L’amore
che spezza la catena del male
La
forza di due donne che hanno sconfitto la rabbia e il rancore
Un
dialogo sul carcere, l’amore, gli affetti condotto dalla redazione di
Ristretti Orizzonti con la madre di un ragazzo che ha ucciso e la moglie della
vittima, miracolosamente unite per “spezzare la catena del male”
AmiCainoAbele
è una nuova associazione di volontariato, a fondarla sono state Claudia
Francardi, vedova
Irene
Sisi: Io
ho visto il carcere per la prima volta da mamma, dove stava mio figlio i
colloqui venivano fatti a un tavolo, tipo un banco di scuola, io lo potevo
abbracciare pochissimo, quindi ho sempre vissuto questa cosa come una vendetta.
Per cui sì, se possiamo aiutare in qualche modo questa battaglia per gli
affetti delle persone detenute, sicuramente siamo disposte a farlo. Per quanto
riguarda l’associazione AmiCainoAbele, i nostri obiettivi sono quelli di far
conoscere il più possibile la giustizia riparativa, dalla nostra esperienza non
ci sembra che sia messa molto in atto in Italia, ma noi siamo la dimostrazione
che è un percorso che può essere fatto.
E
quindi ci batteremo per questo, perché per noi uno dei grandi strumenti della
rieducazione passa dal fatto che vittime e persone che hanno commesso un reato
si possano incontrare e insieme possano fare un pezzo di strada.
Nel
caso di mio figlio posso dire però che la giustizia ha funzionato, a Matteo
sono stati dati tutti gli strumenti per rieducarsi, gli sono stati concessi gli
arresti domiciliari, è in comunità, è stato autorizzato ad andare
all’università. Quindi per adesso quello che si chiama recupero e
rieducazione in Matteo c’è stato, ecco perché alcune volte quando mi trovo
nelle carceri mi sento un po’ a disagio perché so che per la maggior parte
delle persone detenute non è così. Uno dei nostri punti forti sarà quello di
batterci per pene alternative al carcere e organizzare degli incontri dove
inviteremo vittime e chi ha commesso un reato a parlare, a guardarsi negli
occhi, a capire, a trovare un punto di contatto in un terreno neutro dove poter
dialogare. Queste sono le nostre idee, i nostri progetti, noi ci stiamo
riuscendo, e speriamo di aiutare altri a crederci.
Ma
vorrei anche dire che è giusto parlare di carcere, però è giusto parlare
soprattutto dei carcerati, nel senso che io tante volte mi sono ritrovata a
parlare di Matteo, Matteo ha fatto un reato gravissimo, è stato chiamato con
tutti gli appellativi possibili sui giornali.
Quando
sono andata alle messe per Antonio, la persona che lui ha ucciso, voi capite che
io ero circondata da centinaia di carabinieri, la prima volta che sono entrata
loro si sono girati e mi hanno guardato in maniera non molto amichevole,
giustamente dal loro punto di vista.
Ma
la seconda volta è andata un po’ meglio, quando ho partecipato a un convegno
su Antonio, perché agli stessi carabinieri che erano presenti io ho parlato di
Matteo, di ciò che Matteo ha fatto, di ciò che era e di ciò che vuole
diventare. E la cosa pazzesca è che quando sono uscita loro mi stringevano la
mano dicendomi di salutare Matteo, perché Matteo in quel momento, quando io lo
racconto, non è più solo il reato, ma è anche la persona. Quindi per far
capire il carcere, per far capire che cosa è la giustizia riparativa, che cosa
stiamo facendo noi c’è bisogno di raccontare storie e che le persone ci
mettano anche la faccia come abbiamo fatto noi, perché io penso che sia molto
importante cercare di dare una identità, un volto alle persone di cui stiamo
parlando, di raccontare la loro storia e di far capire che comunque sono
persone.
