Storie

 

Galera senza sbocchi

Ma dove sta il diritto alla rieducazione? Quelle leggi messe a punto per combattere la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra, e che ora continuano a colpire anche centinaia di stranieri “cani sciolti” come me, che con mafia, ‘ndrangheta e camorra non hanno proprio nulla da spartire

 

di Elton Kalica

 

Per la prima volta mi piace invitare caldamente a leggere un racconto, questo racconto, questo pezzo di vita di galera. Per la prima volta mi viene da dire che mi sento in colpa, anche se non posso fare nulla di nulla per portar fuori in permesso Elton. Mi sento in colpa, perché Elton ha ragione, c’è qualcosa di inspiegabile nella legge italiana: ho visto dare, io credo giustamente, una possibilità a persone con reati gravissimi, persone che si portano dietro una storia penale fatta non di un fascicolo, ma di una cassa di fascicoli. Ho imparato a credere fermamente che la natura umana è ben più complessa di quella che emerge dalla cronaca nera dei giornali, e non mi spaventa più l’idea che fuori, nel mondo, camminino anche persone che hanno ucciso. E allora mi sembra ancora più incomprensibile che un ragazzo come Elton, con alle spalle una storia così poco cruenta, con le caratteristiche di una impresa da delinquenti per sbaglio, debba portare, con i suoi diciassette anni ininterrotti di galera (basta pensare che un ergastolano invece può uscire in permesso dopo dieci anni), tutto il peso delle nostre assurde leggi “emergenziali”.

 

Ornella Favero

 

Sono le cinque di mattina di una giornata particolarmente calda, ma non è certo per la temperatura della cella che sono già in piedi a quest’ora. Oggi ho un esame universitario. La commissione verrà ad ascoltarmi, qui in carcere: e valuterà poi la mia preparazione con un voto secco. Ci ho messo più di un mese a studiare i testi che mi ha procurato Mario, un assistente volontario, e ora dei professori che non ho mai visto prima mi ascolteranno sì e no per mezz’ora, prima di emettere il loro verdetto. Poi mi faranno senz’altro qualche domanda sul carcere e sui motivi che mi hanno condotto qui, e a me toccherà informarli che sono in galera da otto anni, che devo restarci per altri nove e che… non ho ucciso nessuno. Eh sì, perché è questo, inevitabilmente, che pensa un estraneo non appena viene a sapere della mia lunga pena: 17 anni.

Insomma, anche questa volta dovrò raccontare che la mia punizione non consegue a un omicidio ma a un sequestro, e che mi sono “limitato” a tenere la persona sequestrata sotto chiave nel mio appartamento, per tre giorni, in attesa di un riscatto. So già che, alla fine del mio racconto, anche per via della giovanissima età che avevo all’epoca, i professori mi guarderanno con aria stupita e quasi costernata, come a dire che la mia è una pena spropositata, per quello che in effetti ho fatto. Va sempre a finire così, con i professori. Ma poi se ne vanno e non ci rivedremo mai più.

Devo ammettere che in questi giorni non ho studiato in una condizione ideale. Non sono riuscito mai a concentrarmi come avrei voluto sullo sviluppo demografico e delle dinamiche insediative del Veneto contemporaneo. Per quanto mi sia impegnato, proprio non mi è riuscito di liberare la mente dal pensiero fisso dell’udienza in tribunale che ho dovuto affrontare appena dieci giorni fa, e del cui esito non so ancora niente.

