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Tu mi hai abbandonato, perché devo piangere per te? Il groviglio degli affetti in carcere: figli a cui dire o meno la verità, mancanza di qualsiasi intimità nei colloqui, la grande fatica di salvare le famiglie dai disastri della galera
a cura della Redazione
Gli affetti sono i grandi assenti nel percorso che un detenuto deve fare per ritornare dentro alla società. Eppure i familiari sono vittime dei nostri sbagli e non è giusto che paghino proprio con la privazione degli affetti, che subiscano il nostro stesso trattamento. Bisognerebbe almeno avere un po’ di tempo e di spazio in più per un contatto più diretto e intimo con i nostri cari, i figli, le mogli, le madri, perché oggi il dialogo nelle sale colloqui è difficile, tante volte per pudore non si riesce a parlare, a “sciogliersi”, a trovare le parole e i gesti giusti. Un po’ di intimità, serve soprattutto quello, per dire ai figli la verità sulla propria condizione, per affrontare con le proprie compagne la separazione in modo meno traumatico, per non perdersi del tutto. Per questo ci piacerebbe rilanciare finalmente la proposta di legge per “salvare gli affetti” che prevede di introdurre la possibilità di colloqui intimi in carcere, una giornata e una notte da passare insieme, per tenere unite le famiglie, ma anche per continuare a esistere come persone nella loro totalità, testa, cuore, sesso. Ne abbiamo parlato in redazione.
Ornella Favero: Abbiamo spesso discusso del rapporto dei genitori detenuti con i figli, ma che cosa succede con le compagne, le fidanzate, le mogli? Quanto regge un rapporto d’amore se c’è di mezzo la galera? Marino Occhipinti: Secondo me è quasi tutto basato sulla durata della detenzione: se un uomo viene rinchiuso per dieci anni o più, dire che sarà difficile salvare il rapporto è già un punto di vista ottimistico. Basta pensare che non tutti i famigliari hanno la possibilità di sfruttare interamente le sei ore al mese consentite per i colloqui, soprattutto se abitano molto lontano. Questi incontri poi avvengono in uno stanzone, seduti a dei tavolini come in un brutto bar, e certo non si può dire che queste condizioni siano le più adatte a salvare un rapporto affettivo. Ornella Favero: Siamo uno dei pochi paesi dove ancora non c’è la possibilità di colloqui più intimi. Addirittura in Russia i detenuti, ogni quattro mesi, possono trascorrere tre giorni con le loro compagne in locali appositamente attrezzati, eppure la Russia non è certo all’avanguardia per quel che riguarda le condizioni della detenzione…. Salvatore Allia: Secondo me se venisse concessa questa opportunità il rapporto tra marito e moglie o convivente di certo sarebbe più umano, ma soprattutto più “concreto”. Non dico che con questo si salverebbero tutti i matrimoni, ma certamente aiuterebbe a portare avanti un rapporto, che è comunque sempre a rischio. Se un detenuto ha dei parenti fuori che lo seguono e che aiutano anche sua moglie, standole vicino e sostenendola, sa per certo che ha più possibilità di non perdere gli affetti, rispetto a una famiglia che si trova in una situazione disastrata, senza soldi, con casa e figli da mantenere e tante altre difficoltà. In questo caso capita spesso che la famiglia si disgreghi. Una donna sola e disperata può resistere meno di un’altra che ha appoggi, non le si può dire niente se decide di condividere la vita con un altro uomo che, oltre tutto, le risolve tanti problemi. Quindi cercare di preservare la famiglia è la cosa più importante che bisogna fare, e se questa stanza dell’affettività può contribuire, ben venga. Marino Occhipinti: Però questa questione, dei colloqui con un po’ di intimità, non deve essere considerata solo dal punto di vista sessuale. Mio padre per esempio non viene più ai colloqui da sei anni e mezzo. Entrava piangendo, piangeva tutto il tempo e quando usciva ancora per due ore continuava a piangere, proprio non reggeva questa situazione. Questo mi è servito per capire nel profondo mio padre, che ritenevo il duro della famiglia, e invece poi ho scoperto la sua parte fragile, mentre mia madre, che sembrava la più debole, in realtà si è dimostrata la più forte, anche perchè trasmetteva a me la sua forza, che per altro anche adesso mi permette di andare avanti. Salvatore Allia: La cosa più bella che è capitata a me, nonostante la situazione in cui mi trovavo è stata quando il Pubblico Ministero disse durante il processo: “Quando Allia ha dei problemi, gli si forma una corazza attorno che lo protegge, formata da padre, madre, sorelle, fratelli e quant’altro. E prima di poter arrivare a lui bisogna passare da tutti quanti”. Per lui questo costituiva una situazione alquanto strana, mentre a me ha riempito il cuore di gioia. Ricordo che il mio avvocato, prendendo la palla al balzo, rispose: “Dovremmo vedere la cosa da un altro punto di vista. Nel senso che finalmente troviamo una famiglia che, nel momento in cui un suo componente ha un problema, non lo lascia allo sbando, anzi lo aiuta e lo sostiene”. Per quel che mi riguarda, devo ringraziare Dio che ho avuto la fortuna di avere una famiglia di questo genere, che certamente ha sofferto tantissimo e continua a soffrire, anche perché è estranea ad ogni tipo di situazione “malavitosa”. La famiglia è un punto fermo prima e dopo: se, quando uno esce, trova un appoggio affettivo ha molte possibilità in più nel reinserimento. Immaginate chi viene abbandonato dalla famiglia, quanta fatica fa per tornare alla normalità, sempre che ci arrivi. Alì Abidi: Il problema, secondo me, è a monte, perché lo stato di abbandono di gente che vive simili esperienze deriva soprattutto dalla società in cui viviamo. Dobbiamo analizzare come viviamo, come è cambiata la società, come sono cambiate le regole del vivere civile. Faccio un esempio: chi è recidivo, chi è un mafioso di certo non subirà l’abbandono della moglie, perché in quel caso c’è la consapevolezza della scelta che si è fatta, ci sono delle regole non scritte che impongono un certo comportamento. Marino Occhipinti: Ma le mogli dei mafiosi non li abbandonano perchè quella è la regola o perchè li amano? Io vorrei che mia moglie stesse con me perché mi ama. Ho letto alcune “regole” mafiose che indicano un rispetto estremo per le mogli proprie e degli altri, che le donne non devono essere toccate perché chi lo fà avrebbe contro tutta la malavita del posto, che la donna non può lasciare il marito… In quel caso schiavizzi la moglie, lo so che è così, come so che la moglie di Provenzano o quella di Riina non li lasceranno mai, ma non sono sicuro che siano quelli i veri valori familiari. Davor Kovač: In Italia non c’è la possibilità di avere questi incontri intimi tra marito e moglie in carcere, ma devo dire che ho sentito spesso dei compagni affermare che, anche se ci fosse la possibilità, non avrebbero mai voluto avere un rapporto qui dentro con la moglie. Il motivo è semplice, va dal disagio che può provare la donna, alle battute degli agenti e dei detenuti stessi. Ornella Favero: Ricordo che nel secondo numero di Ristretti Orizzonti, quasi dieci anni fa, avevamo parlato delle “celle a luci rosse”, così come le avevano subito ribattezzate i giornali. E anche allora era venuto fuori un discorso del genere, nel senso che molti detenuti non erano d’accordo di fare venire le mogli in carcere per questo scopo. Una cosa vorrei che voi tutti però capiste: che quando si discute su un tema così importante non bisogna restare legati alla propria personalissima visione delle cose. Lo scopo è di valutare in generale quali frutti potrebbe dare la possibilità di avere incontri intimi in carcere, anche considerando altri punti di vista. Ricordo che, quando diedero questa concreta possibilità in Svizzera, inizialmente ci furono stupore, resistenze, problemi di ogni tipo, ma con il passare del tempo è diventata la normalità. Elton Kalica: È un discorso da tenere separato. Nel senso che, se si discute di valori, bisogna stabilire di quali valori si sta parlando. Per esempio i valori etici dell’islam, o di un cristiano o i “valori” della malavita, oppure di uno a cui non importa dei valori dell’uno o dell’altro, ma che ha semplicemente i suoi. Quindi, quando si parla di valori, bisogna tenere presente che ce ne sono una miriade, derivanti da culture e tradizioni diverse. Ci sono poi principi diversi come quelli del detenuto che, pur avendo la possibilità di avere un rapporto all’interno del carcere con la sua donna, lo rifiuta. Per conto mio non mi farei problemi ad usufruire di una possibilità del genere. In Albania qualche tempo fa, nelle carceri, a causa del sovraffollamento avevano ridotto da 24 a 12 ore gli incontri “intimi” con la famiglia e vi assicuro che è successo di tutto: accoltellamenti incendi ed altro. Ora non capisco come ci possano essere dei detenuti che rifiutano di stare con le proprie famiglie in intimità, solo per paura di essere umiliati: in ogni caso bisogna lasciare possibilità di scelta. Ornella Favero: Ho trovato spesso in carcere i sostenitori dei valori e dei principi. Già diffido della parola “valori”, nel Medioevo esistevano dei valori che oggi noi consideriamo orrendi. Se vi ricordate, tempo fa abbiamo avuto un incontro con uno scrittore, Edoardo Albinati, ed è emerso per esempio che il valore della famiglia va bene quando si parla della propria, ma non ci si fanno scrupoli se si tratta delle famiglie degli altri. Comunque quando si afferma che fuori non ci sono più valori, anche su questo ho dei dubbi: tante volte si esaltano le famiglie di una volta in modo acritico, dimenticando la carica di violenza e di repressione dei sentimenti che spesso tante famiglie nascondevano. Salvatore Allia: Mi sembra di aver capito che tu sei sostenitrice del fatto che con il passare del tempo cambia la vita e cambiano i valori, e che tutto sommato non ne vedi alcun problema. Ma è proprio questo il nocciolo del discorso. Ti faccio un esempio: mio padre ha 80 anni, mia madre 75, si sono sposati e hanno vissuto per 50 anni sempre assieme nel rispetto ferreo di valori che gli sono stati inculcati dai loro genitori. Ora ho potuto raffrontare la situazione mia con quella di tanti altri: nella sfortuna sono stato fortunato, in quanto sono stato sostenuto grazie a quelle regole ferree di cui parlavo prima. La mia famiglia ha provveduto a darmi i migliori avvocati, non è mai mancata ad un colloquio, mi arriva minimo una lettera al giorno… In pratica gli interessi personali di ognuno della mia famiglia si sono convogliati verso di me, non tenendo in considerazione né tempo né soldi. Vi posso assicurare che quando sarò fuori troverò una casa e una famiglia che mi aspetta a braccia aperte. Se non avessi avuto una famiglia come la mia che, nel bene e nel male, ha sempre stretto i denti ed è sempre andata avanti tra mille difficoltà, ora mi ritroverei in mezzo ad una strada come tanti. Matrimoni che durano un anno, coniugi che alla prima difficoltà mollano il colpo lasciando i figli al loro destino, perché non siamo più in grado di fare sacrifici per i figli ma solo per noi stessi. Per me è ancora più fastidiosa la situazione che si viene a creare spesso proprio tra chi fa delle scelte di illegalità. Faccio un esempio molto ricorrente: uno si sposa, si fa una famiglia, sceglie il crimine come linea di vita. La sua compagna di certo sarà al corrente di quello che fa, di certo condivide con lui gioia e benessere fin quando dura. Poi un giorno lo arrestano ed ecco che il sogno svanisce. Fin quando andava tutto bene stavano uniti, dal momento in cui lui è stato arrestato viene anche abbandonato. Ora riflettendo bene mi dico: ma non era meglio quando c’erano delle regole ferree, che quanto meno garantivano il supporto nel momento in cui capitava un problema? Così invece si ragiona in modo egoistico. Tu non ci sei più: chi se ne frega mi trovo un altro che mi mantiene e fine della gita. Marino Occhipinti: A me non sembra neanche corretto che se finisco in carcere con un ergastolo debba obbligare mia moglie a sostenermi per tutta la vita. Ornella Favero: Secondo me Salvatore ha fatto un esempio sbagliato. Perché non si può richiamare un valore partendo da un altro valore che è sbagliato in partenza. Nel senso che marito e moglie vivono alla grande grazie ai reati che lui commette. È proprio la debolezza di questo discorso che indica la poca concretezza di questi valori. È poco sensato esaltare queste mitiche famiglie in cui le persone sbandierano il valore dell’unità e della solidarietà, quando poi condividono uno stile di vita quanto meno discutibile. Elton Kalica: In ogni caso dal momento in cui uno entra in carcere deve mettere in conto anche la rottura del rapporto. Quindi ben vengano tutte le cose che possano favorire il prosieguo del rapporto, anche perché nella sentenza non c’è scritto che non devo più avere rapporti con la mia compagna. Mi è stata tolta la libertà, è vero, e non lo discuto, però non c’è scritto da nessuna parte che devo essere privato anche di tutte le altre cose come l’affetto dei miei cari ed il rapporto con mia moglie. Non mi è stato tolto anche il diritto di fare l’amore.
