Stranieri dentro

 

Combattere l’intolleranza con la cultura

Ho conosciuto l’Italia dall’interno delle sue galere

E dall’interno delle galere ho cercato, con la scrittura, di aprire delle piccole finestre, in modo da permettere agli sguardi distratti della gente fuori di fermarsi un attimo e guardare dentro

 

di Elton Kalica

 

Se scrivere qui in galera ha un senso, è perché si possono raccontare frammenti di carcere per chi in carcere non può entrarci: è come se io cercassi di aprire delle piccole finestre in modo da permettere agli sguardi distratti della gente fuori di fermarsi un attimo e guardare dentro e vedere che siamo delle persone, fatte di carne ed ossa, e a volte abbiamo anche una testa che funziona.

La mia passione per la scrittura prende origine da una situazione particolare in cui vivevo, nei miei primi anni di detenzione, quando il rifiuto di accettare una realtà così estranea alla mia vita precedente, tra l’altro limitata solo all’esperienza liceale, perché avevo diciannove anni quando sono emigrato, e le difficoltà di relazionarmi con persone così diverse dalle mie relazioni precedenti, che riguardavano una normalissima sfera famigliare, rischiavano di travolgermi irrimediabilmente.

La mia storia di migrante ha avuto vita breve e l’amicizia con quelle poche persone che ho seguito in quei mesi mi ha offerto solo qualche piccolo spaccato della realtà – legale e illegale – italiana. Così mi sono ritrovato a scoprire un Paese dall’interno delle sue galere, guardando le sue televisioni e leggendo i suoi libri e i suoi giornali. Certo, la Rai e i suoi VIP non mi erano nuovi – spesso in Albania mi addormentavo ascoltando Celentano, Battisti, Baglioni e De Andrè – e al ginnasio, la professoressa di lettere mi aveva fatto conoscere Dante, Manzoni e Boccaccio. Quindi forse mi veniva più facile capire pagine di letteratura piuttosto che capire i discorsi da galera che si facevano intorno a me. Non nego però di essermi fatto trascinare a volte in quel vortice di assurde rivalse prodotte dalla complessità della convivenza forzata tra detenuti, perché appartengo a quella generazione cresciuta nella contraddizione dei tempi che cambiavano vorticosamente nei Paesi dell’Europa dell’Est, e il mio carattere non poteva che risentirne.

Ho fatto i primi cinque anni di detenzione in Alta Sicurezza, che è una sezione chiusa dove non vedevo nessuno altro se non gli agenti che aprivano il cancello per farmi andare in un cortile di cemento dove trovavo sempre gli stessi detenuti. La vita del carcere duro in cui non si ha nient’altro che una branda e due ore d’aria porta le persone a cercare qualcosa con cui occupare il tempo. Giocare a carte è l’attività d’intrattenimento più diffusa, ma c’è anche chi fa richiesta e viene autorizzato a costruire oggetti d’arredo con gli stuzzicadenti, colla e cartone.

Io invece mi sentivo in dovere di reinventarmi una esistenza. Lo dovevo ai miei genitori, ma anche a me stesso, visto il casino in cui mi ero cacciato con le mie mani. Però non è per niente facile inventarsi una vita stando in una cella di 3 metri per 2, e allora mi limitavo ad immergermi in quella degli altri, leggendo libri.

Qui c’è una biblioteca che manda nelle celle un catalogo da consultare e si può fare una domanda scritta per chiedere il libro desiderato. Ecco, è cominciata così la mia passione per la lettura: sfogliando il catalogo della biblioteca e ordinando i romanzi a caso. Leggevo tanto ed ero contento perché così potevo conoscere da vicino centinaia di storie e di persone. Potevo immergermi nelle loro vite e prendervi parte piangendo o ridendo con loro. Insomma, era un modo per uscire dal carcere con la mente e fare quello che volevo.

