniziato pian piano a lavorare con i pochi utensili permessi. Oggi penso di essermi conquistato la fiducia della Direzione che mi ha concesso di introdurre i macchinari più diversi.

Ovviamente aumentano le responsabilità…

 

Mi viene in mente quello che ci ha detto Lucia Castellano, l’ex direttrice del carcere di Bollate: non si può pretendere che queste persone escano responsabilizzate, se non si riesce a responsabilizzarle già da dentro. Ci sono mai stati incidenti all’interno del laboratorio?

No, mai.

 

Neppure con questo clima teso che c’è attualmente nelle carceri?

Le carceri sono sovraffollate, non ci sono più fondi per dare la minima retribuzione ai lavori di pulizia e manutenzione che i detenuti svolgono in carcere. E’ per questo che ci sarà sempre più bisogno di Associazioni di volontariato e di nuovi progetti. Le assicuro che sono i detenuti stessi a salvaguardare per quanto possibile queste piccole “oasi” che si vengono a creare: sono molto motivati! Per quanto mi riguarda il rapporto stabilito con i partecipanti al laboratorio Artwo arte utile è assolutamente sincero e partecipativo. Sanno tutti benissimo quanto sia difficile portare avanti questo progetto ed ognuno di loro cerca di dare il massimo per sostenerlo. In fondo, molto dipende da loro…

 

Il tipo di attività che fate voi è in qualche modo retribuito?

Si, loro hanno una percentuale sugli oggetti venduti.

 

Quindi è un rapporto di collaborazione. A livello tecnico queste persone lavorano come liberi professionisti? C’è una regolarizzazione della loro posizione?

Ancora non posso parlare di regolarizzazione. Sino ad ora - d’accordo con i detenuti - i proventi delle vendite sono stati interamente reinvestiti nel progetto. Oggi, la cooperativa che sto creando è ancora un grosso punto interrogativo. Gli oggetti si vendono, ma non ripagano neanche le spese. Si lavora con tempi di pagamento molto lunghi e spesso con resi “inaspettati”. Ovviamente nel momento in cui si inizierà a guadagnare, tutto verrà diviso tra i soci cooperatori.

Mi sto quindi attivando con altri canali. Vorrei acquistare una macchina a taglio laser per fare un service esterno e dare supporto ad architetti, designer o studenti. E’ importante avere dei guadagni giornalieri per mandare avanti il tutto e non contare solo sulla vendita degli oggetti. E’ la politica dei piccoli passi: inutile aprire coope­rative sociali per poi chiuderle poco tempo dopo. Preferisco non dare troppe illusioni e speranze, ma tentare di dar prova che piano piano si sta crescendo, che stiamo riuscendo a costruire qualcosa.

 

Lo spazio che vi è stato concesso per il laboratorio è sufficiente?

Lo spazio per ora è sufficiente. Anche perché se riusciamo ad avere il laboratorio esterno divideremo la produzione in due.

 

E i rapporti con le istituzioni?

Da un certo punto di vista sono buoni, nel senso che più volte siamo stati inseriti in pubblicazioni o chiamati ad intervenire a convegni “a tema”. Anche i Media si sono dimostrati sensibili all’argomento ed hanno apprezzato il progetto.

Come già detto però, quello che è sempre mancato è un minimo sostegno economico.

 

E i rapporti con il personale del carcere?

Non posso generalizzare. Alcuni ci vedono come elementi di disturbo. Non dimentichiamo che spesso nel mio laboratorio vengono inseriti utensili e materiale che potrebbero essere utilizzati per altri scopi... Con il tempo però sono riuscito a conquistarmi la loro fiducia. Hanno capito che sono lì per impegnare i detenuti e in un certo senso anche per “tranquillizzarne gli animi”.

I detenuti non possono entrare nel laboratorio se non accompagnati da uno di noi. Andiamo in laboratorio due volte a settimana: le cose tendono quindi ad andare un po’ a rilento.

 

E non riesce a trovare dei volontari che vadano più spesso in carcere?

Non è facile. E’ importante il rapporto che si instaura tra volontario e detenuto. I volontari sono dei volti “amici” su cui i reclusi fanno affidamento. Per prolungare il periodo di volontariato spesso mi trovo a pagar loro rimborsi spese.

In tal senso preferisco dare continuità ed avere due o tre persone fisse, seppur pagate, piuttosto che volontari che dopo un mese abbandonano il progetto.

 

Ci sono altri progetti oltre a quelli che ha citato?

Il mio problema principale è quello di trovare il modo di autofinanziarmi, sto creando quindi un altro settore commerciale che deriva sempre dal design e dal recupero. Sto cercando di sfruttare la mia esperienza quasi decennale sull’eco-sostenibilità per cercare di sensibilizzare le grandi aziende.

Esperienze consolidate hanno dimostrato che l’incontro tra azienda, eco-sostenibilità e arte contemporanea produce un effetto positivo nel complesso delle relazioni con il cliente, con il fornitore, con i dipendenti e con il territorio. ?Effetti che si traducono in un aumento del valore del brand, della percezione positiva dei prodotti e dell’immagine aziendale. Artwo vuole affiancarsi alle aziende con soluzioni studiate su misura: dall’evento artistico all’allestimento di stand e di mostre fino allo studio di un merchandising “su misura”. Il tutto seguendo sempre la stessa filosofia: recupero dei prodotti da “smaltire” o degli scarti di produzione per poi creare nuovi e fantasiosi oggetti. Il regalo aziendale in questo modo si porterà dietro dei valori (eco sostenibilità, riciclo, recupero sociale) che l’azienda potrà spendere nella sua comunicazione.

Tanti quindi sono i vantaggi rispetto alla regalistica aziendale proveniente dalla Cina: oggetti spesso sempre uguali, privi di carattere e personalità dove l’unica discrimine è il prezzo (grazie allo sfruttamento della manodopera).

 

 

inFormaMinori

 

A 16 anni ho varcato pe la prima volta la soglia del carcere minorile

Entrando nel carcere minorile, oltre ad interrompere gli studi, ho iniziato ad avere un cambio di personalità

 

di Luigi Giuda

 

Ho ascoltato di recente le testimonianze di alcuni ragazzi rinchiusi in varie carceri minorili, e ho notato come i comportamenti a rischio che loro hanno avuto si somiglino tutti, aldilà del ceto sociale e culturale delle famiglie di cui fanno parte.

Tra le motivazioni che li hanno spinti a commettere i reati, c’è la mancanza di consapevolezza rispetto alla gravità dei gesti e alle conseguenze che possono causare.

Dai loro racconti emerge con forza che quei comportamenti a rischio iniziano spesso proprio nella compagnia che frequentano, spinti dall’idea che a tutti i costi sia necessario ritagliarsi uno spazio importante nel gruppo per non passare per quello che nel gergo giovanile si chiama “sfigato”.

Hanno iniziato con piccoli atti di bullismo, come possono essere quelli di partecipare a delle risse con altri loro coetanei, o fare piccoli furti, o assumere dello stupefacente o anche solo cominciare a fumare sigarette convinti che questa fosse una trasgressione meno grave.