Quando il padre è in carcere: mettere i figli di fronte alla verità
Michele Cappabianca: Io penso che un figlio si debba cercare di prepararlo a certe verità. Mi ricordo che quando mio figlio doveva andare all’asilo, dove abitavo io è un paesino piccolo e c’erano delle persone con molti pregiudizi che parlavano dietro le spalle, perché ogni tanto mi fermavano i carabinieri per i miei precedenti penali, per cui avevo questa fama di essere un delinquente. Io allora ho cercato di preparare mio figlio, gli ho detto: “Guarda che papà ha avuto dei problemi nel passato: è vero, mi sono trovato in carcere, però questo non significa che non sono una brava persona, ho fatto degli errori, ma adesso lavoro e ti voglio bene”. Allora lui mi ha domandato cos’è il carcere, e io gli ho spiegato che quando una persona commette un reato, tipo rubare o rispondere male a un carabiniere, ti possono arrestare e ti mettono in un palazzo grande, dove stai chiuso in una cella e devi rispettare le regole che ti dice la guardia. Un po’ come quando la mamma ti dice di lavare il bicchiere dove hai bevuto, oppure mettere a posto le ciabatte. Poi gli ho spiegato che quando va in asilo, se qualche bambino gli dice che il suo papà è stato in carcere, non deve dargli retta. Certo non è semplice, non è un gioco da ragazzi affrontare queste questioni con un bambino, ma bisogna cercare di farlo nel modo più decente possibile. Mio figlio poi è andato all’asilo e non ha avuto mai problemi, anche perché i maestri erano abbastanza in gamba e non hanno mai fatto cadere nei pregiudizi i bambini. Alì Abidi: Ci sono però tante situazioni diverse, non c’è una ricetta unica. Se il detenuto è incensurato, dipende dalla pena che ha decidere se si può dirlo al bambino o no. Invece quando uno è recidivo già il figlio capisce tutto, e purtroppo non c’è neppure bisogno di andare a nascondere i fatti. Ornella Favero: Certo è una situazione molto più difficile quando uno entra ed esce dal carcere. Mi viene in mente la lettera che il figlio di un detenuto plurirecidivo aveva scritto al padre, una lettera durissima, in cui gli diceva: basta con tutte le promesse che hai fatto e poi non hai mantenuto! Alberto Xodo: I miei figli per esempio quando vengono a colloquio non mi chiedono mai niente. Io credo che loro sappiano e capiscano tutto, perché lo sentono dagli altri, cioè dai vicini, a scuola, però con me non ne parlano, parliamo d’altro ma mai del perché io sono in carcere. Marino Occhipinti: Ma invece di saperlo dai vicini non è meglio che gli parli tu di quello che è successo? Michele ha parlato di prepararli prima, però non in tutte le situazioni li puoi preparare prima. Dipende dal perché uno è finito in carcere, dipende quanti anni ha da fare, dalla reazione dei bambini, da quanti anni hanno… Cioè ogni situazione è completamente a sé. Io mi ricordo quando venne la più grande delle mie figlie, aveva sei anni a quei tempi, dopo due mesi durante i quali non le era stato detto nulla, ci ritroviamo in sala colloquio separati da un bancone con sopra il vetro. La prima cosa che mi ha detto è stata: “Papà ma tu sei in galera?”. Voglio dire, allora non era meglio se lo sapeva prima? Ornella Favero: Ci sono due problemi che io vedo pesantissimi quando bisogna dire la verità ai figli. Il primo è il problema di chi ha commesso un omicidio, perché noi viviamo in una società in cui l’omicidio è un grande tabù. Ieri leggevo i nuovi testi che i ragazzi delle scuole mandano qui e sempre c’è questa cosa: possono perdonare tutto, possono capire tutto, però chi ha commesso un omicidio secondo loro non merita nulla, né le misure alternative, né i permessi, nulla. E poi c’è il problema della recidiva, che è anche più difficile da gestire: ho sentito figli giustamente spietati verso quei genitori, che li riempiono di promesse e poi non riescono a stare lontani dalla galera. Alì Abidi: Verifichiamo però prima se la situazione mi permette di dirlo a mio figlio. Sono molti gli aspetti negativi, secondo me, nel dire tutta la verità. Per questo io guardo alla durata della pena, se è abbastanza breve per me è meglio non dirlo. Kastriot Shei: È un tema molto delicato. Parlo nel mio caso: mio figlio ha poco più di tre anni e sono quasi tre anni che non lo vedo e passeranno ancora due anni prima di vederlo. Quando parlo al telefono capisco che lui è nella fase in cui ripete le parole senza capire molto e quindi è ancora piccolo. Questo mi tranquillizza un po’, anche se tante volte penso che ho perso un periodo molto importante della sua vita. D’altra parte sono fortunato al confronto di altre persone che hanno un fine pena più lungo e hanno i figli più grandi, per loro è un vero problema mantenere i legami con i loro figli. Dal mio punto di vista non puoi tenere vivo questo legame con un’ora alla settimana di colloquio, quindi è indispensabile almeno conoscere l’ambiente dove vive il figlio, ed esserci anche tu in quell’ambiente, non fisicamente, però con una bella dose di racconti su di te… Per esempio io voglio dedicare un’ora ogni giorno per scrivere a mio figlio, per dirgli cosa ho fatto oggi e poi anche per inventare dei racconti. Però serve una collaborazione da parte di mia moglie o comunque di qualcuno della famiglia, che ogni sera, prima di dormire, gli dovrebbe far leggere queste lettere. Sono sicuro che un figlio ti può vedere anche attraverso delle lettere. Emilio Coen: Se però invece un bambino può venire a colloquio, dobbiamo pensare anche a che tipo di shock può causargli incontrare il padre in carcere. Il bambino si può chiedere: “Ma perché posso stare solo un po’ di tempo con mio papà e poi devo andare via per forza?”. È facile dargli dei segnali negativi che poi gli rimangono per tutta la vita. Marino Occhipinti: Non puoi essere tu però a dirgli che sei in carcere e a spiegargli la storia. Dovrebbero essere i famigliari fuori, quindi non è che nell’ora di colloquio gli devi spiegare perché sei lì. Tornando al discorso di Alì, tu dici che per un anno, un anno e mezzo si può tacere… Io non sono stato mai via da casa più di due-tre giorni, improvvisamente passano una settimana, due, tre e non torno più a casa, non telefono, non mi faccio sentire, mia figlia più grande piangeva e basta perché era convinta di essere stata abbandonata. Quando sono riuscito a telefonare, dopo due mesi, sai quali sono state le sue parole? “Guarda papà che io non piango più, perché non ti voglio più bene”. Qualsiasi bambino a quell’età direbbe: tu mi hai abbandonato, perché devo piangere per te? Questa è stata nella sua testa la prima reazione, poi le è stata detta la verità e alle telefonate successive ha ricominciato ad adorarmi. Proprio per questa esperienza non lo so cosa avrebbe pensato mia figlia se avessi avuto una pena breve, appunto come diceva prima Alì, e però fossi scomparso per un anno, un anno e mezzo… Non è stato bello neanche dirle: “Guarda, papà è in carcere”, però credo che per lei sia stato meglio sapere che ero in carcere piuttosto che pensare che l’avevo abbandonata. Alberto Xodo: Il problema è dopo, cioè come si difende il bambino dalle cattiverie degli altri. Il problema è che mi sento impotente a difendere mio figlio, sento mia moglie che mi dice che il bambino lo hanno preso in giro… insomma non è una cosa facile da gestire. Davor Kovač: Io penso che è meglio dirglielo prima che dopo. Perché se un bambino viene a sapere da estranei che il papà è stato in carcere, forse può prendere una brutta strada una volta che diventerà grande. Penso anche che parlando a scuola possa cominciare forse a vantarsi, non perché ne è convinto, ma come una reazione di difesa Michele Cappabianca: Se noi insegniamo ai nostri figli la legalità, il rispetto verso gli altri, anche se papà ha sbagliato ed è stato in galera, anche se è recidivo… guarda che i bambini non sono così stupidi da dire: “Io voglio fare quello che ha fatto mio papà”. Ornella Favero: Francamente non lo so se un bambino per reazione possa tendere a trasformare il padre in una specie di eroe. Quello che so per certo è che il 30 per cento dei figli dei detenuti finisce a sua volta in carcere: vuol dire che qualche problema ci sarà effettivamente. Una volta che noi abbiamo detto che è meglio dire la verità al figlio, siamo solo all’inizio, perché tutti i problemi nascono dopo. Vi faccio un altro esempio che riguarda parecchie persone: quando il reato del padre finisce sui giornali, come ci si comporta con un figlio? Perché quello è un massacro. Non solo nel caso di eventi eclatanti con titoli che urlano al mostro… ma anche per cose più piccole, con quel nostro vizio tutto italiano di scrivere il nome e cognome della persona anche se è solo indagata. Salvatore Allia: Secondo me ci sono delle situazioni molto diverse. Per esempio c’è il papà che parte da un Paese straniero, viene in Italia, commette un reato e finisce in carcere. Allora è più facile che da parte della sua famiglia, nel suo Paese, ci sia un supporto valido per il bambino, e si può anche evitare di dire che il padre è finito in carcere. Poi, magari quando il bambino sarà grande, il papà si potrà prendere la briga, se vuole, di spiegare quello che gli è successo. Dal punto di vista di una persona che è italiana, con la televisione, la stampa, questo discorso non si può fare. La cosa è valutata in un modo diverso, perché chiaramente un figlio può sapere la verità prima dagli altri che dalla famiglia, e sarà una cosa devastante. Sandro Calderoni: Se tu hai un bambino di tre o quattro anni, cosa gli devi dire? Solo se è un po’ più grande al limite puoi cercare di spiegargli qualcosa del perché sei lì. Ma anche se tu lo vedi a colloquio per un’ora, non è che stai lì a dirgli: “Sediamoci qui un attimo e facciamo un ragionamento”. Quando lo vedi pensi solo a giocare con lui, magari a farlo divertire, perché stai con lui per un’ora e quell’ora la devi far fruttare al massimo. Poi quando arriva a sette-otto anni, e ovviamente la madre gli ha detto dove sei, allora puoi cominciare a parlargli secondo il tuo punto di vista. Sei tu che poi entri nell’argomento se vuoi e lui sicuramente ti ascolterà. Ernesto Doni: A mio figlio mia moglie ha tenuto nascosto il fatto che io ero in galera. Poi, piano piano, lo ha preparato. Quando mi è successa la disgrazia che sono finito in carcere, però, ho dovuto far spostare tutta la famiglia da Milano al Veneto, perché se io stavo lì dove è successo il fatto, la notizia gli avrebbe provocato uno shock. Pier Giorgio Fraccari: Io invece penso sia una decisione sbagliata quella di non portare il bambino da un genitore in carcere. Il bambino di due o tre anni non capisce il luogo, né il motivo per cui è lì il suo papà. Lui vede solo suo padre, sente la sua presenza, quello che conta per lui è la sensazione di essere amato. Ma la verità è dura da affrontare anche con gli adulti. Per esempio ai miei consuoceri non è stato detto che sono in carcere: “Dov’è il papà di Giorgia e di Nicola? È in Olanda che lavora. Ma come? Non viene in Italia per il matrimonio di suo figlio? Potrebbe anche perdere un po’ di soldi e lavoro per motivi così importanti!”. Perciò, per non far sapere che ero in carcere, sono passato per una persona avida e insensibile. Ho dovuto accettare il fatto compiuto, anche se ho sgridato i miei figli per questo. Insomma, la verità, per quanto possa far male, è sempre la scelta giusta, correre dietro a delle bugie può alla fine determinare proprio la rottura di quel legame, che volevi salvare.