Ma se leggere è così magico, lo è anche perché ha il merito di far venire la voglia di raccontare pezzi della propria vita, indipendentemente se siano brutti o belli, tiepidi o intensi. E quando vedi che ti riesce abbastanza bene – non so se nel mio caso questo è stato il frutto di quegli anni passati steso in branda a leggere, oppure una cosa proveniente dall’intimo del cuore – allora ti accorgi che hai sempre qualcosa di interessante da raccontare. Perché tutti hanno qualcosa di interessante da raccontare, basta solo imparare a usare la testa.

 

Ho ripreso gli studi alla ricerca di una esistenza che prima avevo disprezzato

 

Poi riprendere gli studi per me è stato come fare una specie di curva a U in cui ho tirato il freno a mano per tornare indietro alla ricerca di una esistenza che prima avevo disprezzato, perché la consideravo fallimentare. A proposito delle cantonate che si prendono quando insegue il sogno della “bella vita”, se mai avevo avuto qualche riserva verso la mia vecchia scuola di Tirana, studiare tra i banchi della galera mi ha fatto ripensare e apprezzare quelle piccole cose che avevo al mio Paese, nonché riconsiderare tutte le convinzioni che mi ero fatto del mondo.

Studiare Scienze politiche, e in particolare Relazioni internazionali, è stata una decisione presa d’istinto, senza i soliti ragionamenti sulle opportunità lavorative che un corso ti può dare o meno. Ma considerando le conoscenze che ho acquisito in questi anni, di certo non mi pento, anzi sono contento perché studiare le relazioni internazionali mi ha portato ad approfondire tutti quei trattati di tutela dei diritti fondamentali che molti Stati si sono impegnati a rispettare. Una consapevolezza importante per uno che sa di essere considerato l’ultimo degli ultimi – perché straniero e perché in carcere – che ti dà la forza per non arrenderti al clima di disprezzo che ti circonda: appartenere all’ultimo gradino della società porta una persona ad avere prevalentemente due tipi di atteggiamenti contrapposti, cadere nell’autocommiserazione o ancora peggio, nella rinunciataria convinzione che non esiste un’alternativa a quella vita, oppure mantenere vivo un sentimento di rivalsa e il desiderio di riscattarsi dai pregiudizi e sopravvivere con dignità alla intolleranza. Ecco, io credo di appartenere a questa seconda categoria, e ogni giorno mi metto sui libri oppure vado a lavorare in redazione come atto di rifiuto della condizione in cui mi trovo.

La mia esperienza processuale, la violenza fisica e psicologica subita da parte delle forze dell’ordine, l’apatia con cui gli avvocati mi hanno difeso durante il processo, la crudele sproporzione della condanna, tutto questo mi ha fatto vivere l’esperienza di un sistema giudiziario non solo imperfetto, ma a volte capace di assumere la forma di una macchina mostruosamente crudele verso alcuni dei diritti fondamentali delle singole persone, specialmente in sede di processo penale.

Quando mi sono ritrovato di fronte alla sentenza definitiva e non era rimasto più nulla da fare per cambiare il mio drammatico destino, venni a sapere che – prima di guardare il cielo per rimettermi alla giustizia divina – si poteva fare ancora ricorso ad un tribunale – terreno – che si chiamava Corte europea per i diritti dell’uomo. Siccome chiedere ai miei genitori di pagarmi un altro avvocato mediocre per fare ricorso ad un tribunale internazionale mi sembrava privo di senso, ho cominciato a studiare per conto mio. Mi ci è voluto molto tempo a trovare del materiale informativo e quando ho cominciato ad assorbire le prime nozioni giuridiche ho scoperto che non c’era nulla da fare per il mio ricorso. Ma ormai mi interessava approfondire la questione di tutti i diritti, così, al termine della laurea triennale, ho fatto una tesi sul diritto del lavoro in cui ho potuto conoscere bene anche l’Organizzazione internazionale del lavoro.

