Il
manifesto di Ristretti Orizzonti per salvare gli affetti delle persone detenute
Facciamo
entrare L’affetto in carcere
Dal
convegno “Per qualche metro e un po’ di amore in più”, il manifesto di
Ristretti Orizzonti per salvare gli affetti delle persone detenute
Salvare
gli affetti delle persone detenute, anche come investimento sulla sicurezza
perché solo mantenendo saldi i legami dei detenuti con i loro cari, genitori,
figli, coniugi, sarà possibile immaginare un reinserimento nella società al
termine della pena.
È
questo il tema del convegno organizzato oggi da Ristretti Orizzonti nella Casa
di Reclusione Due Palazzi di Padova.
Dal
convegno è uscito un manifesto con alcune proposte concrete per rendere il
carcere “più umano”:
“Liberalizzare”
le telefonate per tutti i detenuti, a telefoni fissi o cellulari,
introducendo il sistema della scheda telefonica, che consente un’enorme
riduzione della burocrazia rispetto alle “domandine” scritte.
Consentire
i colloqui riservati di almeno 24 ore ogni mese, da trascorrere con la
famiglia senza il controllo visivo. Consentire inoltre che i colloqui siano
cumulabili per chi non fa colloquio con i familiari almeno ogni due mesi.
Aumentare
le ore dei colloqui ordinari, dalle sei ore attuali, a dodici ore mensili,
per rinsaldare le relazioni, che sono alla base del reinserimento nella
società.
Aggiungere
agli attuali 45 giorni di permessi premio alcuni giorni nell’arco
dell’anno da trascorrere con la famiglia.
avanzate
anche una serie di proposte che potrebbero essere attuate subito, con una
semplice
circolare
dell’Amministrazione penitenziaria, senza neppure cambiare una legge:
Dare
la possibilità di aggiungere alle sei ore di colloqui previste ogni mese
alcuni colloqui “lunghi” con la possibilità di pranzare con i propri
cari.
Due
telefonate in più al mese per tutte le detenuti.
L’allestimento
di postazioni per permettere alle persone detenute, in particolare quelli
che hanno famiglie lontane, di fare colloqui visivi via Skype con i
loro familiari.
Migliorare
i locali adibiti ai colloqui, e all’attesa dei colloqui, con una
attenzione maggiore per le esigenze di anziani e bambini (servirebbero in
tutte le carceri pensiline, strutture provviste di servizi igienici, spazi
per i bambini).
Maggiore
trasparenza sui trasferimenti, che dovrebbero essere ridotti al minimo e
rispettare i principi della vicinanza alle famiglie e della possibilità di
costruire percorsi di reinserimento sul territorio.
Intervista
a Roberta Cossia, magistrata di Sorveglianza a Milano
“Io
credo che i tempi siano maturi per sollevare la questione dei colloqui intimi”
Ma
“anche all’interno della stessa magistratura ogni eventuale apertura di
questo tipo viene vista a volte come un regalo inutile e sovrabbondante,
superfluo e addirittura negativo rispetto appunto a questa dimensione afflittiva
che invece nel pensiero generale è quella che deve prevalere”
Raccontano
i detenuti che sono in carcere da tanti anni che “non ci sono più i
magistrati di Sorveglianza di una volta”, del periodo subito dopo la riforma
carceraria del 1975. Giudici che, come racconta
Carmelo Musumeci, “pieni d’entusiasmo e passione entravano
in carcere, visitavano le sezioni, passeggiavano nei cortili
dell’ora d’aria insieme ai prigionieri. E non si fermavano
solo a questo, entravano nelle celle, si sedevano sulle brande e
spesso bevevano il caffè insieme ai detenuti (in carcere lo fanno
buono, l’unica cosa che riesce bene in questi brutti posti)”.
Per questo ci ha colpito come la magistrata di Sorveglianza di Milano,
Roberta
Cossia, ha parlato del suo lavoro: “Un lavoro che è al confine del
diritto, un mestiere che ha come obiettivo e come principio base
quello di intercettare i profili della personalità dei condannati e di
cercare di trovare, nelle maglie della legge, quel trattamento
individualizzato di cui parla l’Ordinamento penitenziario, che
dovrebbe portare a restituirli alla società come persone migliori
(…) Sono magistrato di Sorveglianza, ormai da 11 anni e tante volte nel
mio ufficio al settimo piano del Palazzo di
Giustizia
di Milano mi sono sentita sola e impotente, quando si cerca un’interpretazione
della legge che sia meno penalizzante per i condannati, quando si va a fare un
giro per le celle di San Vittore o per il centro Clinico di Opera (…) e ci si
sente in grave difetto per non avere fatto niente, per non avere fatto di più”.
Abbiamo così deciso di intervistarla sul
tema che più ci sta a cuore oggi, quello degli affetti.
a
cura della Redazione
Ristretti
Orizzonti ha appena lanciato una campagna per “liberalizzare” le telefonate
e consentire i colloqui riservati delle persone detenute con i propri
famigliari, come già avviene in molti Paesi. Vogliamo partire da qui?
Partiamo
da queste vostre proposte sugli affetti delle persone detenute che ho letto e
che si collocano in un periodo in cui sembra che ci sia stato un cambio di passo
nella gestione che la politica opera dei rapporti con la magistratura e la
popolazione carceraria, un cambio di passo che si è visto e si è verificato
nei provvedimenti legislativi che sono stati emessi negli ultimi due anni,
seppure un po’ confusi. Io, è chiaro che sono favorevole a questo tipo di
apertura e prima di me lo erano stati i colleghi, in particolare quelli di
Firenze, che già avevano sollevato la questione di incostituzionalità
dell’art. 18 comma II° dell’Ordinamento penitenziario.
Una
questione che aveva fatto presente come la disciplina attualmente vigente
impedisca al detenuto di mantenere i rapporti affettivi con il coniuge,
favorendo il ricorso a pratiche sessuali che sostanzialmente portano a uno
squilibrio fisico e psicologico e poi di fatto ad impedire dei rapporti regolari
con i famigliari, violando cosi, si era sostenuto, gli articoli 2, 3, 27 della
Costituzione, oltre che il diritto alla salute. La questione, per come era stata
posta, era stata ritenuta inammissibile dalla Corte Costituzionale, ma è una
questione a tutt’oggi sul tavolo. Tanto più per coloro che stanno scontando
reati assolutamente ostativi e che di conseguenza hanno il divieto assoluto di
accedere a benefici premiali che possano portare a un ricongiungimento con i
loro famigliari.
Noi
al tribunale di Sorveglianza di Milano fino ad oggi non abbiamo portato questa
questione con sufficiente forza nelle aule, dove avrebbe dovuto essere portata,
diciamo in tutti i dibattiti pubblici, è una questione “nascosta” di cui si
parla poco ed ancor meno si discute, un po’ per “pruderie”, un po’
per difficoltà oggi di portare il dibattito su delle questioni che
sembrano secondarie. Ma non sono secondarie, non sono affatto secondarie, anzi
la questione dell’affettività, della sessualità in condizioni di privazione
della libertà personale, per quanto mi riguarda è, invece, una questione che
dovrebbe essere vista come centrale.
Peraltro,
anche l’Europa nelle Regole minime aveva indirizzato i legislatori verso una
maggiore apertura sotto questo profilo ma, come per tante altre questioni, non
sembra che le direttive europee siano state seguite. Io credo che i tempi siano
maturi oggi per sollevare questa questione, anche se il silenzio legislativo
fino ad ora è stato totale.
È
abbastanza strana la cosa perché in fondo il tema degli affetti dovrebbe essere
“più facile” degli altri, nel senso che riguarda persone che non hanno
nessuna colpa, come le famiglie, le mogli, le compagne, i figli quindi a noi
sembra abbastanza singolare che nel nostro Paese, che mette la famiglia sempre
al centro dell’attenzione, si sia cosi trascurata una questione come questa.
Facevamo in questi giorni un conto elementare: che una persona detenuta incontra
la famiglia per un totale di tre giorni all’anno, è una cosa mostruosa a
pensarci bene. In questi giorni abbiamo letto che l’Algeria è l’ultimo dei
paesi arabi che sta introducendo i colloqui intimi, perché tutti gli altri già
ce li hanno. Quindi c’è qualcosa di strano in questo, forse anche una scarsa
convinzione da parte di chi opera in carcere, e pure del volontariato.
Quello
che, purtroppo, ad oggi si registra è che prevale sempre la dimensione
vendicativa della pena, prevale costantemente nei discorsi che generalmente si
sentono, ma non soltanto sui giornali dove si cavalca questo sentimento
vendicativo come se fosse quello che paga maggiormente nelle campagne
elettorali, ma un po’ dappertutto.
Anche
all’interno della stessa magistratura ogni eventuale apertura verso condizioni
detentive più umane viene vista a volte come un “regalo” fatto a persone
che hanno commesso dei crimini e che , di conseguenza, non hanno diritti da
rivendicare, ma solo una pena da pagare, un gesto di buonismo da parte dello
Stato ritenuto superfluo e addirittura negativo, a fronte, appunto, di questa
idea diffusa della dimensione afflittiva della pena che nel pensiero generale è
quella che deve prevalere, questa è la mia idea. Per questo anche rispetto alla
tutela dell’infanzia, all’evitare che le detenute madri facciano ingresso in
carcere e in quegli asili nido terribili che ho visto all’inizio della mia
carriera quando ho cominciato a lavorare in Sorveglianza, quei lettini in cella
che facevano stringere il cuore, non c’è una particolare attenzione sino ad
oggi. Di istituti a Custodia Attenuata per detenute con figli a seguito ce ne
sono pochi, istituti separati come l’ICAM che c’è a Milano, noi per esempio
l’abbiamo avuto per primi in Italia, ma poi l’esperienza non è stata così
subito seguita. Questo io credo che dipenda dal fatto che il legislatore
comunque preferisce sbandierare la prevalenza della tutela di esigenze di
prevenzione sociale, rispetto a quelle di tutela degli affetti e della
dimensione familiare. Eppure questo avviene in un Paese che la famiglia cerca di
tutelarla o quantomeno sostiene di volerla tutelare, ecco, però non abbastanza
da superare l’opinione pubblica che sarebbe contraria ad eventuali aperture
sotto questo profilo.
Noi
fra i nostri obiettivi riteniamo che non sia secondaria la questione delle
telefonate, su cui c’è, secondo noi, una chiusura un po’ assurda. Dieci
minuti alla settimana sono veramente una miseria, in tantissimi Paesi si
telefona liberamente, qui da noi spesso addirittura in alcune carceri la
telefonata all’avvocato viene conteggiata in quei dieci minuti a settimana
consentiti.
Chi
poi ha un reato del 4 bis prima fascia può fare solo due telefonate, e questo
è puramente punitivo, vendicativo, perché poi di fatto se ne fai due, o ne fai
quattro, dal punto di vista della
sicurezza non c’è nessuna differenza, quindi la
logica è solo quella di rispondere al male con una uguale quantità di male.
Infatti:
quando ci fu ad esempio la riforma per cui per i detenuti in 41 bis OP ridussero
i colloqui da due a uno, ci fu una levata come di giubilo generale, come se il
problema della sicurezza, dei messaggi che potevano passare cambiasse se da due
si scendeva a un colloquio, io trovo che sia ridicolo, se ci sono dei problemi
di passaggio dei messaggi allora anche un colloquio è un problema di sicurezza,
uno o due che differenza fa? Questo è il mio punto di vista, è chiaro che è
soltanto per soddisfare un’esigenza, un desiderio vendicativo, è solo quello,
perché dal punto di vista concreto, della tutela delle esigenze della sicurezza
sociale, non cambia nulla, questo è chiaro. Io sono favorevolissima alla
liberalizzazione delle telefonate e penso che sarebbe poi, in un’era
telematica come la nostra, assolutamente ovvio. Favorire il mantenimento di
punti di riferimento all’esterno, è un aspetto che incide in modo
determinante sulla possibilità di un reinserimento proficuo, sensato, mentre il
perdere o sfilacciare i rapporti familiari, per poi ritrovarsi ad essere degli
estranei, quello si che è criminogeno: perdere i punti di riferimento porta,
infatti, il condannato ad una condizione di disagio e di disadattamento totali,
senza che questo aspetto possa essere sostituito con qualcosa di equivalente.
Credo sia fondamentale mantenere dei legami familiari solidi e soprattutto
reali, veri, e solo attraverso la costanza dei rapporti questo è possibile.
Nelle
proposte di legge che ci sono finora c’è anche un aumento consistente dei
permessi premio: trenta giorni in più all’anno per stare in famiglia, che
cosa ne pensa? E di un uso meno restrittivo dei permessi di necessità?
Io
sono favorevolissima. Noi come ufficio di Sorveglianza di Milano abbiamo, già
da anni elaborato, una giurisprudenza, rispetto ai permessi di necessità, che
abbiamo concesso in molte situazioni ai detenuti di 4 bis, prima fascia, proprio
per coltivare gli affetti familiari, forzando la normativa di cui all’art. 30
OP secondo comma, che si riferisce agli eventi familiari di particolare gravità,
da intendersi come una normativa che deve applicarsi non soltanto agli eventi
luttuosi, negativi, ma agli eventi famigliari intesi come eventi familiari un
po’ particolari, unici che possono essere la Comunione del figlio piuttosto
che qualunque evento, con caratteristiche di unicità, che possa riguardare la
famiglia, che rivesta un carattere positivo nella vita della persona.