Piccole storie di affetti negati, ignorati, compressi, interrotti dalla galera
Ma è così difficile regalare a questi bambini una partita di calcio con i loro padri detenuti? Lo spazio per i colloqui non ti permette neppure di alleggerire la tensione e giocare con tuo figlio con la giusta confidenza e fiducia
di Salvatore Allia
Ad ogni uomo detenuto manca per forza il rapporto intimo con la propria moglie, e questo produce spesso la quasi inevitabile rottura del rapporto stesso. Ma di certo se ci fosse la possibilità di coltivare un po’ di più questi affetti i risultati sarebbero straordinari. Per prima cosa il detenuto vivrebbe in modo più sereno la detenzione e accoglierebbe e porterebbe avanti con più convinzione un progetto serio di reinserimento, sapendo che una volta pagato il debito con la giustizia avrebbe ancora una famiglia con cui rincominciare una vita nuova. Cosa dire poi dei bambini, le vere vittime degli errori dei loro genitori, ma anche dei successivi errori fatti da chi si occupa di decidere le pene, e però non capisce, non si ricorda che i bambini hanno bisogno di passare più tempo con i loro genitori? Mi sono chiesto tante volte come mai nessuno ha pensato di creare spazi e tempi adeguati a loro: l’ora del colloquio infatti è insufficiente per poter ripristinare la giusta confidenza e fiducia con tuo figlio: i primi venti minuti servono per riavviare il rapporto cercando di metterlo a proprio agio, i successivi dieci per tirare fuori un timido sorriso ed infine trenta minuti per organizzare un campo di calcio sul tavolo con due bicchieri che fungono da porte, e un rotolino di carta stagnola che sostituisce il pallone. Vince sempre lui ed è lui che detta le regole ed i modi di giocare, insomma diventa quasi come stare a casa, peccato che appena si arriva a questo punto appare immancabilmente l’agente che comunica la fine del colloquio, le solite facce tristi, baci abbracci ed uno sguardo che accompagna fuori i tuoi cari, e quanta tristezza dentro i nostri cuori. Ma è così difficile trovare il modo di regalare a questi bambini una partita di calcio con i loro padri? Come mai non si trova uno spazio la domenica da far condividere alle famiglie? Io ritengo che i bambini debbano essere i primi tutelati, non bisogna di certo considerarli adulti a tal punto da fargli vedere la nuda e cruda realtà, con l’idea che è meglio una brutta verità che una bella bugia. Bisogna piuttosto fare in modo che almeno loro non ci vedano come dei mostri di cui aver paura, ma nello stesso tempo capiscano che gli errori dei padri sono tutt’altro che un modello da seguire. Una piccola richiesta mi permetto poi di avanzare, alla quale non dovrebbe essere tanto difficile rispondere: non è possibile aumentare il numero degli incontri dei detenuti in palestra con i figli (come per la festa del papà) e organizzare ogni tanto una partita di calcio nel nostro campo tra tutti i bambini che hanno i padri qui dentro?
Assetato di affetto Da quando è morto mio padre mi sono fissato che devo fare un colloquio con mia madre, perché soltanto a guardarla negli occhi potranno sparire i cattivi pensieri che vengono a visitarmi tutte le sere
di Mohamed Madouri
Quando mi hanno arrestato avevo ventitre anni e al processo mi hanno condannato a ventitre anni di reclusione. Appena ho sentito la condanna che mi hanno inflitto, il mio pensiero non era solo per la mia vita che avevo appena rovinata, o per come avrei fatto a passare tutti quegli anni chiuso in una cella. Pensavo ai miei genitori perché alla perdita della libertà si aggiungeva la condanna di non vedere più mio padre e mia madre. Ero consapevole di aver perso la cosa più preziosa che avevo. Quando telefonavo e c’era mio padre all’apparecchio, non resisteva più di dieci secondi, giusto il tempo di dirmi ciao e sentire la mia voce. Poi passava l’apparecchio a chi gli stava vicino, che era altrettanto consapevole di avermi perso per sempre. Oltre alle telefonate c’erano anche le lettere che mio padre mi scriveva, di poche righe, che si concludevano sempre dicendo: “Spero di vederti prima di morire”. Un desiderio mai realizzato e spento insieme a lui sei anni fa. La sua morte mi ha rattristato moltissimo, mi fa stare male continuamente l’idea di non averlo salutato per l’ultima volta, almeno essere stato presente al suo funerale, essere stato vicino a mia madre e alla mia famiglia. In quei giorni, invece di essere a casa, mi trovavo lontano e solo, in una cella. Mi sentivo impotente perchè l’unico conforto che potevo dare a mia madre e alla mia famiglia era una telefonata di sei minuti alla settimana (il nuovo Regolamento ha “allungato” le telefonate di quattro minuti, “ben” 10 minuti per parlare con tutta la famiglia e “saziarsi” di affetto per tutta la settimana). Ma per fortuna che mia madre ha un carattere forte e piano piano mi ha aiutato ad uscire da quella malinconia. Da quando è morto mio padre mi sono fissato che devo fare un colloquio con mia madre. Ho come una sete di amore verso di lei, una voglia di abbracciarla e di baciarla. La nostalgia mi distrugge. Le telefonate non bastano, ma soltanto un contatto fisico, guardarla negli occhi, potrà alleviare la sofferenza che sento, e farà sparire i cattivi pensieri che vengono a visitarmi tutte le sere quando appoggio la testa sul cuscino. Quei pensieri che mi fanno visita ogni sera e che io cerco di respingere. Non li voglio nella mia testa e ogni sera mi trovo a fare i conti e a combattere con loro. La nostra è una lotta continua, la maggior parte delle volte vincono loro e mi fanno fare le notte in bianco, e la mia mente rimane sempre ancorata al brutto presagio e al timore di non poter fare mai un colloquio con mia madre e salutarla per l’ultima volta. Mi alzo dal letto alle tre o alle quattro di notte e mi attacco alla finestra della cella a contare le stelle per svuotare la mente dagli incubi. Però qualche volta riesco a sconfiggere i cattivi pensieri, specialmente dopo aver fatto la telefonata a casa mia ritorno in cella e mi immagino mentre gioco a pallone sulla riva del mare con i miei nipoti che conosco solo tramite le fotografie. Qualche volta mi immagino preparare una bella pizza o una bella torta a mia madre nel giorno del suo compleanno, e lei che mi guarda stupita e sorridente ed io che mi sento al settimo cielo. Qualche volta mi immagino mano nella mano con la mia ex ragazza mentre passeggiamo in centro, e poi in uno dei vicoli dove non passa tante gente ci abbracciamo e ci baciamo teneramente, ma qualche volta la immagino anche con un bel vestito bianco da matrimonio ed io di fianco a lei sull’altare. Ormai sono vent’anni che la mia famiglia non si riunisce al completo perché manco io. Gli unici vaghi ricordi risalgono alla festa del sacrificio del 1986, quando mio padre appendeva l’agnello all’albero di fichi nel nostro giardino, poi con l’aiuto dei miei tre fratelli tagliava la carne e la passava a mia madre, che la metteva sopra la griglia con l’aiuto di mia sorella. Mio padre mi faceva mangiare la milza cruda perché spettava a me, ultimogenito. Quella festa è stata l’ultima volta che io, mia sorella, i miei fratelli con i nostri genitori ci siamo riuniti a casa. Oggi, in casa mia ognuno ha preso la sua strada e niente è rimasto come allora, anche il giardino e l’albero di fichi non ci sono più. Pensando a questi ricordi mi accorgo che non mi sono saziato abbastanza della mia famiglia, e la privazione del loro affetto mi fa sentire orfano.
La paura più grande che ho è che mio figlio veda in me uno sconosciuto Telefono, lettere e fotografie sono la mia linfa vitale, la materia prima sulla quale costruire con la mia immaginazione la crescita di mio figlio che mi sto perdendo
di K.S.