 

Vorrei mettere la mia esperienza al servizio degli altri

 

Come vedo l’Italia di oggi da detenuto? Certo che ci vuole una buona dose di pazzia a sentirsi dire continuamente che qui non si può più stare e ostinarsi a credere che qualcosa cambierà in meglio. So che fra poco tempo finirò la pena e sarò espulso, so che non potrò rimettere piede in Italia per dieci anni (e forse deciderò di non farlo mai), forse non rivedrò più nemmeno gli amici che mi sono fatto in questi quindici anni, e invece continuo interessarmi di quello che succede in questo Paese, della politica, della vita culturale, e desiderare profondamente che qualcosa migliori nel futuro di chi soffre, soprattutto dei detenuti. Mi sono fatto tredici anni di carcere e tutto quello che voglio avere sono le competenze necessarie per mettere la mia esperienza al servizio degli altri. Credo che quello che mi spinge a continuare a scrivere e a parlare di carcere sia un sentimento di dovere morale nei confronti di una società che, spaventata, guarda le carceri senza senso critico, accettando come valide solo quelle soluzioni – semplici e brutali – che annullano l’umanità di chi ci vive dentro.

Ho maturato in questi anni una concezione molto volterriana della letteratura e credo che essa debba possedere una funzione sociale, e perciò quando mi ritrovo a raccontare frammenti di carcere, nel profondo del mio cuore arde il desiderio che nella testa di chi mi legge cominci a germogliare un sentimento di tolleranza e di solidarietà. E credo che anche molti organismi internazionali, come la Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza Sulejmanoviç, abbiano voluto proprio far capire al governo italiano che urlare in piazza slogan che ricordano una giustizia medievale – dell’occhio per occhio e dente per dente – non significa che poi si è autorizzati a usare quei metodi nella pratica, non si possono riempire le carceri e tenere la gente in condizioni disumane solo perché così si raccolgono consensi.

Sono molti ad essersi abituati all’idea che la situazione politica in cui viviamo è destinata a persistere ancora per molti anni e slogan come “tolleranza zero” e “certezza della pena” con molta probabilità continueranno ad essere centrali nei programmi dei sistemi politici bipolari europei. Ed è triste vedere come le voci che si sollevano per denunciare il disastro che queste politiche producono – come gli enormi costi economici e sociali che la carcerizzazione di massa comporta – purtroppo non riescono a emergere nella giungla della paura diffusa in modo capillare da molti mezzi di informazione. Una informazione che, con un’attenzione spropositata verso il pettegolezzo e la vita mondana, alimenta il sogno di una discutibile “bella vita” accentuando i suoi lati peggiori – come il senso di proprietà sulle belle donne e le belle macchine – mentre dall’altro canto è troppo distratta verso i problemi delle carceri e della violazione dei diritti delle persone più deboli.

Insomma, l’Italia di oggi non mi piace – non solo per l’atteggiamento intollerante che ha nei confronti degli stranieri e dei detenuti, e anche verso i tossicodipendenti, i gay, gli zingari – ma io sono sicuro che se le cose cambieranno in meglio, sarà prima di tutto perché riuscirà a prevalere quella parte di italiani che hanno la capacità e la voglia di ragionare e di mettere fine a questo brutto clima che c’è ora nel Paese; e poi perché l’Europa è determinata a garantire la pace perpetua all’interno dei suoi confini, e l’Italia prima o poi dovrà ritornare sulla retta via della tolleranza e della solidarietà.

 

 

Vivere senza l’aiuto della famiglia

In carcere se non c’è lavoro per tutti, non c’è uguaglianza

Qui invece la maggior parte dei detenuti non ha un lavoro, e dato che molti non hanno nessuna fonte di reddito, la povertà segna in modo molto pesante la disuguaglianza

 

di Salem Rachid

 

Sono un ragazzo tunisino, ho 29 anni e mi trovo in carcere da circa otto. In tutti questi anni ho cercato di imparare cose che penso mi serviranno nel futuro. Ad esempio, vengo tutti i giorni nella redazione di Ristretti Orizzonti per imparare a parlare e a scrivere bene l’italiano e a discutere su tanti argomenti.

