Le prigioni degli altri

 

Gli effetti della deprivazione sessuale e affettiva

Stati Uniti d’America: il sesso in carcere non è un tabù

Là dove sono permesse, le “visite coniugali” rinsaldano molte relazioni familiari,

alleggeriscono il livello di tensione della vita in carcere

e facilitano il reinserimento dei detenuti dopo il rilascio

 

di Francesca Rapanà*

 

Le ricerche sulla deprivazione affettiva e sessuale che segue alla detenzione

 

Negli Stati Uniti sono molti i ricercatori che denunciano esplicitamente il ritardo e la disattenzione della ricerca nell’approfondire gli effetti della deprivazione sessuale e affettiva che seguono alla detenzione. Già nel 1934 Joseph Fishman, ispettore in un carcere federale, rilevava scandalizzato il silenzio riguardo alla relazione tra carcere e sesso: dopo settant’anni, i ricercatori che si occupano di questo argomento non registrano grossi cambiamenti (Tewksbury e West, 2000).

I primi studi si sono focalizzati sulle esperienze sessuali dei detenuti all’interno del carcere, come conseguenza dell’assenza di relazioni sessuali e affettive con persone all’esterno dell’istituzione; due analisi del 1913 e del 1934 ad esempio, indagavano rispettivamente le relazioni omosessuali tra donne bianche e di colore e la composizione di “pseudofamiglie” all’interno di riformatori femminili (Otis, 1913; Selling, 1934). Successivamente altri studiosi si sono occupati dei rapporti omosessuali consensuali e coercitivi, delle violenze sessuali e del sesso come strumento per imporre rapporti di potere tra detenuti all’interno del carcere. Nel caso dei rapporti sessuali consensuali, ciò che la ricerca ha cercato di esprimere è la complessità di queste relazioni che non si appiattiscono nell’atto sessuale, ma, come emerge dalle parole di un detenuto, “non è semplicemente per il sesso, o per una chiacchierata intellettuale, o per un confronto sulle reciproche ansie, o per farsi due risate, o per solidarizzare verso forze esterne… ma è per tutte queste cose” (Cohen, Taylor, 1974).

Al di là della questione dell’omosessualità in carcere, sulla cui diffusione le statistiche sono contrastanti, ciò che è interessante è che le conseguenze negative sull’individuo che derivano dalla deprivazione affettiva e sessuale sono state rilevate più di cinquant’anni fa: Lindner (1948) e Skyes (1958) ad esempio ne indicano alcune tra cui tendenza al comportamento regressivo, episodi di panico acuto dovuto a sensazioni omosessuali, incontrollabili fantasie sessuali, psicosi paranoidi come ultimo rifugio per ansia e senso di colpa, disturbi sessuali che possono insorgere dopo il rilascio tra cui impotenza prematura, eiaculazione precoce, sensi di colpa per aver avuto rapporti omosessuali in galera, oltre a tutte le difficoltà che possono insorgere con la propria compagna o compagno dopo lunghi periodi di lontananza (Lindner, 1948). Altri ancora riportano addirittura dolori gastrointestinali, forti emicranie ed episodi di vertigine (Berkey, 1971).

Per i detenuti con pene molto lunghe o a vita poi, l’assenza di contatto affettivo e sessuale con il/la partner soffoca qualsiasi elemento di speranza e di orientamento al futuro, lasciando il posto a rassegnazione e disperazione. Con un certo ritardo la ricerca accademica ha iniziato a interessarsi anche agli effetti che la detenzione provoca alla famiglia delle persone detenute: Carlson e Cervera (1992) rilevano ad esempio che le mogli dei detenuti sperimentano forti sensi di colpa e stress, che derivano dall’assunzione di molteplici ruoli all’interno della famiglia, mentre il marito è in galera; Williams e Elder (1970) individuano una serie di disturbi psichici tra cui solitudine, ansia, depressione, e concludono che la conseguenza maggiore è di natura psico-sessuale.

Altre ricerche si sono invece concentrate sui figli di persone detenute, concordando che quest’esperienza produce nei bambini problemi nel comportamento a casa e a scuola, difficoltà nel sonno, sfiducia in se stessi e negli altri, ansia di abbandono.