Claudia
Francardi: Io
sono felice di essere qui perché da quando ho cominciato a conoscere Matteo, e
sono entrata in carcere, sono stata a Volterra, sono stata a Rebibbia, sono
stata qui, mi si è aperto un mondo. Io appartenevo prima a quel mondo di
persone che si sentono “sane”, ma ecco, entrare in questa realtà mi sta
facendo un bene incredibile perché sento umanità, sento verità. Io lavoro in
banca e l’ambiente mi suscita un sentimento di estraneità, ci lavoro perché
comunque mi dà il pane, comunque mi piace fare il lavoro perché credo che poi
il bisogno di lavorare bene e di essere se stessi serva in tutti gli ambienti.
Però quando dico che preferisco stare a volte in carcere con le persone che ho
conosciuto qui dentro piuttosto che con certi dirigenti, quelli che si sentono
perfetti, che mirano solo al denaro, al potere, anche se sembrano luoghi comuni,
a me questo genera un grosso contraccolpo perché lì in quegli ambienti mi
sento ipocrita, sento tanta falsità, e nei rari momenti in cui sono stata qui
dentro o in altre carceri invece ho sentito tutta l’umanità, tutta la
sofferenza. E quindi questa vicenda terribile che mi è capitata mi ha messo a
contatto con un mondo autentico, vero, è per questo che credo in quello che
stiamo facendo profondamente, credo che Antonio, mio marito, e Matteo non si
sono incontrati per caso e che alla fine tutta questa storia sia qualcosa di più
alto che ci sta guidando. Anche perché non è facile pensare di mettere in
piedi un’associazione senza nemmeno sapere da che parte incominciare, quindi
dateci una mano perché non so dove ci porterà questa strada, ma sento che è
quella giusta, che tutto ha un senso, anche se la nostra è una storia piccola,
a confronto di tanti conflitti che stanno nascendo in tutto il mondo, e però è
anche una testimonianza che da questo piccolo seme, di amicizia invece che di
odio, può nascere qualcosa di più grande se ci diamo una mano. Anche se a
volte mi sento inadeguata, forse poi non riusciremo nemmeno a fare tutte queste
cose, però già è successo il fatto che quando ci siamo incontrati alcuni di
voi abbiano pianto, magari, come ci ha scritto Carmelo, è la prima volta che
qualcuno piangeva, e forse queste sono le grandi cose alle quali dobbiamo
puntare.
Ma
vi assicuro che è bello per me anche vedere i progressi di Matteo, in questi
giorni lui ha pubblicato questo libro di poesie e mi hanno telefonato in tanti,
giornalisti che mi chiedevano se io ero arrabbiata, probabilmente volevano
scatenare l’odio, perché oggi va di moda questo, metterci uno contro
l’altro, e quando io gli ho detto che per me è gioia vera vedere il percorso
che lui sta facendo, parecchi ci sono rimasti male, mentre qualcuno è stato
affascinato e ha voluto approfondire l’argomento. Alla fine bisogna crederci,
che ci sono dei germi di bontà, di speranza in questo mondo che sembra
veramente così chiuso, così diviso in categorie, mentre noi non vogliamo
dividere il mondo in categorie, buoni, cattivi, credenti e non credenti,
musulmani e cristiani, noi vogliamo mettere l’uomo al centro.
Io
so che quello che noi due, Claudia e Irene, stiamo facendo è un ritorno alle
origini, è un ritorno al bambino che nasce, perché un bambino, nel momento
stesso in cui esce dalla pancia della mamma, è in pace col mondo. Forse qualche
minuto dopo, magari con i genitori che se lo contendono, cominciano i conflitti,
però in quel momento è in pace. E quindi questa associazione, e il fatto che
io e Irene siamo state “illuminate” per metterci insieme, è proprio il
ritorno a quel momento. Credo veramente che siamo state illuminate perché di
associazioni ne esistono tante, però forse è la prima che vede due parti
contrapposte che si uniscono e che continuano un percorso insieme. Io credo
tantissimo in questo aspetto, del mettersi proprio sullo stesso piano, e del
resto non sono andata da Matteo per puntargli il dito addosso, sono andata lì
per camminare con lui.