L’avevo attesa per nove mesi con un’ansia via via crescente, quella “Camera di consiglio”. Oppresso da un’angoscia tanto intensa che a volte pareva premermi il petto fino a soffocarmi. Poi, finalmente, il giorno tanto atteso e temuto era arrivato, liberandomi improvvisamente da quella cappa di inquietudine. Ricordo che quella mattina, mentre mi rasavo per presentarmi in ordine al processo, una piacevole sensazione di leggerezza cominciò a pervadere il mio corpo. Finalmente avrei saputo cosa sarebbe stato dei miei prossimi nove anni di vita: se avrei continuato a viverli chiuso a doppia mandata in carcere, come ho fatto finora, o se, invece, avrei potuto ricominciare a respirare almeno un po’ l’aria della vita, usufruendo di permessi premio ed espiando almeno in parte la mia pena con misure alternative alla detenzione, come l’articolo 21, la semilibertà, l’affidamento…

Non so cosa avrei dato, in quei momenti pieni di tensione ma anche di speranza, per avere al mio fianco una persona cara - mia madre, mio padre o mio fratello. Li avrei abbracciati entusiasta, dicendogli che finalmente mi sarei tolto di dosso questo peso, che non avrei dovuto più passare le giornate sprofondato negli stessi sogni a occhi aperti del giorno precedente e di quell’altro ancora. Quell’udienza in tribunale rappresentava in effetti, per me, un appuntamento molto importante, decisivo. Era l’unica possibilità che mi restava per vedermi ridotta non la pena, ma almeno il rigore implacabile della sua esecuzione: quel rigore che è previsto soltanto per gli autori dei reati più gravi (reati di mafia, soprattutto) e che blocca ogni accesso ai benefici e alle misure alternative alla detenzione.

Al cancello d’uscita del carcere avevo allungato serenamente i polsi all’agente perché mi infilasse le manette, ritrovandomi poi agganciato a un lungo cordone formato da altri detenuti diretti, come me, in tribunale. Il rito dell’incatenamento multiplo mi aveva perfino rallegrato, perché se si è “in grappolo” vuol dire che si viaggia in pullman, e non nell’angusto furgone blindato per cui ho sviluppato, dai tempi del processo, una vera e propria allergia.

Sbirciando fuori dal finestrino, mentre il grosso mezzo percorreva le vie di Padova, guardavo stupito la gente che camminava indaffarata con lo stesso ritmo di otto anni fa, come se il tempo si fosse fermato per tutti e non solo per me. E la luminescenza colorata dei negozi, che in passato non aveva mai colpito più di tanto la mia immaginazione, a rivederla ora, dopo tanto tempo, acquistava il potere d’incantarmi, come se a emanarla fossero le luminarie sfavillanti di un parco giochi. Ero così preso da quel “panorama” uguale a come l’avevo lasciato, eppure così sorprendente, che neppure mi accorsi dei minuti e dei chilometri che passavano: mi ritrovai così quasi senza rendermene conto nel cortile del tribunale, con gli agenti che sollecitavano in modo brusco la catena umana - di cui componevo il sesto anello - a scendere velocemente dal pullman, per infilarsi nell’enorme edificio da un ingresso posteriore e terminare quindi la marcia in una cella del secondo piano, dove avremmo atteso di essere chiamati.

L’attesa non fu insopportabilmente lunga come temevo. Tempo mezz’ora, o poco più, e un agente si presentò di fronte al cancello della cella d’attesa e pronunciò il mio nome: era dunque giunto il mio turno. Il tribunale sembrava funzionare con insolita rapidità, quella mattina, dato che in così poco tempo erano stati già ascoltati i dieci detenuti che erano stati chiamati prima di me. Percorsi i corridoi in un batter d’occhio e mi ritrovai seduto di fronte alla Corte, composta di sette persone dalle espressioni rilassate. Tra me e loro si stendeva un tavolo lucido, e lungo.

Mentre il magistrato relatore provvedeva a illustrare il mio caso, io mi concentravo tenendo la sguardo fisso sul movimento delle sue labbra, cercando di non lasciarmi distrarre dalla vista dei troppi estranei che affollavano quell’aula spaziosa e gelidamente illuminata. Dentro di me mi sforzavo di pensare a cosa avrei dovuto dire, una volta che mi avessero interpellato, perché ero sicuro che mi sarebbero state rivolte delle domande e non volevo rischiare di trovarmi impreparato. Anche perché sin dall’infanzia soffro di balbuzie, che si accentua soprattutto nei momenti di più forte emotività, rendendomi arduo esprimere il mio pensiero scorrevolmente.