Molti di questi ragazzi, prima di finire in carcere, frequentavano le scuole superiori. In alcuni casi proprio all’interno della scuola sono avvenuti i loro primi comportamenti a rischio, come usare la droga o anche arrivare a venderla, e alla fine si sono ritrovati in carcere quasi senza accorgersene.

Io come loro, all’età di 16 anni, mentre frequentavo il secondo anno della scuola alberghiera, mi sono ritrovato a varcare per la prima volta la soglia del carcere minorile Cesare Beccaria.

I motivi che mi hanno spinto ad assumere certi comportamenti a rischio sono gli stessi di questi ragazzi. Anch’io non ero soddisfatto dei soli apprezzamenti che potevo ricevere dai buoni risultati scolastici, proprio perché all’interno del gruppo non bastavano ad emergere.

Entrando nel carcere minorile, oltre ad interrompere gli studi, ho iniziato ad avere un cambio di personalità. Una volta fuori non ho più ripreso gli studi, perché dopo l’esperienza del carcere mi sentivo inadeguato nel contesto scolastico.

Quindi ho iniziato ad avere uno stile di vita dove i comportamenti a rischio erano all’ordine del giorno, senza mai rispettare le regole, con la conseguenza di aver fatto, a partire dal carcere minorile, dentro e fuori dalle galere per 10 anni dalle galere e ritrovarmi oggi a 30 anni a scontare una condanna di altri 15.

Vista la mia esperienza sono convinto che il carcere minorile non debba essere il primo ed unico rimedio da adottare nei confronti di un adolescente, proprio perché in molti casi l’ingresso in una struttura che è comunque un carcere peggiora ulteriormente la personalità e non serve assolutamente a recuperare il ragazzo.

Quello che mi sento di dire è che bisogna fare una riflessione su questo tema, senza sottovalutarlo con l’idea che “a noi non accadrà mai”, perché a volte è veramente poca la differenza tra il trasgredire una regola e commettere un reato e quindi ritrovarsi in un carcere.

Mentre guardavo il video con le testimonianze dei ragazzi, si evidenziava uno scritto che riportava una frase: “Nella vita tutto è possibile… anche cambiare vita… Un vero leader è un uomo che ogni volta ha la forza di rialzarsi dai cazzotti della vita, e non quello che li dà così per rabbia o per ragioni senza senso”.

Questa frase la faccio mia, perché penso racchiuda il senso di quello che ho scritto, un pensiero che spero aiuti a far riflettere i ragazzi su quanto sia importante almeno provare a non essere superficiali rispetto a certi comportamenti.

 

 

Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere

 

Perché una rubrica fissa del nostro giornale dedicata al progetto con le scuole

 

A cura della Redazione

 

Il progetto che mette a confronto le scuole con il carcere è diventato nel nostro giornale una rubrica fissa, perché alla fine ci siamo resi conto che è proprio da lì che viene la “linfa vitale” di tutto il nostro lavoro. È uno scambio continuo, che ci costringe ogni giorno a rimetterci in discussione, a imparare a comunicare meglio, a riflettere su ogni parola. E queste riflessioni vogliamo condividerle con tutti, perché in fondo sono una continua scuola per imparare ad allargare a tutta la società un dibattito sempre più urgente sul senso che deve avere la pena.

 

 

Ho cominciato a drogarmi per incoscienza, quasi si trattasse di uno scherzo

All’inizio sembrava un divertimento, pensavo di poter smettere quando volevo. In poco tempo ho cominciato a rubare, piccoli furti tipici dei tossicodipendenti, ed in breve ho conosciuto il carcere

 

di Marco Cavallini

 

L’esperienza del progetto scuola – carcere penso sia molto utile per quelli che ascoltano e anche per quelli che si raccontano.

Il raccontare la propria storia non è facile, anzi spesso è penoso, si toccano questioni negative e personali della propria vita che non mi sarei mai sognato di raccontare a qualcuno, e tanto meno a classi intere di giovani, ma sto imparando anche se ogni volta mi è difficile come la prima.

Mi chiamo Marco e sono tossicodipendente da più di trent’anni, un periodo molto lungo e quindi difficile da ricordare nei particolari, tutta una vita piagata da scelte sbagliate, errori, reati e ricadute ripetute all’infinito, e solo a raccontarle mi rendo conto di quanto sono stato stupido, debole e specialmente quanta sofferenza ho provocato, ma purtroppo è troppo tardi per piangere e chiedere scusa.

Ho cominciato a drogarmi per curiosità, per incoscienza, quasi si trattasse di uno scherzo, forse anche per la giovane età. All’inizio era o sembrava un divertimento, pensavo di poter smettere quando volevo ed ho continuato a crederlo per anni.

Anche quando è subentrata la dipendenza fisica non mi è sembrato tanto grave, ero certo che quando mi fossi stancato di quella situazione avrei smesso, però non è stato così.

In poco tempo ho cominciato a rubare, piccoli furti tipici dei tossicodipendenti, e ben presto ho conosciuto il carcere. Passato un breve periodo mi hanno scarcerato, ero disintossicato però l’unica cosa a cui pensavo era l’eroina, e sono ricaduto lo stesso giorno.

Dopo pochi mesi ho avuto il secondo arresto e poi il terzo, il quarto, durante questi anche se brevi periodi in carcere, ho conosciuto tutti i frequentatori abituali di questi luoghi (ladri, rapinatori…) e ho avuto la proposta di mettermi a vendere droga, me l’avrebbero fornita senza soldi, all’inizio, e l’avrei pagata dopo averla venduta.

La cosa mi è risultata molto più facile che rubare, e da lì è cominciata la mia carriera di tossico – spacciatore.

Sono seguite altre carcerazioni con susseguenti liberazioni e tutto proseguiva uguale, la stessa prassi, uscire, prendere il contatto con il fornitore e ricominciare; insomma lo spaccio era diventato la mia professione, era un modo di vita come un altro che mi permetteva le mie dosi e tutto o quasi quello che volevo e senza lavorare, che non era poco.

Insomma allora mi ritenevo un privilegiato.

Ora che è passato molto tempo mi rendo conto che il nostro sistema carcerario non funzionava allora e poco funziona ora. Il carcere, soprattutto con i tossicodipendenti, non è fatto per recuperare le persone, per fargli capire i propri errori, è semplicemente inutile: come sperare che la gente esca migliore o riabilitata semplicemente dopo essere stata parcheggiata in una cella per più di 20 ore al giorno senza fare niente tranne che riempirsi di psicofarmaci e vedere la televisione, come pensare che una vita simile li possa fare riflettere sui propri errori passati e futuri?

Ricordo che passavamo il tempo pensando a come introdurre droga in carcere e quasi sempre trovavamo il modo, insomma era un chiodo fisso e non si pensava né alle condanne né alle famiglie, semplicemente ci sentivamo vittime di un sistema che non funzionava e non ci apparteneva. Che la carcerazione durasse un anno o cinque, era tutto tempo sprecato, inutile perché al momento della scarcerazione avevo l’impressione di essere entrato il giorno prima, come se avessi continuato anche dentro la galera con la stessa vita che facevo all’esterno, solo senza libertà ed in peggiori condizioni, ma sempre con l’eroina in testa.