Noi
abbiamo ritenuto che la norma dell’articolo 30 OP vada intesa in questo modo,
proprio per offrire delle opportunità tratta mentali anche a coloro che ne
siano esclusi dall’attuale legislazione.
Rispetto
alla proposta dell’eventuale aumento del numero dei giorni di permesso per
coltivare gli affetti familiari, sono favorevole, penso che sarebbe ora,
appunto, di ripensare veramente tutto l’impianto della legge e di capire quali
sono quegli aspetti della vita della persona che il trattamento penitenziario
deve cercare di valorizzare.
Cioè
gli affetti familiari laddove positivi, appunto, quali elementi di spinta verso
un proficuo reinserimento nella società.
Su
questo, sui permessi, sulle misure alternative, forse sarebbe necessario
allargare il dibattito
perché non sono strumenti così usati come
vorremmo, cioè noi vediamo che ci sono situazioni in cui appunto le persone
vanno in permesso e anche in misura alternativa, e però ce ne sono tante,
ancora troppe, in cui vediamo persone vicinissime al fine pena che sono ancora lì
inchiodate alla galera. Forse, pure su questo bisognerebbe aprire un dibattito,
anche con i suoi colleghi magistrati di Sorveglianza.
Si,
sicuramente. La magistratura in questo momento è un po’ ingessata, anzi non
lo è in questo momento, lo è da un po’. Ma oggi registriamo anche questo
cambio di rotta. Vediamo se questo inciderà in qualche modo anche su di noi,
sulle paure, su questa giurisprudenza difensiva che è stata adottata nel tempo.
Va detto che siamo in pochi, stritolati tra numeri inaccettabili e anche un
po’ isolati culturalmente. Ecco, non c’è una grande diffusione della
cultura della rieducazione, ripeto che secondo me a tutt’oggi prevale
fortemente l’idea vendicativa della pena, fortemente rispetto a quella
rieducativa.
Forse
si, ma forse si osa anche poco perché, guardi, noi con questo progetto con le
scuole, incontriamo veramente migliaia di studenti e a volte anche i genitori e
ci accorgiamo che, se le pene vengono spiegate in modo diverso, se le persone
che sono in carcere si raccontano in modo diverso, sviluppando un pensiero
critico e una consapevolezza rispetto al reato, ‘ questo desiderio di pene
vendicative lascia spazio anche ad altre idee. Ma su questa visione cattiva
della giustizia ha una responsabilità fortissima la politica, e anche
l’informazione. E secondo noi l’informazione pesa spesso anche sulle
decisioni di tanti magistrati.
Ne
sono sicurissima. Perché io stessa, quando ho avuto in mano delle vicende
pesanti, conosciute dai mass media e raccontate come casi emblematici, ho
ricevuto delle lettere di minaccia addirittura da parte di semplici cittadini,
persone che di fronte ad un permesso premio dato a chi aveva a suo tempo ucciso
i genitori, mi scrivevano indignati, sostenendo l’ingiustizia di questa
“concessione” fatta a chi non aveva dimostrato, secondo loro, sufficiente
resipiscenza. Ma è vero anche che noi, in questi casi, di fronte a questo tipo
di decisioni, siamo totalmente isolati, soprattutto culturalmente. È una
prognosi, che si deve compiere, si fa una scommessa sulla persona, una scommessa
che si basa su delle Relazioni di Sintesi, delle osservazioni fatte da altri, su
dei colloqui, ma non molto di più. E questo è, come dire? esprimere un
giudizio prognostico che può andare in mille modi, non ha dei contorni molto
certi e molto definiti.
Di
fronte poi ad una sostanziale non adesione, né da parte della politica, né da
parte dell’opinione pubblica e neanche di buona parte della magistratura
rispetto a questa idea del recupero, del reinserimento, rispetto a questa non
adesione, la magistratura di Sorveglianza è paralizzata perché di fronte al
delitto efferato, commesso con modalità efferate, di grande violenza,
l’aprire la porta e consentire di uscire è una responsabilità pesante che è
nelle mani di una sola persona: di qui la giurisprudenza difensiva degli ultimi
anni, io credo. Poi ci sono stati dei singoli casi di cronaca che hanno portato
indietro di dieci anni il pensiero e di questo noi paghiamo le conseguenze.
Chiaro
che non abbiamo avuto il coraggio dove ci sarebbe voluto del coraggio, nel
denunciare queste celle chiuse per esempio, nel dire che dovrebbero essere
camere di pernottamento, toccava a noi dire che certi diritti non possono essere
compressi. Il diritto alla salute, il diritto alla affettività, toccava a noi e
non l’abbiamo fatto. È anche vero che lo spazio che ci avevano dato è un
po’ poco.
Mediaticamente
intendo dire che non c’è stato mai quello spazio per poter esprimersi, però
io credo che sia venuto il momento di passare oltre. Vent’anni di dibattito
sulla giustizia si sono incentrati sui problemi di una singola persona e sulle
sue vicende giudiziarie e tutto ciò che ne era connesso. Oggi è un dibattito
superato, per fortuna stiamo parlando d’altro, abbiamo deciso di cambiare
passo, io credo che sia venuto il momento di dire delle cose diverse, di
provare, di osare, e soprattutto, secondo me, di elaborare un pensiero. Un
pensiero, se posso dire che sia un pensiero globale, che guidi un po’
l’azione del legislatore, che non può agire a caso ma che sia finalizzata ad
un’idea, perché è questo il punto:
quello che manca, in questa fase storica, è un pensiero globale, un
pensiero guida e quindi siamo un po’ in balia degli eventi, dei fatti di
cronaca, di ciò che viene considerato un’emergenza e questo comporta una
sostanziale precarietà di tutte le conquiste ottenute, come se dipendessero
dall’emergenza del momento. Io mi auguro che sia giunta un’epoca nuova, io
ne sono convinta, guardo tutte queste novità con molta speranza, dico la verità.
Senta
un’ultima questione che ci ha accennato prima, dei permessi di necessità, su
chi ha l’ergastolo ostativo o comunque reati ostativi. Ecco, non le sembra che
sia venuto il momento proprio di superare il 4 bis è la legge che impedisce
proprio la discrezionalità dei magistrati, là dove ci vorrebbe.
Si,
certo. Io so che la commissione Palazzo aveva elaborato delle proposte in questo
senso; io non so se i tempi siano maturi per l’abolizione dell’ergastolo,
come io penso che dovrebbe essere in un Paese civile e per rivedere le
preclusioni dell’art. 4 bis OP, ormai assolutamente fuori dalla storia. Si
tratta, infatti, di preclusioni difficilmente superabili, che limitano in
maniera pesantissima la discrezionalità del magistrato di Sorveglianza che, al
contrario, è un valore da difendere, in tutti i modi e in tutte le sedi.
Io
non so se i tempi siano maturi, certo è che anche qui occorre un po’ di
coraggio nel fare delle valutazioni caso per caso.
Intervista
a don Marco Pozza, cappellano della Casa di reclusione di Padova
Alla
persona che non ha più la libertà oggi viene sequestrato anche il cuore
Le
istituzioni hanno una grandissima responsabilità nei confronti di tutti quei
legami d’amore che sono andati spezzandosi all’interno del carcere
a
cura di Luca Raimondo e Lorenzo Sciacca
Don
Marco Pozza è sacerdote da dieci anni, i primi tre anni di sacerdozio li ha
passati in una parrocchia di Padova, poi quattro anni e mezzo li ha passati in
parte a Roma, a fare un dottorato in teologia fondamentale e un anno a Dublino,
e poi gli ultimi tre nella Casa di reclusione di Padova come cappellano. Con lui
abbiamo parlato di affetti, di amore, di intimità, e di come il carcere rischia
di distruggere i legami invece che aiutare a ricostruirli
E’
stata una scelta sua fare il cappellano in carcere o le è stato «imposto»?
Mentre
studiavo a Roma, mi era stato chiesto di andare una domenica a “tappare un
buco” a Regina Coeli, che è il carcere circondariale di Roma, e io che
appartengo, non
mi vergogno a dirlo, ad una estrazione politica e culturale molto distante dal
mondo della detenzione, e così distante da ritenere la detenzione un mondo che
deve essere tenuto nascosto perché privo di dignità, una volta che sono
entrato in carcere a Regina Coeli, ho visto che mi si sono aperti gli orizzonti,
perché i miei erano davvero gli orizzonti ristretti, come dice il titolo della
vostra rivista, per quello che riguarda il mondo dei detenuti. Di conseguenza
studiando la teologia e vivendo la realtà delle carceri di Roma, mi sono
accorto che queste due realtà si compenetrano a vicenda, cioè per me studiare
la teologia significa comunque elaborare un pensiero sul Cristianesimo, che è
la scelta di vita che io ho fatto nel mondo della chiesa, però elaborarlo
tenendo i piedi piantati per terra nel mondo del carcere vedo che mi aiuta a
trovare quell’equilibrio che poi mi è molto utile. Quindi diciamo così, che
ho giocato di anticipo con il mio Vescovo, e quando ho saputo che qui non si
trovava un prete che volesse venire ad esercitare un Ministero, mi sono offerto
io, ma proprio perché era quasi un chiedere scusa al mondo della detenzione,
per aver ragionato per trent’anni in una maniera sbagliata, solo per non aver
avuto il coraggio prima di parlare di andare a conoscere questa realtà. Quindi
è stata una scelta mia, che rifarei nonostante la fatica di questi tre anni,
soprattutto alla luce del pontificato di Papa Francesco, grazie al quale del
tema della periferia se non altro è ritornato di moda parlare, speriamo che per
i prossimi anni questa moda diventi anche storia concreta.
Lei
sa che la nostra redazione ha dato vita ad una campagna per una nuova legge che
tratti in maniera più umana gli affetti delle persone detenute. Cosa ne pensa,
anche in considerazione del fatto che nei giorni scorsi si è svolto il Sinodo
dedicato proprio alla famiglia?
Io
penso che quella che voi state combattendo, perché qui si tratta di una vera e
propria battaglia sul mondo degli affetti, è una battaglia che non dovrebbe
essere neanche necessario fare, per un semplice motivo: perché se tu ad una
persona, ma non ad una persona che ha perduto la libertà, quello è un
passaggio successivo, se tu ad una persona in stato di normalità o di apparente
normalità limiti il campo degli affetti, il campo del cuore, che quindi è il
campo della memoria, delle sue relazioni, dei suoi rapporti più intimi, già
nel mondo fuori privi la persona della grammatica migliore per poter diventare
uomo. Se tu questa privazione la infliggi a una persona che è già stata
privata della sua libertà, questa privazione, non ho paura ad usare questo
termine, diventa quasi come una forma di tortura, perché una persona che entra
nel carcere, all’istituzione ha già riconsegnato tutto, cioè l’istituzione
si è già ripresa tutto della sua storia, si è presa la sua libertà, e quando
tu prendi la libertà di una persona gli porti via la possibilità di essere
protagonista della sua storia.
Quello
che gli rimane sono gli affetti e il cuore, perché il carcere vero e proprio
secondo me inizia quando si chiude il blindato e tu sei lì che fai i conti con
la tua solitudine, ecco se in quel momento alla persona che non ha più la
libertà, non ha più relazioni, se a quella persona tu sequestri anche il
cuore, allora vuol dire veramente che la persona la vuoi far patire
all’inverosimile, ma il patimento non è la condizione migliore per rieducare
un essere umano. Quindi la battaglia degli affetti è una battaglia così
importante che se noi, e lo dico questo come uomo di fede, se noi apriamo il
Vangelo, Gesù Cristo stesso, la prima cosa che fa quando incontra le persone,
soprattutto le persone sofferenti, le persone che hanno un retroterra di
fallimento, le vite deragliate, la prima cosa che Cristo riaccende dentro di
loro è il cuore, perché il sogno di Cristo nei Vangeli è questo, che nessuna
casa sia senza la festa nel cuore.
Qui
il grande dramma è di ritornare in cella alla sera e avere il sospetto che non
c’è più nessuno ad aspettarti, e allora si capisce il collegamento tra la
disperazione, la solitudine e anche il suicidio, il carcere è sovraffollato di
disperazione, non è sovraffollato di cattiveria ma di disperazione, e sulla
disperazione il mondo del volontariato e le persone di buona volontà possono
fare tanto.
Sicuramente
le sarà capitato di vedere le lunghe file che si formano per fare i colloqui al
di fuori del carcere, la prima volta che le ha viste cosa ha pensato?