Decisi di concentrarmi sulla respirazione, e cominciai così a tirare dei lunghi sospiri, talmente profondi e assorti che a un certo punto mi resi conto con stupore che il magistrato aveva terminato da un pezzo la sua relazione e che ora la parola era passata al mio avvocato, che stava intervenendo in mia difesa. Una volta conclusa anche la sua arringa, avevo stretto i pugni preparandomi all’interrogatorio. Ma niente: fui semplicemente invitato ad abbandonare l’aula, per poi – dopo qualche ora – essere riportato in carcere, in attesa del responso del tribunale.

Le sequenze di quella mattinata mi sono passate e ripassate mille volte per la testa in questi giorni, mentre stavo preparando l’esame che sarò chiamato a sostenere oggi. Mentre studiavo le dinamiche dell’industrializzazione di Venezia e di Verona, dentro di me continuavo in realtà a pensare alla Camera di consiglio e al suo verdetto, a me ancora ignoto, sulla mia affidabilità e sulla possibilità che io possa usufruire o meno, in futuro, dei benefici di legge. Ma la cosa più singolare è che anche adesso, mentre me ne sto qui ad aspettare la commissione d’esame, non riesco a liberarmi da quel ricordo e dall’ansia che mi procura l’attesa di quel verdetto.

 

Vorrei soltanto avere  un pugno tanto grosso da colpire il mondo e farlo rotolare nell’universo

 

Ma finalmente sono arrivati, sento chiamare il mio nome. Ma no, è la posta. L’agente strappa di fronte a me una busta che contiene una lettera e un libro. La mittente è Maddalena, una mia amica di Milano, studentessa universitaria, che tra un esame e un lavoro saltuario trova qualche momento per scrivermi due righe di quotidianità. Le sue lettere sono sempre trascinanti, e hanno la capacità di strapparmi alla carcerazione coinvolgendomi in una vita “altra”, che mi allarga i polmoni e aiuta il mio cervello a respirare l’aria di fuori, l’aria della libertà. Il libro s’intitola “Seta” ed è di Alessandro Baricco. Ha piccole dimensioni e il carattere delle lettere è grande, invitante: perciò decido di leggerlo al volo. Le prime pagine mi rapiscono totalmente. L’autore racconta in modo meraviglioso la storia di un giovane commerciante che, nel periodo in cui Flaubert è impegnato nella stesura finale di “Salambò”, importa bachi da seta dal lontano Giappone e s’innamora della donna di un uomo molto potente. Andrei avanti d’un fiato, fino alla fine, ma devo bruscamente interrompere la lettura perché i professori dell’Università sono arrivati. Li ha ricevuti un agente, che prima di venirmi a chiamare ha provveduto a farli accomodare nella nuda saletta in cui si svolgerà il mio esame.

Dopo quaranta minuti di domande serrate vengo invitato a lasciare per qualche minuto la stanza, per consentire ai professori di maturare il loro giudizio. Mi fanno rientrare subito dopo, per comunicarmi che il mio libretto universitario si è appena arricchito di un bel trenta. Quindi mi salutano con una stretta di mano e mi augurano di cavarmela altrettanto brillantemente negli altri esami che mi attendono nel prosieguo dei miei studi. Sono gentili ed evidentemente non sanno - penso io - che i carcerati non amano per niente gli auguri, ritenendoli presagi di eventi nefasti. Ma francamente non me ne importa nulla, perché il carcere non è riuscito a contagiarmi con le sue superstizioni. E non mi inquieta neppure la coincidenza, singolare, fra l’uscita di scena dei professori e l’irruzione nel mio campo acustico della voce acuta di un agente che mi chiama con allarmante insistenza. Mi presento finalmente nel suo ufficio e trovo un addetto dell’Ufficio Matricola che mi comunica la tanto attesa e temuta sentenza del Tribunale di Sorveglianza: niente permessi premio e niente semilibertà. Soltanto carcere e ancora carcere, fino al giorno ancora remoto del mio fine pena.