Mentre sto aspettando che squilli il telefono ripeto nella mia mente le cose di cui parlare con i miei che ho sintetizzato durante la settimana. Da sintetizzare, perché quei dieci minuti alla settimana non lasciano spazio per sentire e seguire il percorso degli affetti con le sue tipiche sfumature e i suoi tempi. Il problema è che appena alzo il telefono mi sparisce quell’ordine che avevo fatto per usufruire in modo più efficace di quei dieci minuti. Sento dall’altra parte del telefono la vocina di mio figlio che recita una piccola poesia per il papà, e la mia mente va in tilt. Mio figlio ha tre anni e mezzo e io sono finito in carcere quando lui aveva solo sei mesi. Sento che lui si sforza di dire quei versi appena memorizzati nella sua mente giovane. E sento anche al di là della linea telefonica i miei famigliari che ridono con mio figlio e commentano le torsioni che fa con il suo corpicino sforzandosi di ricordare i versi. Probabilmente ha imparato la poesia per me e poi ha atteso la telefonata dietro ricompensa, mia moglie gli avrà promesso che appena finisce di recitare si va al mare a giocare con i suoi amichetti. Io lo confondo di più a dirgli le cose affettuose che mi escono spontaneamente e a dire ai miei di lasciarlo in pace. Sono momenti indescrivibili, e spesso pieni di dolore. Sento il mio cuore che salta su e giù, il mio corpo in quei momenti è invaso dalle emozioni e dalla rabbia e gioia, questo si sente anche nella mia voce che devo riaggiustare in continuazione. Mia moglie vorrebbe venire a trovarmi e portare mio figlio in modo che io lo possa vedere, lo possa abbracciare, ma non si può. La legge non lo prevede. E per il momento mi devo accontentare di dieci minuti di telefono a settimana. E della corrispondenza. Dall’Albania ci vogliono due settimane per far arrivare le lettere. Quelle lettere che attendo impazientemente perché raccontano nei dettagli cosa fa durante la giornata mio figlio. Quelle lettere accompagnate sempre dalle foto attraverso le quali io vedo mio figlio crescere. Telefono, lettere e fotografie sono la mia linfa vitale, la materia prima sulla quale costruire con la mia immaginazione la crescita di mio figlio che mi sto perdendo. Cerco di costruire i vari stadi da dove è passato mio figlio, le prime parole pronunciate, i primi passi. Cerco di essere con lui quando salta dalla gioia oppure quando ha la febbre alta. La paura più grande che ho è che, una volta che ho pagato i miei sbagli e torno a casa mia, mio figlio veda in me uno sconosciuto. È molto difficile sintonizzarsi con un bambino al quale non sei stato vicino. Io rischierei di prendere un suo normale raffreddore per la fine del mondo. Già ora chiedo spiegazioni a mia moglie per capire perché nella foto, a volte, mio figlio fa quella faccia che a me sembra strana. Invece lei sa tutto di lui e capisce ogni suo segnale, e queste sono cose che completano e danno i colori giusti alla figura di tuo figlio. Per me invece è abbastanza dura. Fino ad ora ho perso tutte le coccole che si possono fare a un bimbo. Quelle manine piccole che ho lasciato quando uscirò saranno abbastanza grandi da stringermi la mano. Il tempo vola. Lui cresce in una maniera incredibile e cresce in me l’ansia perché si avvicina il giorno in cui lo incontrerò. Adesso mi chiede per telefono: “Ma tu papà non vieni mai?”. Poi però, quando finalmente tornerò a casa, come farò a rispondere alla inevitabile domanda: “E tu, chi sei?”. Nonno, non ti bacio più…! Le parole per dire perché si è lì: è questo lo scoglio che sta in mezzo, ingombrante più che mai, tra le persone in carcere e i figli piccoli, i nipoti, i bambini a cui non si sa mai cosa raccontare
di Alì Abidi
Siamo uno di fronte all’altro, lui seduto con le gambe incrociate sulla branda, io sullo sgabello di fianco che guardo il mio compagno di sventura, e scherzo con lui per alleggerire la tensione che sento. Lui è molto riservato, porta i segni del tempo che ha passato qui dentro, iniziando dalle rughe sul viso. È sempre gentile e cordiale con tutti, ma non si racconta facilmente, il suo cuore è pieno di mille segreti, ma io con lui credo di aver raggiunto una tale confidenza, che non ha paura neppure di farmi vedere quando è commosso. Mentre iniziamo a parlare di qualcosa che ci sta molto a cuore, gli affetti, lui di colpo diventa cupo, triste e con gli occhi un po’ lucidi. Poi accende una sigaretta, come se avesse un nodo alla gola che gli impedisce di parlare, e con gli occhi ancora più lucidi e il viso rosso inizia il suo racconto: “Ieri ero in sala colloqui, e ho avuto una discussione con mia figlia. Il fatto è che c’era la mia nipotina di tre anni, che ha accompagnato la madre in visita. Io ho salutato mia figlia e poi mi sono accorto che la nipotina stava attaccata alla gamba della madre e non veniva a salutarmi come fa di solito. La mamma si è accorta del distacco della figlia e allora le ha detto: “Vai a dare un bacio al nonno A.”. Io tacevo e mi sentivo imbarazzato davanti a loro due, e intanto la nipotina continuava a manifestare il suo dissenso, proprio non ne voleva sapere di avvicinarsi, anzi si giustificava dicendo: “Mamma, mi hai detto tu di non salutare gli estranei!”. Io non capivo il motivo di questo cambiamento nel comportamento della bambina, e allora mia figlia me lo ha spiegato: “Sai, a casa parliamo spesso di te e ti nominiamo continuamente, ma durante una di queste chiacchierate mia figlia mi ha chiesto perché nonno A. non viene a casa nostra. Io non sapevo cosa dire e le ho risposto che nonno A. non viene a trovarci a casa perché ha fatto il cattivo”. Capisco che è difficile spiegare a un bambino che cos’è il carcere, ma come si fa a dire che il nonno ha fatto “il cattivo”, che è una cosa che non capisco, non mi appartiene, non mi sento di aver fatto “il cattivo”… Sono entrato in confusione totale, pensando a quale parola diversa dalla parola “cattivo” poteva andar bene per dare una spiegazione alla mia nipotina, che non le faccia cambiare il suo atteggiamento verso il nonno. La bambina infine ha guardato la mamma e, spinta da lei, è venuta verso di me per darmi un bacino timido ed imbarazzato, probabilmente ancora convinta però che non merito il suo affetto. Per qualcuno il discorso è normale, e potrebbe anche far ridere, ma io credo che dovrebbe soprattutto farci riflettere su come gli affetti devono essere coltivati, in particolar modo quando si tratta di bambini, perché basta una piccola distrazione o una spiegazione non attenta a trasformare l’affetto in ostilità. In effetti, il “non voglio” di mia nipote come risposta all’invito a dare un bacio al nonno nella sua testa era giustificato dalla parola “cattivo”. Dopo questo incontro così difficile ho deciso di non far venir più la bambina ai colloqui, per non farle subire ulteriori traumi. Prima di entrare in carcere, con lei avevo un rapporto bellissimo, andavo spesso da mia figlia e con la bambina giocavo, ero un nonno come tutti, che fanno giocare i nipoti, ciò che invece non ho potuto fare con mia figlia da piccola come fanno gli altri padri, e questo mi pesa ancora oggi, forse per questo cercavo di essere ancora più attento, disponibile, generoso, proprio per farmi perdonare i miei errori passati. Ma in carcere mancano le strutture adeguate per rendere più umano il contatto con i nostri familiari, questa è la realtà, e nulla cambierà se non si capisce che gli affetti sono come il cibo, una necessità “fisiologica”, qualcosa di cui non si può fare a meno. Altrimenti non ha senso parlare di reinserimento dei detenuti, di rientro nella società, perché senza affetti si finisce solo per rinchiudere una persona e farla diventare rigida, inaridita, cattiva, aggressiva… Io credo che la cura degli affetti debba essere davvero, ben più di come lo è ora, parte integrante di qualsiasi proposta di riforma del carcere”. Te la sei voluta, sei venuto in Italia a far reati, e ora fatti la galera da solo… Il percorso a ostacoli di mio fratello per venirmi a trovare dall’Albania
di Arqile Lalaj
Sono uno di quei pochi detenuti stranieri che ha la fortuna di avere un parente, nel mio caso un fratello, che riesce a venire in Italia una volta all’anno con un visto turistico. L’Albania, il Paese da cui provengo, non fa parte dell’Unione Europea, e quindi per poter entrare in Italia bisogna per forza munirsi di un visto d’ingresso: una cosa difficilissima da ottenere. Ecco concretamente che cosa fa mio fratello per venire a trovarmi. La prima cosa in assoluto che mio fratello deve avere per poter presentare la domanda al Consolato italiano è una dichiarazione di garanzia fatta da un cittadino italiano, o da uno straniero che abbia un regolare permesso di soggiorno. La garanzia consiste nell’offrire la disponibilità di ospitare la persona e farsi garante di provvedere al suo mantenimento, nel caso che la persona straniera non sia in grado di farlo da sola. Questa dichiarazione di garanzia deve sempre essere valutata dalla Questura italiana, che fa le verifiche del caso e poi dà il suo parere. La fortuna di mio fratello è quella di avere degli amici in Italia che sono disposti ad ospitarlo. Quindi, la persona che garantisce, dopo aver ricevuto il nullaosta della Questura, che solitamente dura dai 45 fino ai 90 giorni, lo spedisce a mio fratello che si trova in Albania. Poi lui presenta la domanda di visto d’ingresso presso il Consolato italiano di Valona e attende il telegramma col quale il Consolato notifica la fissazione di un colloquio, che è una specie di interrogatorio attraverso il quale le autorità vogliono capire tutto: il lavoro che fai, quello che hai fatto, i motivi per cui vuoi andare in Italia, dove, come e quando hai conosciuto le persone che ti garantiscono l’ospitalità. Ovviamente mio fratello non menziona il fatto che deve venire a trovarmi in carcere e insiste sul discorso del viaggio turistico in compagnia dei suoi amici italiani: avere un pregiudicato in famiglia comporta una quasi sicura negazione del visto d’ingresso per motivi di sicurezza e di ordine pubblico. Ottenuto il visto, si parte per il lungo viaggio Valona-Padova. Traghetto fino a Brindisi e poi in treno risalendo tutta la penisola fino a Padova. Sistemazione in un albergo e poi attesa delle due ore di colloquio del giovedì, e altre due il venerdì. Il tempo per parlare e raccontarmi tutte le novità dalla famiglia e dal mio paese. Le quattro ore non sono certo sufficienti ad aggiornarmi su tutto quello che succede, e così senza che ce ne accorgiamo si giunge alla fine. Un forte e lungo abbraccio per dirsi addio fino al colloquio successivo, che non si sa mai quando avrà luogo. Finito il colloquio, mio fratello parte subito per il viaggio di ritorno senza perdere tempo: dopo avermi visto in carcere, dopo aver adempiuto al dovere morale verso il fratellino, non gli rimane più niente da vedere in questo Paese, deve solo pensare al resto della famiglia che è a Valona. Eh sì, perché i miei genitori hanno soltanto lui ormai. Io non posso esser loro vicino, e questo è un grande rammarico che mi accompagna durante questo triste percorso di galera. La