Mi sento pure un po’ fortunato perché ho una famiglia che mi sta vicino, anche se loro non sono qui in Italia e cercano di aiutarmi con quello che possono. Guardandomi in giro mi accorgo che noi stranieri abbiamo tante difficoltà a vivere in carcere, perché siamo lontani dalle nostre famiglie e questo comporta grossi disagi, sia economici che psicologici. Credo che avere la famiglia vicina che ti trasmette affetto, ti renda un po’ più umano, almeno quando sei con loro, mentre la totale assenza non fa altro che annientare anche quel minimo di umanità che forse abbiamo.

Qui in carcere abbiamo una saletta grande circa la metà di un campo da tennis e possiamo svolgere delle attività ricreative, come giocare a carte o a biliardino o altri giochi da tavola. Tutte le sere, dalle sei alle sette e mezza, possiamo uscire dalle celle e incontrarci dentro questa stanza. Dato che lo spazio non è grande, alcuni non vengono a giocare e ne approfittano per stare un po’ da soli in cella. Così di solito ci ritroviamo in una ventina di persone, usiamo a turno il biliardino oppure ci dividiamo a coppie e giochiamo a carte. Gli altri si limitano a guardare e commentare. Ultimamente abbiamo organizzato il campionato di briscola e fino ad ora i più forti sono una coppia di veneti e una coppia di tunisini. La competizione è agguerrita ma cordiale, le partite finiscono sempre con una stretta di mano e intorno a quel tavolo non ci sono mai atteggiamenti razzisti, anzi, credo che le partite ci abbiano avvicinati così tanto che due miei paesani sembrano due veneti che hanno giocato da sempre quel gioco, parlano perfino in dialetto veneto.

Ieri sera è successo qualcosa che mi ha fatto riflettere. All’orario di chiusura della saletta, mentre camminavo lungo il corridoio ho sentito i due italiani parlare della cena che avevano preparato. Parlavano di spezzatino, di patate al forno e di formaggio asiago. Erano stati a colloquio con i propri famigliari la mattina e come ogni settimana avevano ricevuto dei pacchi con roba da mangiare e da vestire. In quel momento mi sono venuti in mente i due ragazzi tunisini che, come me, non hanno nessuno in Italia e quindi non hanno mai un colloquio con parenti. Allora ho cercato di immaginare le due coppie che cenavano quella sera: i due italiani in una cella con i letti coperti da lenzuola colorate lavate e che profumano di casa, il tavolino di legno con la tovaglia fiorita su cui poggiano piatti e bicchieri di melanina che non si possono acquistare in carcere ma che possono essere portati dai parenti. E poi i fornelli da campeggio che riscaldano le padelle riempite della cena arrivata da casa. Nella cella di fronte, invece, i materassi sono coperti dalle lenzuola dell’amministrazione e sopra il tavolino ammaccato poggiano le due zuppiere di plastica, sempre fornite dal carcere, che contengono una pastina in brodo ormai fredda, distribuita alle quattro e venti di pomeriggio perché la cucina del carcere chiude alle cinque. Tutto accompagnato da una caraffa di acqua di rubinetto.

Questo mio pensiero non significa invidia perché non provo rancore verso chi può vivere in modo decente la carcerazione. Mi rendo conto che, anche fuori dal carcere, esistono differenze tra le famiglie. Però nella vita fuori dal carcere c’è almeno la possibilità di cercarsi un lavoro, magari non si guadagna abbastanza per fare una cena dignitosa, ma almeno si può vivere la propria povertà in modo privato.

Qui invece la maggior parte dei detenuti non ha un lavoro, e dato che molti non hanno nessuna fonte di reddito, la povertà segna in modo molto pesante la disuguaglianza. Molti di noi si trovano a guardare ogni sera quello della cella di fronte che si cucina delle cene degne di questo nome, mentre noi ci dobbiamo accontentare di quello che passa il carrello.

