I
colloqui negli altri Paesi
Iniziamo
reinserendoci nelle nostre famiglie
di
Çlirim Bitri
In
occasione del seminario del 1° dicembre organizzato dalla redazione di
“Ristretti Orizzonti” sul tema dell’affettività in carcere “Per qualche
metro e un po’ d’amore in più”, ho fatto una ricerca per vedere come
funzionano i legami tra persone detenute e mondo esterno negli altri paesi,
europei e non. L’Europa con le Regole penitenziarie europee Parte I Principi
fondamentali nel 3° e 5° punto stabilisce che “Le restrizioni per le persone
detenute devono essere lo stretto necessario” e che “La vita in carcere deve
essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società
libera”. Molti Stati già avevano queste regole nei loro ordinamenti, altri ne
hanno recepito l’importanza e le hanno inserite nelle proprie leggi.
Oggi
nella maggior parte degli Stati europei chi commette reati ed è pericoloso per
la società viene messo in carcere, ma non viene lasciato solo e isolato anche
dalla propria famiglia e dai propri cari.
Quello
che mi ha colpito di più nel leggere gli ordinamenti degli altri Stati europei
è che quasi tutti, nella parte relativa ai contatti con l’esterno,
stabiliscono un limite minimo (che è molto di più del massimo previsto in
Italia) e indirizzano l’amministrazione a promuovere il più possibile i
contatti con il mondo esterno, questo allo scopo di preparare la strada per un
reinserimento nella società. In molti Stati sono previsti colloqui intimi con
il coniuge o altra persona cara. Inoltre sono previsti colloqui dove si può
trascorrere una o più giornate con l’intera famiglia.
Credo
che questi Stati abbiano messo in conto che una persona può avere un
“cattivo” genitore, o un “cattivo” figlio, ma se vuole, e quasi tutti i
famigliari di persone detenute lo vogliono, può mantenere il legame senza tante
difficoltà. Italia! Art. 27 della Costituzione, 1° comma “La responsabilità
penale è personale”, sono tanti anni che mi trovo in carcere e ancora non ho
capito che responsabilità hanno i miei cari. Possono vedermi, al massimo, in
sei ore di colloqui (controllato a vista) al mese, posso chiamarli al telefono
quattro volte (ordinarie) + due (casi straordinari o figli minori di 10 anni) al
mese e ogni telefonata può durare dieci minuti. Qualcuno mi può dire cosa
hanno fatto i miei cari?
Con
queste restrizioni ho passato circa sei anni, mi manca poco per diventare un
uomo libero ma oggi sono un uomo solo, perché questi tempi così miseri delle
telefonate e dei colloqui impedivano ai miei famigliari di farmi partecipe dei
loro problemi, e impedivano anche a loro di dirmi quanto li avevo fatti soffrire
con i miei comportamenti, perché appena il ghiaccio si rompeva ed iniziavano ad
accennarmi qualcosa finiva il tempo.
Abbiamo
anche deciso di separarci, io e la ragazza con la quale avevamo progettato di
costruire un futuro insieme, perché a colloquio con altre venti persone in una
stanza, con l’agente che sorveglia e con l’assoluto divieto di accarezzarla
o baciarla, il colloquio erano più una sofferenza che il piacere di vederci. Si
parla tanto di reinserimento nella società, ma queste condizioni mi hanno fatto
diventare un estraneo per la mia famiglia. E mi auguro però di potermi
reinserire nella mia famiglia, perché questa è la cosa che davvero mi
impedisce di “reinserirmi” in quella fascia grigia delle vecchie conoscenze,
che sono quelle con le quali ho condiviso le scelte sbagliate dei reati.
La
nostra richiesta di “liberalizzare” le telefonate ed ampliare i modi e i
tempi dei colloqui mira a dare la possibilità ai figli dei detenuti di crescere
con un genitore, ai genitori di poter stare vicini al proprio figlio (anche se
non è il migliore al mondo) e alla moglie di poter stare da sola con il proprio
marito (detenuto) e viceversa.
