Spazio libero

 

Riflessioni ai margini di un premio letterario per carcerati

 

Elton Kalica è un detenuto albanese che all’interno della nostra redazione innalza enormemente il tasso di creatività e talento narrativo presenti. Così noi inviamo regolarmente i suoi racconti a tutti i concorsi letterari che troviamo, per immigrati, per detenuti, per amanti del caffè, per appassionati di viaggi, per tutte le più strane categorie di scrittori esistenti. Lui ci ha ricambiato con delle riflessioni originali e ironiche su quello che può succedere ai margini di un concorso, soprattutto se quel concorso è riservato a una "razza" strana come è quella dei detenuti.

 

La Redazione

 

Ho scritto un racconto e l’ho dedicato alla mia amante

Peccato che io sono carcerato e la mia amante, ahimè, è immaginaria, creata interamente da me

 

di Elton Kalica

 

Come molte altre persone di questo mondo anch’io avevo un’amante. Ma io non assomiglio affatto a quelle altre persone, e lei non si avvicinava nemmeno un po’ alle loro amanti. Io sono carcerato e la mia amante, ahimè, era immaginaria, creata interamente da me.

Ma non era però del tutto frutto di fantasia, perché l’avevo "assemblata" mettendo insieme, come in un puzzle, i lati migliori di tutte le donne con le quali ho avuto una storia d’amore prima di abbandonare Tirana per venire nella peccaminosa e traditrice Milano. L’avevo creata bellissima. In lei c’erano gli occhi verdi e intelligenti della signora D., mia vicina di casa che, oltre a preparare per me degli squisiti biscotti e portarmeli quando rimanevo solo a casa, mi insegnò magistralmente i segreti dell’amore. Poi la bocca piccola e carnosa della dolce M., il mio vero, grande amore; e i seni e il fondoschiena rotondo di G., la mia compagna di classe che ogni volta che litigava con il suo fidanzato - e succedeva spesso - si faceva giustizia portandomi a casa sua e usando il mio corpo come strumento di vendetta. Così la mia creatura era un miscuglio di ricordi e un concentrato di incanto, di dolcezza e di passione.

Per quanto fosse un patetico mezzo di consolazione, devo ammettere che era molto soddisfacente avere un’amante così, soprattutto nelle ore lunghe e fredde, quando riempivo il vuoto della cella evocando la sua presenza. Lei, la mia donna fedele. La immaginavo sempre assieme a me, spesso in lunghi e romantici viaggi già compiuti da libero, in spazi conosciuti e per me rimasti memorabili. Ricordi bellissimi. Dopo aver gustato la sua compagnia mi rimaneva il sapore amaro dell’inevitabile nostalgia, però la cosa non mi dispiaceva affatto: io sono triste e nostalgico, di natura.

Sia chiaro però che, ripercorrendo migliaia di volte le sequenze memorizzate del mio breve passato in libertà, non intendevo né autocommiserarmi per il mio attuale stato di afflizione, né prendermela con il Fato, colpevole di avermi ridotto in catene. Cercavo, soltanto, di mantenere in vita quei momenti, tanto più significativi e indelebili perché le circostanze mi impediscono di sostituirli con altri, più freschi e magari anche più emozionanti. E fu proprio nel tentativo di conservare in vita quei lontani ricordi, ma soprattutto per il desiderio di esprimere gratitudine alla mia amante, che in questi lunghi anni di solitudine mi è sempre stata tanto virtualmente vicina, che un giorno ho pensato di fissare sulla carta uno dei miei viaggi immaginari alla riscoperta di posti ben noti e di momenti d’amore che il tempo non ha potuto alterare.

Così scrissi un racconto. Anzi, un sogno. Lo dedicai a lei con l’amore più profondo, come si regala un bouquet di rose rosse accompagnato da un bacio appassionato ed eterno, oppure come si intona una serenata sotto il balcone ancora caldo dal sole estivo. Con entusiasmo, sì, ma anche con la consapevolezza che ben presto tutto sarebbe stato soltanto un ricordo, un meraviglioso momento da serbare per sempre in un angolo segreto della memoria. Il giorno dopo infatti affidai il racconto scritto per la mia amante particolare alla discrezione di un cassetto buio, come segno del mio amore e come impegno a tener fede a un comune segreto. Ero convinto di aver dimostrato tutta la mia gratitudine nel modo più nobile, cioè con la dolcezza delle parole scritte col cuore e chiuse a chiave nella mia anima.