Mi
ha preso un magone, un forte senso di desolazione nel cuore, qui le mamme sono
eroiche, lo ha detto Papa Francesco in una maniera splendida qualche mese fa,
quando gli hanno chiesto: “Secondo te, come dovrebbe essere la Chiesa?”, e
lui ha usato un’immagine che per noi è stato un vento a favore e ha detto:
“Io la Chiesa la immagino come la mamma dei detenuti, perché sanno metterci
la faccia e inseguire i propri figli anche quando si perdono nei sentieri di
disperazione”. Ecco per me a vedere quelle lunghe file là fuori, da una parte
mi viene un grande senso di desolazione, perché viviamo in una città così
civilizzata, nella quale però è possibile vedere delle mamme che fanno dei
viaggi di fortuna, per venire su dal Sud Italia, o quelle famiglie che vengono
dall’estero che dormono in macchina la notte, che affrontano attese
interminabili, tre, quattro ore per avere un colloquio, ma soprattutto
dall’altra parte un senso anche di grande dignità. Quindi io spero che strada
facendo riusciamo a costruire dei percorsi di riconciliazione anche
all’interno di questa nostra città, all’interno della nostra Diocesi, per
esempio per dare modo, soprattutto le parrocchie qui del vicinato, di aprire le
porte a queste mamme, a queste famiglie che partono da lontano, che già devono
affrontare la pesantezza di un viaggio, la tristezza di un percorso anche
interiore, ma almeno che vengano qui e trovino la porta aperta per poter essere
trattate come donne, non come mamme di delinquenti, perché non lo sono.
Ha
conosciuto mamme, parenti o figli di detenuti, e se si, mantiene ancora oggi i
contatti con loro?
Voi
potete immaginare che il lavoro di un sacerdote all’interno di un carcere è
un lavoro che viaggia su livelli diversi, c’è il livello del lavoro
all’interno qui con voi, poi c’è un livello di lavoro che è altrettanto
importante per me, che è quello di sensibilizzazione all’interno della nostra
Diocesi. Tenete presente che la Diocesi di Padova ha un bacino di utenza di
1.200.000 abitanti, 456 parrocchie, voi provate a pensare se ogni parrocchia
potesse tenere aperta la porta per una famiglia, significherebbe che per circa
500 detenuti ci sarebbe un punto di appoggio nella Diocesi, è su questo che noi
stiamo lavorando, però è un cammino di sensibilizzazione da fare. Poi il terzo
livello è quello con le famiglie vostre. Significa che, io lo so che qui dentro
le esigenze possono essere tantissime per un detenuto, però quella carità
concreta che noi raccogliamo grazie a tante persone di buona volontà che ci
sono nel mondo, noi stiamo proprio cercando di usarla per questo, dare la
possibilità a qualcuno che da tantissimo tempo non riesce a riabbracciare un
bambino, una mamma, uno zio, un parente, la moglie, di dirgli: guarda questo
Natale voglio che sia un Natale diverso per te, ti offriamo noi questa
opportunità.
Ecco
allora che anche la vostra battaglia per gli affetti, voi la combattete da una
parte, noi la stiamo combattendo dall’altra parte nel nostro piccolo.
Se
le diciamo la parola intimità, la prima cosa che le viene in mente qual è?
Visto che le prime volte che si è parlato di una legge che permettesse i
colloqui intimi per i detenuti, subito i media sono riusciti a sparare titoli
come “Celle a luci rosse”…
Vi
ringrazio per la domanda, perché grazie a Dio, pur appartenendo ad
un’istituzione come la Chiesa, e una certa parte di Chiesa può essere forse
tacciata di aver sempre legato l’intimità al sesso, io personalmente mi sento
molto tranquillo nel pensare cha la prima immagine che a me viene in mente
quando sento il termine intimità è l’abbraccio fra due persone che si
vogliono bene. Per cui penso che questa battaglia sugli affetti comporterà una
grossa opera di sensibilizzazione, perché tutto quello che viene chiesto dalle
persone che sono detenute, suona sempre come qualcosa che non è giusto, perché
loro hanno infranto le leggi, perché loro non fanno più parte della società.
Invece voi fate ancora parte della società, però siete dentro queste
discariche sociali, che sono diventate le carceri, che dovrebbero avere uno
scopo preciso, che è quello di rieducare: però come si può rieducare
qualcuno, lavorando su tutta la persona ma non sul cuore? È una follia!
Serve
invece un procedimento contrario, devi partire lavorando sul cuore,
sull’intimità di una persona, perché il cuore non è solo una sede
dell’amore, attraverso il cuore passa la conoscenza. Questa questione degli
affetti in carcere è dilaniante, questo è il paese dell’illogicità, una
cosa semplice la si deve complicare all’estremo, solo per far soffrire la
persona.
Secondo
lei il fatto che le persone detenute a volte si trovino a centinaia di
chilometri di distanza da casa per trasferimenti improvvisi, per processi, per
il sovraffollamento, può provocare delle conseguenze nel loro comportamento
durante la detenzione?
Le
persone detenute non sono carne da macello, non sono come le bestie che tu
prendi a maggio e le porti in montagna e dopo a settembre le riporti giù. È
ovvio che ogni volta che uno viene coinvolto in un trasferimento è un po’
come rivivere lo shock del momento in cui sei stato arrestato. Dostoevskij nel
suo bellissimo romanzo “Delitto e castigo” lo tratteggia in maniera sublime,
è un istante il momento dell’arresto, però è l’istante che ti scompagina
tutta l’organizzazione dei tuoi affetti, della tua famiglia. Io penso che
anche il momento in cui dalla sera alla mattina ti dicono “domani sei
trasferito” è un ricominciare da capo ogni volta. E le famiglie devono
affrontare di nuovo l’organizzazione di tutto, devono passare altri giorni per
avere il permesso di ricevere telefonate, ancora attesa, quindi questi affetti
sono in balia del nulla, e capisci che le istituzioni hanno una grandissima
responsabilità nei confronti di tutti quei legami d’amore che sono andati
spezzandosi all’interno del carcere. Qualcuno di voi, e questo mi ha stupito,
non ve lo nascondo, con molta sincerità è arrivato a dirmi: “Don Marco, io
ho una condanna di tanti anni, non me la sono sentita in queste condizioni di
chiedere a mia moglie, alla mia compagna, di rimanermi accanto, le ho detto
“Fatti la tua vita!”, e questo è un gesto di onestà nel cuore. Allora io
dico, se l’affetto in carcere fosse gestito in maniera diversa, probabilmente
molte storie d’amore sarebbero
continuate,
con la conseguenza che tenendo acceso l’amore, forse il cuore non avrebbe
quell’indice di disperazione che c’è dentro. Qui la prima cosa che si deve
annunciare è che Cristo ti sta cercando per salvarti, per amarti, c’è questa
possibilità ma senza condizioni. Se però noi come Chiesa ci ostiniamo a dire
cosa si può fare e cosa non si può fare sotto le lenzuola, non è questo il
Vangelo, il Vangelo non è dirti questo si questo no, il Vangelo ha una
grandezza che mi ha sempre stupito, che è questa: il Signore attraverso
l’incontro con lui, ti aiuta a fare i gesti di tutti i giorni in maniera meno
banale possibile, questo è l’unico frammento di morale che c’è al giorno
d’oggi, tutto il resto ce lo siamo inventati noi preti ed oggi ci si sta
ritorcendo contro.
Riprendiamo
un attimo la parola “intimità”, perché purtroppo su questa parola nella
società bisogna lavorare ancora molto. Noi pensiamo che anche il calore di una
relazione fisica sia necessario, e poi per una persona che ha una condanna molto
lunga e che non ha ancora un figlio, se ci fossero i colloqui intimi questo
permetterebbe comunque di concepire e poi crescere un figlio in maniera umana,
ecco vorremmo una sua opinione personale.
Quello
che io dico è questo: certamente anche l’intimità sessuale tra due persone
ha un valore che non è marginale, è grandissimo, perché attraverso
l’intimità sessuale passa la possibilità, il progetto, il sogno, la
realizzazione di un’altra vita, la vita di un figlio. Allora solo una persona
stolta potrebbe pensare che, se una persona deve scontare vent’anni di galera,
semplicemente perché è una persona detenuta gli deve essere impedita anche
l’intimità sessuale, che non è un semplice sfogo d’istinti, ma è un
canale di comunicazione, forse il canale di comunicazione più profondo che c’è
tra due persone che si amano, quindi pensare che quando si parla di intimità
nel carcere la prima cosa che viene alla luce sia quella di una cella in cui si
fa sesso sfrenato a me rattrista, però da un certo punto di vista dico che una
responsabilità ce l’ha anche la Chiesa, perché per secoli siamo andati
avanti con questa mentalità in cui intimo significava sesso quindi peccato,
quando se Dio ha creato l’uomo e la donna e ha messo nelle loro mani la
potenzialità di costruire assieme una vita, non capisco dove sia il peccato.
E
qui ritorniamo al concetto di prima, che cos’è che il Vangelo ci insegna su
questa questione?
A
cercare di rendere meno banale possibile anche l’atto sessuale, quindi
metterci dentro quell’indice di amore maggiore che è possibile.
Io
sono convinto che se a tante persone fosse data la possibilità di vivere con
serenità la loro storia d’amore, noi oggi saremmo qui a narrarci la bellezza
di tante storie d’amore, di tanti sacramenti perché la Chiesa lo ritiene un
sacramento il matrimonio, di tanti sacramenti che sono andati a salvarsi perché
è stata data la possibilità di avvolgerli nell’intimità e non metterli alla
mercé di quattro mura di una sala colloqui, e di occhi indiscreti, perché
l’amore ha anche bisogno di confidenze, ha anche bisogno di suoi spazi, di
suoi tempi.
Questa
certo è una battaglia, la dobbiamo combattere tutti assieme, però è una
battaglia contro l’illogicità di un’istituzione e di un certo pensiero, che
ha reso illogica una cosa che non è solo logica, è naturale. La vera battaglia
dentro alla chiesa è di dire: guardate che il carcere ci aiuta ad aprire gli
occhi sul dramma di una intimità che non è solo sesso, di una intimità che ha
bisogno di avere i suoi spazi e i suoi tempi all’interno del carcere per
salvare delle storie d’amore.
Lei
ha parlato di divorzi, la società di questi divorzi non sa tanto. Secondo lei
perché i detenuti prendono a volte la decisione di lasciar libera la propria
moglie di farsi un’altra vita? E se si introducesse una legge che permette una
maggiore intimità, questo aiuterebbe ad avere un tasso più basso di divorzi?
Io
sono convinto che aprire delle finestre per fare entrare aria all’interno del
cuore, aria fresca non aria artefatta, porterebbe prima di tutto a mettere il
cuore in uno stato di consolazione, e quando il cuore è in uno stato di
consolazione, un sasso che tu ti trovi davanti è solo un sasso, ma quando il
cuore è in uno stato di desolazione e ti trovi davanti un sasso, quel sasso è
una montagna. Quando si parla assieme con voi anche nel segreto della
confessione di queste storie d’amore che scricchiolano, il rischio è quello
di prendere una decisione in una situazione che non è di consolazione, è una
situazione di desolazione, però voi lo sapete molto meglio di me che un conto
è ragionare su una storia d’amore di un uomo che deve scontare una pena di
due anni, un conto è ragionare sulla storia d’amore di un uomo che deve
scontare la pena dell’ergastolo ostativo. Certamente in questa situazione sono
fermamente convinto che più di qualche storia d’amore di quelle che ho
raccolto nel segreto delle confidenze in questi tre anni che
sono
qui con voi, si sarebbe salvata e quindi avrebbe fatto immenso piacere a Dio, al
cielo se solo ci fossero state delle condizioni più vivibili. In questo senso
qui è una battaglia che la chiesa deve sposare perché è sempre lì il
problema, la misericordia e la giustizia, la misericordia senza la giustizia è
la madre di tutte le dissoluzioni, la giustizia senza la misericordia è
l’anticamera della tortura. Io in questi tre anni mi sono preso cura dei
legami all’interno di qualche famiglia, legami che si sono spezzati, e quando
entri all’interno di queste storie d’amore senti veramente i fili che sono
messi in una tensione che non permette alla persona di essere serena.
Uno
dei principi su cui è fondata la nostra società è la famiglia, perché si fa
fatica a far comprendere alla società la disumanità che subiscono i nostri
familiari?
Per
un semplice motivo, perché la gente fuori, e io ero uno di quelli,
non riesce a fare un collegamento che se Marco Pozza che sono io prende
un ergastolo, quell’ergastolo non è solo affare di Marco Pozza,
quell’ergastolo è affare di tutta la sua famiglia, cioè se io sono sposato
quell’ergastolo lo spartisco cinquanta e cinquanta con la mia compagna, con
mia moglie, con i miei figli. Mi piacerebbe una volta assieme con voi riflettere
per esempio su una cosa che per me è sempre stata fonte di sorpresa: che
rimanere da soli moltiplica la paura, e rimanete da soli voi che siete in
carcere però voi lo sapete meglio di me che rimangono da sole anche le vostre
famiglie all’interno di un paese, abbandonate tante volte anche dalla Chiesa
del paese, dal parroco del paese.
A
fine carcerazione un marito, un padre fa fatica a riprendersi il proprio ruolo
all’interno del proprio nucleo familiare. Una legge per gli affetti lo
aiuterebbe a riprendersi il ruolo che gli compete? E poi, coltivare gli affetti
in maniera più umana secondo lei può essere una forma di prevenzione sociale,
cioè un modo perché un detenuto non ritorni a delinquere?