Le
persone oggi sono piene di tante preoccupazioni, io lavoro in banca e veramente
c’è gente che mi viene a chiedere pochi euro perché deve arrivare a fine
mese, quindi a quelle persone non gliene frega niente delle carceri, ma
giustamente, perché hanno prima di tutto da sfamare i propri figli, però
bisogna trovare il modo giusto per parlare di temi così difficili come il
carcere, perché poi le persone, anche quelle più incattivite, quando ti
incontrano e tu gli parli di questa esperienza, ti ascoltano, però hanno
bisogno di incontrarti, di sentire questa empatia.
Oggi
si va avanti con questi maledetti slogan che vorrebbero che io condividessi
“che marciscano dentro perché hanno sbagliato e devono pagare”, non sapendo
che gli sbagli li possiamo fare anche noi. Quindi per crescere dobbiamo
veramente trovare un sistema per coinvolgere gli altri, sapendo che tutti
potremmo cadere in certe situazioni e fare degli errori, delle scelte sbagliate,
e quindi il carcere ci riguarda da vicino, e la crescita dell’essere umano che
deve scontare una pena ci riguarda tutti quanti.
Carmelo
Musumeci: Sicuramente
incontrarvi di nuovo ci fa piacere, ma nello stesso tempo voi ci “punite”,
perché ci tirate fuori il nostro senso di colpa, ci mettete nelle condizioni di
fare i conti con noi stessi. Bisognerebbe veramente cambiare le forme di
punizione che ci sono in Italia, invece di tenerci chiusi in una cella, darci più
spesso la possibilità di fare incontri come questo che sono una “punizione
costruttiva”.
Luigi
Guida:
Noi siamo riusciti a creare, qui, in redazione, anche se siamo una trentina di
persone, un ambiente intimo, privato, quello che non avviene nei colloqui con i
nostri familiari. C’è stata la possibilità di mettersi a nudo, Claudia si è
sentita di poter piangere, io mi sono emozionato come mi è capitato poche altre
volte qui. Le persone fuori dovrebbero capire che per riflettere sul male fatto
non c’è bisogno di repressione o di altro male. Mi è piaciuto prima quando
Irene ha detto che con Matteo avete cercato di parlare di ciò che è stato, di
ciò che era e di ciò che vuole diventare, il punto è proprio questo: solo
quando la società inizierà ad interessarsi di quello che veramente potremmo
diventare e non solo di quello che siamo stati, allora le persone che saranno in
carcere non rimarranno legate solo al reato che hanno commesso, ma anche a ciò
che sono e ciò che possono diventare se gli vengono dati gli strumenti per
sviluppare il meglio di sé. E di
questo non può che gioire la società e forse anche la vittima stessa e allora
si potrebbe parlare davvero di giustizia e non di vendetta.
Irene
Sisi: La
società diciamo civile pensa solo all’oggi, questo è uno dei problemi. Se
penso a mio figlio, che è stato condannato a 20 anni, chiedo: ma tra 20 anni
chi esce? E quell’uomo di 40 anni avrà a che fare con i vostri figli e con i
vostri nipoti, quindi se una società civile vuole essere tale, se lo deve porre
il problema di come uscirà tra vent’anni questa persona.
Sandro
Calderoni:
Io devo ringraziare Claudia perché quando ha parlato è riuscita con semplicità
a dire delle cose su cui ci confrontiamo spesso anche noi parlando del rapporto
con le vittime dei reati.
Per
noi il confronto è importantissimo, è attraverso il riconoscersi, lo stare
insieme, il raccontarsi che le persone si comprendono, non quando leggono o
sentono la tv. In questi incontri non viene fuori il detenuto o la vittima,
viene fuori la persona.