Mi pervade un senso di smarrimento che mi paralizza. Perfino le quattro cose che mi circondano sembrano perdere forma. Ho l’impressione che le pupille si siano messe a roteare per i fatti loro, impazzite, fino a oscurarmi la vista. Vorrei soltanto avere un pugno tanto grosso da colpire il mondo e farlo rotolare nell’universo. La motivazione del rigetto è la mia mancata collaborazione con la giustizia, perché non ho fatto arrestare nessuno e finché non farò arrestare qualcuno i miei otto anni di carcere già espiati non conteranno un bel nulla. Ma che ci posso fare, io? Mica me lo posso inventare, uno da far arrestare!

Mi viene in mente una barzelletta albanese, che racconta la storia di un certo Lalà. Arrestato dai soldati italiani durante l’occupazione dell’Albania, il poveretto viene inutilmente torturato a più riprese per costringerlo a spifferare i nomi dei “guerriglieri” del suo villaggio. Dopo un po’, scoraggiati dal suo ostinato silenzio, i militari decidono di piantarla di torturarlo e di passare a una strategia più lenta e paziente: spiarlo nella sua cella. Ma l’unico risultato è che un giorno lo trovano che dà sonore testate contro un muro, esclamando furioso: “Testa, stupida testa, perché non ti ricordi i nomi?!”.

Quel povero diavolo di Lalà, almeno, poteva imputare la sua impossibilità di collaborare alla sua scarsa memoria, mentre io - non avendo complici da denunciare - non posso prendermela neppure con la mia testa svampita. E non posso far niente neppure per cambiare le norme della giustizia italiana che mi inchiodano in questa situazione di detenzione senza sbocchi: sono state messe a punto quindici anni fa, per combattere la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra, ma continuano a colpire anche centinaia di stranieri “cani sciolti”, come me, che con mafia, ‘ndrangheta e camorra non hanno proprio nulla da spartire.

Potrei sempre uccidermi, certo, in rabbioso omaggio a una civiltà che reputo quanto meno illusoria. Sì, ecco cosa ci vuole: un bel suicidio! Scrivo una lettera denunciando la disparità di trattamento che questa legge impone; poi passo un lenzuolo tra le inferriate della finestra, faccio un nodo bagnato e insaponato, per far scivolare meglio la presa – ma prima vado al cesso per evitare di evacuare nei pantaloni, una volta appeso per il collo – e quindi pongo fine alla mia vita, in modo abbastanza clamoroso perché i politici, almeno quelli umanamente più sensibili, comincino a capire le sofferenze che stanno causando ostinandosi a non voler vedere quali realtà umane bollono effettivamente nella grande pentola del carcere. Ma poi rifletto: dall’inizio dell’anno ci sono già stati trenta suicidi nelle carceri italiane, e nessuno si è preoccupato di cambiare qualcosa nel sistema penitenziario. E poi neppure i suicidi fanno ormai più notizia. Meglio lasciar perdere, niente suicidio!

Per scacciare via questi foschi pensieri mi sdraio in branda e torno a immergermi nel romanzo di Baricco, che finisco di leggere in un paio d’ore. Giusto in tempo per l’apertura delle 13.30, di cui approfitto per recarmi nella redazione di Ristretti Orizzonti. E lì incontro Ornella e gli altri volontari, che già sono al corrente del triste esito della mia istanza. Mi esprimono con affetto il loro dispiacere, domandandosi che cos’altro si potrebbe ancora tentare, per farmi mettere almeno il naso fuor di galera un po’ prima che scocchi il mio lontano fine pena. Non resta che un’unica chance: chiedere la Grazia. E Ornella, visibilmente amareggiata, mi promette che si darà da fare per raccogliere firme in tal senso nel volontariato italiano.