Noi
sappiamo che stare in carcere significa per esempio non essere presenti a casa
mentre il bambino fa i compiti, ma facciamo il caso di poter telefonare tre
volte alla settimana e tenersi informato di un bambino che va a scuola, di un
figlio che lavora, cioè sentire dalla parte del figlio che c’è un padre
presente con il cuore anche ai piccoli appuntamenti della vita quotidiana,
questo significherebbe molto per un figlio. Io non so se questo abbasserebbe
l’indice di recidiva, io sospetto molto positivamente che questo innalzerebbe
l’indice di umanizzazione di una persona che esce dopo un periodo di
detenzione. Perché vale il classico esempio, se tu prendi un cane lo metti
dentro a una gabbia e lo lasci lì dieci anni senza fare niente, se sopravvive
per dieci anni quando vede la porta aprirsi la prima cosa che fa è quella di
mordere, è rabbioso. Se tu in questi dieci anni invece lentamente gli dai
dell’acqua, gli dai da mangiare, lo curi, da selvatico riesci anche a farlo
diventare domestico, tu apri la porta della gabbia e la prima cosa che fa ti
salta in braccio. Io penso che l’uomo sia fatto nella stessa maniera, c’è
sempre questa grande sfida che noi come parrocchia cerchiamo di vivere, perché
quando si parla di un detenuto c’è un’immagine di un animale che salta alla
mente che è quella di un lupo, il lupo cattivo, il lupo che fa paura, e si cita
sempre la storia di san Francesco, del lupo di Gubbio.
Però
dobbiamo citare tutta quella storia, perché la fatica e la grandezza di
Francesco non è stata solo quella di andare nel bosco e di dire al lupo
“Lupo, guarda che si può vivere anche in maniera diversa”, ma il grande
capolavoro di Francesco, dopo aver addomesticato il lupo, è stato quello di
bussare alle porte delle case dei cittadini di Gubbio e di dire: fidatevi, il
lupo non fa più paura, apriamo le porte. E se andate a leggere la pagina dei
fioretti di san Francesco, si racconta che anni dopo, il giorno che muore il
lupo cioè l’animale cattivo, i cittadini di Gubbio si sono messi a piangere
perché si sentivano più soli. È certo che dobbiamo addomesticare i lupi, ma
guardate che dobbiamo forse addomesticare anche le persone fuori, anch’io ho
bisogno di essere addomesticato, di trovare qualcuno che mi dica di provare a
fidarmi del lupo.
Servono
più colloqui
Servono
più colloqui, più lunghi e più “umani”
Una
battaglia per figli, mogli, genitori condannati senza colpe
Se
pensate che sia giusto occuparsi anche delle famiglie più sfortunate, quelle
che oltre al dolore di avere un proprio caro in carcere si portano dietro pure
la vergogna di essere additate come colpevoli, “regalateci” la vostra firma
nel sito www.ristretti.org.
La
nostra è una battaglia che ha pochi mezzi e la sola forza delle testimonianze
che arrivano dalle carceri, e che raccontano il dolore di figli, di mogli, di
genitori, è prima di tutto per loro che vogliamo combattere
a
cura della Redazione
Ho
provato a immaginare come tu potessi vivere in un buco cosi piccolo
Caro
papà, è tua figlia che ti scrive e ho scelto di farlo qui su Facebook cosi
tutti possono leggere queste mie parole. Papà non avere mai vergogna mai!!! Tu
sei un uomo che sta scontando una pena molto pesante, e nessuno tranne te e
tutte le persone condannate a questo regime può capire ciò che vivete ogni
giorno. Quando ero più piccola mi mettevo in bagno, mi chiudevo in uno spazio
di due metri per due e cercavo di immaginarmi come potessi tu vivere in un buco
cosi piccolo, e al di fuori del mondo. Solo al pensiero ci sto malissimo perché
deve essere davvero dura. Sono passati 15 lunghi anni, 15 sono i compleanni
senza di te, 15 sono i natali e i capodanni senza di te, 15 sono gli anni che
non sei più con noi, ed è peggio’ di quando una persona è morta, perché
quando una persona non c’è più ti consoli sulla sua tomba. Ma quando sai che
tuo padre è vivo, e però è chiuso, e che non sei libera di vederlo e passarci
del tempo come vorresti, è un dolore che ti distrugge, non solo tu sei
condannato, ma lo siamo tutti noi, siamo condannati a vedere la tua vita
spegnersi attraverso quelle sbarre. E noi non abbiamo nessun potere, solo
possiamo sperare che un giorno tu ritorni tra di noi, anche se rimarrà un sogno
io ci voglio credere. Ti amo papà,
Rita
Figli
che telefonano con l’ansia dei minuti contati
di
Pasquale C.
Mi
chiamo Pasquale, sono in carcere dal 2005 e mi rimangono ancora da scontare
parecchi anni, e le più grandi difficoltà le ho per poter comunicare con i
miei figli e vederli: crescere, perché la sola telefonata ordinaria di dieci
minuti a settimana, per chi come me ha il problema di avere i figli in tenera età
e con dei disturbi psicologici, balbuzie, ansia, dovuti alla mancanza della
figura paterna, non può essere sufficiente, dieci minuti non possono certo
rendere “normali” i rapporti tra padre e figli. L’adrenalina di un ragazzo
con questo tipo di disturbi sale alle stelle in quei pochi minuti, nella foga di
raccontare quello che ha fatto durante la settimana a scuola, o con i suoi
compagni, magari una semplice partita a pallone, o la festa di compleanno di un
amico, la normalità dei racconti diventa tensione e ansia di dover parlare così
veloce perché ci sono tante cose da dire, cercando di non dimenticare niente, e
sapendo di dover subito passare il telefono all’altro fratello, alla mamma, e
poi c’è anche la nonna, il nonno e il resto della famiglia. Per questo ho
provato qualche anno fa, con apposita documentazione specialistica, a chiedere
alla direzione del carcere qualche telefonata straordinaria, e la mia richiesta
è andata a buon fine. La documentazione poi l’ho inviata anche al magistrato
di Sorveglianza competente, che mi ha concesso di usufruire ogni tanto di un
permesso speciale, e così ho potuto guardare la felicità negli occhi dei miei
figli e rassicurarli che oltre alla mamma ci sono anche io, e quindi possiamo
essere una famiglia “normale”, anche se per poche ore, nella casa di
accoglienza Piccoli passi, e non tanto di frequente, visto che la mia famiglia
vive in provincia di Reggio Calabria.
Il
disagio dovuto alla impossibilità di coltivare gli affetti, e di adempiere al
ruolo di padre, si ripercuote soprattutto nella vita quotidiana dei miei figli
con una sofferenza indescrivibile. Non poter scambiare una parola, dare un
consiglio o quant’altro un genitore possa dare ad un figlio è veramente così
doloroso, che chi non lo prova sulla propria pelle forse non può capire, ma
tutto questo è la pura e semplice verità della condizione dei detenuti nelle
carceri italiane. Carceri dove ci sono limiti pesanti per tutto, dalle semplici
telefonate di quei dieci miseri minuti a settimana, ai colloqui di sole sei ore
al mese, e oltretutto non ci sono locali adatti per poter fare un colloquio
decente con la propria famiglia senza doversi sacrificare a stare seduti in
salette comuni con altre dieci e più famiglie e sentire un rumore assordante di
voci.
Peccato
però che non ci siano invece limiti nel far stare tre/quattro persone in celle
che ne potrebbero ospitare una o due solamente.
Sentiamo
parlare spesso nei Tg dei diritti degli animali che non devono essere
maltrattati dall’uomo padrone, e quindi vengono fatte delle leggi a loro
tutela contro questi maltrattamenti, eppure tante volte abbiamo sentito anche di
alcune razze di cani o altri animali che aggrediscono chi li accudisce, ma
facciamo finta di niente cercando sempre di salvaguardarli. Se tali attenzioni
fossero rivolte anche ai detenuti, la sofferenza dei figli, delle mogli o dei
genitori si potrebbe ridurre, perché pagare per gli errori fatti non significa
essere maltrattati e umiliati, né dover sopportare di vedere di continuo la
sofferenza dei propri familiari senza poter fare qualcosa per renderla meno
pesante.
Se
si vuole bene alla propria compagna a volte si sceglie di dirle di farsi
un’altra vita
di
Luca Raimondo
Di
articoli sugli affetti delle persone detenute in questi anni ne abbiamo scritti
tantissimi, ma credo che quando si tratta delle famiglie che hanno un loro caro
in carcere non è mai abbastanza.
In
questi mesi stiamo cercando di affrontare una battaglia pacifica, che riguarda
una cosa sacrosanta che ogni essere umano dovrebbe avere, cioè l’affetto dei
propri famigliari. Basterebbe poter chiamare al telefono in maniera libera le
persone che sono importanti per la nostra vita, e avere la possibilità di fare
dei colloqui con un po’ di intimità, cioè passare del tempo con i propri
cari in una stanza, senza dover stare con venti o trenta persone che fanno il
colloquio con te e gli agenti che ti controllano, e tu non puoi dare liberamente
segni di affetto come vorresti alla tua famiglia.
Purtroppo
in questi anni su queste questioni si sono alzati polveroni: a proposito dei
colloqui intimi in carcere qualche giornale ha parlato di “celle a luci
rosse”, e quando abbiamo chiesto che le telefonate fossero liberalizzate hanno
cominciato a dire che “anche i mafiosi potrebbero telefonare a chi vogliono e
magari far fare degli omicidi su commissione”.
Ora
vi spiego un po’ come stanno davvero le cose.
Per
quel che riguarda i colloqui intimi, non si tratta affatto di spazi come case
d’appuntamento, ma cose semplici come far fare i compiti ai propri figli,
mangiare insieme come una famiglia normale, non traumatizzare i figli minori con
l’allontanamento brusco del proprio genitore, e magari evitare tanti divorzi.
Perché la fine del matrimonio è una cosa che succede tantissimo dentro le
carceri, se si vuole bene alla propria compagna a volte si sceglie di dirle di
farsi un’altra vita, perché non è giusto che una donna ti aspetti per anni
senza avere il calore di un uomo che le stia vicino, o forse perché non stando
vicino ad una persona si spegne qualcosa dentro, che con il carcere di mezzo non
si potrà mai riaccendere, e questa è una cosa che segna sia te che la tua
compagna.
Invece
a proposito della liberalizzazione delle telefonate, forse non si sa che tutte
le telefonate sono registrate, però nessuno dice che i detenuti ristretti in
regimi di alta sicurezza possono effettuare solo due telefonate al mese e chi è
nel regime duro del 41 Bis può effettuare una sola telefonata al mese, e la
famiglia è costretta a ricevere la telefonata del proprio caro nel carcere più
vicino a casa, e queste mi sembrano altre piccole crudeltà aggiuntive.
Questa
nostra battaglia per gli affetti è genuina e non stiamo chiedendo nulla di
impossibile, ma un diritto, che è quello di essere ancora degli esseri umani, e
di essere presenti nella vita delle persone a cui teniamo.
Per
questo spero che anche chi legge questo articolo aderisca ad una battaglia che dà
una speranza a chi con quella speranza ci vive, come le nostre famiglie e le
persone che per anni non vedranno più la libertà.
Per
qualche ora in più coi nostri figli
di
Carmelo Musumeci
Purtroppo
una delle cose più brutte del carcere è che non ti danno abbastanza spazio per
tentare di essere un buon padre.
In
questi giorni ho ripensato a uno dei tanti colloqui che ho fatto in questi anni
di carcere.
Fissavo
il pavimento, il soffitto, le sbarre e le pareti della mia cella. Come
un’anima in pena camminavo avanti e indietro per la stanza.
C’erano
delle volte che mi pentivo di essermi fatto arrestare vivo perché soffrivo che
i miei figli dovessero venire a trovarmi in carcere.
Per
loro avevo sognato un padre migliore di quello che ero riuscito a essere. Avevo
sempre paura di
avere
rovinato la vita anche a loro.
Stavo
aspettando il colloquio ed ero in pensiero per i chilometri che la mia famiglia
doveva fare per raggiungere il carcere. Fuori c’erano la neve e il ghiaccio.
Finalmente le guardie mi chiamarono. Si prepari per il colloquio. Risposi
subito: Sono pronto! Evitai di dirgli che ero già pronto dalla sera
prima.
Dopo
dieci minuti due guardie mi perquisirono e mi portarono nella sala colloquio.
Nella stanza c’erano già alcuni detenuti che facevano colloquio con i
parenti. La sala era pitturata dei colori del carcere.
Le
pareti di grigio e il soffitto di bianco. Il tavolaccio divisorio era consunto.
Odorava di sofferenza. Chissà quante ne aveva viste.
Dopo
pochi minuti vidi aprirsi la porta. Entrarono spingendosi insieme sia mio figlio
sia mia figlia. Quando li vidi feci fatica a respirare.
E
non riuscii a evitare che il mio cuore ruzzolasse dal petto per correre ad
abbracciarli. Io invece rimasi fermo in piedi ad aspettarli.
Stava
arrivando prima mia figlia, ma mio figlio, all’ultimo momento, diede una
spallata a sua sorella e mi abbracciò per primo.