Lorenzo
Sciacca: Io
credo che sia anche una forma di prevenzione, tutelare gli affetti in carcere.
Tu Irene ci sei passata magari chissà quante volte, una telefonata è stata
interrotta qualche minuto prima oppure un colloquio l’hai dovuto finire, ti
hanno rubato, tra virgolette, cinque o dieci minuti.
Se
penso a quando ero ragazzo e facevo una telefonata alla mia famiglia (che poi
prima non erano dieci minuti ma sei) e si interrompeva oppure me la facevano
saltare oppure perché ero lontano da casa facevo un colloquio una volta ogni
mese o ogni due e magari mi rubavano quei 5 minuti, che sono cinque ore quando
sono con un figlio, una moglie o una madre, be’ in quei momenti lì, di
colloquio, sei la persona più umana, più sensibile, perché sei di fronte a un
tuo caro, ma poi quando il tuo caro se ne va, diventi il peggiore criminale
perché non trovi giusto che anche se hai commesso un reato devi subire queste
pene aggiuntive.
Alla
fine succedeva che il periodo trascorso ad aspettare il colloquio successivo lo
passavo in isolamento perché davo sfogo a tutto il mio nervosismo per quei 5
minuti in meno che invece mi toccavano di diritto. Per questo secondo me
mantenere un rapporto dignitoso con la propria famiglia è una forma di
prevenzione.
Irene
Sisi: Nel
periodo che Matteo è stato in carcere non ci siamo mai abbracciati, un po’
proprio per l’ambiente e un po’ perché mio figlio non riusciva più ad
avere un contatto umano, ha rincominciato ad abbracciarmi dopo un anno di
comunità. Tu lo abbracciavi e lui rimaneva come un palo. Al colloquio c’era
un semplice scambio di informazioni, “Come stai?”, “Bene”, “Mangi?”,
“Sì”. Cioè non c’era uno scambio di emozioni, lui non mi ha mai detto
“Mamma io sono preoccupato per casa, ma voi come state?”, no, era un puro e
semplice scambio di informazioni. Io uscivo dal colloquio e la maggior parte
delle volte non avevo capito niente, ma veramente niente, e mi sono sempre
chiesta perché non ci potesse essere una collaborazione tra gli educatori, la
polizia penitenziaria, il carcere, le famiglie, proprio per far sì che
lavorando tutti insieme si possano prevenire determinate situazioni, anche atti
di autolesionismo..
Ornella
Favero: Per
il ruolo che abbiamo noi rispetto all’informazione è molto significativo
quello che hai raccontato tu, Claudia, a proposito di ciò che ti è successo
quando è uscito il libro di poesie di Matteo. Quando ho letto la notizia ero
sicura che ti avrebbero cercato per chiederti se questa cosa era vissuta da te
come un’offesa. Io credo che il tuo ruolo possa essere straordinario nel
rompere questi schemi che partono prima di tutto dall’informazione, che io
sono convinta abbia una responsabilità enorme nell’incattivimento della
società e nell’idea che la pena giusta sia rispondere al male con altro male.
Claudia
Francardi: Ho
incontrato però anche alcuni giornalisti con cui si è sviluppata una specie di
empatia, per esempio conosco una giornalista che ha perso una sorella in un
omicidio stradale ed è rimasta particolarmente colpita dalla nostra storia, era
sconvolta e ora mi chiama continuamente perché vuole contribuire a promuovere
l’associazione; e poi è successo che un giornalista di Rai Due, che mi aveva
chiamato per il libro, quando ha saputo del nostro percorso si è interessato a
quello e si è quasi dimenticato del libro. Quindi alla fine anche con i
giornalisti si ripete quello che poi succede con gli altri, che quando ti
ascoltano e si crea questa empatia, poi forse le cose possono cambiare, quindi
è su questo che si deve giocare secondo me. In altri casi invece il giornalista
cerca altro e io ci casco, Irene è più scaltra in queste situazioni, io sono
veramente tonta, è successo ad esempio che mi abbiano coinvolto in una
trasmissione, “Quinta colonna”, io non guardo mai la televisione purtroppo,
quindi non conosco bene le trasmissioni, mi fido di alcuni che mi dicono che è
una trasmissione seria, mi fanno vedere la giornalista, una ragazza che viene e
mi fa un’intervista splendida. Quando è stata montata, a parte che è andata
in onda tardissimo, e meno male perché mi sono vergognata come una ladra quando
l’ho vista, hanno tagliato in un modo che non ci si capisse niente, inserita
in un contesto in cui nessuno sapeva niente, addirittura il giornalista, che è
Del Debbio, si è permesso di dire “Ah ma pensa, la signora e Irene sono anche
diventate amiche, ma che mondo strano”. Io ero allibita.