Non solo la letteratura concorda nell’affermare che l’esperienza di detenzione diventa parte integrante delle famiglie di persone incarcerate, ma alcuni studi sottolineano che il dolore che deriva da questa esperienza è pari a quello delle persone detenute. Comfort (2003) studiando recentemente l’esperienza delle donne in visita ai mariti detenuti a San Quintino in California, realizza la “prigionizzazione secondaria” che queste donne subiscono, sperimentando la stessa restrizione dei diritti, la marginalizzazione sociale, lo stigma, come se anche loro fossero state condannate per qualche reato.

È passato molto tempo da queste prime ricerche in cui gli studiosi rilevavano drammaticamente gli effetti alienanti e paradossali dell’istituzione penitenziaria, che rischia di restituire quindi alla società individui mutilati socialmente.

La soluzione prospettata da più parti riguarda l’intensificazione dei legami familiari, che si traduce in programmi di visite a casa e nell’introduzione ed estensione dei programmi di visite familiari, tuttora presenti in alcuni Stati della Federazione: tali programmi prevedono la possibilità per alcuni detenuti di trascorrere un periodo, generalmente dalle tre alle settantadue ore, con i familiari in una struttura simile ad una casa, senza controlli da parte dell’istituzione penitenziaria.

È interessante che l’auspicio di introdurre tali visite non viene solo dai ricercatori: nel 1968 a seguito di numerose violenze sessuali in carcere venne istruita un’inchiesta del Dipartimento di Polizia di Philadelphia. Dopo aver registrato 2000 assalti, 3500 aggressioni e 1500 vittime in due anni, il report finale indicò alla base di tali violenze soprattutto cause sociali e culturali derivate dall’isolamento e dalle condizioni della detenzione. Il rapporto prosegue affermando “Se fossero permesse le visite coniugali potrebbero essere salvate molte relazioni familiari, il livello di tensione verrebbe alleggerito e nella struttura sociale delle prigioni ci sarebbe un livello di moralità più alto. Questo programma richiederebbe la costruzione di strutture in cui mariti e mogli possano spendere del tempo insieme privatamente. È concesso in uno stato poco evoluto come il Mississippi; può e dovrebbe essere fatto anche in Philadelphia” (dal report del 1968).

 

Il programma di visite coniugali e familiari in USA

 

Il Mississippi è stato il primo stato ad autorizzare le visite coniugali in carcere allo specifico scopo di permettere ai detenuti di avere rapporti sessuali. Non ci sono documenti ufficiali che testimoniano l’inizio delle visite coniugali a Parchman, il penitenziario di Stato del Mississippi, ma si suppone che queste siano state probabilmente autorizzate in modo informale fin dai tempi dell’apertura dell’istituzione nel 1900. Ciò che è curioso è appunto questo sviluppo informale, senza un’azione programmata e progettata, come se fosse naturale e fuori questione permettere ai detenuti momenti di intimità.

Inizialmente gli unici detenuti ad avere accesso erano quelli di colore; si riteneva infatti che i neri avessero un insaziabile appetito sessuale e una forza sovrumana, per cui la possibilità di avere rapporti sessuali era considerata dalle autorità uno strumento di gestione dell’ordine quotidiano e un incentivo a lavorare di più.

Negli anni Trenta e per i vent’anni successivi, a Parchman era addirittura ammesso l’ingresso di prostitute, per la cui compagnia i detenuti pagavano 50 centesimi, una somma considerevole ai tempi della Grande Depressione.

Fino agli anni Quaranta non c’erano delle strutture adatte per le visite per cui ai detenuti fu concessa la possibilità di costruire delle case, chiamate “red houses” (dal nome della pittura usata per dipingere l’esterno) allo scopo di ospitare visite coniugali concesse ora a tutti i detenuti maschi (le donne detenute furono ammesse al programma solo nel 1972 con una piena realizzazione della parità nel trattamento penitenziario solo nel 1987).

Alla fine degli anni Cinquanta tutte le unità, eccetto la massima sicurezza e l’ospedale penitenziario, disponevano di strutture per le visite coniugali. Si cessò ben presto di autorizzare le prostitute, ma mogli, mogli di fatto e amiche erano ammesse ad accedere alle visite, che avevano lo scopo dichiarato di rinsaldare i legami familiari e soddisfare esigenze di natura sessuale. Il riconoscimento ufficiale del programma si ebbe non prima del 1965, quando l’accesso fu ristretto solo alle compagne regolarmente sposate.