Quel tempo del carcere mi aveva peggiorato perché ad ogni carcerazione avevo conosciuto gente nuova, probabili clienti o fornitori, più nomi, più indirizzi che ampliavano i contatti precedenti, creando così più possibilità di ingrandire il traffico e di non rimanere mai sprovvisto di roba, guadagnando “punti” con i fornitori del posto.

Penso che se al mio primo arresto, invece dercere, mi avessero offerto la possibilità di entrare in una struttura tipo comunità o comunque un posto dove mi avessero fatto riflettere e seguire da professionisti, medici, psichiatri, sottoponendomi ad un corso ben specifico, spiegandomi che quella non era la via giusta ed insegnandomi ad affrontare la vita lavorando, affrontando le avversità ed i problemi senza aggirarli, quasi sicuramente non avrei buttato via più di trent’anni della mia vita e non mi troverei ora in questa situazione, pieno di amarezza e rimorsi di coscienza per aver provocato sofferenze atroci alla mia famiglia oltre che il sicuramente grave danno fatto alla società.

 

 

Quei ragazzi così attenti e così poco superficiali

Forse gli studenti che vengono a confrontarsi con noi in futuro svolgeranno attività importanti e potranno cercare di migliorare anche la vita di chi commette reati

 

di Qamar Abbas Aslam

 

È da poco tempo che frequento la redazione di Ristretti Orizzonti e perciò ho appena iniziato a partecipare agli incontri con gli studenti. La prima volta ero cosi emozionato che quando gli studenti sono entrati nella redazione io personalmente pensavo: “Cosa succederà ora, proprio non lo so, spero tanto che non mi facciano delle domande” e per fortuna non me ne hanno fatto nessuna.

Ho notato subito le loro facce curiose, un po’ spaventate; tutti seduti di fronte a noi, guardavano ognuno di noi un po’ per vedere le nostre reazioni e un po’ timorosi per l’emozione di trovarsi davanti a dei detenuti. Quando alcuni miei compagni hanno cominciato a parlare raccontando le loro storie, ho visto i ragazzi ascoltare con molta attenzione, tutti con lo sguardo su chi parlava. Una volta che i miei compagni hanno finito di raccontare le loro storie, la parola è stata data ai ragazzi che hanno cominciato a farci le domande, prima rivolgendosi a quelli che avevano ascoltato e poi allargando agli altri le richieste di altre informazioni sulla vita del carcere.

Io personalmente tremavo e speravo che il loro dito non venisse puntato verso di me, ho valutato però che facevano delle domande molto profonde dimostrando il loro vero interessamento e qualificandosi come giovani attenti, e non, come spesso li vogliono far passare, solo dediti al divertimento, a bere, fumare, drogarsi, fare danni. La realtà mi è sembrata diversa e ben più positiva.

I miei compagni rispondevano, ma si percepiva la loro emozione, ho visto che avevano quasi paura di rispondere, forse perché non volevano dare una risposta sbagliata, che non fosse interpretata nel modo giusto, con il rischio di creare malintesi o di dare cattive informazioni.

Le buone informazioni servono invece anche a me per quando magari mi riterrò pronto a mettermi anch’io a disposizione dei ragazzi con la mia storia, ma penso che dovrò attendere ancora un po’ e sentirmi in qualche modo più sicuro per confrontarmi con i ragazzi, ai quali è giusto far conoscere questa realtà nella quale io mi trovo e dove mai avrei pensato di finire.

I miei compagni hanno senz’altro anche loro maturato la loro decisione di intervenire con le loro storie dopo aver ascoltato chi li ha preceduti, anch’io ho capito l’importanza di questi incontri e ritengo necessario pensare di dare veramente il mio contributo in futuro.

I ragazzi della prima scuola che ho incontrato sono usciti ringraziandoci per la nostra disponibilità ed anche noi abbiamo ringraziato loro, perché la loro presenza ci è utile anche per rielaborare il nostro passato e per aiutarci a far capire nella sua verità il carcere, che fuori è visto solo come luogo dove mettere dentro chi sbaglia e buttare via la chiave.

Con questi incontri e grazie al “tam – tam” dei ragazzi l’eco delle nostre informazioni forse darà modo alla società esterna di ricredersi e di capire che veramente la galera così come è gestita oggi non serve alla rieducazione, ma solo a reprimere la persona detenuta, lasciata qui parcheggiata e senza possibilità di esprimersi, di impegnarsi. Non c’è lavoro per tutti, non ci sono attività, ma solo la certezza per molti di passare 22 ore chiusi in celle previste per una persona e normalmente usate per tre o quattro. Questo sistema non rieduca.

Forse questi ragazzi che vengono a confrontarsi con noi in futuro svolgeranno attività importanti e potranno muoversi in modo positivo, avendo conosciuto questa realtà che altri prima non hanno visto, e quindi potranno cercare di migliorare anche la vita di chi commette reati.

 

 

Osservavo le facce degli studenti e mi sono ritrovato per un attimo a casa

 

di Santo Napoli

 

Oggi quando sono arrivati i ragazzi di una scuola ho avuto come l’impressione di rivedere i miei figli. Ha iniziato a parlare per rompere il ghiaccio un mio compagno, Gian Luca, che ha raccontato il suo dramma personale e come è finito in carcere, mentre lui parlava io osservavo le facce degli studenti, che erano sicuramente più piccoli dei miei figli o almeno del più grande, la maggior parte di loro avrà avuto la stessa età del mio secondogenito che ha 18 anni, e li sono andato via con il pensiero, mi sono ritrovato per un attimo a casa in famiglia, ero in una sala del carcere ma era come se fossi da tutt’altra parte. Per cinque minuti mi sono assentato con la mente, quando mi sono ridestato dai miei pensieri ho continuato ad osservare quei ragazzi ed il loro viso era pieno di stupore, ascoltavano senza nemmeno fiatare, si vedeva che erano presi nel racconto e molto interessati, credo che si sentissero anche fuori luogo, perché si guardavano in giro smarriti, ma comunque erano attentissimi. Io stando lì ad ascoltare il mio compagno mi sono immedesimato in lui e non so nemmeno come facesse a parlare, io non ce l’avrei fatta sinceramente, penso che sia molto difficile e duro denudarsi dei propri sentimenti davanti a degli sconosciuti, e ci vogliono molto coraggio ed autocontrollo.

Subito dopo ha raccontato la sua storia un altro mio compagno, Rachid, che ha pagato duramente la sua cattiva abitudine di girare con un coltellino in tasca, perché poi il destino lo ha messo in una situazione drammatica, dove per timore che gli venisse fatto del male è arrivato ad usare lui il coltello in una rissa e a uccidere.