Quindi
capite quanto l’informazione sia importante, però ovviamente quando ti fanno
un’intervista completa non pensi che poi siano così deviati da deformarti, da
inserirti in un contesto in cui nessuno ci capisce niente.
Bruno
Turci: Il
percorso che avete fatto voi è davvero straordinario, è straordinario quello
che può emergere tra le persone quando si incontrano e si parlano, ecco la
giustizia riparativa è veramente un’alternativa importantissima, anche se
c’è una condanna, la giustizia riparativa restituisce qualcosa quando riesce
a fare incontrare le persone. Talvolta, anche farti incontrare chi non è la tua
vittima diretta, ma esprime comunque le ragioni di chi ha subito dei reati, è
un’esperienza estremamente significativa.
Qui
è successo parecchie volte che abbiamo incontrato vittime di diversi reati, una
volta anche casualmente, durante un incontro con una classe una studentessa ci
ha raccontato la sua angoscia, quando è arrivata a casa e si è trovata la casa
svaligiata, si è sentita violata nella cosa più sacra.
Il
suo racconto ci ha fatto capire quello che veramente percepisce una persona
quando è vittima di un reato, abbiamo provato a metterci nei panni dell’altro
per capirlo, tutto questo sicuramente ci induce a restituire qualcosa, quello
che alla vita noi abbiamo tolto, perché noi abbiamo tolto parecchio.
Irene
Sisi: Volevo
specificare una cosa. Io e Claudia è vero che siamo diventate amiche da molto
tempo, però noi per rispetto delle famiglie, di suo figlio e della giustizia,
abbiamo tenuto nascosto all’opinione pubblica e anche ai giudici il nostro
rapporto, nessuno sapeva dei rapporti che c’erano fra di noi proprio per
rispetto di tutto questo. Quindi noi abbiamo cercato di fare le cose nella
massima correttezza, questo entrambe, non abbiamo voluto in nessun modo che
Matteo fosse agevolato, a livello legale, per quello che poi era tutta la parte
umana della situazione. Quindi torno a dire, io nella giustizia ci credo, perché
tutto ciò che è arrivato a Matteo, era arrivato ancor prima. Ci tenevo a
sottolineare questo, perché ci sono proprio dei passaggi che secondo me vanno
sottolineati e tenuti a mente quando facciamo i percorsi di giustizia riparativa,
perché se no si tende anche a strumentalizzare, invece noi abbiamo cercato di
tenere separate le due cose. Questa per noi è stata una scelta fondamentale,
per fidarci l’una dell’altra.
Carmelo
Musumeci: Ritornando
al discorso sugli affetti, vorrei aggiungere qualcosa sui colloqui intimi.
Incredibilmente nei colloqui nessuno di noi si commuove, ma non è perché non
ci si vuole commuovere, ma perché è un lusso che non ci si può permettere,
nel senso che tu sei a vista di tutti i detenuti, dei familiari, quindi anche
per rispetto dei tuoi, non hai neanche il diritto di piangere, cosa che invece
potresti fare in un colloquio riservato. Naturalmente tutti pensano “Ma questi
vogliono un colloquio riservato per fare l’amore!”, ma non è così
semplice! Io vorrei fare un colloquio con i miei figli, con mia moglie, anche
solamente per piangere tranquillamente fra di noi, senza che nessuno ci guardi.