Nel 1968 la California introduce le visite familiari come progetto pilota nel carcere di Tehachapi, con l’obiettivo dichiarato di rinsaldare i legami familiari e facilitare il reinserimento del detenuto dopo il rilascio, obiettivo espresso dalle parole dell’allora direttore del Correctional Department “Il fatto che mariti e mogli siano coinvolti in rapporti sessuali per noi è un fatto incidentale al nostro obiettivo prioritario: il mantenimento e il rafforzamento dei legami familiari”. Dopo il successo di quel progetto pilota, il Family Visiting Program è ora esteso a 32 delle 33 prigioni di Stato californiane.

Oggi gli Stati interessati sono sei e i requisiti per accedere a questo tipo di visite dipendono dalle politiche interne ai singoli Stati; ad esempio in California sono esclusi i detenuti sieropositivi, mentre in altri Stati possono essere autorizzati se si sottopongono a sedute di counseling con la moglie (New Mexico), oppure se questa rilascia una dichiarazione in cui si assume la responsabilità di un’eventuale trasmissione (Mississippi); ancora, in alcuni Stati sono esclusi i detenuti condannati per reati sessuali (New York e California) mentre in altri Stati devono sottoporsi ad esame psichiatrico preliminare (New Mexico); lo Stato di New York fornisce i preservativi, lo Stato di Washington anche altri contraccettivi, la California nessuno dei due.

L’elemento comune è che in nessuno Stato le visite coniugali e familiari si configurano come un diritto, ma sono un privilegio concesso solitamente a chi mantiene una condotta regolare durante la carcerazione. Molti detenuti, appellandosi all’ottavo emendamento (che vieta di imporre cauzioni e pene eccessive), hanno rivendicato il diritto alle visite coniugali affermando che la negazione di queste era una violazione dei diritti matrimoniali e una punizione crudele (Hensley, 2002) oltre che la causa di omosessualità indotta e di aggressioni sessuali (Burstein, 1977). In tutte le sentenze, le diverse Corti hanno però confermato che le visite coniugali non sono un diritto dei detenuti.

 

Ricerche sugli effetti delle visite familiari

 

Tra le ricerche che hanno studiato le conseguenze della partecipazione al programma di visite familiari, mi interessa riportare le prime, perché sono decisamente datate ma sorprendentemente attuali e drammaticamente inascoltate.

Nel 1969, Hopper, autore del primo studio sulle visite coniugali in Usa, rilevava che nonostante sia la ricerca che gli amministratori delle strutture penitenziarie più attenti confermassero che i detenuti che hanno maggiori e intense relazioni con persone all’esterno hanno una condotta migliore in carcere e un tasso maggiore di successo del “parole” (“parole”: si sconta fuori la parte finale della pena, la condizione necessaria ma non sufficiente per andare in parole è la buona condotta. Fuori hai degli obblighi e un parole officer a cui rendere conto), pochissimo veniva fatto per dare seguito a queste indicazioni. Nel 1954 uno studio dell’American Prison Association arriva addirittura ad affermare che qualsiasi attività “riabilitativa” svolta in carcere incontrerà enormi ostacoli alla sua realizzazione se non si consente ai detenuti di mantenere contatti “genuini” con il mondo reale.

Un elemento interessante in questo studio è che, nonostante il programma in Mississippi sia nato come “visite coniugali” e solo in un secondo momento si sia evoluto in “visite familiari”, già ai tempi della ricerca le guardie e i detenuti ponevano l’accento su aspetti diversi dalla pura gratificazione sessuale, come invece sostengono i critici di questi programmi. Mentre metà delle guardie intervistate sosteneva i programmi come strumento per rafforzare le relazioni familiari, la maggior parte dei detenuti ha enfatizzato la soddisfazione emotiva, piuttosto che quella fisica, il senso di confidenza, il supporto reciproco con la moglie, quasi assente nelle visite regolari.

