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Scampoli di intimità Ventiquattrore per dormire accanto alla propria figlia, per parlare con il proprio compagno, per cucinare insieme, magari anche per fare l’amore: succederà mai, nelle carceri italiane?
a cura della Redazione della Giudecca
Questa volta vogliamo provare a parlare di sogni, di illusioni, di fantasie: perché i colloqui intimi in galera per ora nel nostro Paese sono pura fantasia. Quattro donne che stanno in carcere hanno raccontato il loro modo di intendere quello spazio che non esiste, ma che ha già tante definizioni, che vanno da “stanze dell’affettività” a “celle a luce rossa”. Tutte definizioni brutte, brutta anche la più neutra, quella che fa riferimento all’“affettività”, una parola astratta a fronte del fatto che in carcere c’è bisogno della concretezza, di affetti amore sesso. Oggi quel che è certo è che nelle carceri dopo l’indulto ci sarebbe finalmente spazio anche per questo, oggi non sarebbe più un problema trovare luoghi adatti a diventare gli unici angoli di intimità dentro un posto, la galera, che è per eccellenza quello dove l’intimità viene violata, disprezzata, massacrata.
Paola: In certe carceri anche in Italia già ci sono aree dove si può mangiare con i propri famigliari, so che i genitori di un detenuto a Rebibbia quando venivano a colloquio dalla Sicilia passavano tutto il giorno insieme al figlio. Io naturalmente sono favorevole alle stanze per i colloqui intimi, o come vogliamo chiamarle, ma temo che, se anche le istituissero per legge, poi troverebbero il modo per non farle. Basta pensare al nuovo Regolamento penitenziario, che prevede le docce in cella e altre cose simili, che a distanza di anni ancora non sono state realizzate. Certo secondo me degli spazi così sarebbero utili, se fossero davvero senza controllo visivo, anche senza telecamere quindi, ma temo che il nostro sia un Paese troppo cattolico per prendere una decisione simile, figuriamoci se lasciano fare del sesso dentro in carcere. Io poi non penso tanto a rapporti sessuali, forse c’avrei pensato all’inizio della mia carcerazione, quando ancora avevo un compagno, poi ti abitui, non è più quello il problema principale. Ma credo invece che, se avessi potuto stare ogni tanto ventiquattro ore con mia figlia, cucinare, parlare senza controlli, senza sentire nelle orecchie i discorsi di quelli che ti stanno accanto nella sala colloqui, il nostro rapporto avrebbe preso da subito un’altra piega, ricostruirlo sarebbe stato meno difficile, meno doloroso. Invece, mi ricordo che durante i primi incontri con lei, con un sacco di altra gente intorno, all’inizio ci studiavamo un po’, e poi quando cominciavamo a lasciarci andare era ora di chiudere. Solo adesso, che a casa ho fatto già venticinque permessi, cominciamo ad avere un po’ di confidenza, ma anche con i permessi non è così facile. Negli anni in cui stavo in carcere in Germania, invece, mi ricordo che quando uno iniziava ad andare in permesso, poi lo faceva con regolarità, ogni settimana, e allora sì che poteva pensare di ridare forza a un rapporto affettivo. Natasha: Anch’io in questo momento penso soprattutto a quanto questi spazi di intimità aiuterebbero il rapporto con i figli. Sarebbe una cosa bella, in particolare per noi stranieri, per chi i figli ce li ha lontani e li incontra raramente. Perché bisogna dire che un colloquio intorno a un tavolino, anche se possono concedere tre o quattro ore di seguito per i parenti che arrivano dall’estero, non è la stessa cosa. Quando penso a mia figlia, a quanto fatico a mantenere vivo il rapporto con lei solo attraverso il telefono, allora davvero mi rendo conto di quanto potrebbe aiutare passare insieme un fine settimana, mangiare insieme, ricostruire qualcosa di simile a un pezzo di vita famigliare. Invece di un uomo non me ne frega niente, non voglio neanche parlarne, ho visto quanto è durata la storia con il mio compagno quando sono stata arrestata, ho visto quanto poco ci ha messo ad allacciare una relazione con un’altra donna. Certo, quando una è in carcere può succedere anche che conosca un uomo per corrispondenza, e che abbia voglia poi di incontrarlo: ma se in molte carceri è già difficile fare i colloqui con qualcuno che non sia un parente stretto o un convivente, e ottenere l’autorizzazione a incontrare le cosìddette “terze persone” è un’impresa lunga e piena di difficoltà, immaginarsi se poi permetterebbero, a una detenuta che non ha famiglia o non ha un convivente, di fare i colloqui intimi con un uomo conosciuto per lettera! Sonia: Per me sarebbe una splendida idea questa delle stanze per i colloqui intimi, ma anche a me interessa soprattutto mia figlia, mi interessa poter dormire con lei ogni tanto, mi interessa parlare senza avere