Ma
in Italia ci sono due magiche parole, MAFIA e SICUREZZA, basta dire queste
parole e quasi nessuno osa tentare di cambiare le cose, cose che è evidente che
non funzionano.
Quello
che però non si dice è che i detenuti realmente pericolosi sono meno del 15 %
(detto da persone autorevoli e competenti negli incontri nella nostra
redazione), io sostengo che anche i famigliari di queste persone hanno il
diritto di stare vicino ai loro cari se vogliono starci, circa 55. 000 sono i
detenuti in Italia. L’articolo 27 della Costituzione, 1° comma, dice, e
voglio ripeterlo perché è importante, che “la responsabilità penale è
personale”, chi sa spiegare davvero cosa hanno voluto dire i Padri
costituenti?
I
colloqui “riservati” dalla Lituania, all’Arabia Saudita, all’Algeria
“All’inizio
del prossimo anno, il parlamento di Algeri prenderà in esame la creazione
all’interno delle carceri di aree riservate in cui i prigionieri potranno
intrattenersi alcune ore con i rispettivi coniugi. Ne parla il quotidiano
algerino “Echorouk, che spiega come questa pratica sia già realtà nella
maggior parte dei penitenziari arabi. Il ruolo di avanguardia nel settore spetta
all’Arabia Saudita, che già nel 1978 riconosceva e applicava quello che viene
definito il diritto alla privacy legale” (notizia Adnkronos, 12 novembre
2014). L’Italia sarà pure un Paese civile, avanzato, democratico, ma sulla
questione degli affetti delle persone detenute può imparare, e molto, da Paesi
probabilmente meno democratici, ma sicuramente più civili con le famiglie dei
carcerati. I Paesi arabi, per esempio, non hanno nessuna paura a permettere i
colloqui intimi. E non ne hanno molti Paesi dell’Est Europa, come racconta la
testimonianza di un detenuto lituano, in carcere in Italia.
Pensavo
che il mio Paese fosse tra gli ultimi, oggi scopro che è più innovativo di
altri
di
Saša,
Casa circondariale di Venezia, redazione L’Impronta
Nel
mio paese, la Lituania, il problema dei colloqui intimi tra detenuti e
famigliari non c’è mai stato. Da noi, ancora molti anni fa, i famigliari
potevano venire una volta ogni tre mesi a trovare il loro caro detenuto per tre
giorni interi, giorno e notte avevano a disposizione una stanza grande adibita a
soggiorno e una camera per dormire. Adiacente c’era una cucina condivisa,
separata da una porta, per cucinare con le famiglie di altri detenuti.
Ciò
permette alle famiglie di restare unite malgrado la detenzione del capofamiglia
e di poter passare insieme del tempo importante per i figli che magari, essendo
piccoli, non possono capire o conoscere il motivo per il quale il proprio padre
non vive più con loro. Così si diminuisce quel senso di abbandono che assale i
bambini non vedendo l’altro genitore con costanza.
Se
questo avveniva già nel passato, immagino che oggi le condizioni siano
notevolmente migliorate vista l’importanza che il mio Paese riconosce a tutto
ciò, ed in maniera particolare al problema della lontananza dei propri cari per
chi sta in carcere e quindi delle difficoltà che riguardano l’unione
famigliare.
La
mia breve esperienza in un carcere francese
La
vita quotidiana, lavoro per tutti e telefonate “libere”: ecco qualche
ricordo della galera a Parigi, prima di un’estradizione in Italia
di
Rachid Salem
Prima
di essere trasferito in Italia, sono stato arrestato in Francia, dove ero
latitante. Così ho visto un po’ delle galere francesi e vorrei raccontare la
mia esperienza. È successo a Parigi nel 2003, e dopo tre giorni di fermo in
questura, sono stato portato in un carcere di quelli che in Italia chiamano
giudiziari.