È questo, secondo Hopper, il senso da attribuire ai programmi di visite familiari e coniugali: “Finchè invece chi amministra il sistema penitenziario si ostinerà a considerarli “prostituzione legalizzata”, non ci sarà spazio per questi interventi. Una tale svalutazione delle visite coniugali, limitate ai problemi sessuali, dimostra una visione superficiale e l’assenza di un approccio complesso ai problemi legati alla detenzione in generale” (Hopper, 1969).

Successivamente alcune ricerche hanno indagato la relazione tra la partecipazione alle visite coniugali e il tasso di successo in parole. In particolare in uno studio del 1972 svolto in California, Holt e Miller concludono che:

a. Il 43% delle mogli coinvolte in visite regolari nel primo anno di carcerazione ha smesso di andare nel secondo evidenziando che il rapporto con le mogli è più a rischio, rispetto a quello con genitori, sorelle, fratelli, ecc.

b. Il numero delle visite è correlato positivamente con la possibilità di andare in parole. E una volta andati aumentano le possibilità di rimanere fuori durante il primo anno. Dopo 12 mesi dal rilascio i detenuti che non avevano ricevuto visite erano sei volte più recidivi, rispetto a quelli che avevano ricevuto visite da almeno tre diversi parenti o amici.

c. Esiste una correlazione positiva tra il programma di visite familiari e licenze a casa e il successo in parole. Nonostante il campione limitato, è significativo che il 60% dei detenuti che usufruivano di questi programmi non ha avuto problemi di giustizia durante il primo anno in parole, mentre questo era vero per il 42% dei detenuti che non partecipavano al programma. (Provocatoriamente Holt e Miller propongono che, rilevati i benefici sociali delle visite coniugali, se non ci sono strutture disponibili, deve essere messo a disposizione l’ufficio del comandante).

I dati di questa ricerca, sul rapporto positivo tra legami familiari e sociali e successo dopo il rilascio, confermano due studi addirittura precedenti: uno del 1964, mostra una differenza tra il 74% e il 43% nel successo dopo il rilascio a seconda della presenza di relazioni familiari o meno (Glaser, 1964); uno studio di dieci anni prima analizza un campione di 17.000 detenuti in parole, individuando una simile relazione. La percentuale di violazione della misura variava tra il 26% di chi riceveva 2/3 visite al mese e il 66% di chi non riceveva visite (Ohlin, 1954). Successivamente le stesse conclusioni sono indicate da due ricerche sui detenuti nel carcere di New York nel 1980 (Mac Donald e Kelly), nel 1983 (Howser, Grossman, Mac Donald) e 1991 (Carlson e Cervera).

Un altro studio significativo è stato condotto nel 1977 sul programma di Soledad in California da Burstein, che ha cercato di indagare due questioni principali: se le visite coniugali influenzano positivamente l’andamento del parole e se influenzano positivamente la stabilità familiare. La ricerca ha coinvolto due gruppi di detenuti, il primo composto da detenuti che partecipavano al Family Visiting Program, il secondo solo alle visite regolari; i detenuti sono stati intervistati nuovamente a distanza di un anno, per verificare l’andamento del parole e la situazione familiare. Il gruppo di detenuti che partecipava al programma è anche il gruppo che ha registrato una percentuale maggiore di successo dopo il rilascio e un tasso quattro volte minore di separazioni.

Burstein sottolinea che ciò che è più sorprendente in questi risultati è la dimostrazione che è possibile stimolare cambiamenti positivi nei detenuti senza sottoporli a trattamenti particolari di un tipo o di un altro, ma solo fornendo l’atmosfera “di casa” in cui un uomo può stare con la moglie per un po’ di tempo. “Considerare il detenuto come un caso o un paziente e manipolare il suo comportamento per ottenere cambiamenti è un incredibile e costoso esercizio di futilità”. Consentire l’esperienza sessuale e sentimentale con la persona amata è una via più sana per promuovere cambiamenti comportamentali duraturi e la socializzazione (Burstein, 1977).