Come un po’ è accaduto qui con voi, io ho pianto più con voi che con i miei
familiari a colloquio, è questo che la gente dovrebbe capire e non pensare alle
celle a luci rosse o cose del genere.
Cioè,
incredibilmente nessuno di noi ha la possibilità di essere se stesso durante un
colloquio, perché il pianto è anche un diritto. Io non l’ho mai saputo, ma
mia figlia piange sempre quando va via, io non l’ho mai vista piangere, poi
una volta mia moglie me lo ha raccontato: “guarda che quando esce piange
sempre”. Questa figlia non si può permettere neanche il lusso di piangere
davanti a me, perché non lo può fare per rispetto verso i presenti.
Questo
è importante, sensibilizzare su questi argomenti. Incredibilmente la tua storia
Claudia ha umanizzato anche l’arma dei Carabinieri, perché prima che io
sentissi la tua testimonianza è ovvio che vedevo i Carabinieri come quelli che
devono prendermi e sbattermi in carcere, non li vedevo mai a livello umano.
Quando ho sentito la tua testimonianza, di tuo marito a casa con tuo figlio,
ecco io lì per la prima volta ho visto l’umanità del maresciallo dei
Carabinieri, non mi era mai capitato, cioè, non ci avevo mai pensato, perché
ti fai dei nemici, quando decidi di fare una scelta sbagliata come ho fatto io,
ti rifiuti proprio di pensarli come umani, perché se no non vai a commettere
dei reati. Ecco, succedono questi meccanismi, e io credo che la soluzione per
sconfiggere la criminalità sia questa che state portando voi avanti, tutte e
due state facendo un grande favore a noi, al detenuto, al carcere, ma anche
all’arma dei Carabinieri, al sistema, allo Stato. Io adesso quando vedo per
televisione un carabiniere, dopo la tua testimonianza, non riesco più ad
odiarlo, cioè lo vedo come una persona. Guarda un po’ che meccanismi.
Claudia
Francardi:
Ma vedi che pure a loro serve. Loro sono anche arrabbiati con me, però ho
notato che quando li incontriamo, comunque si sciolgono anche loro, è il solito
discorso, finché la nostra storia la sentono raccontata o la vedono in un
programma televisivo fatto male è un discorso, quando ti sentono parlare è un
altro discorso.
Sandro
Calderoni:
Ma è anche una questione di orgoglio, purtroppo non c’è niente da fare. Il
ruolo del ladro è vedere la parte avversaria, come dice lui, se no come fai a
fare qualcosa se non hai un nemico davanti? Dopo magari ci si siede, ci si parla
e poi ci si rende conto che entrambi siamo esseri umani.
Claudia
Francardi: Io
ho difficoltà a pensare al nemico, perché Antonio non ragionava così, mio
marito ha sempre ragionato in un’ottica diversa, lui aveva davvero un senso di
giustizia più alto, non era mero esercizio del suo potere, perché lui non lo
chiamava il suo potere, per lui il fine era veramente il recupero, soprattutto
quando si trattava di ragazzi. Il senso del suo lavora lo trovava ad esempio
quando un cittadino romeno l’aveva ringraziato perché lui gli aveva tolto la
patente, lo aveva ringraziato dicendogli “Mi hai tolto la patente e ho capito
che sbagliavo, ho capito i danni che facevo alla mia famiglia, soltanto stando a
casa e non lavorando, ho capito veramente i danni che facevo”, e ha smesso di
bere. Antonio ci teneva tanto al suo lavoro, ma il fine non era esercitare il
suo potere, il fine era cercare di recuperare le persone.