So perfettamente che si tratta di un impegno più che altro “emotivo”, dettato da sincera solidarietà ma anche dal desiderio di aiutarmi a superare un momento di grande amarezza e di possibile sbandamento psicologico. La Grazia viene concessa col contagocce, e solo in casi particolarissimi, in Italia. Per un momento però mi va di “stare al gioco”, immaginando con una punta di aspra voluttà i titoloni che i giornali farebbero se una “banda” di intraprendenti volontari riuscisse davvero ad avviare la procedura di Grazia per “un criminale albanese”. Figurarsi, “con una giustizia che è già così scelleratamente permissiva, con gli stranieri!”… 

Cercando di conservare la luminosa immagine della mia improbabile Grazia, saluto tutti e ritorno in cella. Sono ormai le tre del pomeriggio e il sole coperto dalle nuvole mi preannuncia la certezza, matematica, di scontare “dentro” il carcere altri nove anni di carcere. Le buone notizie vanno celebrate con buone azioni: decido così di andarmene a letto, non prima però di aver scritto una lettera alla mia amica Maddalena, per ringraziarla del libro che mi ha mandato.

 

“Ciao Maddi,

grazie per il libro. L’ho letto in un sospiro. Mi è giunto mentre aspettavo di dare l’esame di “Sviluppo umano”, dove ho preso 30, ma senza esultare. Subito dopo ho ricevuto la notizia che il processo, di cui credo di averti parlato, è andato male. Vale a dire che non potrò avere neanche un giorno di permesso per il resto della mia condanna. Peccato. Ci avevo sperato tanto di assaggiare qualche giorno di libertà in giro per Padova, poter passare un pomeriggio con mia madre, prendere un caffè con mio padre, e forse vedere te. Invece dovrò passare altri nove anni dentro questo carcere.

Ornella e gli altri volontari non riescono a capacitarsi all’idea di non potere fare niente per aiutarmi. Hanno “tirato fuori” dal carcere gente con omicidi, rapine e reati molto più gravi del mio, mentre su di me sembra gravare qualche forza misteriosa che ha ingarbugliato la situazione giuridica in modo impenetrabile. Tuttavia, sembra che Ornella voglia tentare l’ultima carta, chiedendo la Grazia al Presidente della Repubblica. Mi ha promesso che a settembre comincerà a raccogliere firme di volontari, insegnanti, docenti e altra gente che in qualche modo ha conosciuto me, il mio lavoro nella redazione del giornale e il mio percorso negli studi universitari. Lei è sicura di tirare su abbastanza firme da convincere il signor Ciampi, ma io sono poco fiducioso nella possibilità di sormontare la barriera del pregiudizio che divide la “società civile” da noi detenuti, specialmente se stranieri. D’altronde, per il nostro Ministro, graziare un albanese sarebbe come chiedere ad un prete di fare l’Omelia per la morte di un convinto comunista.

Ma chi sa cosa succederà. Il tempo ci svelerà un giorno anche il mistero della Grazia, così come spietatamente rivelò, stamattina, il suo disegno che esclude i permessi dalla mia futura carcerazione. In realtà la cosa mi fa anche sorridere, poiché il fatto di non poter nemmeno pensare a qualche beneficio significa che, perlomeno, non avrò distrazioni per studiare, preparare i prossimi esami, e, a questo passo, laurearmi: vi è sempre un lato filosoficamente ottimistico che accompagna le brutte notizie.