Secondo me, l’unico modo per far sentire i detenuti un po’ uguali è il lavoro. Se solo mettessero tutti i detenuti nelle condizioni di lavorare ed avere un po’ di denaro, allora si potrebbero comprare fornellini, tegami e generi alimentari dallo spaccio del carcere: quando alla sera si mangia bene tutti la disuguaglianza diminuisce. E anche le due coppie di giocatori della mia sezione, dopo avere finito la partita di briscola, magari si siederebbero anche a cenare insieme.

 

 

Un miglior trattamento per chi ha una pena lunga

Chi ha parecchi anni da scontare in carcere o addirittura l’ergastolo, secondo il mio parere dovrebbe essere almeno aiutato a mantenere i rapporti con la propria famiglia

 

di Elins Mohamed

 

Il motivo che mi ha spinto a lasciare il mio Paese per venire in Italia era quello di rendermi autonomo, responsabile, senza contare sempre sull’aiuto dei miei genitori che fin da subito erano contrari al fatto che io emigrassi. Così, sono arrivato nel 1998 con molto entusiasmo e buone intenzioni per costruirmi un futuro migliore e credendo di trovare delle buone condizioni di vita che mi avrebbero permesso di realizzare il mio sogno.

All’inizio procedeva tutto bene, avevo trovato un lavoro nel settore dei mobili ma il problema era quello di trovare un alloggio. Gli abitanti del paese dove vivevo non erano disponibili a dare la casa in affitto ad uno straniero e questa situazione mi ha creato dei grossi problemi. Ma è stata soprattutto l’intolleranza nei miei confronti un motivo di frustrazione. Così ad un certo punto mi sono trovato senza lavoro a causa della mancanza di una casa stabile. Le difficoltà economiche mi hanno fatto avvicinare a delle persone che sapevano arrangiarsi. Credevo che con loro mi sarei arrangiato anch’io in attesa di trovare un altro lavoro, invece, senza nemmeno rendermene conto, mi sono trovato in mezzo ad un vortice da cui era difficile uscire, ovvero il mondo dello spaccio di droga. In poco tempo questo mi ha portato in carcere e ha comportato molte altre conseguenze dolorose che sono state causa di sofferenza anche per la mia famiglia, senza dimenticare il danno che posso aver causato alle persone a cui vendevo la droga.

Da quando è iniziata questa avventura carceraria ho accumulato sofferenze ed esperienze brutte e molto difficoltose, ma nello stesso tempo anche qualche bella esperienza. La gran parte degli stranieri in carcere soffre un po’ di più rispetto a molti italiani. Prima di tutto per l’assenza di legami famigliari e quindi di un sostegno morale o economico. Poi c’è anche la questione della giustizia che non sempre considera in modo equo le situazioni personali degli accusati. Certo, tanti stranieri sono stati condannati giustamente per i reati commessi, però ci sono molti altri che ci vanno di mezzo ingiustamente.

Ma la cosa più importante è che una volta condannati, non dovremmo essere abbandonati, ma dovremmo essere seguiti fino all’ultimo giorno e reinseriti. Io in questo carcere ho avuto modo di conoscere molti detenuti di varie nazionalità che soffrono a causa della distanza con i propri famigliari che vivono in Paesi lontani e non possono venire a parlare con i propri cari detenuti, a causa degli impedimenti di legge che non permettono l’ingresso in Italia. Questo sarebbe comprensibile se qualcuno si trovasse a scontare una breve condanna, ma chi ha parecchi anni da passare in carcere o addirittura l’ergastolo ovvero “fine pena mai”, secondo il mio parere dovrebbe essere aiutato a mantenere i rapporti con la propria famiglia. Per questa ragione io credo che le Case di reclusione dovrebbero riservare un trattamento diverso agli stranieri e tenere in considerazione i loro problemi e le loro esigenze, altrimenti alla pena rischia di aggiungersi molta sofferenza, una situazione per me indegna di un Paese civile.

 

Può una vita umana finire a diciassette anni appesa alle sbarre di una cella?