intorno gente. Invece non penserei a far venire un uomo perché il problema di riprendere le fila del rapporto con mia figlia mi sembra di gran lunga il più importante che ho, e qualsiasi possibilità nuova che si aprisse nei rapporti con i famigliari la riserverei a lei. Cristina: Io invece non ho figli, ma non ritengo che una possibilità del genere debba essere pensata solo per chi ha figli. A questo punto della carcerazione, credo di non essere neppure più capace di dare un abbraccio, di tenere forte per mano le persone a me care. Sono emozioni che sto dimenticando, quindi io certo non direi di no alle stanze per i colloqui intimi, se però fossi sicura che non ci fossero neppure le telecamere. Anzi, credo che ce ne sarebbe un enorme bisogno, di colloqui così, perché qui manca tanto l’affetto, manca calore umano, e invece in una situazione meno tesa e controllata sfogheresti un po’ questo grande bisogno di sentimenti, di emozioni, di sensazioni fisiche. Certo ora i colloqui ai tavolini sono penosi, trovarsi da una parte e dall’altra di un tavolo non è il massimo per stabilire un contatto, si è davvero troppo legati, imbarazzati, privi di qualsiasi spontaneità. Io sogno spesso di stare con i miei vicina vicina, senza nessuno che mi riprenda perché magari sono in un atteggiamento troppo intimo, senza la paura di lasciarmi andare.
Nella “graduatoria” dei rapporti affettivi da salvare, evidentemente, almeno per le donne detenute, i figli occupano sempre il primo posto, ed è triste però che in carcere ci sia una lotta per strappare piccoli spazi, piccole possibilità di contatto, e si debba sempre stabilire delle priorità, figli contro compagni, affetti contro sesso. Manca una prospettiva ampia, generosa, dove i rapporti famigliari siano davvero al centro del percorso di reinserimento delle persone detenute, e non la somma triste di dieci minuti di telefonata e un’ora di colloquio a settimana. Liberiamo l’infanzia reclusa “Mai più bambini in carcere”, lo si è detto tante volte, ma la legge Finocchiaro sulle detenute madri ha risolto solo parzialmente il problema. Ora una nuova proposta di legge e la sperimentazione di una struttura protetta a Milano aprono nuove strade
di Sabrina Colella e Antonella Barone
Bambini fuori... liberiamo l’infanzia reclusa. Questo il titolo di un convegno, organizzato dal Ministero della Giustizia, che si è tenuto a Roma il 30 novembre scorso, e aveva lo scopo di affrontare la delicata questione dei bambini reclusi proprio nel momento in cui di questo si stava discutendo in Commissione Giustizia (C528 “Tutela del rapporto madri detenute figli minori”), che peraltro il 13 dicembre ha approvato un testo ampiamente modificato che ora verrà sottoposto al vaglio delle altre Commissioni interessate. Quella dei bambini, da zero a tre anni, detenuti nelle carceri italiane, è una situazione particolarmente complessa che raramente lascia indifferenti, ma al tempo stesso è anche un problema la cui soluzione non è poi così semplice da trovare né da attuare. Infatti, nonostante la maggior parte delle persone che ne vengono a conoscenza si dichiarino contrarie alla presenza dei bambini dietro le sbarre, nella realtà questo stato di cose permane, e se recentemente il numero dei minori presenti nei nidi delle carceri è diminuito, passando da 60 a 35, è solo per l’effetto temporaneo, molto temporaneo, dell’indulto. Gli effetti patologici che l’ambiente del carcere provoca sui bambini sono molti: i bambini sono infatti soggetti a irrequietezza, a crisi di pianto frequenti e immotivate, hanno molto spesso problemi a dormire in quanto subiscono risvegli bruschi durante il sonno, soffrono per la rarefazione dei contatti, l’isolamento e al tempo stesso la socializzazione forzata con le altre detenute. I bambini sono privati anche del rapporto con i coetanei e con le altre figure parentali, soprattutto con la figura paterna, e la madre risulta essere l’unico punto di riferimento. Poi al compimento del terzo anno di età arriva la separazione: brusca, inspiegabile, vissuta molto spesso da parte del bambino come abbandono, rifiuto della madre che, di colpo, non è più con lui. Ma anche la madre vive il periodo che precede la separazione con ansia e turbamento. Per cercare di ridurre i danni che la detenzione ha sui piccoli reclusi molte associazioni di volontariato – come “A Roma Insieme” che opera nell’istituto di Rebibbia Femminile – li portano fuori almeno una volta alla settimana facendo loro vivere un “giorno di normalità”, facendosi anche carico di accompagnarli tutti i giorni ai nidi esterni proprio per stimolare nuovi contatti. Ma tutto ciò non è ancora sufficiente. Per questo il Volontariato ha intrapreso da anni una tenace battaglia per impedire che i bambini varchino le porte del