Il destino volle però che il mio racconto, il "nostro" segreto, non rimanesse a lungo in quel cassetto affollato di sentimenti sopravvissuti alle tumultuose vicende della mia vita e di fogli scarabocchiati in momenti sovreccitati e confusi, e tuttavia straordinariamente vividi e intensi. Mosso da un impulso più forte di me, un giorno quel racconto lo strappai all’oblio a cui io stesso l’avevo condannato, venendo meno così all’impegno che avevo assunto con me stesso e con la mia amata.

L’occasione di un concorso letterario per carcerati, organizzato dal Rotary Club, mi indusse infatti ad aggiungere ai miei misfatti anche questa macchia dal sapore sacrilego: presi, rapinai, violentai il racconto che avevo scritto in esclusiva per lei, la mia amante, e lo gettai nella mischia all’unico scopo di ricavarne un pugno di soldi. Che vergogna!

Come ogni cosa nata nel profondo dell’anima e creata dal cuore anche il mio racconto ricevette i suoi applausi e piacque alla giuria, che lo premiò - ingiustamente, a mio avviso - solo  col terzo posto. Il primo premio fu assegnato infatti a un racconto secondo me più  banale, che narrava la lontana quanto astrusa tragedia di un ragazzo palestinese, vittima delle solite incursioni di rappresaglia dei militari israeliani; in pratica, la cronaca immaginaria di una di quelle scene – tutt’altro che immaginarie – che i telegiornali ci propinano ogni sera, facendole diventare talmente abituali, quasi scontate, da assuefarci perfino alla crudeltà. Tuttavia, nell’assegnarmi quel premio quasi "di consolazione",  qualcuno degli organizzatori sottolineò che nessun altro albanese si era segnalato prima di me, in quel concorso. E così una punta di orgoglio nazionalista mi compensò, almeno in parte, per la delusione di essere stato relegato sul terzo gradino del podio.

Il concorso organizzato dal Rotary Club aveva naturalmente il nobile scopo di promuovere l’amore per le lettere in carcere, e offriva  all’Amministrazione penitenziaria un’occasione preziosa per dimostrare la sua sensibilità e il suo impegno a favorire ogni forma di rieducazione e di emancipazione culturale dei detenuti. La direzione del carcere di Torino, così, aveva organizzato la cerimonia della premiazione invitando le più alte cariche istituzionali: i dirigenti del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), il Provveditore per le carceri del Piemonte, il sindaco, il prefetto e il Magistrato di Sorveglianza di Torino. Erano anche presenti, naturalmente, gli organizzatori del concorso, il direttore e il comandante del carcere e una folta rappresentanza degli agenti, che avevano anche la funzione – ovviamente – di "accompagnare" i detenuti che erano risultati vincitori. Fra i quali, naturalmente, figuravo pure io, che però non mi sentivo in gran vena di protagonismo e che ero semmai un po’ infastidito, lo ammetto, dall’enfasi con cui alcuni degli oratori sottolineavano l’importanza della letteratura come strumento di rieducazione.

Due giorni prima ero stato trasferito apposta, e quindi in "viaggio premio", dal carcere di Padova a quello di Torino. Un viaggio verso la gloria letteraria fatto nel chiuso nient’affatto letterario di un furgone blindato, con le manette serrate strette ai polsi: otto ore in strada, quattro delle quali per raggiungere Torino e quattro per trovare, a Torino, il carcere "Le Vallette". Il tutto, in una giornata di luglio particolarmente assolata e afosa.

Era forse, quel viaggio premio d’inferno, lo scotto che dovevo pagare per la mia infamia, per aver cioè profanato – rendendolo pubblico – quel racconto che avevo scritto solo per lei, la mia amante? Se era così, la penitenza era strameritata. Niente da dire, tanto più perché avevo tradito per ancor meno dei proverbiali "trenta denari": 375 euro.

La cerimonia della premiazione durò poco, per fortuna. Rientrai nella mia provvisoria cella torinese con in bocca l’amaro del pentimento. Volevo tornarmene a Padova, subito. Ma passarono venti giorni prima che lo stesso furgone blindato – rancido di fumo freddo e di chiuso – mi riportasse a Padova, in una giornata di sole sorridente e insieme beffardo. Avevo tradito, e in fondo era giusto che avessi pagato. Ma finché sarò carcerato, parola, a me con i premi non mi incantano più.

 

 

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