giustizia ha condannato me perché ho spacciato droga, ma la condanna più grande l’hanno subita i miei genitori, e sono stato io a condannarli con la mia condotta. E per loro, che hanno 73 e 71 anni, non ci sono state attenuanti per l’età, ma una pena esemplare, quella di non avere un figlio vicino in un periodo della vita nel quale se ne ha maggior bisogno. Io però credo di non essere stato da solo ad infliggere questa condanna ai miei genitori, in qualche modo mi sembra che complice sia anche il governo italiano, che non gli permette di venire a trovarmi con facilità. Perché se si potesse, i miei genitori prenderebbero l’aereo un paio di volte all’anno per venire a incontrarmi. Mentre così come stanno le cose, non riescono a trovare delle persone in Italia che garantiscano anche per loro, come fanno per mio fratello. Tutti i genitori dei detenuti hanno il diritto di andare a trovare i loro figli, così come i figli dei detenuti hanno il diritto di sentirsi figli per qualche ora, giocare e passeggiare in un giardino, anche se è il giardino di un carcere. Invece questi diritti sono garantiti soltanto ai detenuti italiani, mentre per noi stranieri il bisogno degli affetti e dell’unità famigliare è come se non esistesse. Tutti dicono: “Te la sei voluta, sei venuto in Italia da solo, e ora fatti la galera da solo”, ma quanto è civile un atteggiamento del genere? Quanto riesce a rieducarci un comportamento di questo tipo? Come fa una persona a rieducarsi, quando si sente continuamente spinta a fare gesti estremi per attirare l’attenzione? La frustrazione è grande quando vedo tanti ragazzi stranieri come me accarezzare le fotografie dei propri figli che non possono vedere, o di una moglie che non possono abbracciare. Mentre basterebbe poco per farci sentire di nuovo il calore di una famiglia, il sorriso di un figlio. Basterebbe poco per regalare qualche ora di consolazione a queste famiglie che soffrono per anni senza poter vedere il proprio caro in carcere. Qualche ora di colloquio sarebbe come una boccata di ossigeno per recuperare energie ed andare avanti, sopportando il peso della galera sulle spalle. Gentile Maurizio Costanzo anch’io vorrei vedere almeno per una volta mia madre In questi dodici anni di carcerazione ho perso mio padre senza riuscire a vederlo più, e ora resisto aggrappato alla speranza che mia madre resti in salute e in vita, per poterla vedere quando sarò libero
di Altin Demiri
Una sera stavo guardando la trasmissione “Altrove”, condotta da Maurizio Costanzo, che parla della vita di alcuni detenuti nel carcere di Velletri, e c’è stato qualcosa che mi ha colpito davvero molto. Devo dire subito che in questa trasmissione si vede un carcere piuttosto diverso dalla realtà che io come detenuto da dodici anni conosco. Ma credo che, in gran parte, questo dipenda dai detenuti che partecipano alla trasmissione e non sempre riescono a mostrare la verità e a comunicare un’idea di spontaneità nei loro ragionamenti. Mentre non ho troppe critiche per il programma in sé, che è pur sempre una onesta idea per far conoscere il carcere al mondo esterno, che non sa che tipo di privazioni esso provoca. Nella trasmissione di quella sera c’era un detenuto straniero di origine macedone che raccontava di non vedere sua madre da cinque anni. Allora il signor Costanzo gli ha promesso che gli avrebbe portato la madre in Italia per fargliela incontrare. A me fa molto piacere che questo detenuto realizzi il suo desiderio di abbracciare sua madre, ma la considerazione che ho fatto è che nelle carceri italiane ci sono 14 mila detenuti stranieri, e non tutti possono avere la fortuna di partecipare a una trasmissione e conoscere un personaggio così potente, che appena desidera qualcosa lui ha il potere di farla realizzare. Ma perché Costanzo non si è domandato come mai la madre di questo detenuto straniero non poteva venire ad incontralo? Certamente il problema principale non è economico, il vero dramma è che non c’è una legge che permetta a una madre o a un padre che hanno un figlio detenuto di avere un visto per venire in Italia ad incontrarlo in carcere. Sono curioso di sapere come farà Maurizio Costanzo a portare la madre di questo ragazzo in Italia, e però sono certo che dovrà aggirare il sistema dei visti d’ingresso, che non prevede come motivo d’entrata nel territorio italiano i colloqui con un parente detenuto. Il 33 per cento della popolazione detenuta in Italia è costituita da stranieri, e nella maggior parte dei casi si tratta di persone che non hanno sul territorio familiari o parenti, e ciò significa che non ricevono un sostegno economico e non possono nemmeno coltivare il rapporto affettivo con i propri cari. È ovvio che queste persone soffrono la carcerazione doppiamente: da un lato si trovano a dover affrontare la vita in galera senza soldi per le spese quotidiane, o per pagarsi un buon avvocato, e dall’altro la famiglia e i parenti rimasti nel Paese d’origine dopo qualche anno di carcerazione diventano sempre più lontani, spesso dei veri estranei. Una domanda che mi viene spesso in mente è: “Si sono mai chiesti i politici come fanno le famiglie dei detenuti stranieri per venire a incontrare i propri cari nelle carceri d’Italia?”. Ma evidentemente vent’anni di esperienza con gli immigrati non sono stati abbastanza per lo Stato italiano per accorgersi che gli stranieri condannati, oltre al problema che i musulmani non mangiano la carne di maiale, hanno anche altre esigenze. Prima di tutto quella di poter incontrare i propri famigliari. Io sono albanese e l’ambasciata italiana in Albania non rilascia visti per incontrare un detenuto in Italia. Prima di entrare in carcere, tornavo regolarmente in Albania per incontrare i miei cari, ma adesso che sono detenuto da 12 anni queste assurde regole burocratiche non permettono a mia madre di venire ad incontrarmi. Per me, e tanti altri come me, la galera in buona sostanza significa solo afflizione fino in fondo, alla faccia della funzione rieducativa e dell’importanza che in teoria si dovrebbe dare al ruolo della famiglia e degli affetti nel percorso di reinserimento sociale. Perché non creare allora un terreno più favorevole rendendo praticabile anche per noi la possibilità che un famigliare possa ottenere un visto per incontrare un figlio, un fratello, o una sorella che si trova in carcere? Questo non solo sarebbe un atto di civiltà e di giustizia, ma avrebbe anche l’effetto di alleggerire il peso della sofferenza legata alla pena, rendendola più costruttiva e consentendo agli stranieri che hanno sbagliato – ma che stanno anche pagando per il male fatto – di mantenere i rapporti affettivi con i propri cari nella stessa misura in cui possono farlo i cittadini italiani.
Stiamo perdendo anche le uniche persone al mondo che ci vogliono bene
La legge in vigore, che disciplina gli ingressi degli extracomunitari nel territorio italiano, ha fino ad ora oscurato questo aspetto della vita degli stranieri che si trovano in Italia, e in questo modo da un lato ci hanno isolato nelle carceri, e dall’altro hanno punito i nostri famigliari togliendo loro la possibilità perlomeno di vederci. Esiste il diritto all’unità famigliare, che è sancito da diversi trattati internazionali firmati dall’Italia, e quindi è valido anche in questo Paese, ma ovviamente questo diritto continua ad essere violato tranquillamente. Se poi a tutto ciò si aggiunge quell’aspetto fondamentale che è costituito, oltre che dal contributo del contesto famigliare al processo di rieducazione del condannato, da quel principio importante che è la parità di trattamento che deve essere osservata nei confronti dei detenuti, ecco che la lista delle violazioni cresce. Il danno causato da questa ingiustizia può anche essere considerato lieve nei casi di detenuti che hanno avuto una breve condanna, e questa separazione forzata dai propri affetti può riuscire a cicatrizzarsi in tempo. Ma per chi, come me, è stato condannato a molti anni di carcere, è orribile vivere nell’impotenza, perché non si può fare niente per vedere dal vivo e abbracciare la persona che si ama. Oltre a perdere la libertà, la gioventù, l’identità stiamo perdendo anche le uniche persone al mondo che ci vogliono bene. Sono dodici anni che sto vivendo questa bruttissima esperienza di essere privato di tutti quei sentimenti, di cui avrebbe bisogno ogni essere umano, e nelle mie condizioni ci sono altre migliaia di stranieri detenuti. Mia madre adesso ha 62 anni, e ogni volta che le telefono mi dice che muore dal desiderio di vedermi, di abbracciarmi e di baciarmi. Certamente se i politici avessero fatto una legge che consentisse a mia madre di venire ad incontrarmi, tutta questa afflizione sarebbe venuta meno. Forse, non conoscendo la lingua o qualcuno disposto ad aiutarla, avrebbe trovato parecchie difficoltà per orientarsi e sistemarsi nei pressi del carcere, ma alla fine ci saremmo visti ed ogni sacrificio sarebbe stato appagato. Tre anni fa, mentre ero in carcere, ho perso anche mio padre che non vedevo da anni e non gli ho nemmeno potuto dare l’ultimo saluto. Non so che aspetto aveva mio padre nei suoi ultimi anni di vita e questo mi riempie di rabbia, perché non ho potuto vederlo negli occhi e chiedergli scusa per quegli sbagli che mi hanno portato in carcere. Ma oltre a questo rimorso sento anche una paura che mi stringe spesso nel cuore, poiché gli anni passano, e io resisto aggrappato alla speranza che mia madre resti in salute e in vita, per poterla vedere quando sarò libero, visto che da detenuto non se ne parla nemmeno di poterla incontrare. Oltre a mia madre in questi anni di carcere non ho visto o parlato nemmeno con i miei zii, cugini e parenti. Si sono spezzati tutti i legami esistenti, e il rischio è che quando finalmente mi rispediranno in Albania, non troverò più nessuno disposto a darmi il benvenuto, a dirmi una buona parola o darmi una mano per ricominciare una nuova vita. Perché non c’è nessun rapporto, anche il più stretto e profondo, che possa resistere ai troppi anni di isolamento che questo tipo di carcerazione impone, sradicando il detenuti dai suoi cari. Allora spero che Maurizio Costanzo possa leggere queste righe e fare incontrare anche a me, per una volta, mia madre. Mi sento fortunato a riuscire ancora a sognare Quando una persona passa molto tempo chiusa in carcere, anche i ricordi più belli si annullano nella sua mente
di Emiliano Behari