Tornando al tuo libro, mi è piaciuto moltissimo. Mi sono un po’ riconosciuto in Hervé, questo uomo vivo, pieno di energie e coraggio, che s’imprigiona con le sue mani in un amore impossibile. Anche se qualcuno potrebbe criticare ideologicamente i suoi valori di vita fondati sul mercantilismo e sull’individualismo, per me rimane di grande realismo la capacità dell’uomo di soffrire in silenzio, sognando: osservare per ore il lago, contemplando l’inspiegabile spettacolo, lieve, che è la vita. Così come mi angoscia il dolore di sua moglie che non riesce a soffrire in silenzio. La donna che ama col cuore suo marito, ma che muore ammalata dopo aver salutato per sempre, in una stazione ferroviaria, il suo amante. Hélène mi ricorda tanto l’Anna Karenina che si lancia sotto il treno. Sai cosa trovo di triste quando leggo simili, meravigliosi racconti? Ho la sensazione che sia inutile, per me, continuare a scrivere racconti – sicuramente mediocri – mentre incantato, reggo in mano la prova che altri hanno raggiunto la perfezione, facendomi sognare.

Grazie di nuovo di questo pensiero. Elton.”

 

Chiudo la busta, la imbuco e ritorno in una cella dai muri riscaldati dove non cerco nemmeno di dormire. Prendo un libro e comincio a studiare per il prossimo esame, con una gaia leggerezza, liberato dalle angosce dell’attesa della libertà, svuotato da qualsiasi illusione e desiderio di progettare il futuro. Conscio che, per me, la galera è certa.

Segnato per tutta la vita

Una vendetta autodistruttiva. Storia di uno sfregio, di armi usate con troppa facilità e di una vendetta che ha portato solo tanta galera

 

di Mohamed Ali Madouri

 

Sono stati così tanti in questi ultimi tempi gli episodi di autolesionismo di cui sono stati protagonisti miei connazionali, che abbiamo deciso di discuterne anche in redazione. Essendo l’unico maghrebino presente, e sapendo che spesso sono ragazzi dei paesi del Maghreb a tagliarsi, ma anche a tagliare gli altri, mi sono sentito chiamato in causa e ho deciso di raccontare la mia esperienza personale. Porto una vistosa ferita in viso, provocatami da un mio connazionale, dopo un battibecco che avevamo avuto alla presenza di tanti altri amici tunisini e che era finito a pugni. L’avevo offeso, pare, e soprattutto non avevo tenuto conto che lui aveva una vasta carriera “criminale”. Dopo quel fatto, dopo che io l’avevo, secondo lui, screditato davanti a tutti, decise di non farmela passare liscia, e infatti mi fece pagare un prezzo fra i più alti che esistano: rovinarmi il viso… Dopo anni e anni di silenzio, trovo con fatica il coraggio di raccontare quello che mi è capitato.

Ricordo ancora quella sera buia e freddissima, in un vicolo del centro di Modena, quando un branco di miei connazionali armati di coltelli e taglierini mi aveva accerchiato ed aggredito, ferendomi ad una coscia, ad un braccio e lasciandomi come “regalo” un bel taglio in faccia che arriva fino al collo. Poi erano fuggiti, abbandonandomi come un cane, svenuto in un lago di sangue. Mi svegliai il giorno dopo con un gran mal di testa provocato dall’anestesia che stava piano piano svanendo. Mi trovai in mutande, sdraiato su un letto dell’ospedale. Attorno a me i miei amici con facce da funerale che mi guardavano con aria penosa, e che mi chiedevano insistentemente come mi sentissi.

Quello che era successo il giorno prima mi sembrava solo un brutto sogno, che al mio risveglio era però diventato una triste realtà. Spaventato e pessimista avevo palpato il mio viso, trovando tutta la parte sinistra, dalla guancia e fino al collo, coperta di cerotti. In quel momento avrei voluto riaddormentarmi per sempre: non riesco neppure a descrivere il dolore e la rabbia che provai. Non avrei mai immaginato che una cosa simile potesse succedere proprio a me: non sono un tipo litigioso, né tantomeno violento, quindi non ero preparato a qualcosa del genere. Per di più, non meritavo una tale punizione, non meritavo un trattamento del genere, solo per un trascurabile e banale litigio.