carcere, impegnandosi nell’elaborazione di provvedimenti legislativi per risolvere alla radice il problema. Un primo intervento legislativo si è ottenuto dal Parlamento nel 2001 con la legge n. 40 dell’8 marzo – la cosìddetta legge Finocchiaro – che ha dato buoni risultati, ma che non ha risolto completamente il problema soprattutto per le nomadi e le straniere, o perché “sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti”, o perché non possono garantire né una dimora né un lavoro. L’esperienza compiuta nel corso dell’applicazione della legge Finocchiaro ha messo in evidenza ostacoli normativi e difficoltà amministrative che hanno impedito alle sue notevoli potenzialità di dispiegarsi compiutamente; così nel 2005 una nuova iniziativa, promossa dalle stesse associazioni, ha messo a punto una proposta di legge per rimuovere nella normativa vigente gli ostacoli che si opponevano alla piena realizzazione dell’obiettivo di “liberare” i bambini dalla galera. La proposta, sottoscritta da oltre 7.000 firme di cittadini, è stata presentata ai parlamentari nel luglio 2005 e consegnata nel carcere femminile di Rebibbia all’allora Presidente della Camera On. Pier Ferdinando Casini, e non avendo completato l’iter – causa fine legislatura – è stata ripresentata nell’attuale legislatura (atto della Camera n. 528 “Tutela del rapporto detenute madri e figli minori” primo firmatario Onorevole Enrico Buemi) ed è attualmente in discussione alla Commissione Giustizia della Camera. Punto centrale del disegno di legge è quello di evitare che donne incinte e donne con bambini fino a tre anni vadano in carcere, per garantire il diritto del minore o del nascituro a crescere in un ambiente salubre e a mantenere un rapporto sereno ed equilibrato con la propria madre. La soluzione percorribile è quella che tutte possano usufruire delle misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario e che la misura cautelare degli arresti domiciliari sia da preferirsi a quella della custodia in carcere. Qualora la detenuta, definitiva o in attesa di giudizio, non possa garantire un alloggio la stessa può essere ospitata in Case famiglia già presenti sul territorio, gestite da privati o dagli enti locali, ed essere soggetta a quelle misure di controllo normalmente previste per le misure alternative e per gli arresti domiciliari. Solo in quei casi di elevata pericolosità sociale, che come è noto sono davvero molto limitati, deve essere prevista la creazione di Case famiglia protette, ovviamente gestite dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, pensate per garantire un equilibrato sviluppo del minore.
A Milano, una Casa famiglia sperimentale
Uno degli esempi da cui partire per la realizzazione di queste Case famiglia, potrebbe essere fornito dalla “Casa famiglia sperimentale protetta” di Milano, di cui si è ampiamente parlato il 30 novembre durante il convegno sopra menzionato. Il progetto, presentato da Francesca Corso. assessore all’inclusione sociale delle persone limitate nella libertà della Provincia di Milano, vede coinvolti il Ministero della Giustizia, il Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca, la Regione Lombardia, la Provincia e il Comune di Milano i quali, nel marzo scorso, hanno sottoscritto una dichiarazione di intenti per poter avviare la sperimentazione di un servizio educativo rivolto alle madri detenute ed ai loro figli da zero ai tre anni da ospitare in una palazzina in viale Piceno, messa a disposizione dalla Provincia e gestita dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in regime di custodia attenuata (ICAM – Istituto Custodia Attenuata Madri), che è stata inaugurata il 15 dicembre 2006. La finalità è di migliorare le condizioni di vita delle madri detenute e dei loro bambini, facilitandone la relazione e incentivando il contatto con gli altri eventuali figli che vivono all’esterno. Si vuole altresì permettere al bambino, ristretto con la madre, di fruire dei servizi educativi per la prima infanzia che il Comune di Milano rende disponibili e agevolare l’utilizzo dei servizi socio-sanitari territoriali della Regione. Durante il periodo della detenzione, ma questo già dovrebbe essere così per tutte le detenute e i detenuti, verrebbero garantiti percorsi di reinserimento e recupero sociale delle madri detenute tramite progetti di istruzione, formazione, accompagnamento al lavoro e mediazione linguistica e culturale. Ovviamente questo è solo uno dei modelli possibili e altri progetti ed idee potranno seguire anche dalla valutazione del lavoro che si farà, o che non si farà, nella struttura milanese. Ribadendo ancora una volta che queste strutture devono servire non per tutte le madri detenute con bambini da zero a tre anni, ma solo per quelle ritenute socialmente pericolose.