Dopo i loro racconti i ragazzi hanno iniziato a fare delle domande tutte molto incisive, e uno studente ha chiesto a Rachid come poteva lui, dato che nella sua terra sono cosi religiosi e l’Islam sembra cosi ferreo, arrivare in Italia, commettere un reato e andare contro la sua religione, ma Rachid ha dato una risposta molto vera ed esauriente, ha raccontato come la nostra televisione fa vedere un benessere, che purtroppo in Italia invece è molto difficile da raggiungere, e questi ragazzi che emigrano pensano di arrivare qui e trovare l’America nello stesso modo in cui i nostri padri lo pensavano ai loro tempi. E qui invece trovano delusioni e, lontani dal controllo delle famiglie, finiscono facilmente nell’illegalità.

Una ragazza invece ha chiesto come noi detenuti occupiamo il nostro tempo e se abbiamo opportunità di qualunque tipo, su questa domanda ci sono state diverse risposte di molti miei compagni: abbiamo spiegato come siamo sovraffollati e non ci sono spazi e lavoro per tutti, e come quando entrano qui loro vedono soltanto la parte migliore del carcere, che sono i corridoi, il laboratorio di pasticceria, la biblioteca o la redazione dove siamo noi, con computer ed altro, ma non sanno e non possono né vedere né immaginarsi come vivono le persone sopra nelle celle, per la maggior parte senza possibilità di fare nulla, chiuse in sezioni malandate e degradate.

Questo primo incontro mi è servito a capire che i miei compagni sono molto coraggiosi a parlare di fronte a dei ragazzi per poter fare o cercare di fare capire loro che nella vita ci vuole un attimo a sbagliare e ritrovarsi nei guai. Quando ho visto uscire gli studenti, sono nuovamente tornato con la testa ed il pensiero ai miei figli, a quando li vedo andare via dal colloquio, e mi sono sentito un po’ giù di morale, però ero contento per loro che potevano uscire da questo posto di tortura sia mentale che morale, forse avendo imparato qualcosa di utile per la loro vita.

 

 

Ri-strettamente utile

 

Articolo 58 Ter

I pregiudizi, le paure, i luoghi comuni che accompagnano un articolo di legge che riguarda le persone che collaborano con la Giustizia. Ma non esclusivamente i cosiddetti “collaboratori di Giustizia”

 

A cura di Antonio Floris

 

I limiti di pena previsti dalle disposizioni del comma 1 dell’art. 21, del comma 4 dell’art. 30 ter e del comma 2 dell’art. 50, concernenti le persone condannate per taluno dei delitti indicati nei commi 1, 1 ter e uno quater dell’art.4 bis, non si applicano a coloro che:

anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione e la cattura degli autori dei reati.

Le condotte indicate nel comma 1 sono accertate dal tribunale di Sorveglianza, assunte le necessarie informazioni e sentito il pubblico ministero presso il giudice competente per i reati in ordine ai quali è stata prestata la collaborazione.

 

I limiti di pena previsti dalle disposizioni del comma 1 dell’art. 21 (assegnazione al lavoro all’esterno) per le persone condannate alla pena della reclusione per taluno dei delitti indicati nei commi 1 ter e 1 quater dell’art. 4 bis O.P. è quello dell’espiazione di almeno 1/3 della pena e nei confronti dei condannati all’ergastolo di almeno 10 anni.

 

I limiti di pena previsti dalle disposizioni del comma 4 dell’art. 30 ter (permessi premio) per le persone condannate alla pena della reclusione per taluno dei delitti indicati nei commi 1 ter e 1 quater dell’art. 4 bis O.P. è quello dell’espiazione di almeno metà della pena e nei confronti dei condannati all’ergastolo di almeno 10 anni.

 

I limiti di pena previsti dalle disposizioni del comma 2 dell’art.50 (semilibertà) per le persone condannate alla pena della reclusione per taluno dei delitti indicati nei commi 1 ter e 1 quater dell’art. 4 bis O.P. è quello dell’espiazione di almeno 2/3 della pena e nei confronti dei condannati all’ergastolo di almeno 20 anni.

 

Quindi nei casi in cui i condannati abbiano collaborato con la giustizia a norma dell’art. 58 ter e tale collaborazione venga confermata dal pubblico ministero presso il giudice competente, quando essi vanno a chiedere i benefici penitenziari (permessi premio, semilibertà ecc.) non vengono più applicati i termini stabiliti dall’art. 4 bis ma quelli stabiliti per i reati comuni. A condizione che non vi siano collegamenti con la criminalità organizzata.

 

Nell’ambiente carcerario l’art. 58 ter è un articolo “famigerato” poiché secondo il credere comune tale articolo viene applicato a coloro i quali collaborano con la giustizia facendo arrestare altre persone. Per dirla chiara tutti o quasi sono convinti che tale articolo viene applicato esclusivamente agli infami o pentiti che dir si voglia. E in pratica, quando si viene a sapere che qualcuno ha chiesto, e ottenuto, i benefici a norma dell’articolo 58 ter (in carcere si dice “ha fatto il 58 ter”), succede che costui viene evitato da tutti e non sono pochi i casi in cui tali persone subiscono pure aggressioni.

Ma non sempre l’aver collaborato con la polizia o con i PM vuol dire aver accusato altre persone. Nei casi in cui il colpevole ha commesso il reato da solo senza nessun complice, chi può accusare? E se in questi casi il colpevole decide di confessare il delitto in tutti i suoi aspetti senza nascondere niente, chi sta “infamando”, come si dice in gergo carcerario? Nessuno. Quando poi arriverà nei termini per chiedere quelli che sono i benefici penitenziari e in tale sede chiederà e gli verrà riconosciuta la collaborazione prestata nel facilitare le indagini, la cosa riguarderà solo ed esclusivamente lui e nessun altro.

Altri aspetti dell’art. 58 ter non tanto conosciuti sono quelli della collaborazione irrilevante o impossibile. La collaborazione è ritenuta impossibile quando i fatti e le responsabilità sono stati già completamente acclarati ed è irrilevante quando la posizione marginale nell’organizzazione criminale non consente di conoscere fatti e compartecipi pertinenti a livello superiore.

È la stessa Corte costituzionale ad affermare questo con le sentenze N°306 del 1993, 357 del 1994 e 68 del 1995. La corte Costituzionale usa anche il termine inesigibile, intendendo con questo che un magistrato non può pretendere da un imputato o condannato cose che quello non può sapere. Tale concetto è ribadito anche da una sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite che così recita:

“I benefici penitenziari possono essere concessi anche con riferimento ai delitti ostativi previsti dall’art. 4 bis O.P. qualora il condannato non abbia prestato collaborazione per l’impossibilità determinata dal non aver egli potuto acquisire, per il ruolo marginale svolto, conoscenze utili riversabili nell’investigazione ovvero dall’avvenuto totale accertamento dei fatti”. Cass. Pen. Sezioni Unite 5 ottobre 1999 N°14

 

Quindi, parlando del 58 ter, bisogna sfatare certe credenze assai diffuse che quelli che hanno preso i benefici penitenziari “innanzi tempo” sono tutti infami che hanno portato in carcere altre persone, perché in moltissimi casi si sono semplicemente limitati ad accusare se stessi, oppure a ripetere cose già note, senza recare danno a nessuno.