Ero
felice di vederlo. Me lo mangiai con gli occhi. Erano mesi che non lo vedevo.
Notai che stava diventando sempre più alto. Poi venne il turno di mia figlia.
Ci baciammo, poi lei appoggiò la testa sulla mia spalla e io le accarezzai i
capelli.
La
mia compagna dietro aspettava il suo turno e vedendo che io e mia figlia non ci
staccavamo sussurrò: Ehi! Ci sono anch’io! Sorrisi.
Io
e la mia compagna restammo a guardarci per qualche istante, poi la abbracciai a
lungo. E il mio cuore si aggrappò a quello di lei.
Non ci dicemmo nulla, intimiditi dagli sguardi dei nostri figli. Ci
sedemmo sulle panche. Mia figlia mi afferrò subito la mano. Imitata da mio
figlio che mi prese l’altra.
Rimanemmo
in silenzio per qualche momento per lasciare parlare i nostri cuori. Guardai con
soddisfazione i miei figli. Erano tutta la mia vita. L’unica cosa che avevo
per essere felice. Poi parlò per prima mia figlia: Papà come stai qui?
Le
sorrisi: Bene! Sono stato fortunato che mi hanno portato proprio qui, non
potevo capitare meglio. Le nascosi che appena arrivato mi avevano
sbattuto alle celle di punizione perché mi ero rifiutato di fare
nudo le flessioni sopra uno specchio. Mio figlio scrollò la testa:
Papà, ma dici così in tutte le carceri dove ti trasferiscono. Mia figlia
fece un sorriso storto a suo fratello: Uffa! Stavo parlando io a papà.
Io e la mia compagna ci scambiammo un’occhiata. E capii
subito cosa mi stavano dicendo i suoi occhi. Te l’avevo detto che
sono ancora gelosi e quindi era meglio che te li portavo uno per volta! Alzai
le spalle e le feci un largo sorriso. Era da qualche tempo che desideravo
vederli tutti e due insieme. Mia figlia riprese parlare.
È vero però papà… in qualsiasi carcere dove ti mandano, ci dici che stai
bene, lo dicevi anche in quel brutto carcere dell’Asinara, dove non hai mai
voluto che ti venissimo a trovare. Cambiai discorso: Spero che non stiate
avendo dei problemi con i vostri amici perché avete un papà in carcere. Rispose
subito il figlio. No! Papà che
dici! Io sono fiero di te. Piuttosto è mia sorella che si vergogna con i suoi
amici figli di papà che vanno al liceo scientifico.
Mia
figlia gli diede un calcio da sotto il bancone. E stizzita negò. Non è vero
papà… preferisco solo che i miei amici non sappiano che sei in
carcere perché non voglio che pensino male di te perché sei qui. Le
feci una carezza sul viso. E fai bene! Non c’è bisogno che lo
sappiano tutti dove si trova vostro padre.
Mio
figlio intervenne contrariato: Io invece lo dico a tutti i miei amici.
Corrugai la fronte. E fai male perché non c’è nulla da essere
orgogliosi ad avere un papà in carcere. Mio figlio mi fece un
sorriso mesto. E triste. Non arrenderti papà… non arrenderti mai, noi ti
aspettiamo a casa.
Poi
parlò mia figlia. E mi guardò dritto negli occhi: Papà comportati
bene…mi raccomando non fare casini… perché se fai il bravo
sento che alla fine ti faranno uscire.
Non
avevo mai avuto paura di qualcuno o di qualcosa nella mia vita. Aveva paura solo
di deludere mia figlia. Le feci gli occhi dolci. E le sorrisi. Da quando in
qua sono i figli che dicono al padre di fare i bravi… non
dovrebbe essere il contrario?
Mia
figlia rispose al mio sorriso. Nel frattempo la guardia aveva gridato il mio
nome. Il colloquio è finito. Mi alzai controvoglia. E
rivolgendomi ai miei figli dissi: Uscite per primi… lasciatemi qualche secondo
con vostra madre. Poi mi chinai per abbracciare mio figlio che mi sussurrò:
Ti voglio bene papà. Lo abbracciai ancora più forte. Anch’io
te ne voglio. Poi venne il turno di mia figlia. Rimanemmo un attimo in
silenzio. Parlò per prima lei. Io aveva la gola secca. Papà la spesa te
l’ho fatta io… e ti ho fatto il sugo … poi mi scrivi se ti è piaciuto…
ti ho comprato anche un maglione pesante. Feci finta di non vederle
gli occhi lucidi. Lei non piangeva quasi mai davanti a me.
Ero
venuto a sapere che piangeva sempre dopo. Grazie amore… adesso vai. Lei
mi abbracciò ancora una volta. Papà, io ti vorrò sempre bene. Ti
aspetterò sempre, non mi sposerò mai fin quando non uscirai.
La
mia compagna mi abbracciò. Io la baciai. Stai attenta ai bambini. Lei mi
sorrise controvoglia. Quali bambini? Non lo vedi che i tuoi due figli
ormai sono grandi. La accarezzai Vai piano con la macchina… ti amo.
La
guardia mi aveva già chiamato tre volte per avvisarmi che il colloquio era
finito. E la lasciai andare via. E pensai con amarezza che avevano fatto tutto
quel viaggio per solo un’ora di colloquio dietro un bancone.
I
colloqui “lunghi” per pranzare insieme
Occasioni
per “umanizzare” luoghi poco umani come le galere: questo sono giornate come
quella che di recente nella Casa di reclusione di Padova ha visto i detenuti
della sezione di Alta Sicurezza incontrare per alcune ore di seguito le loro
famiglie, invece che fare i soliti colloqui striminziti della durata di una
miserabile ora, come avviene di solito. Piccole emozioni incredibili, come
quella di potersi fare per la prima volta una fotografia con i propri nipoti,
che raccontiamo attraverso le testimonianze di un detenuto e della figlia di un
altro detenuto: cerchiamo di fare in modo che questa esperienza eccezionale
diventi la normalità, per quei figli che hanno diritto a un po’ di affetto in
più.
Domenica
in famiglia, in carcere
di
Biagio Campailla
21
Settembre 2014: sembrava una domenica come le altre, invece è stata una
giornata di libertà per tutti i detenuti della sezione di Alta Sicurezza. Il
motivo è che il direttore ha autorizzato un “colloquio lungo” di alcune
ore, in via sperimentale, ai detenuti di quella sezione, per dare un segno di
rispetto e di umanità anche alle persone che sono viste come “mostri”.
Questo progetto di “colloqui lunghi” nasce dalla Redazione di Ristretti
Orizzonti, che investe molta parte delle sue energie nelle battaglie per portare
più umanità dentro le carceri italiane, e da quella che io credo sia la giusta
convinzione del direttore della Casa di reclusione, l’idea che tenere chiuse
le persone, isolandole dalle loro famiglie, significa rischiare di farle
diventare più criminali. Oggi vi racconto la mia esperienza.
Sono
un detenuto ergastolano, che aveva dimenticato anche come si mangiasse con la
famiglia seduti attorno a un tavolo, dopo tanti anni mi sembra di avere vissuto
una nuova vita, emozioni che non pensavo più di provare, invece oggi a Padova
le ho ritrovate. 16 famiglie sono arrivate da ogni parte d’Italia, e anche
dall’estero, come nel caso della mia famiglia, che proviene dal Belgio, per
pranzare con i loro cari reclusi. Tutti noi sedici detenuti, già il giorno
prima, abbiamo iniziato a preparare del cibo per consumarlo con le nostre
famiglie, con tantissime emozioni, ricordandoci di cosa apprezzavano le mogli, i
figli quando ognuno di noi si trovava a casa alla domenica a mangiare con i
propri cari.
Alle
ore 10 partiamo verso la palestra del Due Palazzi dove altri detenuti avevano
sistemato dei tavoli con le sedie, lasciando dello spazio per giocare ai
bambini, i figli, ma anche i nipotini dei detenuti. La redazione di Ristretti ha
pure incaricato un volontario detenuto di fare delle foto con i propri
famigliari, in questa occasione ero proprio io.
Così
mi sono gustato tutte le emozioni di ogni singolo detenuto, di ogni bambino,
moglie, di ogni figlio di ogni madre.
Alle
ore 10.15 arrivano le famiglie, siamo tutti pieni di gioia, emozione, ansia, chi
abbraccia i figli, le moglie, i nipotini, che per la prima volta potevano
rimanere con il nonno, cosa emozionante e dolorosa nello stesso tempo: queste
situazioni le ho vissute in prima persona, ma a vedere quegli abbracci, e
qualche lacrima, mi sono emozionato tantissimo, e ho detto a me stesso: “Anche
loro, anche i nostri cari sono nostre vittime”.
Inizio
a sentirmi chiamare, mi chiedono tutti se posso fare delle foto con i loro cari,
io mi metto subito a disposizione, dicendo alla mia famiglia di avere pazienza,
perché “anche loro è da tanto tempo che non hanno una foto che li ritrae con
i propri familiari”. Subito il mio compagno Salvatore mi dice una frase che mi
lascia raggelato: “Biagio, quando mi hanno arrestato i miei figli avevano un
anno, ho soltanto una foto del loro primo compleanno, oggi di anni ne hanno
21”.
Immediatamente
dopo viene Peppe, un’altra persona anziana, e mi dice: “È la prima volta
che conosco mia nipote, non sono stato presente neanche al matrimonio di mia
figlia, oggi ha 30 anni”. Percepisco tutti i dolori di ogni persona detenuta,
di ogni familiare. Mentre giro per fare altre foto, vedo una suora, subito mi
avvicino e le chiedo se è venuta come volontaria per questa occasione, mi
risponde con voce dolce: “No, sono venuta a trovare mio fratello!”.
Nello
stesso momento mia mamma mi dice: “Vedi, anche le suore hanno familiari in
carcere con l’ergastolo”.
Mi
richiama, suor Consuela, mi avvicino, mi accoglie con un sorriso, mi dice:
“Biagio, mi potresti fare una foto con mio fratello?”. Io a mia volta le
chiedo se posso fare una foto con lei; mi risponde: “Sono qui per tutti voi,
siete tutti i miei fratelli”. Mi sono uscite le lacrime, anche se sono una
persona non credente lei è riuscita a farmi vedere una luce diversa. Lei mi ha
spiegato che è una missionaria, io le ho raccontato il mio percorso con la
redazione di Ristretti Orizzonti, il progetto scuola/carcere, le battaglie che
facciamo, informandola della nostra battaglia per avere più telefonate e
colloqui. Ci siamo lasciati come due amici che si conoscono da vent’anni.
Altra
emozione la provo con il mio compagno Tommaso, che non aveva avuto mai una foto
con i propri nipotini, due piccolini che sembrano due angeli, e poi ancora
emozioni con Francesco, che vedo arrivare con una bambina di un anno: “Biagio,
è la prima foto che faccio con mia nipote, e con sua mamma, mia figlia”. Il
mio compagno Ernesto invece, che non ha potuto fare una foto con suo figlio di
un anno, perché la moglie non è riuscita a portarlo, mi dice: “Peccato, era
la mia occasione per avere un ricordo con lui”.
A
un certo momento arriva una famiglia in ritardo, vedo che un assistente della
Polizia penitenziaria si avvicina e mi chiede se possiamo preparare un tavolo in
più, io a mia volta gli dico: “Non vedo molta presenza di Polizia
penitenziaria”, e lui mi spiega: “Siamo sulla scalinata, vogliamo che
viviate un giorno libero, i bambini non devono vedere delle persone estranee”.
Hanno dimostrato una grande umanità, grande professionalità, rispetto verso di
noi, e per i nostri cari, mi sento di ringraziare anche loro per aver dato un
giorno di libertà a tutta la sezione di Alta Sicurezza.
Anche
le famiglie si sono unite ai ringraziamenti, per la possibilità che abbiamo
avuto di rimanere alcune ore speciali ed indimenticabili con i nostri familiari
e per tutta la felicità provata, che rimarrà un ricordo importante per tutti
quelli che hanno partecipato all’incontro di domenica 21 settembre 2014.
Un “memorabile giorno di colloquio”
di Antonio Papalia
Mi
chiamo Antonio Papalia, detenuto fin dal lontano 1992, con fine pena 31/12/9999
cioè mai.
Dopo
22 anni di carcere, grazie alla sensibilità del direttore Salvatore Pirruccio e
alla redazione di Ristretti Orizzonti che si è battuta per ottenere questi
“colloqui lunghi”, domenica 21 settembre 2014, io e altri 16 detenuti
abbiamo potuto fare un colloquio nella palestra del carcere, e per la prima
volta, anche se dentro un carcere, mi sentivo libero, poiché in tutti questi
anni trascorsi tra cancelli e muri non ho mai avuto un contatto con i miei
familiari cosi vicino e senza sentirmi osservato, come succede quando di solito
faccio il colloquio nella saletta angusta che neanche si riesce a respirare.
L’emozione
è stata forte e indescrivibile: poter sedersi al tavolo con i familiari e poter
pranzare insieme, cosa che non avveniva da ventidue anni, in quei momenti mi
sembrava di essere al ristorante.