Sono appena salito in cella dalla redazione di Ristretti Orizzonti, della quale faccio parte, e sono rimasto molto coinvolto dalla discussione di oggi sul tema degli affetti. La nostra redazione è fatta da persone diverse sia per esperienze di vita che per cultura, sensibilità, nazionalità, religione. Così nei diversi dibattiti che facciamo sulla realtà del carcere ci sono molte opinioni contrapposte, però quando il tema della discussione è la sfera affettiva, tutti noi ci sentiamo simili nel poterci identificare nella stessa esperienza di privazioni che il carcere provoca. In carcere gli affetti rimangono solo virtuali. Gli unici che hai, sono i ricordi più belli delle persone che ami e a cui vuoi bene. Io sono straniero e da due anni mi trovo in carcere: direi poco, a confronto del mio compagno di cella che se ne è fatti tredici. Questo per dire che intorno a me ci sono persone che dagli affetti si sono distaccate molti anni fa, e sono convinto che quando una persona passa molto tempo in carcere anche i ricordi più belli si annullano nella sua mente. Ad esempio io mi alzo di mattina e racconto al mio compagno di cella che la notte ho sognato di essere con la mia ragazza o nel mio quartiere in Albania, assieme ai miei amici, mentre invece il mio compagno non sogna più niente del genere. É terribile come il lungo isolamento dal mondo esterno annulli ogni forma di affetto. Io sento di avere ancora la mente fresca, e sono anche abbastanza fortunato rispetto a molti stranieri che qui in Italia non hanno nessuno a sostenerli moralmente. Io almeno faccio colloqui con i miei cugini e le mie zie, ho potuto vedere qui in carcere anche mai madre, che é venuta dall’Albania con un visto turistico per incontrarmi, visto che ha ottenuto perché sua sorella, che vive regolarmente in Italia, ha fatto da garante per lei. Moltissimi detenuti stranieri però sono senza un legame con il territorio, e non conoscendo nessuno disposto a fare da garanzia per i loro familiari e ad aiutarli ad orientarsi e sistemarsi da qualche parte non troppo lontano dal carcere, rimarranno sempre esclusi dal diritto di abbracciare i loro cari. Quanto alle difficoltà che una persona detenuta incontra nel gestire la propria sfera affettiva direi, sulla base della mia esperienza personale, che il primo periodo di detenzione è molto difficile: non è per niente semplice infatti, abituarsi alla solitudine quando per molti anni della tua vita hai dormito accanto ad una donna o in una casa piena di vita, mamma, papa, fratelli, sorelle; quando sei stato abituato a svegliarti con la colazione che ti aspetta in tavola e ad aprire gli occhi con tua madre o la donna che ami che ti danno il buongiorno coccolandoti. Invece qui la mattina ti trovi l’agente che sbatte la porta blindata per farti ricordare che sei in galera. In carcere gli affetti li trovi solo nelle parole scritte nelle lettere o dette per telefono. Ad esempio qui la posta arriva sei giorni alla settimana, a mezzogiorno, e quando passa l’Agente della posta, in quei momenti io mi ritrovo agitato e in ansia mentre lo guardo per sentire se pronuncia il mio nome. E quando lo fa mi solleva moralmente. Ricevere una lettera è il segno che qualcuno ti pensa. Ma con il passare del tempo in carcere anche le lettere si riducono, e gli unici che rimangono a sostenerti scrivendoti sono i familiari, quelli più stretti: madre, padre, fratelli e sorelle. Gli amici non ne parliamo. C’é un detto che si ripete spesso anche qui dentro: i veri amici si vedono nel momento del bisogno. La maggior parte di noi però non è che chiede loro un sostegno economico, no! L’unica cosa che si domanda è magari una cartolina, che possa suscitare in te un ricordo e farti pensare che non ti hanno dimenticato. Il telefono è in realtà per me, come per la maggior parte degli stranieri, l’unico mezzo per avere un contatto diretto attraverso il quale provare emozioni ed esprimere parole di affetto ai familiari, parlare loro di come passi la vita in carcere. Quando chiamo mia madre lei è molta affettuosa e preoccupata, come tutte le mamme verso i propri figli d’altronde. Ogni volta che parlo con lei per telefono mi chiede: “Cosa mangi oggi?”, e io ogni volta le rispondo la verità e cioè che mangio bene, perché il mio compagno di cella è un paesano che fa il cuoco e il pasticcere. Certe volte le racconto che mangio alcune pietanze albanesi che sono effettivamente difficili da cucinare in carcere, e allora lei ride e non mi crede. Ma onestamente non m’importa se creda o meno alle ricette che prepariamo, perché quello che mi sta a cuore e mi fa felice è sentire mia madre ridere insieme a me, quando le racconto quello che facciamo o che succede qui: cose per lei impossibili in un posto come il carcere La vera, profonda critica che farei al sistema carcerario italiano è quella di essere disumano e umiliante quando va contro la natura dell’uomo nell’impedirgli di vivere la sua sessualità. Se solo si dà uno sguardo a tutti gli altri paesi europei e addirittura ad alcuni del terzo mondo, si scopre che il sesso in carcere è concesso e c’è una ragione fondamentale dietro a tale scelta. Si riconosce in tal modo che il rapporto di coppia in una famiglia è fondamentale per l’unione della famiglia stessa. Quando vieta di vivere il sesso ai detenuti lo Stato non fa altro che rovinare le loro famiglie, non le valorizza, non le rispetta. In aperta contraddizione tra l’altro con mille discorsi sul ruolo fondamentale giocato proprio dalla famiglia nell’ottica del reinserimento. Io non credo di esagerare se dico che lo Stato è dunque in parte complice della rovina di tante famiglie, perché non si limita a privare il detenuto del diritto a un rapporto fisico e spirituale con la sua compagna (comminandogli un’ulteriore pena, che per altro non risulta scritta da nessuna parte nella sentenza di condanna), ma priva anche la moglie o la fidanzata, colpevoli solo di essersi innamorate del proprio uomo, di un diritto da sempre considerato fondamentale. Mi dispiace, ma questo atto barbarico non é degno di un Paese che si vanta di esportare la sua civiltà ad altri Paesi meno sviluppati. Si ritorna sempre ad amare Il carcere dovrebbe privare le persone soltanto della loro libertà, ma non si limita a questo. Accanto alla libertà la detenzione degrada la mente che non pensa più, distrugge il fisico che non si muove più, inaridisce il cuore che non ama più
di Elton Kalica
Non sono superstizioso e non mi spaventa quella vecchia credenza che vieta di raccontare un sogno, prima che trascorrano ventiquattro ore, pertanto, mentre faccio palestra, mi diverto a raccontare i miei sogni ad alcuni compagni di detenzione, che ormai sono stanchi di ripetermi che i sogni non si raccontano appena sveglio, ma che si scrivono su un foglio. La realtà è che il mio sonno è sempre tempestoso, un inconscio che si diverte tra avventure sconvolgenti e intensi eventi che si susseguono fino al risveglio: da quando sono in galera lavoro molto di fantasia per mantenere il contatto con una realtà da cui sono fisicamente lontano, e probabilmente la mia mente immagazzina delle informazioni che poi rielabora a modo suo e, quando dormo, mi trasporta in luoghi desiderati o temuti, in circostanze spesso bizzarre, in situazioni che soltanto l’inconscio può creare. I tanti anni trascorsi in carcere mi hanno cambiato poco il fisico e il carattere, mentre la cerchia d’amici e parenti, che un tempo quasi mi soffocava, adesso è sparita. Quello che mi resta è che, una volta l’anno, ricevo la visita dei miei genitori. L’Albania, il posto dove vivono i miei, è lontana ed ottenere un visto d’ingresso per venire in Italia non è per nulla facile. Ricordo che all’inizio della carcerazione non ero del tutto solo. Poche settimane prima dell’arresto mi ero innamorato di una ragazza, una immigrata albanese che viveva a Milano insieme alla sua famiglia. Nonostante tutta la mia faccenda giudiziaria, lei aveva continuato a starmi vicino durante il processo. Non poteva venire a trovarmi, ma in compenso mi scriveva regolarmente, raccontandomi tutto ciò che le succedeva a scuola e quante pagine del suo diario dedicava al desiderio di vedermi di nuovo fuori. Poi giunse la condanna, diciassette anni di pena, e decisi di fare ciò che ogni condannato orgoglioso fa: le dissi di dimenticarmi, di continuare la sua vita senza pensare alla mia disgrazia e senza dover rinunciare a nulla soltanto per mantenere fede ad un amore adolescenziale. Lei pianse, si dibatté per alcuni giorni, e poi accettò la mia proposta. Smise di scrivermi e io la dimenticai. Adesso sono passati dieci anni, sono ancora in carcere e non rimpiango per nulla di aver contribuito ad interrompere una relazione che avrebbe prodotto soltanto dolore ad entrambi. Fare diciassette anni di carcere e basta è un conto, fare diciassette anni di carcere amando una donna – che puoi vedere soltanto per qualche ora al mese, divisi da un tavolo e senza poterla abbracciare, baciare, sentirne l’odore della pelle – è una tortura. Meglio una carcerazione in solitudine e senza coinvolgimenti sentimentali. Tuttavia, questo non significa che sono solo, lontano dagli sguardi della gente. Mi occupo di varie attività all’interno del carcere e questo mi permette di avere il privilegio di stare dieci ore al giorno fuori dalla cella. Essere a contatto con educatori, docenti, insegnanti, assistenti sociali e volontari mi aiuta a tenermi attivo e a non atrofizzarmi come i pochi mobili della mia cella, come il cancello che la guardia apre lentamente ogni mattina. E quando guardo le persone che ogni mattina entrano in carcere, cariche di vitalità e di energia, mi dimentico del dolore che traspira dalle mura di cemento e nel corridoio dove un agente nervoso fa la conta delle solite cinquanta persone avvilite; mi dimentico della cattiveria che il destino ha dimostrato nei miei confronti, e, fin quando sto con le persone che vengono da fuori, mi sento uno di loro. Ma la cosa non è sempre piacevole. Questa mattina non ho raccontato il mio sogno a nessuno: e pensare che era un sogno bellissimo, durato abbastanza da poter vedere tutto quello che vorrei un giorno si realizzasse. Avrei voluto non finisse mai, stare in quel letto abbracciandola, baciandole i capelli, ad occhi chiusi per non ritrovarmi in una cella. Il sogno che non volevo raccontare ai miei compagni non era affatto la scena di sesso in cui mi ritrovo in modo ricorrente. Invece, decisi di mantenere il silenzio perché il mio inconscio mi aveva portato in uno scenario molto semplice: un tavolino, un foglio di carta e io che scrivevo una lettera, mentre un sentimento mi stringeva forte il petto. Non era una sensazione nuova, anzi conoscevo talmente bene quella sensazione che per un momento mi era venuto il dubbio che si trattasse di una circostanza già vissuta in passato. Tutto mi era così familiare, la lettera, le parole d’amore che scrivevo, il cuore che batteva: era ovvio che ero innamorato, ma di chi? Io che ho deciso deliberatamente di interrompere un amore perché sto in carcere, adesso, nel sogno, mi ritrovo col cuore che batte forte per una donna. Era una cosa molto strana perché nel sogno riempivo velocemente il foglio di carta scrivendo di questa donna, di come sin dal primo giorno che l’avevo vista si era creata tra noi una tenera e appassionata amicizia. Di come l’abbracciavo continuamente con i pensieri, la baciavo con gli occhi della mente, come cercavo sempre d’averla vicino, e se non la vedevo almeno per qualche minuto, mi sentivo inquieto e non vedevo l’ora che ritornasse. Non m’imbarazzava tanto il fatto che scrivevo nel sogno – l’inconscio è sempre stato beffardo con me e spesso mi porta in circostanze bizzarre che poi trovo imbarazzante raccontare – quanto perché ero completamente innamorato.