Anche
tra i carabinieri ci sono persone che sbagliano, ma questo discorso di ripartire
dal fare pace ci riguarda tutti, riguarda loro, riguarda anche me, riguarda
tutti quanti. A volte nell’arma si genera forse della frustrazione, io Antonio
spesso lo vedevo frustrato, perché a volte combatti, combatti e non ottieni
niente, fai delle battaglie dove fatichi per cercare di trovare la soluzione, ed
è frustrante quando vedi che non succede nulla.
Ma
non ci dobbiamo trincerare dietro la nostra posizione, cioè, alla fine quello
che stiamo facendo io e Matteo, io parlo del miracolo dell’anima che è
avvenuto a me e a lui quel giorno quando gli hanno dato l’ergastolo, io mi
sono sentita male per lui e lui mi sorrideva per dirmi di stare tranquilla.
Cioè
è una cosa che io non smetterò mai di raccontare, perché è una cosa immensa,
c’eravamo invertiti i ruoli, io mi stavo preoccupando per lui e lui si stava
preoccupando per me. Se non si arriva a questo, non si va da nessuna parte. E io
sono sicura che il bene è più forte, c’è una fiaba africana che dice che
c’è una stanza illuminata e poi c’è tutta la savana buia, se apri,
spalanchi le porte, il buio non entra dentro, non ce la fa ad entrare il buio,
anzi, è la porta spalancata che fa uscire la luce fuori, è sempre più forte
la luce.
Luigi
Guida:
Tornando alla questione dell’affettività, tu hai detto che sei cattolica,
molto credente.
Per
noi sarebbe importante che anche la Chiesa, che è sempre attenta al tema della
famiglia, sposi
questa
causa. Abbiamo paura che se la stampa riduce, come è successo in passato, la
richiesta di colloqui intimi ad una questione di sesso, allora è più
difficile. Ecco perché che una persona cattolica come te condivida questo
aspetto, cioè della necessità di un supporto agli affetti familiari anche
attraverso spazi riservati, per noi è molto importante. Si tratta anche di
salvaguardare le famiglie, le mogli, le compagne su cui ricade questa
privazione. Io non lo chiamerei sesso, la parola giusta è fare l’amore, dare
una carezza, perché detto così è dispregiativo e non bisogna dire così. Che
cosa significa, cos’è fare sesso? Sembra quasi una cosa fredda, ma
l’obiettivo non è quello, o almeno non è la questione fondamentale, lo
abbiamo spiegato appunto, è stare con un figlio, fargli una carezza, quello
significa intimità, avere degli spazi anche per piangere, se poi all’interno
di tutto questo, che è la cosa che prima di ogni altra ci preme, c’è anche
che quando non c’è il bambino presente vuoi fare l’amore con la tua
compagna, è una cosa in più.
Ornella
Favero:
Il problema esiste, anche se non credo sia una questione di ambienti cattolici o
meno, esiste il problema dell’idea che il sesso è un lusso, cioè non fa
parte della natura umana, non fa parte delle relazioni, di una vita, di una
famiglia o di una coppia, no! È un lusso, quindi la persona che sta in carcere
questo lusso non lo può avere. Ora noi la battaglia la facciamo soprattutto per
le famiglie, però non ci nascondiamo che anche questa privazione sia una cosa
disumana. Ci vuole una cultura diversa, che in tanti paesi c’è, mentre qui
ancora c’è paura, siamo uno dei paesi più arretrati da questo punto di
vista. Ristretti Orizzonti è nato nel 1998, uno dei primi temi trattati è
stato questo, allora c’era una proposta di legge sull’affettività che
prevedeva anche i colloqui intimi e tanti giornali se ne sono usciti con la
famosa espressione “celle a luci rosse”, come a dire: cosa vogliono, anche
il sesso sfrenato? Ma noi non abbiamo paura di fare questa battaglia.