Dopo
tutti questi anni di carcere ho anche avuto la possibilità di fare delle foto
assieme a mia moglie, mia figlia e una delle mie sei nipotine, tutto ciò per me
è stato un’esperienza bellissima, mi auguro che ci saranno tanti altri
colloqui come questo. Inoltre, ho notato che i bimbi e le bimbe quel giorno si
sono divertiti a giocare tutti insiemi avendo finalmente dello spazio
sufficiente, diversamente da quello della saletta colloqui.
Inoltre,
gli agenti si sono dimostrati dei veri professionisti nello svolgere il loro
lavoro, si sono tenuti in disparte facendoci dimenticare che fossero presenti,
per questo mi sento di ringraziare loro e tutti coloro, che si sono prodigati
per questo memorabile giorno di colloquio.
La
sofferenza di una figlia per il suo papà, che manca da una vita
di
Miriana
Ciao
sono Miriana, figlia di Pietro, detenuto a Padova da più di due anni!
Se
ora sono qui a scrivervi una lettera, è perché vorrei che riusciste a capire
come una figlia di un detenuto è arrivata al punto di scrivere a voi, degli
sconosciuti, per cercare di spiegare a tutti da quanto tempo soffro per la
mancanza di mio papà.
Avevo
solo un anno quando è stato portato via, io realmente non ricordo nulla, ero
piccolissima, e poi
sono passati tanti anni, ora ne ho 19, e da sempre ho capito tantissime cose,
che è grazie alla mia mamma e al mio papà se sono cresciuta con i piedi per
terra, perché anche se con mio papà siamo distanti, è riuscito ad essermi
vicino con i dolori e le sofferenze, e con tanto amore. Certo avrei voluto che
lui fosse accanto a me realmente, quante feste di compleanno sono passate, di
Natale, di Capodanno, i primi giorni di scuola, la mia prima comunione, la mia
cresima, e i miei 18 anni, tutti erano presenti, ma mancava la persona più
importante, il mio papà. Io vorrei davvero che tutto questo finisse, perché
soffrire tanto? Tuttora fa male, mi dispiace che non riesco ad esprimermi tanto,
avrei voluto dire migliaia di cose, ma ora solo questo riesco a dirvi.
Vorrei,
dopo tutti questi anni, un suo ritorno accanto a noi, la sua famiglia, accanto a
suo nipote, che non ha visto nascere perché lontano, rinchiuso in quelle
quattro mura. Chilometri che ci separano, e noi purtroppo non abbiamo possibilità
di andare a trovarlo sempre, di lavoro qui ce n’è poco, fosse per me andrei
fino in capo al mondo pur di stare tra le sue braccia e vederlo accudirmi come
un papà accudisce la sua propria figlia.
Per
me è indimenticabile quel giorno, in cui ho potuto stare tanto tempo accanto a
lui, abbracciarlo, così tanto che non volevo staccarmi più, ora mi manca da
morire.
Non
sarà certo questa lettera a farlo tornare da me, ma spero che possa servire a
far capire che noi famigliari soffriamo quanto lui, basta quanto ha pagato, e
quanto ancora oggi sta pagando, sia lui che io personalmente. LIBERTA’,
LIBERTA’, LIBERTA’, quanto la voglio per mio padre!
Tutto
questo non sono riuscita a dirlo quel giorno, oggi scrivendo una lettera mi
esprimo di più.
Queste
sono le sensazioni che sento dentro, ed è tutta sofferenza di una figlia per il
suo papà, che manca da una vita.
Servono
più permessi
I
permessi premio per “ritrovare” la famiglia
Erano
otto anni che non vedevo mia sorella
Quando
sono partito dal mio Paese lei aveva 21 anni, ora invece è una donna, una
mamma, una moglie
di Eduard Tcacenco
Inizio
col dire che sono entrato in carcere appena maggiorenne. Avevo lasciato la mia
famiglia e mia sorella, appena sposata, per inseguire il mio amore
adolescenziale in Italia.
Ho
sempre desiderato visitare questo Paese, ma la mia avventura è durata poco:
dopo circa un mese ho commesso un reato per cui sono stato condannato a 12 anni
e 8 mesi di reclusione. Una festa di compleanno, eravamo in tre, abbiamo bevuto
tanto e perso il controllo, un litigio violento finito con la morte di un
ragazzo. Mi sembrava che tutto il mondo mi fosse crollato addosso, mi trovavo in
un Paese straniero, senza conoscere la lingua, rinchiuso in carcere e senza la
mia famiglia. Un vero incubo, una situazione che mai avrei potuto immaginare di
vivere, ero giovane e pensavo ad un futuro diverso, pieno di obiettivi da
realizzare, soddisfazioni per me, per i miei genitori, per mia sorella.
Anche
se i miei cari erano lontani, tramite quei 10 minuti di telefonata alla
settimana, ma soprattutto tramite le lettere mi sono stati vicini, sentire le
loro voci e leggere la posta mi trasmetteva la sensazione che erano lì con me.
Ogni volta che sentivo la voce dell’agente addetto alla posta, come tutti,
speravo di ricevere notizie, per rivivere quei sentimenti di affetto e
attenzione piuttosto che l’abbandono che vivono molti detenuti che le famiglie
le hanno perse. Il Paese dal quale provengo non fa parte dell’UE e a causa di
questo era un grosso problema per i miei potermi
raggiungere in Italia, comunque, facendo dei sacrifici enormi sono
riusciti a venire a trovarmi, a sottoporsi a momenti che non sono certamente
gradevoli, lunghe attese, perquisizioni, ansia e tutto quello che subiscono i
familiari dei detenuti, vittime anche loro di quello che io ho causato.
L’unica
che non era mai venuta è mia sorella, che durante la mia carcerazione mi ha
fatto diventare zio di una “principessa”. La detenzione non mi ha impedito,
una volta giunto nel carcere di Padova, di ricercare delle opportunità per
sentirmi utile a me stesso, ma anche di dare un mio contributo a chi ho potuto
incontrare in questi ultimi anni di detenzione. Mi sono iscritto alla scuola di
Ragioneria, poi mi sono iscritto all’Università e sono entrato a far parte
della redazione di Ristretti Orizzonti, dopo un periodo di inserimento nel corso
di scrittura. In questo contesto ho avuto modo di incontrare tantissimi
studenti, grazie ad un progetto di prevenzione con il quale ci confrontiamo con
questa parte della società esterna. Agli studenti spieghiamo quello che non gli
spiegano i media, cerchiamo di far capire loro quali sono i limiti che abbiamo
superato, sperando che ascoltando il racconto delle nostre vite, possano evitare
i nostri stessi errori. Sono studenti delle superiori, alcuni delle medie
inferiori, spesso anche universitari. Dopo otto anni di detenzione, ho ottenuto
un primo permesso giornaliero proprio per partecipare al progetto “Il carcere
entra a scuola, le scuole entrano in carcere”, cosa che sicuramente mi ha
fatto crescere e mi sta aiutando in un inserimento graduale nella società e
nella vita normale di fuori. Questo mi ha permesso di incontrare mia madre non
più ai colloqui ma fuori da quelle alte mura grigie, in un mondo senza sbarre,
libero di abbracciarla, di parlarle a lungo. Mi sono trovato a calpestare spazi
liberi, in mezzo al traffico cittadino senza sentirmi continuamente controllato,
pur con la consapevolezza che dovevo rispettare le regole poste dal Magistrato
che ha approvato il mio permesso. Questo ha dato una certa serenità anche ai
miei familiari e una prospettiva futura di una vita con un po’ di serenità in
più per tutti. Ma mi mancava ancora un obiettivo, poter incontrare mia sorella.
Dopo circa sei mesi, finalmente è riuscita ad ottenere il visto e mi ha dato
questa stupenda notizia: “Veniamo a trovarti!”.
Non
riuscivo a crederci, cercavo di immaginare come poteva essere cambiata, perché
quando sono partito dal mio Paese lei aveva 21 anni, ora invece è una donna,
una mamma, una moglie. Non stavo nella pelle, poterla finalmente riabbracciare.
Ma ancora la più grande gioia era di conoscere la mia
piccola
principessa che ora ha già 7 anni. In tutta fretta ho predisposto una nuova
richiesta di permesso premio spiegando la motivazione di questo tanto atteso
incontro ed il Magistrato di Sorveglianza mi ha concesso dieci giorni: un sogno
diventato realtà. Arrivato il grande e tanto atteso giorno dell’incontro,
stavo con mia madre alla stazione dei treni ad aspettarle, quando si è fermato
il treno io guardavo a destra e a sinistra e finalmente la vedo, corro verso di
lei e ci abbracciamo, penso che non ci siamo mai abbracciati, è stata una
emozione unica. Ad un certo punto ho sentito chiamarmi “Eddy, Eddy”, mi giro
e vedo la mia nipotina con mio cognato, non ho avuto neanche il tempo di
rispondere perché mi è letteralmente saltata in braccio direttamente dal
treno, sono state le più belle emozioni e sensazioni della mia vita.
In
quei dieci giorni ogni minuto mi era prezioso e non volevo mai staccarmi da
loro, finalmente ho abbracciato mia sorella, mio cognato, la mia nipotina, con
cui dal primo giorno siamo diventati amici. Sono stati dieci giorni intensi e
belli sotto tutti i punti di vista. Sono felice che in quei giorni ci siamo
sentiti di nuovo una famiglia unita come prima.
Certo
vorrei che questo tipo di percorso fosse usufruibile da tutti i miei compagni di
sventura, ma questo non è possibile, molti non hanno più famiglia, i legami si
spezzano, sia per il reato commesso, ma spesso perché l’istituzione
carceraria non dà la giusta attenzione agli affetti delle persone detenute.
C’è il sovraffollamento, può capitare di venire trasferiti in luoghi di
detenzione lontani, lo stesso Ordinamento Penitenziario pone molti limiti alle
possibilità di coltivare gli affetti. Ecco perché nella redazione, tra i temi
che di solito trattiamo, si torna spesso a discutere e promuovere l’attenzione
della società per gli affetti delle persone detenute. Noi chiediamo che siano
finalmente permesse più telefonate, e i colloqui intimi per consentire di
ritrovarsi in ambienti protetti, provare a sentirsi in famiglia, lontano dai
controlli degli agenti penitenziari, E non come succede ora, di essere sempre
mischiati in sale assieme a tanti altri detenuti con i rispettivi parenti e
amici. Anche per il bene della società esterna è utile capire che la famiglia
è il primo passo per consentire un ritorno nella società, una volta che la
pena sarà finita. Ma se si esce senza quel percorso di rieducazione, solo dopo
una carcerazione fatta di un contenimento, anno dopo anno, in una cella a non
poter fare nulla, cosa può trovare questa persona disadattata, in una società
che ha già tanti problemi e tanti pregiudizi?
Il
carcere che uccide gli affetti
La
pena del “non amore”
Privare
un essere umano dell’amore dei suoi cari è disumano
Quando
non hai più al tuo fianco le persone che amavi un tempo, ti fai sopraffare da
quella oscurità che contraddistingue il rancore
di
Lorenzo Sciacca
Mi
chiamo Lorenzo e sono un detenuto. Oggi sono un uomo, non solo per una questione
anagrafica (ho 38 anni), ma perché ho raggiunto delle consapevolezze che prima,
accecato dall’odio, non riuscivo a vedere. Non ho più una famiglia e tornare
ad amare non è stato facile, ma anche quando, in un tempo passato avevo una
famiglia, la forma d’amore che provavo era sopraffatta da quelle che credevo
fossero ingiustizie. Non è stato facile tornare a riprovare questo sentimento
perché quando non hai più al tuo fianco le persone che amavi un tempo ti fai
sopraffare da quella oscurità che contraddistingue il rancore. Inizi a provare
disprezzo e astio per tutto quello che ti circonda. Inizi a vedere ingiustizie
ovunque, inizi a trovare ingiusta anche la tua pena, tanta o poca che sia.
Privare
un essere umano, qualsiasi errore abbia commesso. dell’amore dei suoi cari è
disumano, ma quello che provoca è la cosa più sbagliata che possa succedere a
un detenuto: si darà degli “alibi”. Sono proprio questi alibi che si darà
dicendo “voi umiliate me e la mia famiglia in questa maniera, allora
aspettatevi un giorno la mia vendetta” (è quello che dicevo io).
Vedete
io sono cresciuto con un padre carcerato anzi l’ho conosciuto in un carcere,
l’ho conosciuto dietro a un bancone e con guardie che non mi permettevano di
oltrepassarlo, anche se poi lo facevo lo stesso. Adesso che ci penso il mio
primo reato è stato proprio quello, volere abbracciare mio padre. Da bambino
ero felice di entrare in carcere perché per un’ora sarei stato in compagnia
di mio padre.
Mi
ricordo che il portone del carcere si apriva con un cigolio che ancora oggi
rammentare mi provoca un certo fastidio. Entrando, il passo delle persone che
come me e mia madre erano in attesa per fare il colloquio, era molto affrettato,
ma alla fine dovevamo fermarci tutti per le solite perquisizioni di rito. Donne
e bambini venivano perquisiti da guardie donne. Ormai era diventata una
consuetudine per me la perquisizione.