Desidererei che, fin quando sto in galera, la parola amore sparisse per sempre dal mio vocabolario
Quando parlo con i miei compagni di possibili storie d’amore, tanti sostengono che in galera chi non ama soffre a metà. Come si fa a non dare atto che chi non ha una moglie o una fidanzata che l’aspetta fuori soffre meno? Tuttavia, dopo aver sognato qualcosa che avevo dimenticato da anni, dopo aver sentito battere forte il cuore per una donna – continuo a conservare la sua immagine nonostante il sogno sia finito –, dopo aver rivissuto una sensazione forte come quella del mio primo amore, sto persino dubitando della validità della convinzione che in galera si vive bene da soli: sognandomi innamorato ho scoperto qualcosa che mi manca, e che mi accorgo ha una grande importanza di cui prima non mi rendevo conto. In galera si vive bene da soli, ma si vive sempre a metà. È bastato poco per sentirmi per qualche minuto una persona intera. Stamani ho cercato di ritrovare il mio sogno, per comunicare di nuovo le mie emozioni, ma non era facile. Ho creato con la fantasia la sua immagine e ho iniziato a scriverle, senza lasciare tanto trasparire il bisogno che ho di una donna così, per non farla scappare da subito. Quindi mi sono concentrato sulle parole da dire e mi sono sforzato di pensarla come una persona da conquistare, per provare le mie forze, provare la capacità che ho di ricostruire un rapporto dignitoso, ma dopo un po’ ho ceduto e ho confessato il mio desiderio. Inevitabilmente sono cascato in quella meravigliosa artificiosità che hanno gli sguardi degli amanti e a quel punto ho tentato di fare un discorso che è risultato disastrato, perché seguiva vie contrarie a tutte le regole della logica, mentre lei, cauta, si univa soltanto con la sua complicità. Alla fine ho concluso la lettera con delle parole che non avevano niente di innocente. Dopo dieci anni di carcere, per quanto mi sia isolato per paura di scoprirmi innamorato, alla fine forse è successo davvero, o forse solo in sogno, ma quella situazione così irreale che è venuta a crearsi mi ha causato un forte sconvolgimento fisico – e dire che mi sono sempre reputato un uomo dallo stomaco forte –, mi ha fatto capire quanto il destino è cinico, e mi ha fatto sentire quanto io sono piccolo e impotente rispetto alle circostanze che la vita impone. Volevo abbracciarla forte ma non si poteva, e i suoi occhi mi si sono ripresentati nella loro forma più provocante per incastrarmi nell’angolo della sofferta solitudine della notte, senza concedermi alcuna speranza di fuga, e mentre disperato cercavo di alzare le difese, mi sono ritrovato in un sogno dove la tenevo tra le braccia, con la pazza voglia di stare in quel letto abbracciandola, baciandole i capelli, a occhi chiusi per non ritrovarmi sveglio in una cella. Vorrei tanto che avessero ragione quelli che non credono nell’amore di un condannato, e che il mio amore fosse soltanto un capriccio passeggero, dovuto all’isolamento del carcere e alla mancanza di donne. Avrei voluto anche che i miei tentativi di cancellare per sempre i miei sentimenti fossero riusciti, così come desidererei che, fin quando sto in galera, la parola amore sparisse per sempre dal mio vocabolario, ma purtroppo nulla di ciò può succedere. Il carcere dovrebbe privare le persone unicamente della loro libertà, ma non si limita soltanto a questo. Accanto alla libertà la detenzione degrada la mente che non pensa più, distrugge il fisico che non si muove più, inaridisce il cuore che non ama più, e tutte queste sono violenze gratuite che lo Stato compie ogni giorno su migliaia di detenuti, ma che non hanno effetto su di me, che studio per mantenere la mente giovane, mi alleno per tenere il fisico vivo, e che da oggi ho un cuore che ha cominciato a battere forte per una persona, che sembra fatta soltanto per essere amata. In galera la sofferenza ti cambia, ti insegna e ti matura, ma il cuore rimane sempre avido d’amore e d’affetto, e nemmeno le sbarre o il cemento sono riuscite a proibirmi di innamorarmi. Non bastano né dieci né cento anni di galera per fermare la forza del mio cuore che è abituato ad amare una donna bella. E questo cuore, dovunque incontri quella donna, che sia una discoteca o il corridoio di un carcere, batterà sempre forte, come sa battere soltanto nel petto di chi sa amare. Toccare, abbracciare e stringere forte la persona che ami Tutto questo si può fare anche in carcere: sono ormai tantissimi infatti i Paesi nei quali sono permessi i colloqui intimi, ma non l’Italia
di Ernesto Doni
Io di galera ne ho fatta tanta, ma penso che il destino non è stato poi così severo con me visto che la mia famiglia non mi ha mai abbandonato. Considerata questa lunga esperienza e vista anche la mia età, spesso mi trovo a dover ascoltare i miei compagni detenuti lamentarsi della solitudine in cui si trovano e accusare i figli che non li pensano, le mogli che li abbandonano. Ai ragazzi più giovani che entrano in carcere e non sanno ancora quello che li aspetta cerco di aprire gli occhi raccontando esperienze tristi e felici, in modo che loro ne possano trarre delle conclusioni e non trovarsi delusi, pieni di angoscia, depressi e fare qualche gesto estremo. Appunto per questo ho deciso di scrivere queste righe, in modo che chi legge si faccia una idea di che cosa significa la galera per quanto riguarda i legami famigliari. In galera, riuscire a mantenere vicine le persone amate è una questione di fortuna. Noi non possiamo fare niente. Una volta finiti dentro non siamo più nelle condizioni di coltivare e mantenere salde le relazioni. Questo semplicemente perché qui non lo puoi più fare. Quando sono entrato in galera mi sono accorto da subito di essere rimasto solo, e certo le persone amate, per quanto mi volessero bene, non potevano seguirmi in cella. Loro naturalmente dovevano continuare la loro vita, e purtroppo lo dovevano fare senza di me. Spesso avevano bisogno di me, bisogno che facessi sentire loro che esistevo e che potevo continuare ad essere utile, ma non era per niente facile. In quell’ora di colloquio che mi era concessa potevo fare poco. Per non litigare si era stabilito che una settimana veniva mia madre e l’altra veniva mia moglie. Ovviamente la voglia di vedermi era tanta per entrambe, ma io continuavo ad essere trasferito da un carcere ad un altro e loro per venire da me dovevano perdere una intera giornata tra treni, attese fuori dal carcere e perquisizioni. Un conto è passare dei mesi in carcere, un tempo abbastanza breve che ti permette di fare dei sacrifici per poi dimenticare in fretta. Si esce e si trova tutto come era prima, è come se tornassi da un viaggio di lavoro e ci metti un attimo a riconquistare la moglie e riempire il vuoto creato nella casa per i figli. Tutt’altra cosa naturalmente è fare cinque, dieci o come me vent’anni, e riuscire a mantenere vicini moglie, figli e tutto il resto. Semplicemente non si può. A meno che uno non sia abbastanza fortunato da avere una moglie e dei figli che lo amano ciecamente e che considerano l’assistere un proprio caro in carcere come una missione cui dedicare la loro vita.
In carcere non solo è difficile dare il proprio supporto alla famiglia, ma anzi si diventa un peso
Un rapporto va nutrito e mantenuto in vita almeno attraverso tre elementi che sono fondamentali alla propria compagna: la presenza, l’amore, il proprio contributo nell’affrontare la vita. Ma qui, in carcere, non si può garantire nemmeno una di queste cose a chi dovrebbe continuare a starmi a fianco e a condividere il resto della vita “finché morte non ci separi”. È fuori luogo parlare della presenza, dato che il fatto di essere chiuso in una cella rende impossibile qualsiasi tipo di presenza fisica. Ma l’amore sì che si può fare. Quella necessità fisica, che riguarda tutti gli esseri umani, di poter toccare, abbracciare e stringere forte la persona che ami, di poter addormentarsi con in bocca il sapore delle sua labbra e svegliarsi sentendo il profumo della sua pelle. Quella necessità vitale si può soddisfare benissimo nonostante la separazione della galera. E non è fantascienza. Nella maggior parte dei Paesi è possibile per i detenuti passare periodicamente delle ore o una notte con la propria compagna in una stanza che ti fa dimenticare per qualche momento di essere in carcere. E questa cosa sarebbe fondamentale per continuare a dare un senso al rapporto di coppia che il carcere distrugge. Mentre della presenza ho detto che è impossibile e dell’amore sostengo che non costa niente permetterlo, il discorso si fa più difficile circa il terzo elemento che è il proprio contributo ad affrontare la vita. Molti sono i problemi che la quotidianità impone, ma quelli più sentiti sono soprattutto di carattere finanziario, e quando si è in galera, non soltanto è difficile dare il proprio supporto alla famiglia, ma anzi si diventa un peso. Però, se un detenuto riuscisse ad essere nelle condizioni di aiutare economicamente la propria compagna a tirare su i figli, allora forse ci sarebbe più possibilità che il rapporto durasse fino a fine pena. Pochi ci pensano, ma ogni notte che la donna di un detenuto va a letto da sola, ogni volta che i figli stanno male e non sa a chi lasciarli prima di andare a lavorare, ogni volta che non ce la fa ad arrivare con i soldi fino a fine mese, lei piange e maledice sua marito per non esserle vicino. E la persona amata si trasforma nella persona più odiata, nella causa delle sue sofferenze, nella incarnazione di un destino assurdo da cui scappare più lontano possibile. L’unico modo per attenuare un po’ questa crisi è quello di permettere al detenuto di essere più vicino alla famiglia, sia dal punto di vista economico, con più possibilità di lavorare e di mantenersi senza pesare sui propri cari, sia dal punto di vista affettivo, con colloqui più lunghi e più intimi. Soltanto allora la famiglia non lo considererà più come una persona morta e sepolta, ma come parte viva e fondamentale. E quando a fine pena uscirà dalla galera, non rischierà di trovare una famiglia che lo odia, ma delle persone che lo aspettano a braccia aperte. Amare un uomo che sta in carcere è un gioco di abilità Quando una settimana è fatta di 167 ore di attesa e un’ora di colloquio La sola cosa che provo con chiarezza è l’estrema speranza che, un giorno, tutto questo possa e debba finire
la compagna di un detenuto
Il mio uomo non sta partecipando a un reality show in un’isola deserta, non vive su una piattaforma petrolifera in mezzo all’oceano; non è nemmeno un astronauta; non è partito per la campagna di Russia… il mio uomo vive nella torre, e muri e blindati e sbarre e soldati ci separano. È uno che deve pagare un suo debito alla società, la quale lo priva della libertà, del tempo dell’esistenza attiva e di me. La mia vita è sospesa quanto la sua in un modo di esistere che ha sempre troppo vuoto intorno e il vuoto, si sa, assorbe vita ed energia e vuole essere colmato. Una settimana consta di 168 ore, io ne trascorro 167 aspettando; aspetto quell’ultima centosessantottesima ora che mi consentirà di stare con lui. Sessanta preziosi minuti, durante i quali dovrà starci tutto quello di cui una coppia ha bisogno, tenerezza, confronto, notizie di ordinaria quotidianità e persino silenzio. Ogni vigilia redigo l’indice delle cose che vorrò dire e fare; e calcolo un tempo probabile perché possa starci tutto e ogni punto, questione o problema, dovrà essere compiuto allo scadere del tempo o finirà per diventare un tarlo o, peggio, un incubo e vanificare l’energia benefica che il colloquio mi dà e che mi sosterrà per l’intera settimana. È un gioco di abilità amare un uomo in questa condizione, devo usare ogni suo sguardo, l’inclinazione della sua voce, il suo braccio intorno alle spalle, le parole che mi dice e come le dice, il suo profumo, il calore del suo corpo, per dare un senso alla mia storia anche quando, rigettata sul piazzale antistante il carcere, la vita normale mi arriva addosso con tutta la sua luce, aria, libertà che per me diventano solo vuoto. È il momento in cui ho tutte le 167 ore davanti, un treno lunghissimo che sibila stridente; la percezione che lui esiste è vivissima, sono appena uscita dalle sue braccia, a testimonianza che lui esiste veramente. Sento la mia anima alzarsi in volo verso la vita e cozzare come un uccello contro un vetro troppo lindo; sento tutta la ferita del limite colare sui miei occhi: c’è di tutto da fare in questo sabato pomeriggio, c’è tanto cielo e gente e vetrine; c’è estate, c’è inverno e mare e neve e chiese e vele… ma lui è in un altrove a cui io non posso accedere. La sera me ne sto con la testa sul cuscino, ad occhi chiusi, facendo la moviola del nostro incontro, fisserò ogni cosa dentro di me perché so che, già domani mattina, l’immagine di lui tornerà ad essere fissa come quella sua foto che mi sorride dal comodino… Poi comincerò a muovermi tra i miei impegni, fagocitandoli o, forse, facendomi inghiottire da essi, per non pensare, per non sentire che lui non c’è… il lavoro, la gente, appuntamenti, impegni, la casa, i fiori, il cane, la spesa… tutto si somma, si accalca nelle mie giornate in un ritmo frenetico: non voglio pensare, non voglio sentire quando mi manca, non voglio avere bisogno della sua voce che mi chiama in fondo alle scale. Devo avere sempre qualcos’altro da fare, essere in ritardo per non lasciare spazio alla testa, per non vedere che non c’è mai il suo maglione blu buttato sulla sedia, le sue scarpe in disordine, la schiuma da barba lasciata aperta sul mobile del bagno.