 

Qualche critica alle visite coniugali e familiari

 

Una questione su cui non c’è consenso negli Stati Uniti riguarda il dibattito in corso sul fine della pena: l’opzione che si dà è reahabilitate or punish? Anche nel caso in cui l’opinione pubblica e i decisori politici propendano per la seconda ipotesi, molti ricercatori ricordano che conviene a tutti accogliere nella società persone non incattivite e isolate da anni di sopravvivenza in un luogo squallido e violento. In ogni caso, nonostante prevalga in USA la cosiddetta Lock’em mentality (“chiudiamoli dentro”), alcune ricerche, oltre che i fatti, hanno mostrato che quando l’accento è sulla famiglia l’opinione pubblica sostiene i programmi. Il Mississippi ad esempio è uno stato conosciuto come conservatore, ma la popolazione ha sempre sostenuto i programmi con al centro le famiglie. (Hopper, 1969).

Una critica frequente è che le visite coniugali creerebbero dei malumori tra i detenuti che non ne usufruiscono, ipotesi smentita da molte ricerche, che riportano invece che quasi la totalità dei detenuti che non partecipano alle visite comunque le sostengono (Burstein, 1977; Rutland e Grey-ray, 2000).

Altre critiche riguardano il rischio di fughe o di contrabbando oppure l’eventualità di gravidanze o trasmissione di HIV. Alcuni si chiedono se sia lo Stato a dover pagare il mantenimento di figli nati in seguito ad un rapporto sessuale in carcere o a dover pagare le cure nel caso della trasmissione di una malattia, avvenuta in seguito ad un rapporto sessuale in carcere. Queste preoccupazioni non sembrano tali da ostacolare l’introduzione di programmi di visite familiari: sicuramente gli Stati e le istituzioni penitenziarie sono in grado di dotarsi di strumenti anche legali per tutelarsi.

Un’altra preoccupazione riguarda il rischio che le mogli possano essere maltrattate durante questi momenti in cui le guardie non sono presenti. Tale preoccupazione in particolare è stata sollevata dopo l’omicidio di una donna in Canada da parte del marito durante una di queste visite. Da uno studio condotto proprio in seguito a questo evento, che resta comunque eccezionale, risulta che le mogli hanno espresso maggiori preoccupazioni e disagio dal modo in cui vengono trattate dalle guardie e dallo staff penitenziario piuttosto che dai mariti. I ricercatori si mostrano scettici riguardo al fatto che tra le mogli intervistate solo una ha ammesso di essere stata maltrattata dal marito, sostenendo che il numero secondo loro sarebbe più alto, ma c’è reticenza a parlare dell’argomento. A questo punto mi sento di obiettare che o i ricercatori non sono riusciti ad ottenere la fiducia delle loro intervistate e quindi risposte significative (in questo caso c’è qualcosa che non funziona nella ricerca); oppure che le cose stanno proprio come affermano le intervistate e quindi nel campione preso in considerazione non si registra ansia, paura del marito ed episodi regolari di tensione.

Altre ricerche invece sottolineano l’importanza anche per le mogli e i familiari di prendere parte a queste visite, per trascorrere del tempo cucinando, guardando la televisione, facendo i compiti con i figli e giocando con loro, avendo rapporti intimi o anche solo dormendo abbracciati, le cose insomma che di solito fanno le famiglie.

Da una ricerca condotta a New York sulle motivazioni, rappresentazioni ed emozioni delle famiglie in visita ai parenti detenuti, emerge il forte desiderio di partecipare alle visite nonostante la fatica per il lunghissimo viaggio e le spese che questo implica.

Non voglio certo affermare che i rapporti di familiari, e mogli in particolare, con i detenuti siano un modello di perfezione: sono spesso storie complesse, forse più di altre, sia per le vicende prima della detenzione sia per la carcerazione in sé. Volevo però smentire anche lo stereotipo estremo di famiglie patologiche, mariti violenti e donne vittime e incapaci di reagire. Inoltre mi viene una considerazione: se le cose stessero così mi sembra l’ennesima ipocrisia presumere di tutelare queste donne allontanandole dai loro mariti in carcere. E dopo? Se le cose stanno davvero così, cosa si fa una volta che i detenuti tornano a casa dalle loro famiglie? Ci si disinteressa perché non è più un affare dell’istituzione oppure cediamo alla cecità di chi non considera che nella stragrande maggioranza dei casi le persone prima o poi escono dal carcere? Sarebbe più opportuno lavorare per individuare questi casi e offrire alle famiglie un sostegno durante la detenzione e ancora prima guadagnarsi la loro fiducia, dato che, come si è visto sopra, le famiglie sono scettiche, se non spaventate, proprio rispetto ad alcuni atteggiamenti che subiscono da parte dell’istituzione.