Entravo
con mia madre in questa stanzetta con per terra una coperta marrone scuro e con
impresso il simbolo dell’amministrazione penitenziaria. Salivo sopra di essa e
mi toglievo le scarpe per metterle sopra un tavolo, poi una guardia donna le
controllava al loro interno e una volta finito si chinava verso di me e mi
alzava il colletto della maglietta, toccava le tasche dei miei pantaloni e a
volte mi faceva aprire anche la bocca.
Le
procedure di controllo erano finite e finalmente, in gruppi di cinque o sei
persone massimo, entravamo dentro la stanzetta dei colloqui. Il più delle volte
i detenuti non c’erano ancora, allora ci sedevamo su queste lunghe panche in
marmo dietro al bancone dello stesso colore della panca.
Sopra
al bancone c’era un vetro di quaranta, cinquanta centimetri, proprio per
evitare il contatto con
i
nostri cari.
Arrivavano
i detenuti, anche loro con delle borse in mano, la biancheria sporca, e le
adagiavano fuori dalla stanza dei colloqui. Vedere mio padre mi provocava una
forte emozione di gioia, ero felice di vedere quell’uomo alto, magro, con i
capelli neri e sempre pettinati all’indietro. Indossava sempre una camicia e
dei pantaloni eleganti. Era sempre ordinato e sorridente.
Il
suo sorriso… mamma mia che sorriso che aveva mio padre, un sorriso che si
sdraiava in tutta la larghezza del suo volto, i suoi occhi brillavano, avevano
una luce che non aveva eguali.
Quando
entrava nella stanza io salivo in piedi sulla panca dove ero seduto, le guardie
erano subito pronte a dire qualcosa dietro a un vetro, mimavano, facevano cenni
a mia madre per farmi sedere, ma neanche mia madre aveva il potere di tenermi
fermo in quel momento, io dovevo abbracciare mio padre, io avevo il bisogno di
avere un contatto con quell’uomo che mi era stato presentato come mio padre
quando ero molto piccolo.
Quando
mi prendeva in braccio tutti i rumori che riempivano la stanza svanivano. Ero
inebriato dal suo profumo, da quel viso sempre rasato e liscio. Il più delle
volte dovevano entrare le guardie per ripristinare l’ordine, per farmi tornare
al mio posto, allora il volto di mio padre cambiava espressione.
La
fronte si corrugava e la luce dai suoi occhi svaniva. Per tutto il colloquio
rimaneva turbato, le rughe sul suo volto diventavano più marcate facendolo
apparire più vecchio, anche il suo tono di voce cambiava.
Ora
eravamo tutti composti, ognuno al proprio posto e con quel mezzo vetro davanti.
Ogni
tanto sul viso di mia madre scorrevano delle lacrime e subito mio padre si
apprestava a portare la sua mano sul suo volto per cancellare quelle tracce di
dolore, ed ecco che il suono di chiavi sbattute contro il vetro richiamava
l’ordine.
Un’ora,
un’ora intensa, un’ora per dirsi sempre le solite cose.
“Ciao
papà”
“Ciao
Lorenzo, allora come stai?”
“Bene
e tu?”
“Bene,
la scuola come va? Stai studiando?”
“Sì,
ma i miei compagni mi prendono sempre in giro”
“E
tu cosa fai?”
Non
rispondevo, erano le mie movenze che rispondevano da sole. Abbassavo la testa
perché sapevo che mio padre non approvava i miei gesti violenti.
“Lorenzo
non devi reagire così, guarda me. Io facevo le stesse cose e guarda dove
sono”. Ma io
volevo
essere lì con lui.
Poi
alzavo di colpo la testa e dicevo: “Sì però ho preso dei bei voti”. Mi
guardava con una chiara espressione di soddisfazione, mi accarezzava il viso con
quella mano grossa e calda, ma quel maledetto suono si ripeteva.
Poi
mi allontanava mandandomi a giocare con gli altri bambini presenti nella
stanzetta. Andavo, ma il mio sguardo era sempre verso i miei genitori. Vedevo la
testa di mia madre abbassarsi e quel lungo braccio di mio padre ripetere
lo stesso gesto sul volto di lei.
Piangeva
mia madre, era difficile vederla sorridere durante l’ora di colloquio, e quel
fottuto suono rimbombava nuovamente nella stanza. Mio padre rimaneva
indifferente e a volte era mia madre a prendere la sua mano e stringendola a
rimetterla al suo posto, lontano da lei. Li fissavo tutti e due.
Erano
belli.
L’ora
era finita. “Lorenzo vieni a salutare papà”, io mi avvicinavo correndo e
saltando nuovamente in piedi sulla panca abbracciavo mio padre “Ciao papà ci
vediamo sabato prossimo. Ti voglio bene”
“Mi
raccomando Lorenzo, stai vicino alla mamma che tu sei l’ometto di casa e fai
il bravo a scuola”
Una
voce di uno sconosciuto affrettava l’uscita. Mio padre si sporgeva verso mia
madre e lei faceva lo stesso, si abbracciavano. Le lunghe braccia di mio padre
avvolgevano quel corpicino esile di mia madre e ancora una volta sul viso di lei
scendevano lacrime. Non ho mai visto mio padre sfiorare le labbra a mia madre,
la baciava sempre appoggiando le labbra sulla guancia di lei tenendole una mano
sull’altro lato del viso. Si usciva contemporaneamente, solamente le strade
erano diverse.
Oggi
i colloqui non hanno più il bancone, ma non è quello che a noi interessa, a
noi interessa poter avere dell’intimità con i nostri cari e non pensiate che
la parola intimità ricopra solo il significato di “Sesso”, non banalizzate.
L’intimità è anche una carezza sul viso di un figlio, di una moglie oppure
anche un rimprovero a voce grossa per un figlio che non studia.
Questo
accanimento nei nostri confronti di riflesso demolisce i nostri cari.
Condannateci con le condanne che prevede il nostro codice penale, ma non
condannate i nostri familiari con un codice che non esiste e che è più
disumano del nostro.
Il
carcere che uccide gli affetti
Non
si può togliere la vita lasciando un’esistenza sola e senza senso né
sentimento. Un paese misura il grado di sviluppo della propria democrazia dalle
scuole e dalle carceri, quando le carceri siano più scuole e le scuole meno
carceri. La pena deve essere un diritto, se sia condanna deve poter essere la
condanna a capire e capirsi. L’ergastolo ostativo è ripugnante e indegno per
una democrazia del diritto ad essere persone giuste.
(Prof.
Giuseppe Ferraro, Docente di Filosofia Università Federico II, Napoli).
Puniti
a non amare
di
Carmelo Musumeci
La
redazione di Ristretti Orizzonti per portare umanità e affetti
nelle carceri italiane ha lanciato la campagna per “liberalizzare”
le telefonate e consentire i colloqui riservati delle persone detenute
con i propri famigliari, come già avviene in molti Paesi.
Ed
io ho pensato, per fare sapere come sono importanti i colloqui e
le telefonate per i prigionieri, di rendere pubblici alcuni brani del mio
diario di ergastolano condannato alla Pena di Morte Nascosta (come
la chiama papa Francesco) che scrivo tutti i giorni da ventitré anni
di carcere.
-
Ho telefonato a mio figlio ed è stato buffo parlare con lui perché si era da
poco addormentato e aveva tutta la voce impastata di sonno. Sia lui che sua
moglie hanno fatto nottata e quando ho telefonato dormivano tutti e due come
ghiri.
L’unico
sveglio era mio nipotino Lorenzo ed ho parlato con lui e mi ha raccontato: Michael
(il fratellino), è fuori con la zia, mentre papà e mamma
dormono, io gioco di là con la nonna. Mi ha fatto sorridere ed avevo
bisogno di sorridere.
-
Oggi mi è venuta a trovare mia figlia. Ci hanno concesso solo due ore di
colloquio. Sono stato lo stesso felice. Quando però la vedo andare via mi
commuovo perché a differenza di quando arriva, la vedo andare via con il viso
malinconico.
-
Ho telefonato alla mia compagna e quando il centralinista mi ha passato la
linea, le ho detto: Pronto!
Tana
Lupa Bella? Qui Zanna Blu! L’ho sentita ridere
e mi ha risposto.
Brutto
lupaccio… sbrigati a venire a casa che i tuoi figli sono grandi e ora sono
rimasta sola. Vorrei tanto tornare a casa
ma ormai dopo tanti anni questa più che una speranza è solo un
desiderio.
-
Sabato mi viene a trovare Lupa Bella, Coda Bianca e mi portano Lupo Lorenzo ed
ho scritto ai due direttori del carcere:
Sabato 20 aprile mi viene a trovare Lorenzo, il mio nipotino di
quattro anni. Ogni sua visita mi porta gioia e qualche dispiacere
per lui per le lunghe attese al freddo e al gelo che spesso è
stato costretto a subire. E proprio a causa di una di queste attese
e della mia giustificata reazione, in passato, ho subito un rapporto disciplinare.
Per evitare altri eventuali rapporti disciplinari ho detto a
Lorenzo di non venire proprio la vigilia di Pasqua per evitare lunghe
file fuori dal cancello del carcere anche se i bambini e gli anziani dovrebbero
avere precedenza sugli altri. L’istante è consapevole dei problemi di
sovraffollamento dell’istituto e ben sa che negli altri carceri la
problematica è ancora peggiore e (…) comunque, l’istante si accontenta di
poco e poiché nell’istituto non esiste l’area verde per i bambini, chiede
di poter portare nella sala colloqui qualche matita e qualche foglio a Lorenzo
per farlo disegnare. Spero che per una volta i motivi di sicurezza o altro siano
messi da parte.
-
Per una volta i “buoni” si sono dimostrati più umani dei “cattivi” e
ieri ho fatto un bel colloquio. Mi hanno fatto passare i fogli di carta e i
colori che avevo chiesto così ho potuto disegnare con Lorenzo.
Vedere
i miei due figli insieme mi riempie sempre di gioia, sono tanto orgoglioso di
loro. Sono l’unica ragione perché sono venuto al mondo e perché ancora ci
sto.
-
Oggi è il compleanno di mio figlio Mirko. Compie ventisei anni, l’ho lasciato
che ne aveva sei. Non ho potuto volergli bene come ho sempre sognato, ma
continuo ad amarlo con tutta l’energia dell’universo.
Il
Direttore del carcere per l’occasione, in via del tutto eccezionale, mi ha
concesso una telefonata
straordinaria
e ho appena parlato al telefono con mio figlio, sua moglie e i miei due
nipotini.
Sono
felice perché ho sentito mio figlio felice che gli ho telefonato.
-
Mi mancano i miei nipotini, mi hanno dato di nuovo la forza di vivere, di
lottare e sperare. Da quando sono nati la mia vita è diventata meno dura perché
Lorenzo e Michael tengono compagnia al mio cuore. Una persona in carcere
dovrebbe perdere solo la libertà e non l’amore invece purtroppo molti uomini
e donne in questi luoghi perdono tutte e due.
-
Ieri ho telefonato a Lupa Bella, anche se viviamo separati da tanti anni,
abbiamo sempre abitato nel solito cuore, lei nel mio ed io nel suo. A voce non
riusciamo mai a dirci tutto quello che vorremmo.
Abbiamo
solo dieci minuti poi l’Assassino dei Sogni fa scattare un’odiosa musichetta
e dopo qualche secondo la linea cade sic!
-
Ho telefonato a mio figlio Mirko, e mi ha passato al telefono sua moglie e i
miei due nipotini che sembravano due terremoti. Urlavano e bisticciavano fra di
loro e mi hanno fatto venire tanta voglia di essere con loro. Spero che questo
mese me ne portino uno dei due al colloquio. Prima soffrivo il carcere per i
miei figli, ora che sono grandi, lo soffro soprattutto per i miei nipotini.
Chissà se vedendomi così poco riusciranno ad affezionarsi a me come
sonoriusciti a fare i miei figli! Questodubbio mi fa stare male.
-
Ieri ho telefonato a mio figlio, a sua moglie Erika, e ai miei due nipotini
Lorenzo e Michael e mi hanno fatto gli auguri di compleanno a voce. Il mio cuore
è scoppiato di gioia e sono stato bene tutta la notte nel ricordare le due
vocine dei miei due nipotini che mi dicevano: Buon compleanno nonno.
-
Oggi ho fatto colloquio con i miei familiari e
mi hanno portato i regali di compleanno, tre bellissime magliette. Poi mi hanno
portato tanta roba buona da mangiare e le more di bosco che mi piacciono tanto.
Purtroppo, come al solito, l’Assassino dei Sogni rovina sempre tutto e ho
potuto fare solo un’ora e mezzo di colloquio perché hanno fatto aspettare
cinque ore i familiari fuori dalla porta del carcere.
Liberalizzare
le telefonate
Telefono nemico
Nella
società “libera” il telefono è un mezzo straordinario per comunicare, e
non a caso quando si parla di servizi telefonici che aiutano a far fronte alla
solitudine si usa l’espressione “Telefono amico”. In carcere no, in
carcere il telefono diventa ben presto “nemico” quando i dieci miseri minuti
che hai a disposizione in una settimana, per giunta in un’unica telefonata, li
devi dividere fra figli che non capiscono perché hai tutta quella fretta e una
moglie angosciata di sentirsi addosso tutto il peso della famiglia. Il dialogo
che segue è il racconto, minuto per minuto, della telefonata di un detenuto,
inframezzato dai suoi pensieri, dalle sue ansie, dalle sue paure.