Quel letto è davvero troppo grande
La notte affronto il letto molto tardi, quando sono così stanca che crollerò al contatto con le lenzuola, perché quel letto è davvero troppo grande e insopportabile la metà che resta sempre intatta. Concedo solo un attimo all’idea del suo viso abbandonato nel sonno, a me stessa non consentirò il desiderio di lui perché già troppe volte ho sentito il mio corpo piangere di un dolore che non può avere consolazione che in lui. Lascio che tutto taccia, nascosto da strati di una glaciazione lunga tutti gli anni scritti su quel faldone. A volte ho la sensazione di essere solo una testa vagante, tanto è lontana la percezione della mia persona fisica che solo lui, col suo amore e col suo desiderio, può definire. Eppure il mio corpo lo curo quasi con disperata ostinazione perché sento il tempo fuggire e temo che quando verrà, non ci sarà più niente di buono e di bello per lui sotto il mio vestito. Le sue lettere sono parentesi di vita. Le aspetto con ansia, controllo i tempi e i modi del postino. Le osservo giacere nella cassetta e già parlano di lui. Scorro su di esse e so, con certezza, quello che lui vive, pensa, sente. Conosco il suo umore, quello che mi dice e, ancor di più, quello che tace. Gli scrivo molto anch’io e benedico la carta, la penna e quella grafia che si dispone sul foglio dando forma ai nostri pensieri, ma temo il giorno in cui le parole si faranno logore, e suoneranno vuote, estenuate da un tempo troppo lungo. La mattina, mi dice di essere viva la certezza della sua esistenza e, subito, calcolo quanto tempo mi separa da lui: se è troppo cerco impegni, espedienti che, come chiodi di uno scalatore, mi aiuteranno a salire la parete troppo rigida della sua assenza; se, invece, il molto è stato fatto, qualcosa comincia ad allentarsi dentro di me: posso finalmente pensarlo come verità. Posso e devo, perché se non faccio partire il meccanismo di “decompressione”, rischio di arrivare da lui e di non essere in grado di viverlo pienamente, di assorbire l’energia di vita, di realtà, di cui ho bisogno per non pensare di me stessa di essere solo una pazza visionaria.
Obbligata a mettere in pubblico ogni sguardo, sorriso, ogni gesto di tenerezza
Il tempo della vigilia è scandito, come si conviene, da una liturgia di gesti e di pensieri, è uno stato d’animo sospeso, emozionato… l’importante è non perdere il passo o niente sarà adeguato ed efficace…, ed è così che mi ritrovo un’altra volta lungo il viale del carcere… Pochi istanti ed entrerò nello stargate che mi porterà da lui. Un minuetto di gesti e frasi che si ripete sempre uguale… nomi pronunciati come parole d’ordine, suoni di metal detector, ordini impartiti, voci imperative; il nastro trasportatore fagocita masserizie; domande, risposte, mani sulla mia persona… la realtà mi passa davanti come scene di uno spettacolo in allestimento. Non voglio che m’importi di nulla, di quel luogo in ogni caso contrario alla mia essenza. Sento solo i battiti del mio cuore come tonfi sordi dentro al mio petto e voglio con tutta me stessa che neanche un brandello della mia dignità resti impigliato nelle spine di quel passaggio obbligato. La fila che seguo mi porta nell’anticamera della sala colloqui. Sento qualcuno lamentarsi della attesa troppo lunga; per me quel tempo è il mare della tranquillità; adesso potrei aspettare 100 anni perché ormai lui è vicino e qualsiasi attesa non potrà essere più lunga delle crudeli, inesauribili, miserabili, ineffabili 167ore. Ricompongo il mio cuore e aspetto di sentire il nome del mio uomo. È gioia intensa quella che mi scorre dentro mentre percorro i pochi metri dell’ultimo corridoio; scruto attraverso le pareti di vetro cercandolo; incontro altri visi che mostrano i segni della mia stessa ansia, della mia stessa attesa. La chiave gira nella toppa e finisce l’ultima barriera, finisce il lungo treno delle ore d’attesa. Finisce la non-esistenza. Incontro i suoi occhi, le sue braccia mi avvolgono e nel nostro abbraccio c’è di tutto, anche il confine della centosessantottesima ora, 60 minuti, talvolta 58, che sono la parte concreta del mio amore…, del mio amore “laterale”, sarebbe giusto dire, perché tutto avviene mentre noi stiamo seduti fianco a fianco. Ultimamente, ho una storia soprattutto con la parte destra del mio uomo perché è da quel lato che sto seduta accanto a lui… almeno, però, mi può avvolgere col suo braccio e posso dargli un bacio senza dovermi protendere sulla barriera di un bancone come avviene in altri istituti, questo mi fa sentire fortunata e dimentico ogni fatica. Chi mi sta intorno, invece, non lo posso dimenticare mai, sia esso dietro al vetro o seduta al tavolo accanto al mio, non saprò mai ridurre una persona ad una silhouette impersonale. È una continua, impercettibile violazione, quella che vive la mia persona, obbligata a mettere in pubblico ogni sguardo, sorriso, ogni gesto di tenerezza, la minima effusione; non solo il sesso è intimità, ma ogni cosa che spetterebbe solo al mio uomo. Il tempo trascorre tra le cose dette, quelle lasciate ai sorrisi, alle carezze, alle lacrime, le note di vita, le raccomandazioni, qualche bacio. Un giro di chiave e una voce impone la fine del colloquio. L’atmosfera si fa concitata, la testa non riesce più a controllare quello che accade; mi sento pronunciare parole, ne ricevo altre sconnesse, la sola cosa che distinguo è la supplica che portano in esse, quella di continuare ad esistere e l’estrema speranza che, un giorno, tutto questo possa e debba finire. Non riesco mai a vederlo andare via, si dissolve. Sono lì quando mi gira le spalle come un automa, ma i miei occhi non riescono a trattenere quella immagine. Resto ferma al centro della sala e ogni volta mi chiedo come faccio ad accettare, mi stupisco di non scoppiare a piangere, di riuscire a trattenere il dolore, di vederlo portato via in una dimensione altra, in cui io non potrò più nulla. Tristezza, impotenza, a volte persino disperazione si affollano in me senza che io ne mostri il segno, ma sento il mio cuore scagliarsi contro quel blindo ormai chiuso. Come un bambino disperato lo strappo via a stento, lo trascino via lungo i corridoi. Sento sul petto l’affanno, forse barcollo non lo so, mentre ritorno nella desolazione e altre 167 ore di attesa; di un nuovo, sempre uguale, interminabile tempo, vuoto di noi. Una ragione per andare avanti È la speranza che prima o poi si aprano degli spazi nuovi in carcere, una piccola fetta di intimità che aiuti quelle persone che sono così coraggiose e generose da restare accanto ad un detenuto
di Dario
La famiglia, che è l’elemento fondamentale su cui si basa la nostra società, in Italia cessa di avere importanza nel momento in cui una persona entra in carcere. Di questo dramma, che si aggiunge alla sofferenza per la perdita della libertà, mi sono reso conto parlando con un compagno sudamericano che, pur lodando molti aspetti del nostro sistema carcerario, si stupiva di come in esso non fosse previsto il vis-à-vis, come in quasi tutte le nazioni di madrelingua spagnola. E non credo che questo spazio di libertà sia dovuto al fatto che in quei Paesi non ci sono problemi di delinquenza diffusa, sono anzi Paesi che convivono con terrorismi separatisti o sovversivi. Il vis-à-vis è qualcosa di più del semplice colloquio, è un lasso di tempo in cui il detenuto può stare con la propria famiglia in una condizione che ricrea, per quanto possibile, un’atmosfera di riservatezza e che consente un contatto per aiutare queste persone a mantenere vivi i legami e i ruoli, nonostante tutto, nonostante la galera. Col termine famiglia, intendo sia quella di origine, madre, padre, fratelli, sia quella che uno ha creato per sé, moglie e figli, ma anche quella che si vorrebbe creare con una persona così coraggiosa e generosa da restare accanto ad un recluso, al di là dei legami ufficiali, nella prospettiva e speranza di un’unione futura. L’assenza di un luogo e di un tempo adatti a vivere i rapporti familiari non è un preciso disegno istituzionale per fare “terra bruciata” intorno al reo, io credo che nessuno abbia interesse alla sofferenza dei parenti di chi sta pagando il suo debito con la società. Tuttavia la severità di questa condizione ricade ugualmente sulla persona detenuta e su chi è legato a lei da un vincolo di parentela o d’affetto. “Bisognava pensarci prima” è solo una formula alla Ponzio Pilato per lavarsi le mani. Una formula che fa sentire la sofferenza dei parenti di un detenuto come un dolore di cui non prendersi cura, proprio perché procurato da chi ha delle responsabilità, da chi “non ci ha pensato prima”. Così i nostri cari oltre a patire la vergogna e la discriminazione, vengono anche privati del contatto con quelli che amano. Non ci sono grandi scuse per alzare la testa, i danni sono stati fatti, almeno nel mio caso, e diventa molto difficile, poi, pensare che la vita può essere perfettibile anche in questa dimensione. Forse per me è giunto il tempo di dire qualcosa di più, non solo per me stesso, ma soprattutto per rendere omaggio alla mia compagna che da cinque anni fa questa vita, e per tutte le donne che si ostinano a tenere in vita una relazione con un uomo detenuto, lottando contro tutto per un amore, che può sembrare incredibile, ma che è vero fino in fondo, E ce ne vuole tanto di amore per accontentarsi di 59 minuti la settimana, credetemi, magari da condividere con altri familiari, con altri vicini, con altri sguardi che sono sempre pesanti.
Cosa sarei io senza mia madre o la mia donna
Durante questa mia esperienza purtroppo ho visto decine di rapporti finire male, erano per lo più legami seri, con o senza figli, ma tutti avevano lo stesso denominatore comune: l’impossibilità per le donne di reggere un fardello troppo pesante, per tempi spesso molto lunghi, troppo… Non c’è biasimo nelle mie parole, figuriamoci, io so troppo bene che anche la più grande pazienza, l’abnegazione, poco possono contro la non esistenza, il vuoto di chi è in carcere. Mi piace però pensare che se ci fosse un tempo e uno spazio in cui ricreare la dimensione della realtà familiare, molti legami potrebbero avere un destino diverso, anzi credo davvero sia così. Ora vorrei dire due parole ai miei compagni, e in special modo a qualcuno che pensa che chiedere una cosa del genere, uno spazio di intimità in carcere, possa compromettere in qualche modo “l’integrità del nostro onore”. Io non ho mai rinunciato al mio e pago a caro prezzo con dignità e coerenza le mie scelte, per cui mi danno fastidio questi moralismi, aggiungo che ci sono altre sedi dove far valere la propria integrità che non sono quelle che hanno a che fare con gli affetti. È altrettanto vero che se ho potuto vivere la mia condizione con dignità, è stato anche per quel dono che è l’amore dei miei cari: cosa sarei io senza mia madre o la mia donna? Credo che, se mai ci verrà data questa possibilità di colloqui intimi, sia almeno doveroso da parte mia lasciar loro la scelta, se usufruire o meno di una opportunità come quella di cui abbiamo parlato, senza portare la maschera, con il cuore in mano.
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