 

 

Il 58 Ter spiegato da Alessandro Margara

 

Il punto di vista di uno dei padri storici dell’Ordinamento penitenziario, per anni magistrato di Sorveglianza, ora garante delle persone private della libertà personale per la Regione Toscana

 

Le parti del vostro scritto che citano la legislazione relativa al 58 ter e le interpretazioni della stessa sono ineccepibili.

Per quel che riguarda il problema che mi ponete, di come viene interpretato il 58 ter, bisognerebbe cercare di superare la convinzione corrente nei detenuti: che la citazione del 58 ter equivalga al riconoscimento della collaborazione con la giustizia. O prima ancora cercare di far capire che la collaborazione può anche essere frutto di una valutazione della singola posizione processuale e la resa all’evidenza, come in alcuni casi succede con la confessione del rea­to, che vale qualche attenuante, quando il negare sistematico varrebbe qualche aggravante.

Ma il comma 1bis dell’art. 4bis fa riferimento ad una situazione che non richiede la collaborazione più o meno esplicita, perché o tiene conto della “limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna”, ovvero “dell’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile”. In questi casi il 58 ter è superato da una situazione processuale che lo rende inesigibile o impossibile. Resta inevitabile l’ammissione della propria partecipazione ai reati, anche se non è richiesta espressamente.

Ora, è vero che, ai tempi in cui lavoravo come magistrato di Sorveglianza, la istanza era registrata come accertamento 58 ter, in quanto si doveva stabilire se tale norma fosse applicabile o meno, e la conclusione era, poi, che non si applicava perché c’era la inesigibilità o la impossibilità della collaborazione, ma la indicazione dell’art. 58 ter poteva essere equivocata dall’ambiente detentivo. Allora, però, bisognava scomodare le sentenze costituzionali e il passaggio dal 58 ter era più comprensibile. Oggi, che una norma dice quello che dicevano le sentenze costituzionali, se ne potrebbe fare a meno, anche se poi, parlandone con l’Ufficio di Sorveglianza, venivano fuori altre interpretazioni restrittive.

Concludendo: il problema è direi di rispettabilità tra la popolazione detenuta. Quando i ricorsi ai casi del comma 1bis dell’art. 4bis sono di fatto limitati alla ammissione che le cose sono andate come afferma una sentenza irrevocabile, mi sembra che quella rispettabilità sia autolesiva e che è meglio lasciarla perdere.

 

 

Radio carcere

 

Per le carceri meno attenzione che per i canili

 

Il decreto che il governo ha presentato per far fronte all’emergenza delle carceri, dove oggi sono rinchiusi 68.000 detenuti al posto dei 43.000 che ci dovrebbero essere, ancora una volta è stato presentato da giornali e telegiornali con l’aggettivo “svuotacarceri”, per dare più forza a questa idea dello svuotamento delle galere, e magari per far crescere un po’ la paura nei confronti delle misure prese da questo governo. Tra le proposte per esempio c’è quella che gli arrestati in flagranza per reati di non particolare gravità vengano trattenuti nelle camere di sicurezza degli uffici di polizia e lì attendano la convalida (se ci sarà) dell’arresto, entro le successive 48 ore, anziché essere mandati in cella, e la notizia è stata che usciranno oltre 21mila detenuti. Forse però le cose sono un po’ diverse, non è che usciranno oltre 21.000 detenuti, e quindi gireranno pericolosi criminali liberi, è che ogni anno più di 20.000 persone stanno in carcere meno di tre giorni, e in futuro queste persone, invece che entrare a intasare inutilmente le galere, arriveranno in carcere solo se l’arresto verrà convalidato. Ma questo purtroppo non basterà a rendere molto più vivibili le nostre prigioni, sempre meno degne di un Paese civile. Abbiamo provato allora a immaginare che l’interesse, che le associazioni animaliste hanno per i cani rinchiusi nei canili lager, sia esteso per un giorno anche ai detenuti: è davvero un discorso così provocatorio, o c’è un fondo di verità in questo sentirsi, da parte dei detenuti, trattati come i cani più maltrattati?

 

 

Una richiesta alle associazioni animaliste

 

di Santo Napoli

 

Sono un “detenuto cane” o un “cane di detenuto”, e mi appello alle associazioni animaliste per essere adottato in qualità di “ANIMALE” rinchiuso in un canile carcerario stretto e sovraffollato, così come lo sono i cani rinchiusi in gabbia. Io mi appello alle associazioni animaliste perché la parola “animalista” credo voglia dire: impegnato nella protezione delle specie animali viventi dallo sfruttamento o dai maltrattamenti dell’uomo. E io mi ritengo tale, un animale dotato di moto e di sensi, ma qualche volta anche animale da macello, destinato cioè a qualcosa che sembra una specie di macellazione, perché a questo assomiglia ultimamente il destino di chi finisce in carcere. Ho sempre avuto cani in vita mia e li amo così come li amate voi, però vorrei che voi aveste un po’ di attenzione anche per noi “detenuti cani”, magari anche solo per un giorno, e combatteste insieme a noi per una vita degna di essere vissuta da parte di entrambe le specie, senza dimenticare che forse è vero che i cani sono innocenti, ma ci sono anche tra di noi detenuti presunti innocenti, che attendono un giudizio, e che in molti verranno anche assolti.-

 

 

Le campagne contro il maltrattamento degli animali e le carceri sovraffollate indegnamente

 

di Filippo Filippi

 

Io sono una persona detenuta e mi capita spesso di seguire i servizi molto toccanti che Striscia la notizia fa sul maltrattamento degli animali, sul loro trasporto, sul loro uso come cavie, sul processo con cui, affinché diventino commerciabili, vengono fatti ingrassare nel minor tempo possibile, in spazi dove talvolta non possono letteralmente quasi neanche muoversi. Insomma tenuti in condizioni dis-umane anche per delle bestie.

Mentre guardo le tristi immagini che Striscia la notizia spesso ci propone, il mio pensiero balza inevitabilmente a come stiamo scontando noi umani detenuti la nostra, spesso giusta, condanna. Quindi all’attuale sovraffollamento, che in alcuni Istituti impedisce quasi il movimento fisico se non per poco meno di due o tre ore al giorno in zone apposite “di passeggio”. Per il resto spesso si tratta di vere e proprie stie, gabbie dove anche il più piccolo movimento deve essere concordato o sincronizzato con gli altri componenti delle gabbie. Componenti che sono di varie “razze”, hanno abitudini strane o diverse, usano linguaggi di vario genere, ma fanno tutti parte della stessa razza, razza umana.

Chissà come tutte le volte che assisto ad un servizio televisivo di Striscia il mio pensiero corre a fare questi strani paragoni e la prima risposta cha mi dò è che loro però sono innocenti, non vi è nessuna ragione per la quale debbano subire tutti quei maltrattamenti talvolta mortali. Subito dopo però mi accorgo che anche se io invece ho fatto qualcosa per essere dove sono, oramai come forma mentis è come se non facessi più distinzione tra loro animali e noi, persone detenute. È chiaro che l’importanza che mi do come essere umano pensante oramai è talmente poca! Nella mia labile mente è quasi nulla.