Se finiscono in carcere così tanti stranieri, è spesso per colpa di leggi fatte apposta per mettere in galera gli indesiderati, i diversi. Difficilmente un minorenne italiano sarebbe andato in carcere con una accusa lieve

 

di Maher Gdoura

 

In un quotidiano leggo un articolo di fondo pagina, quattro righe che annunciano la morte di un minorenne marocchino suicida nel carcere minorile di Firenze: aveva solo 17 anni, è stato arrestato per un tentato furto ma è finito lo stesso in galera. Mi fa rabbia vedere che quando si tratta di piccoli reati commessi da stranieri, l’unica misura applicata è quella del carcere. È un metodo che verifico personalmente tutti i giorni vedendo arrivare in carcere stranieri giovanissimi, condannati per possesso o spaccio di piccole quantità di stupefacenti. A volte si tratta di condanne di due-tre anni, ma sono tanti che vengono condannati anche a sei-sette anni, soprattutto se gli è stato aggiunto il reato di clandestinità.

Allora mi vengono in mente quelli che commettono reati finanziari: nonostante abbiano messo in ginocchio migliaia di famiglie rubando i loro risparmi, vengono messi agli arresti domiciliari. È più pericoloso un minorenne arrestato per tentato furto oppure chi mette sul lastrico centinaia di famiglie? Forse commettere reati è una questione di stile e i più poveri, si sa, non hanno stile. Non so se quel ragazzo morto suicida in cella avesse tentato di rubare cibo, vestiti o una bicicletta, ma se l’avessero messo in un centro di accoglienza o affidato a qualche comunità per minori, forse non avrebbe più rappresentato un pericolo per la società e sicuramente oggi sarebbe ancora vivo.

Quando si parla di emergenza sovraffollamento, dicono che le carceri sono intasate dagli stranieri. Ma nessuno spiega che se finiscono in carcere così tanti stranieri, è spesso per colpa di leggi fatte apposta per mettere in galera gli indesiderati, i diversi. Difficilmente un minorenne italiano sarebbe andato in carcere con una accusa lieve.

La cosa più grave però è che, si incarcerano ragazzi giovani magari solo per tentato furto, e poi però manca il supporto degli psicologi o di personale specializzato che, secondo me, dovrebbe seguire chi arriva in prigione e aiutarlo a superare il primo impatto. Entrare qui dentro è sempre traumatico anche per gli adulti, a maggior ragione un minorenne ha bisogno di supporto, se solo ci fosse sufficiente personale e abbastanza denaro. Sentiamo parlare continuamente di tagli nelle spese dei medicinali, tagli sulle ore degli operatori e tagli sulle spese per il carcere in generale. Allora chi dovrebbe lavorare con i detenuti? Sì, ci sono i volontari che ci aiutano e ci dicono una buona parola, ma se non ci fossero loro? Ci sarebbe una realtà fatta solo di cella, di rabbia, di frustrazione e di un vortice di violenza che se non si scarica su se stessi, magari per porre fine alla vita, si scarica sul prossimo. Qui in carcere o domani, a pena conclusa, quando si torna fuori.

Penso che la morte di quel ragazzo letta sul giornale deve far riflettere chi di dovere e spingerlo a immaginare pene diverse, almeno per i più giovani o chi è al primo reato. Bisogna trovare metodi che aiutino chi ha sbagliato a capire i suoi errori, perché solo così lo si può salvare e non punirlo per il gusto della vendetta.

Oggi si parla delle carceri perche sono successi fatti tragici, ma fino a ieri si è fatto di tutto per rendere le carceri dei luoghi senza speranza. Per me tutti quelli che con il loro allarmismo hanno creato una situazione simile, dove i più poveri finiscono inesorabilmente in galera, sono anche in parte i responsabili della morte di quel ragazzino. Tutta la società dovrebbe domandarsi una volta per tutte se è accettabile che una vita umana finisca a diciassette anni appesa alle sbarre di una cella.

 

 

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