Quel che si sta facendo per migliorare la legge Finocchiaro
Nel 2001 la legge Finocchiaro ha cambiato sensibilmente il quadro normativo per le detenute madri, affermando l’esigenza di tutela della maternità e dell’infanzia, riconosciuta dall’art. 31 della Costituzione. La riforma ha riguardato in primo luogo gli articoli 146 e 147 del Codice penale, stabilendo l’estensione del differimento obbligatorio della pena fino ad un anno di età del bambino (al fine di completare il ciclo di allattamento del neonato) e consentendo il differimento facoltativo dell’esecuzione della pena alla condannata madre di bambini di età inferiore ai tre anni. Con l’art. 47quinquies Ordinamento penitenziario si è introdotta la detenzione domiciliare speciale per condannate madri di prole inferiore ai dieci anni che abbiano espiato un terzo della pena (o 15 anni se condannate all’ergastolo), qualora non sussista il concreto percolo di commissione di ulteriori delitti e sia possibile ripristinare la convivenza con i figli. La legge Finocchiaro con l’art. 21bis ha inoltre introdotto un’ulteriore possibilità di assistere all’esterno i figli di età inferiore ai dieci anni. Le molte aperture alla discrezionalità del giudice - quali la valutazione della sussistenza del pericolo di ulteriori delitti nonché del comportamento della condannata nel corso della misura - la richiesta di requisiti oggettivi come posizione giuridica definitiva, reati non ostativi, minimi di pena scontata e residua, stabile condizione abitativa (della quale sono generalmente sfornite le donne rom, costituenti la maggior parte della popolazione detenuta femminile), hanno determinato in concreto una limitata applicazione della nuova normativa, tant’è vero che, anche dopo la sua approvazione, il numero delle detenute con figli in carcere non si è mai significativamente ridotto e ancora oggi, dopo l’indulto, sono in media trenta i bambini dietro le sbarre. Un piccolo numero che però, come ha affermato il sottosegretario alla giustizia Luigi Manconi nell’intervento introduttivo del convegno “Bambini Fuori. Liberiamo l’infanzia reclusa”, “è il precipitato e il concentrato di tutto ciò che in carcere c’è di iniquo e di irrazionale”. Durante il convegno si è fatto anche il punto sul percorso della proposta di legge, nata per eliminare i “se” e i “ma” della Finocchiaro dunque con l’obiettivo di cancellare per sempre anche quel piccolo, ma intollerabile numero di bambini dietro le sbarre. La proposta - illustrata dalla relatrice Paola Balducci - in nome del prevalente interesse del minore, intende, superando in primo luogo qualsivoglia valutazione discrezionale da parte del giudice, eliminare gli ostacoli all’applicazione della detenzione domiciliare (costituiti principalmente dal giudizio prognostico sulla commissione di nuovi reati). Altra innovazione importante, la previsione di un’ulteriore ipotesi di permesso contenuta nell’art. 30quater, che autorizza la detenuta ad accompagnare il figlio all’ospedale in caso di ricovero del bambino al pronto soccorso e di soggiornare presso la struttura ospedaliera per tutto il periodo della degenza. Ma in commissione l’articolo più discusso della proposta è stato indubbiamente quello che consente la revoca dell’espulsione della straniera madre di un minore al termine della pena o durante la fruizione di una misura, qualora si accerti il prevalente interesse del figlio a rimanere in Italia. Interpretato dall’opposizione come una specie di cavallo di Troia in grado d violare la normativa della Bossi-Fini e accompagnato da forti dubbi di costituzionalità, l’articolo è nelle sedute successive della commissione caduto sotto il fuoco di emendamenti soppressivi.
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