“I
condannati possono essere autorizzati dal direttore dell’istituto alla
corrispondenza telefonica una volta alla settimana. La durata massima di
ciascuna conversazione telefonica è di dieci minuti”.
(Art.
39 del Regolamento penitenziario)
Dieci
minuti d’amore tra le sbarre
di
Carmelo Musumeci
Normalmente
telefono di domenica. Verso l’una del pomeriggio. Quando ho più probabilità
di trovare tutti i miei familiari a casa. Spero sempre soprattutto di trovare
Michael e Lorenzo. Sono i miei due nipotini. Li penso di giorno. E di notte. Poi
di notte. E ancora di giorno. Prima di telefonare sono sempre in agitazione. E
guardo tutti i momenti l’orologio, e rimango teso dall’ansia fino a quando
non faccio il numero di casa. Nel frattempo il pensiero dei miei figli inizia a
poco a poco a occuparmi la mente. E il cuore. Finalmente è l’orario. Sono
sempre in anticipo di qualche minuto. Non mi preoccupo tanto a casa lo sanno.
Corro nella celletta dove c’è il telefono, accosto il blindato. E faccio il
numero. Trovo la linea libera. Attendo qualche istante. Poi dalla parte del filo
sento trattenere il respiro. Di sottofondo ascolto le voci dei miei due
nipotini. Poi sento bisbigliare mio figlio.
Passami
il telefono. Ascolto un rumore di cuscino
sbattere. Sono arrivata prima io. Subito dopo
avverto un grugnito di mio figlio: Sei una stronza, tanto papà vuole
più bene a me che a te perché sono un maschio. Sento
mia figlia sospirare.
Pronto.
Da quando l’ho lasciata bambina è quasi
sempre mia figlia Barbara che prende per prima il telefono.
Amore.
Si potrebbe dire che è da ventitré anni
che mi aspetta vicino al telefono.
Papà.
È stata la prima cosa bella che i miei
occhi hanno visto nella mia vita.
Come
stai? Da quando è nata è l’energia del
mio cuore.
Bene
papà e tu? E della mia mente.
Anch’io.
Voglio bene ai miei figli anche perché sono
diventate le persone che avrei voluto essere io nella mia vita.
Ti
vengo a trovare la prossima settimana. Spesso
ho il senso di colpa di averli fatti crescere senza di
me accanto.
Va
bene amore. Ho sempre paura di non essere
stato un buon padre.
Cosa
vuoi che ti porto da mangiare? E questo
pensiero mi fa stare spesso male.
La
focaccia con le cipolle. Quando telefono
sembra che il tempo voli via.
Va
bene. E che non puoi fare nulla per
fermarlo.
Amore,
adesso passami tuo fratello. Non ho mai
capito perché quando telefono sembra che i secondi volino
via come le foglie in autunno.
Papà
ti amo. Non li puoi afferrare.
Anch’io
amore. E con il passare degli anni sembra
che i minuti del telefono diventino sempre più brevi.
Papà,
come al solito la Barbi s’è consumata tutta la telefonata lei. Se
solo ci dessero più tempo.
Lasciala
stare, sai com’è fatta. E più
telefonate.
Papà
ci sono i bambini che stanno aspettando. Mio
figlio si lamenta sempre di sua sorella.
Chi
ti passo per primo? L’ho lasciato che
aveva sette anni.
Passami
Lorenzo. Ormai è grande.
Ti
voglio bene papà. Continua però lo stesso
ad abitare nel mio cuore.
Anch’io
figliolo. Mi ha dato due meravigliosi
nipotini.
Ciao
nonno Melo. E adesso che sono anziano sono
entrambi loro il centro del mio mondo.
Ciao
amore. Ed il principio del mio universo.
Nonno
quando vieni a casa? Sono il cielo della mia
anima.
Presto.
La mia acqua nel deserto.
Ce
la fai a venire a casa prima che compio dieci anni? E
i raggi del sole che riscaldano il mio cuore.
Certo,
adesso però amore passami tuo fratellino che la telefonata sta per finire. Quando
parlo con i miei due nipotini la loro voce mi accarezza il cuore.
Ciao
nonno ti voglio tanto bene. E m’immagino i
loro visini.
Anch’io
tesoro. E mi viene ancora più voglia di
abbracciarli.
Ciao
nonno. Michael è il più piccolo.
Ciao
amore. E più scalmanato di suo fratello.
Lorenzo
dice che le telefonate dove sei tu durano così poco perché le guardie sono
cattive. Muovo la testa da una
parte all’altra.
No
amore, non sono cattivi. Poi chiudo gli
occhi.
E
allora perché non telefoni tutti i giorni? E
penso a come rispondergli.
Perché
qua la linea si prende male e dobbiamo fare a turno per telefonare. Non
voglio che imparino ad odiare lo Stato.
Amore
adesso passami la nonna perché ormai c’è rimasto poco tempo. La
sua vocina si fa più dolce.
Va
bene nonno, ti voglio bene più di Lorenzo. Spero
che i sogni a forza di crederci diventino veri.
Ciao
amore. E mi auguro di vedere crescere almeno
loro.
Adesso
è il turno della mia compagna.
Carmelaccio.
E scatta l’avviso che la telefonata sta
per terminare.
Amore
Bello. Fra trenta secondi cadrà la linea.
Il
magistrato di Sorveglianza ti ha risposto sul permesso che hai chiesto? Lei
è sempre la più scalognata.
Ancora
no. E le rimangono solo una manciata di
secondi.
E
porca miseria quanto ci mette? Non capirò
mai perché ci danno cosi poco tempo per telefonare a casa.
Non
dire parolacce che le telefonate sono registrate. Mi
sembra una pura cattiveria.
Sono
due anni che aspettiamo questa c. di risposta. In
fondo la telefonata la paghiamo noi.
Amore,
lo so, ma che possiamo farci? La presenza
della mia compagna nel mio cuore mi aiuta a vivere giorno
per giorno.
A
me dispiace per te. Senza di lei nel mio
cuore non ce l’avrei fatta.
E
a me per te. Non ce l’avrei mai potuta
fare.
Carmelaccio
sbrigati a venire a casa. Potrei fare a meno
della libertà, ma non potrei certo fare a meno del
suo amore.
Penso
che questa volta sia quella buona. Vivo
grazie o per colpa del suo amore.
Mandami
un bacino. È stato facile amarla.
Prima
mandamelo tu. Impossibile smettere di
amarla.
Cade
la linea. E mi arrabbio perché come al solito io e la mia compagna non abbiamo
avuto il tempo di mandarci neppure un bacio o di dirci qualche parola
affettuosa. Sospiro. Mi sento di nuovo solo. In compagnia solo di me stesso. E
contro tutto il resto del mondo. Ho il cuore pesante. Mi sento frustrato. E
penso che le telefonate potrebbero essere più lunghe e più numerose. Ritorno
nella mia cella come un lupo bastonato pensando al motivo perché il carcere ha
così paura e terrore dell’amore dei nostri familiari e ci proibisce le
telefonate libere e i colloqui riservati come accade negli altri Paesi. Non
riesco a trovare una risposta razionale. Penso solo che i buoni quando puniscono
non sono meno malvagi dei cattivi.
Per
fortuna non ho più la famiglia
di
Lorenzo Sciacca
Non
pensiate che sia pazzo. Mi chiamo Lorenzo e sono uno dei tanti detenuti. Vi
voglio descrivere una delle telefonate che facevo quando avevo una compagna e
soprattutto un figlio, forse solo così potrete riflettere sulla mia
affermazione.
Io
ho fatto tante carcerazioni e quasi tutte lontane da casa centinaia di
chilometri, anche più di mille, per questo la telefonata, una a settimana, per
me erano dieci minuti di grande sofferenza. Avevo preso il vizio di tenere di
fronte a me l’orologio durante la chiamata per evitare che mi venissero
“rubati” minuti, anche i secondi per me erano di vitale importanza.
Tutti
i 10 minuti erano cronometrati, ogni domanda aveva il suo tempo e la risposta da
parte della mia compagna doveva essere breve e precisa. Questa precisione era
dovuta al fatto che volevo parlare con mio figlio e lui voleva parlare con me il
più possibile. Salvatore, mio figlio, aveva un brutto male, un male che poi con
una prepotenza spietata me lo ha portato via. Beh le domande che facevo a mia
moglie erano sempre le stesse, se aveva notizia dai medici, com’era il morale
di mio figlio e lei come stava. Il suo tono di voce era molto basso ed era
percepibile che si sforzava di non far trapelare dalla sua voce tutta la
depressione e la tristezza che provava, cercava di non farmi sentire il peso
della responsabilità che avevo per la mia assenza. Poi arrivava il momento più
bello ma anche il più crudele. Mamma mia ricordare la sua voce è dura.
Scrivere certe cose è dura.
Avevo
tra le mani la cornetta e ogni volta che udivo la sua voce quel pezzo di
plastica acquisiva un’anima. La sua voce era il più delle volte debole, si
sforzava di parlare con un tono chiaro e limpido, ma per quanto si sforzasse si
sentiva tutto il suo dolore. Facevo sempre la domanda più stupida e banale che
possa esistere “come stai?”. Non ha mai risposto che stava male, mi diceva
sempre che andava meglio. Aveva 8 anni ma era intelligente, aveva già la
consapevolezza che le persone si preoccupavano per lui, che suo padre soffriva
per le sue condizioni di salute e lui cercava di alleviare il mio dolore dicendo
sempre che stava meglio. Io sapevo che non era così, ma per telefono mi piaceva
credere alle sue parole. Durante la telefonata lo immaginavo seduto sulla mia
grossa poltrona e con in mano il telefono. Solo questo potevo fare, immaginarlo.
Lo immaginavo bello, con il suo viso luminoso e con un sorriso che ti sapeva
conquistare, era fantastico il suo sorriso, ma la realtà non era quella, la
realtà è che portava sempre un cappellino perché si vergognava di farsi
vedere senza capelli, anche in casa. Per telefono non mi chiedeva mai quando
tornavo a casa, ma chiedeva quando sarebbe potuto venirmi a trovare e io gli
rispondevo sempre appena stava meglio, e sentirmi rispondere con quella vocina
che lui già stava meglio, mi dava un dolore indescrivibile.
In
quei dieci minuti mi sentivo impotente. A volte mi si stringeva un forte nodo
alla gola che cercavo di buttar giù per non far trapelare tutta la mia
disperazione nella mia voce. Poi arrivavano gli ultimi due minuti. Solitamente
un padre fa le raccomandazioni al figlio, io no, era mio figlio che le faceva a
me. Mi diceva di stare tranquillo perché lui stava bene e che presto sarebbe
riuscito a farsi quel lungo viaggio per venire a trovarmi. Ma ecco che la voce
di un estraneo si intrometteva tra me e lui “Saluti”, era la guardia che
avvisava che era finita, allora le parole assumevano un ritmo diverso da quelle
precedenti, i saluti erano molto veloci perché la comunicazione si sarebbe
interrotta da lì a breve e senza più preavviso. Odiavo sentire una parola di
mio figlio incompleta, allora cercavo di dire le ultime parole io. Poi pensavo
che anche a mio figlio avrebbe dato fastidio sentire la mia voce interrompersi,
ma era più forte di me, avevo bisogno di sentire tutte le sue parole e tutte
complete.
Mettevo
giù quella cornetta che era tornata fredda, senz’anima. Tornavo in cella e i
miei compagni mi chiedevano sempre se era tutto a posto. Forse il mio viso
faceva trapelare quello che una volta mi custodivo molto gelosamente, la
disperazione, ma poi dentro di me si riaccendeva un fuoco, un fuoco che riuscivo
ad alimentare con tutto l’odio che provavo per le persone che mi tenevano
rinchiuso e costretto a vivere lontano da mio figlio. Così la mia guerra tra me
e le istituzioni prendeva sempre più corpo e la concretizzavo comportandomi
come se stessi combattendo veramente qualcuno. Alla fine era sempre la mia
disperazione che combattevo, combattevo l’odio che provavo verso me stesso per
non essere seduto su quella poltrona con in braccio mio figlio.
Oggi non ho più la mia famiglia. Nei miei scritti voglio essere sempre sincero e con tutta onestà non so, se non avessi perso quello che per me era la mia vita, se oggi metterei tutto in discussione come sto facendo. A volte l’essere umano deve perdere qualcosa a cui tiene più di se stesso per capire, per vedere cose nuove, cose diverse dal passato, ma voi che siete all’esterno, voi che pensate che i detenuti per quello che hanno commesso non meritano di viversi la propria famiglia, i figli in maniera umana, ascoltate con il cuore le nostre testimonianze e quelle dei nostri cari. Abbiamo commesso degli errori, anche gravi, ma paghiamo con anni di carcere, non è giusto che le famiglie paghino per i nostri errori, significa solamente rispondere al male con altro male.