Anzi forse c’è ancora una cosa che ci avvicina, noi e i cani ristretti nei canili, ed è quella che loro a volte sono animali dopati o “da laboratorio”, e le persone detenute sono tossicodipendenti, e in carcere spesso vengono anche imbottite di psicofarmaci.-

 

 

Uomo o cane

 

di Alain Canzian

 

Parlare di “cani detenuti” forse non è una bella cosa, specialmente se questo discorso viene proprio da un detenuto che non vorrebbe essere considerato un cane, ma una persona che ha sbagliato e sta pagando il proprio debito alla società.

Io non saprei come definire quale sia la differenza tra un animale in una gabbia e un detenuto. Tutti e due sono rinchiusi e gli si dovrebbe somministrare del cibo (la qualità e quantità sono da definire, i tre pasti di un detenuto costano circa 3 euro e 80 centesimi). Per quel che riguarda il cane ristretto in un canile, quando sono i volontari che gli portano da mangiare può succedergli anche che prima o poi venga adottato, e potrà così avere una nuova famiglia e quel poco che tu gli dai, lui te lo ripagherà molto di più. Purtroppo questa è una verità non valida per tutti i cani, anzi per molti finisce nel peggiore dei modi, come raccontano tante trasmissioni televisive.

Anche per quel che riguarda noi carcerati, per pochi la carcerazione è mite, civile e nel rispetto dei diritti che sono previsti dalla Costituzione e regolati in un Ordinamento Penitenziario, anche a noi ci danno del cibo, ma poi se andiamo un po’ più a fondo sulla dignità dell’uomo “rinchiuso”, il dubbio c’è: viviamo meglio o peggio dei nostri amici cani?

Purtroppo la realtà per noi detenuti è a volte peggiore, specialmente nelle condizioni nelle quali siamo obbligati a vivere ultimamente, rinchiusi e stretti in pochi metri con un minimo di tre persone in una cella costruita per una, per 20 o 22 ore al giorno, senza avere nessuna attività, se non per qualcuno un po’ più fortunato. Ma non si può vivere sperando, minuto dopo minuto, che oggi sia il tuo giorno fortunato, se poi non c’è mai un giorno fortunato, e magari fuori non hai nessuno, né che ti venga a trovare, né che ti aspetti quando uscirai; loro, i cani, invece qualcuno avrà modo di vederli nei canili o anche attraverso i servizi che quasi ogni giorno appaiono in televisione, con l’onorevole Brambilla che li accarezza e bacia con tanto amore, loro forse avranno una vita migliore, qualcuno che li adotterà. Pensare che qualcuno possa fare altrettanto per i detenuti mi darebbe gioia, per me ma anche per tutti quelli che sono nelle mie medesime condizioni – abbandonati da tutti – relegati in carceri lontane anche dalle città, perché nessuno deve accorgersi che ci siamo. Ma come fanno a non accorgersi di noi, a dire che c’è bisogno di certezza della pena, “chiudiamoli tutti in galera e buttiamo via le chiavi”, quando di fatto questa spesso è già la realtà?

Ci piacerebbe che gli animalisti ci accomunassero nelle loro battaglie agli animali di cui tutelano i diritti, perché non ci sentiamo mostri come ci definiscono gli organi di informazione: abbiamo commesso cose brutte, qualche volta definibili anche come mostruose, siamo coscienti che dobbiamo pagare un debito alla società, ma dopo aver pagato per il nostro reato, anche noi dovremo uscire, ritornare in società, con la speranza che le nostre famiglie ci abbiano potuto attendere, e che per lo meno non ci troveremo su una strada, abbandonati come i cani chiamati “randagi”.

 

 

Nelle carceri inizia il terzo anno di emergenza

Che cosa è successo in due anni di proclami su emergenze vere, e rimedi improbabili

 

di Antonio Floris

 

Sono ben 24 mesi che la popolazione detenuta sta vivendo in stato di emergenza. Emergenza proclamata dall’allora ministro della Giustizia Alfano, poi affrontata nel breve periodo del dicastero Palma e ora nelle mani del neo ministro Severino.

Che cosa si è fatto in questi due anni per porre rimedio alla drammatica e disumana situazione? Poco, se si esclude quella leggina cosiddetta svuotacarceri che ha fatto uscire in detenzione domiciliare circa 4000 persone, buona parte delle quali a quest’ora non stanno più chiuse in casa ma sono libere per aver ormai espiato quei pochi mesi che rimanevano loro per finire la pena.

Che cosa ne è stato del piano carceri? Quante carceri sono state costruite o soltanto iniziate? È vero che in alcuni istituti sono stati aggiunti dei padiglioni, ma è altrettanto vero che questi sono spesso inutilizzati per mancanza del personale per gestirli. Forse, nonostante le tante battaglie dei sindacati di Polizia penitenziaria, si fa finta di non sapere che gli agenti di polizia penitenziaria sono sotto organico di 6.500 unità, e ancora non si tiene conto che invece di 1.331 educatori previsti in pianta organica ce ne sono meno di 1.000 e che mancano oltre 400 assistenti sociali.

Se non si riesce ad assumere il personale mancante per le carceri già esistenti, da dove verranno gli operatori per gestire le ipotetiche nuove? I fondi previsti per costru­ire le nuove carceri si sono ridotti da 600 mln di euro a 200 mln, dei quali 50 a carico del ministero della Giustizia e 150 della cassa delle Ammende. Soldi questi ultimi che in realtà dovrebbero essere destinati ai percorsi di reinserimento per i detenuti.

Solo dall’analisi di questi dati ci si rende conto che il grandioso piano carceri annunciato dall’ex ministro Alfano si sta a poco a poco sgretolando (si ipotizzava all’inizio un investimento di un miliardo e seicento milioni…), e di tutti gli istituti previsti nell’originario progetto probabilmente solo pochissimi verranno iniziati e portati a termine (chissà quando) perché non si tratta solo della volontà di costruirli, ma dei mezzi, che mancano.

Nel frattempo la popolazione detenuta dopo un periodo di stasi intorno alle 67.000 unità, ora ha ripreso ad aumentare. Esattamente al 7 dicembre nelle carceri italiane erano presenti 68.017 detenuti (65121 uomini e 2896 donne) a fronte di una disponibilità reale di 44.385 posti, con un esubero pari a 23.632 detenuti e un tasso di sovraffollamento del 153,24%. Il più alto in Europa e alla pari con la Bulgaria. Se teniamo presente che la media europea è del 109% (mettendoci in mezzo anche Italia e Bulgaria) il distacco non è da poco. Non per niente il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 28 luglio scorso ha parlato di “una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana - fino all’impulso a togliersi la vita - di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo”.