Il mio aggressore era chiamato “L’uomo dal coltello facile…” e quel giorno compresi bene il perché. Mi aveva marchiato, mi aveva “sporcato” la faccia, mi voleva così. Aveva voluto cambiare la mia vita, e purtroppo ci era riuscito benissimo. Da quel giorno smisi di vivere, di volermi bene. Mi facevo schifo, non riuscivo a sopportare quella dannata “novità”. Non riuscivo a digerire l’idea che un essere umano come me mi aveva trasformato in un’altra persona, una persona che io non volevo ed anzi detestavo. Io volevo il mio bel viso pulito, così come mia madre mi aveva fatto. Per un lungo periodo piansi di continuo: rifiutavo persino di mostrarmi in pubblico. Fino a pochi mesi prima mi esibivo ben volentieri per attirare l’attenzione di una ragazza che mi piaceva… fino a pochi mesi prima mi piaceva essere al centro dell’attenzione, e tutto questo improvvisamente era finito…

Passarono i giorni e passarono i mesi, fino a quando tolsi finalmente i cerotti. La ferita guarì ma rimase una grossa cicatrice. Ogni giorno che passava, ogni volta che mi guardavo allo specchio, il mio odio e la mia rabbia crescevano. Mi accanii nei confronti del mio feritore, ed iniziai a bere tantissimo. Prima del ferimento mi limitavo a qualche birra, mentre dopo, con il mio viso deturpato, cominciai a scolarmi intere bottiglie di alcolici e il giorno in cui bere non bastò più ad intorpidirmi la mente, passai a sniffare cocaina. Fino ad allora i miei amici mi erano rimasti vicini, mi avevano sostenuto e mi avevano aiutato per mesi, ma quando videro che ero completamente cambiato, che non mi stava mai bene niente e che moralmente ero sempre a terra, parlarono tra di loro e mi proposero di tornare in patria. Si offrirono di pagarmi tutte le spese per fare ritorno in Tunisia, e cercarono di convincermi che era la migliore medicina per uscire da quel tunnel di tristezza e malinconia che si era oramai impadronito di me.

 

Avevo una maledetta voglia di fargli assaporare il male che mi aveva fatto

 

All’inizio fui assolutamente contrario alla loro idea: nella mia mente era impensabile poter incontrare i miei genitori e i miei fratelli con questa ferita in faccia, ma dopo giorni e giorni di riflessione decisi di dare ascolto ai miei amici. Ero molto stanco e forse un periodo a casa mi avrebbe veramente ritemprato. I miei connazionali mi accompagnarono al porto di Genova. Dopo esserci salutati salii sulla nave, e quando salpammo scoppiai in lacrime: ero già pentito della scelta fatta. Quando arrivai in Tunisia, trovai mio padre e mio fratello ad attendermi al porto. Li abbracciai, li salutai con un groppo in gola e andammo a casa. Mia madre e mia sorella scoppiarono a piangere, iniziarono a guardare ed a tastare la ferita che mi ero portato dall’Italia, e ancora oggi non so se le loro erano lacrime di gioia per il ritorno, o se di dolore per come ero ridotto a causa dello sfregio al viso. Mio fratello, invece, rimase impietrito. Mi fissava senza pronunciare una parola, ma il suo silenzio mi diceva tante cose, mi diceva che avevo la faccia rovinata e che lui non aveva potuto fare nulla per difendermi. In quel momento anch’io scoppiai in lacrime, e piansi lungamente, almeno per liberare i dolori immagazzinati nel mio cuore.