Luca
Raimondo: Sono
molto felice che siete qui e che state abbracciando anche voi la nostra
battaglia sull’affettività. Io i miei figli diciamo che li ho cresciuti
tramite corrispondenza, perché la mia famiglia abita a Catania e sono 1300 km
di distanza e non si parla mai di questi detenuti, che si trovano lontani da
casa, e che purtroppo con tanti anni fatti in carcere non hanno la possibilità
di vedere i propri figli e i propri familiari. Io da sette anni non vedo mia
madre, una persona malata.
Qui
a Padova siamo anche fortunati, grazie al direttore e grazie a Ristretti che ha
fatto una battaglia per questo, ci hanno dato sei telefonate al mese, io faccio
quattro telefonate ai bambini e due a mia mamma, quei 10 minuti alla mamma
credetemi sono strazianti, perché davvero non la vedo da troppo tempo.
Per
quanto riguarda i miei figli, adesso sono più alti di me, conoscendomi dieci
minuti alla settimana vedono la figura del padre come un estraneo, non come un
padre, poi arrivi alla fine della carcerazione e cerchi di riprendere il ruolo
di padre, ma non è facile, io finisco la mia pena fra due anni, ma non voglio
che ci siano altri figli che come i miei conoscano il padre per corrispondenza.
Un’altra
cosa voglio anche dire, ci sono molti divorzi in carcere, perché? Perché se
vuoi bene veramente alla tua donna e hai un ergastolo o trent’anni o una lunga
condanna da fare, decidi tu stesso di dire a tua moglie di farsi una sua vita,
perciò oltre al disastro che rovini la tua famiglia, l’amore con tua moglie
non esiste più, i figli li perdi strada facendo, e tutte queste cose
dall’informazione non emergono mai.
Irene
Sisi: Mi
ha molto toccato quello che hai detto, cercheremo durante le nostre
testimonianze di sollevare i problemi che ci sono in carcere e questa battaglia
che state conducendo farla conoscere a tutte le persone che vengono in quel
momento ad ascoltarci, siamo con voi e cercheremo in tutti i modi di aiutarvi.
Claudia
Francardi: Io
mi sento oggi che siamo cresciuti, comunque abbiamo avuto il modo di stare più
tempo in comunione, vi prometto che io ho i miei metodi per arrivare a prendere
delle decisioni, il mio metodo è di pregarci sopra, perché io credo in questo
mezzo della preghiera, quindi chiederò ancora una volta che ci vengano
suggerite delle idee da poter mettere in pratica, e credo che prima o poi
arriveranno, insomma stanno arrivando tante cose, pensate se guardiamo indietro
adesso mi trovo qui e prima sembrava quasi impossibile, quindi con buona volontà
e preghiera credo che riusciremo a farci venire qualche idea che ci possa
portare su questa strada per poter fare veramente delle cose concrete.
Ornella
Favero: Anche
perché, parlando di giustizia riparativa, penso che le famiglie siano comunque
delle vittime, in questi anni abbiamo conosciuto tante famiglie di persone
detenute, in particolare i figli, e veramente ti accorgi dal loro racconto che
vivono le stesse cose che vive una vittima, non c’è differenza. Per esempio,
alcuni figli hanno raccontato la vergogna e la paura di parlare della loro
condizione, l’angoscia quando ti chiedono dov’è tuo padre, quindi quanto
sarebbe importante lavorare nella società per cambiare questa mentalità!
Proprio
in questi giorni parlavo con dei genitori che hanno un figlio in carcere e mi ha
colpito questa madre che diceva: io in un certo senso avrei preferito che mio
figlio fosse morto, ti colpisce se un genitore dice una cosa simile, io ho
cercato di dirle che comunque deve partire dal fatto che suo figlio è vivo, e
può cambiare, può dare una svolta alla sua vita, però ti colpisce questo
sentimento di una madre, perché pensi: in che mondo viviamo se una persona si
deve sentire talmente sola nella sua vergogna?
Quindi credo che la vostra esperienza da questo punto di vista possa smuovere tantissimo in questa società così incattivita e rabbiosa.