Di fronte a questi dati viene da fare l’amara considerazione che i diritti dei detenuti sono considerati meno degni di essere tutelati di quelli degli animali. Quando nel mese di aprile scorso, a seguito di un controllo in allevamenti di galline ovaiole del centro nord, i NAS scoprirono che la presenza delle galline nelle gabbie era superiore al 50% di quanto prevedevano le normative europee, fecero chiudere gli allevamenti. Le stesse normative europee prevedono che i verri abbiano a disposizione una superfice ottimale di 9 metri quadrati e una superfice minima di almeno 6 (Ddl 534/92 e 2001/93), pena la chiusura dei porcili. E la cosa più sconcertante è che per le violazioni dei diritti di galline e maiali si trova la soluzione nello stesso giorno senza aspettare il successivo, e per fortuna, diciamo noi, che non vogliamo metterci in competizione né con galline né con verri, mentre per le persone, perché sempre di persone si tratta, il problema si trascina per anni e anni all’infinito senza trovare nessuna soluzione concreta, al di là delle solite chiacchere e progetti irrealizzabili.

Ora che siamo entrati nel terzo anno consecutivo di emergenza e visto che i rimedi, più fantasiosi che altro, immaginati nei precedenti due non portano a niente di concreto, sarà il caso di trovarne e metterne in pratica altri più accessibili nella pratica e sicuramente meno lunghi e costosi del costruire nuovi edifici. Rimedi che allo stesso tempo assicurino la certezza della pena, mettendo ben in evidenza che il concetto di certezza della pena non deve essere identificato con certezza del carcere.

Ci sono tanti altri modi per espiare le condanne inflitte, che sono molto più rieducativi per i rei e molto meno costosi per la società. Auguriamoci che la Ministra Paola Severino sia capace di trovare finalmente le soluzioni che tutti ci aspettiamo per poter finalmente uscire dalla situazione di vergogna in cui ci troviamo, ripetendo le parole del nostro Presidente della Repubblica. I primi provvedimenti presi dal nuovo governo sono molto cauti, e non svuoteranno di molto le galere, al di là del fatto che si continui a parlare di misure “svuotacarceri”, ma almeno vanno nella direzione giusta.

 

 

DonneDentro

 

Aumentare il tasso di umanità delle carceri

Le testimonianze di quattro donne recluse spiegano esattamente questo, che gli affetti sono la più solida ancora di salvezza per chi deve affrontare la sofferenza della carcerazione

A cura della Redazione

 

Se c’è qualcosa che può in qualche modo alleviare le condizioni poco umane della detenzione oggi, quel “qualcosa” sono le famiglie dei detenuti, che raramente li abbandonano, e che anche durante le interminabili feste sono al loro fianco, in coda al freddo per accedere ai colloqui con i bambini, consegnare i pacchi con la biancheria pulita, portare ai loro cari del cibo che possa ricreare un po’ di aria di casa. Perché se le carceri oggi sono invivibili sempre, durante le feste lo sono ancora di più, la sensazione di abbandono cresce, le poche attività presenti sono sospese, i tanti detenuti che non possono andare in permesso attendono con ansia le poche ore dei colloqui, e quelli che non hanno le famiglie vicine aspettano con altrettanta ansia che arrivi almeno una lettera da casa, le lettere sono una delle poche consolazioni della galera.

Sono 67 i suicidi di persone detenute avvenuti quest’anno, e tanti riguardano ragazzi giovani che non hanno retto la prospettiva di una galera inutile, senza speranza.

Tra i provvedimenti che il ministro Paola Severino potrebbe allora prendere contro il sovraffollamento, ce n’è uno a costo zero che non risolverebbe nulla dal punto di vista dei numeri, non ridurrebbe le presenze di detenuti, ma almeno aumenterebbe il tasso di umanità della detenzione, e oggi lo Stato, che gestisce le carceri nella più totale illegalità, dovrebbe dare proprio un segnale di umanità. Quel provvedimento è semplice e chiaro: bisogna AUMENTARE LE ORE DEI COLLOQUI E DELLE TELEFONATE.

Le testimonianze di quattro donne recluse spiegano esattamente questo, che gli affetti sono la più solida ancora di salvezza per chi deve affrontare la sofferenza della carcerazione.

a cura della Redazione

 

 

Ho pensato che dopo la prima lettera non mi avrebbero scritto più

Sono le lettere che aiutano a vivere le persone che hanno un cuore dentro ed i loro affetti fuori

 

di Mimoza

 

Erano passati quasi vent’anni da quando avevo preso in mano l’ultima volta carta e penna per scrivere una lettera a qualcuno, visto che con i cellulari, e poi i computer quasi nessuno adesso pensa più di scrivere due righe a mano e mandarle via posta.

A maggio del 2010 mi è capitata però la cosa più brutta della mia vita: il mio arresto.

Ecco perché per comunicare quello che mi era capitato ai miei figli, alla mia famiglia e ai miei amici l’unico mezzo era di scrivere loro.

Quando sono stata arrestata non me lo aspettavo proprio, tutto era avvenuto in mia assenza, con una condanna in contumacia, e io prima non ero mai stata neppure convocata dalle forze dell’ordine.

I miei genitori hanno saputo subito dal mio compagno del mio arresto, perché avevano provato a chiamarmi sul cellulare e continuavano a trovarlo spento. I miei figli, che vivono con loro in Albania, invece l’hanno saputo dopo una settimana.

Per una settimana infatti i miei genitori non hanno detto niente ai ragazzi, perché pensavano che c’era sicuramente stato qualche errore, ma poi, vista la loro preoccupazione perché non chiamavo più, gliene hanno parlato. Per quello che so, in un primo momento i ragazzi sono rimasti senza fiato, ma subito dopo hanno detto: “L’importante è che la mamma stia bene di salute, perché dal carcere uscirà un giorno, invece se le fosse capitato qualcosa di brutto o se fosse morta, noi non la vedevamo più!”.

Invece mio padre non mi perdonerà mai di essere stata in carcere. Per lui è una vergogna avere una figlia detenuta, in un anno e sei mesi che ho passato finora in carcere, da lui ho ricevuto solo una lettera piccola con poche righe dove era sottolineata solo una frase: “Questo da te non me lo aspettavo”.

Il primo mese da detenuta ho pensato che dopo la prima lettera non mi avrebbero scritto più. E questo era quello che desideravo in un primo momento, perché non volevo parlare con nessuno e neppure impegnarmi a scrivere.

Nei primi mesi dopo l’arresto l’unico chiodo fisso era quello della morte, motivato dal fatto che pensavo che se mi avevano portato in carcere non ero degna di vivere, non solo per me ma anche per la società. Per questo non scrivevo a nessuno. Ma più mi rafforzavo in questa idea, più ricevevo posta delle persone che mi conoscevano e che cercavano invece di sostenermi.

Tanti miei amici mi scrivevano di fare la richiesta perché potessero venire a trovarmi. E tante volte ho provato a non rispondere alle lettere, ma loro continuavano a scrivermi e darmi coraggio. Mi scrivevano che questo era un momento brutto, ma che purtroppo dovevo farmi forza per superarlo ed andare avanti.

I miei cari e i miei amici avevano visto in me una qualità che forse io non mi ero resa conto di avere: loro erano convinti che io fossi una persona forte.