Il ritorno a casa fu comunque salutare: per un breve periodo tornai “normale”, proprio come ero prima, così come desideravo e come le altre persone mi conoscevano. Ma quella normalità non durò molto, e ripresi nuovamente a bere, a fare la vita spericolata e a creare problemi ai miei genitori e alla mia famiglia. La vera realtà è che, ogni volta che mi mettevo davanti allo specchio, vedevo il mio viso inguardabile e la rabbia saliva, saliva fino a farmi sentire “indegno”. E in quello specchio vedevo trasparire anche il viso del mio aggressore, e non sentivo pace. Nemmeno la lontananza era riuscita a togliermelo dalla mente! Nei miei pensieri c’era solo lui, mi si presentava anche nei sogni e succedeva tutto al di fuori della mia volontà.

Dopo nove mesi trascorsi nel mio paese, tornai in Italia e mi recai direttamente a Modena. Trovai pochi amici, ma quelli buoni, così come trovai anche i nemici. “L’uomo dal coltello facile” era preoccupato dal mio ritorno. Passarono appena due settimane che si fece vivo, solo per farmi sapere che dovevo abbandonare Modena altrimenti finiva male. Mi aspettavo da lui un altro atteggiamento: pensavo che mi chiedesse perdono o che cercasse di rimediare, anche se da rimediare c’era ben poco. Avevo solo ventidue anni ma il mio carattere impulsivo mi diceva di farla finita, di chiudere quella storia una volta per tutte. Sapevo che il mio aggressore non era una persona di pace, e che non mi avrebbe mai chiesto scusa per non sentirsi inferiore o perdente. Ero consapevole del fatto che, prima o poi, tra noi due sarebbe avvenuto uno scontro. Ed io avvertivo una maledetta voglia di fargli assaporare il male che mi aveva fatto. Desideravo dargli una lezione, una sonora lezione che ad esempio gli impedisse per sempre di tenere un coltello in mano.

Una notte in cui ero in paranoia e fuori di me per aver sniffato parecchia cocaina, “sentii” nel mio cervello l’istinto irrefrenabile e diabolico di andare alla roulotte dove il mio aggressore abitava assieme al fratello. Volevo mettere fine a questa battaglia che durava da un anno e sei mesi, ma presentarmi all’improvviso fu una scelta sbagliata. In un batter d’occhio si scatenò l’inferno ed entrarono in scena i coltelli, ma seppur con qualche ferita ne uscii vivo. La mattina successiva seppi però che il mio nemico era in gravi condizioni: si trovava in coma. Al pomeriggio poi ebbi la notizia della sua morte. Fu come se anche il mio cuore avesse smesso di battere, ed il mio cervello di pensare. Mi sentii impazzire, avvilito, incapace di affrontare quella tragedia.

Trascorsi qualche giorno vagando da una città all’altra, accompagnato da un amico, e quando ebbi raccolto l’energia e ritrovato il senso di responsabilità, chiesi al mio accompagnatore di lasciarmi continuare da solo. Andai avanti per la mia strada, in compagnia del terrore e della tristezza. Vagabondai per un anno dopodiché, nel 1998, fui arrestato e condannato per omicidio volontario. Alla fine abbiamo pagato entrambi. Lui con la propria vita, ed io con il carcere e la condanna della faccia deturpata, che si accompagna ai pregiudizi delle persone, e al peso di aver ucciso un uomo. Senza considerare il male e le sofferenze che abbiamo causato alle nostre famiglie, agli amici e alla gente che ci voleva bene…

 

A spingermi a raccontare questa storia è stato un motivo in particolare. La mia voglia di lanciare un messaggio ai miei connazionali, per dire loro che il viso è una cosa sacra, intoccabile. È un dono prezioso che Dio ci ha fatto, e non è accettabile rovinarlo per vendicare cose futili, perché si tratta di segni che rimangono per tutta la vita. Per questo voglio invitare chi è capace di far del male agli altri senza troppo rifletterci a fare un passo indietro. A chi invece è stato ferito chiedo di perdonare, perché si può tornare a sorridere come una volta solo se non si pensa in alcun modo a vendicarsi. La strada della vendetta non porta a nulla di buono.

 

 

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