 

E noi?

 

Sfogliavo il libro di Hopper che nel 1969 compilava una lista di Stati che avevano introdotto le visite coniugali e si indignava perché negli USA solo il Mississippi era nell’elenco: Burma, Cile, Costarica, Equador, El Salvador, Guatemala, Honduras, Giappone, Messico (nel 1947 le visite vennero abolite, ma una rivolta dei detenuti fu così convincente che vennero ripristinate dopo una settimana), Perù, Filippine, Unione Sovietica, Bolivia, Brasile, Canada, Colombia, India, Pakistan, Polonia, Portorico, Svezia, Venezuela. Nella lista l’Italia non compare e non perché il libro è del ’69 e non è aggiornato.

Proponendo il caso statunitense non è certo mia intenzione celebrare un sistema penitenziario che punisce ancora con la pena di morte, che prevede le chain gang (gruppi di detenuti che lavorano all’esterno legati l’uno con l’altro da catene sotto lo sguardo di un agente armato), che ha recentemente adottato leggi punitive e retrograde come la three strikes law, che ha raggiunto il maggior tasso di popolazione nell’area penale.

Ciò che ho tentato di fare è sottolineare come sia oramai un fatto acquisito da ricerche empiriche in quel contesto che l’intensificazione dei contatti con l’esterno porta enormi vantaggi, oltre che ai detenuti e alle loro famiglie, anche all’istituzione e alla società nel suo complesso.

In Italia il dibattito è pressoché inesistente e credo che la possibilità di raggiungere un gradino più alto di civiltà introducendo un programma di visite familiari nel sistema penitenziario italiano, dipenderà molto dai termini e dalle definizioni proposte nel dibattito: discutere di “visite familiari” è diverso dal discutere l’introduzione delle “stanze del sesso” nelle galere italiane. La scelta di un termine piuttosto che un altro dipende dalla reale volontà alla base del confronto: riflettere, capire, migliorare oppure raccogliere consensi possibilmente urlati su esiti già stabiliti.

 

Berkey B. (1971), “Psichyatric Sequelae of Sexual Deprivation”, Medical Aspects of Sexuality, 5, 10, pp. 176 – 184.

Burstein J. L. (1977), Conjugal Visits in Prison. Psychological and Social Consequences, Lexington, Heath.

Carlson B.E., Cervera N.J. (1992), “Inmates and their families: Conjugal visits, family contact, and family functioning”, Criminal Justice and Behaviour, 18, 3, pp. 318 – 331.

Cohen S., Taylor L. (1974), Psychological Survival. The Experience of Long Term Confinement, New York, Vintage.

Comfort (2003), “In the tube at San Quentin: The “secondary prisonization” of woman visiting inmates”, Journal of Contemporary Ethnography, 32, 1, pp. 77

Fishman J. (1934), Sex in prison, New York, National Library Press.

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Hopper C.B. (1969), Sex in prison, Baton Rouge, Lousiana University Press.

Lindner R. (1948), “Sexual Behaviour in Penal Institutions” in Deutsch A., Sex Habits of African Men, New York, Prentice-Hall.

Ohlin L.E. (1954), The Stability and Validity of parole Experience Tablets, Tesi di dottorato, University of Chicago.

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Williams E., Elder Z. (1970), “The Psychological Aspects of the Crimes of Imprisoned Husbands on Their Families”, Journal of National Medical Association, 62, (3), pp. 208 – 212.

Holt N., Miller D. (1972), Explorations in Inmate-Family Relations, Sacramento, Department of Corrections Research Division.

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Rutland e Grey-ray (2000),

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*Francesca Rapanà, laureata in Scienze dell’educazione, ha fatto il tirocinio all’Ufficio Educatori della Casa di reclusione di Padova. Ora sta facendo il Dottorato in Scienze Cognitive e della Formazione tra l’Università di Trento e Los Angeles ed è volontaria nell’associazione Il Granello di Senape di Padova.

 

 

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