Un giorno ho deciso di rileggere tutta la mia corrispondenza e ho pensato: “Io non sono sola fuori. Ci sono tante persone che credono in me e lottano per me. Ma io cosa sto facendo per me stessa?”.

Da quel momento ho messo insieme tutte le mie forze e ho cominciato a vedere la vita del carcere con altri occhi.

Tante volte, soprattutto quando non lavoro durante la mattinata, mi chiedo se quel giorno riceverò posta, chi mi avrà scritto, spero di avere qualche notizia dai miei figli. I giorni più tristi sono il sabato e la domenica, perché ultimamente la posta non arriva più di sabato.

Molte volte noi qui dentro siamo arrabbiate perché le lettere ci mettono anche un mese ad arrivare, le cartoline degli auguri di Natale arrivano a febbraio invece che a dicembre, e questo non è giusto. Qualche volta è capitato anche che le lettere si sono perse per strada e non sono mai arrivate a destinazione.

È vero che abbiamo sbagliato e per questo stiamo pagando, però non dobbiamo essere private della nostra corrispondenza. Per me la corrispondenza con i miei cari e con gli amici è stata molto importante, mi ha dato la forza di andare avanti in questo brutto viaggio e penso che questo valga per tanti detenuti.

Le persone che mi scrivono mi tengono presente la vita che mi aspetta fuori, quella che ho interrotto entrando in carcere, i cambiamenti che accadono tutti i giorni, ma nello stesso tempo sono vicine a me per ogni bisogno che ho.

Vorrei dire che le poste e i postini dovrebbero dare più importanza quando vedono che le lettere sono destinate all’indirizzo di un carcere, perché in carcere ci sono delle persone che hanno un cuore dentro ed i loro affetti fuori.

 

 

Una sera, per strada, mi hanno messo le manette

Ho rivisto i miei genitori al colloquio in carcere dopo due mesi. Erano arrabbiati, delusi, offesi

 

di Sandra

 

Era già successo che mi arrestassero per droga, ben altre tre volte. Ma quest’ultima a 43 anni non se l’aspettavano. Continuavo a nascondere la mia tossicodipendenza, gli facevo intendere che tutto andava bene e riuscivo facilmente a mascherare la cosa.

Una sera però, per strada, mi hanno messo le manette ed ho rivisto i miei genitori al colloquio in carcere dopo due mesi. Erano arrabbiati, delusi, offesi. Li avevo improvvisamente abbandonati e traditi, per loro entrare in un carcere era un disonore.

Ma piano piano, passata la rabbia dei primi momenti, sono tornati da me a braccia aperte: rimango sempre la loro figlia. E come sempre ho cercato di rassicurarli dicendogli mezze verità per prendere tempo e prepararli ad una condanna, che poi è stata di quasi sette anni.

Ci ho impiegato un anno e mezzo a dirgli chiaro e tondo quando tornerò a casa. Non ce la facevo, rimandavo di volta in volta, vergognandomi di quella delusione che gli ho inflitto, e soprattutto del fatto che li ho abbandonati, anziani, e così bisognosi del mio aiuto!

 

 

A mio figlio ho detto tutto, fino all’ultimo particolare

E sono convinta che sia mio figlio che la mia famiglia oggi abbiano un’opinione migliore riguardo alle parole “carcerato” e “carcere”

 

di Luminita

 

Prima di dire la verità ai miei familiari, io avrei voluto scoprire la verità sul perché oggi mi trovo qui. Ho due figli e tutto un mondo di affetti attorno a me. Questo mondo “mio” si è un po’ spezzato quattro anni fa, quando sono stata arrestata.

Dopo una grossa litigata con la mia figlia maggiore e una conseguente denuncia da parte sua, mi trovo a cercare la verità da quattro anni. Non sono una detenuta definitiva, sono ancora in custodia cautelare, e tante volte domando a me stessa: “Che cosa ci faccio qui?”.

Nel momento in cui tutto il mio mondo si è spaccato in due, ho dovuto almeno spiegare a mio figlio minore (che all’epoca aveva 10 anni) dove ero “sparita”. E io gli ho detto tutto, fino all’ultimo particolare, correndo il rischio che potesse subire un danno psicologico forte. Però l’ho fatto. Meglio una dura verità detta al tempo giusto.

Tutto è accaduto tramite posta e tramite posta ho avuto la conferma che sono stata davvero ben capita, non solo da mio figlio, ma da tutti coloro che fanno parte della mia vita. Non ho nulla da nascondere, e ho sempre pensato che tutto ciò che avviene nella nostra vita deve essere detto nei tempi giusti, però trovando il modo giusto e le persone giuste.

Sono convinta che sia mio figlio che la mia famiglia oggi abbiano un’opinione migliore riguardo alle parole “carcerato” e “carcere” di quanto la possa avere una persona estranea al mio percorso di vita. Ma se ritorno dall’altra parte del “mio mondo”, cioè a mia figlia, non c’è nulla che io riesca a pensare e a dire. Dopo che il fatto è avvenuto, passati due anni è venuta a trovarmi, è venuta a vedermi e a capire cosa è riuscita a fare, e sicuramente si è pentita, ma nello stesso tempo non ha avuto il coraggio di dire la verità. La vera verità. E io vado avanti a vivere nei miei due “mondi”. E mi sento doppiamente prigioniera nel pianeta delle prigioni.

 

 

Ai miei figli ho detto subito che stavo in questo posto

Ma una volta finito questo incubo loro dovranno capire che io ho bisogno del loro rispetto

 

di M.

 

Sono finita in carcere parecchi anni dopo che ho commesso il reato, ai miei famigliari ho parlato della mia carcerazione in modo diverso: a mio marito ho detto tutto, perché con lui ho crea­to un rapporto di stima e fiducia, alle mie sorelle un po’ meno, perché tensioni dentro la mia famiglia ce ne sono sempre state e non ne volevo altre.

Ai miei figli invece non ho mentito neanche per un attimo, gli ho detto subito che stavo in questo posto. Non è stato facile, ma con il tempo e impegno da entrambe le parti gli ho spiegato che la loro mamma aveva fatto degli errori alla loro età e che il senso comunque di questo posto negativo per loro era di non commettere quegli stessi errori, perché avevano davanti lo specchio della mamma. Volevo che capissero anche che ogni essere umano può sbagliare, può capitare davvero a chiunque. Una volta finito questo incubo spero loro si rendano conto che io ho bisogno del loro rispetto, perché ho sbagliato, ma sono faticosamente arrivata a comprendere quanto è importante dare un senso alla propria vita assumendosi in pieno le proprie responsabilità.

Il tempo buttato in galera non si può recuperare più, possiamo solo impegnarci a ricostruire quello che verrà, cercando di essere noi gli artefici del nostro destino, e per fortuna possiamo sempre migliorare, per le nostre famiglie, per i nostri figli.

 

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Pubblicazione registrata del Tribunale di Venezia n° 1315 dell’11 gennaio 1999. Spedizione in A.P. art. 2 comma 20/C. Legge 662/96 Filiale di Padova