Appena
sono entrato sono stato visitato dal medico di turno e dopo due ore mi sono
trovato dentro una cella di circa 9 metri quadrati con un ragazzo francese. Io
sapevo un po’ come funzionano le cose in generale nelle carceri, ma delle
galere francesi non sapevo nulla. Per fortuna parlavo francese, così non ho
trovato problemi particolari. Il ragazzo in cella con me era un ragazzo
tranquillo e sostenuto dalla famiglia, quindi non ho dovuto affrontare le
difficoltà che nascono nelle celle di quelli che non hanno nulla.
Ricordo
che era novembre e c’erano le feste in arrivo. Mi sono sistemato la mia roba e
poi abbiamo parlato un po’ del perché ero dentro e lui mi ha raccontato di sé.
Poi ho cominciato a chiedergli come funzionava il sistema del carcere. Intanto,
ed è la cosa che mi ha stupito di più, la televisione era a pagamento, 7 euro
alla settimana. Gli ho chiesto cosa fanno quelli che non hanno la possibilità
di pagare questa somma ogni settimana, e mi ha risposto che era difficile
trovare una cella senza tv perché la maggior parte dei detenuti aveva la
possibilità di lavorare. Attaccata al muro di cinta del carcere c’era una
cooperativa di lavoro dove erano impiegati quasi tutti i detenuti.
Solo
alcuni detenuti con reati gravissimi non potevano lavorare in quel posto perché
si temeva che tentassero la fuga. Poi mi ha detto che si poteva avere uno sconto
di pena, quella che in Italia chiamano “liberazione anticipata”, in Francia
se uno si comporta regolarmente può avere ogni mese uno sconto di 7 giorni.
Per
telefonare a casa gli imputati dovevano fare la richiesta e presentare la
bolletta del telefono della propria famiglia. Per quanto riguarda le altre
carceri, dove stavano i condannati definitivi, mi ha raccontato che c’era la
cabina telefonica ai passeggi e si poteva chiamare qualsiasi numero, bastava
avere soldi sul libretto per comprare la scheda telefonica. Il mio compagno di
cella aveva la sua famiglia, che non gli faceva mancare niente, e aveva comprato
anche un videogame “Playstation 2”,
e così passava le serate tranquillo senza dare fastidio. E mi ha raccontato che
nelle carceri per definitivi si poteva comprare anche il frigorifero. Inoltre
nella spesa, ogni due settimane, si potevano ordinare anche vestiti, il che era
importante per gli stranieri che non avevano chi gli mandava la roba per
cambiarsi. Il giorno dopo sono stato chiamato dall’educatrice. Io ero stato
arrestato perché ricercato in Italia, e con lei ho parlato della mia storia,
della possibilità di essere estradato e di molto altro. Inoltre mi ha aiutato a
parlare con il consolato della Tunisia ed è sempre stata disponibile con me.
Dopo
due mesi mi hanno messo a lavorare in cella, perché non potevo lavorare ai
capannoni della cooperativa, visto che avevo un reato grave. Così ho passato
circa dieci mesi, otto dei quali lavorando, finché non sono stato estradato in
Italia.
Il
paradosso è che mi manca il carcere spagnolo
E
mi rattrista pensare che sento la mancanza di un carcere
di
Federico T.
Il
29 aprile 2011 l’aereo dell’Alitalia atterrava a Milano, ed io ero ancora
ignaro del calvario soprattutto “affettivo” che avrei dovuto sopportare da
quel giorno ad oggi.
Mi
chiamo Federico e sono stato estradato per un residuo pena di 15 anni e tre mesi
dalla Spagna, dove stavo scontando una pena di cinque anni.
In
quei cinque anni avevo dimenticato cosa voleva dire essere ristretto in un
carcere italiano, e sinceramente dopo 12 anni dalla mia ultima permanenza nelle
patrie galere, speravo che le cose fossero cambiate almeno un poco.
Invece
al mio arrivo al carcere di Opera, l’aria cupa e di repressione mi colpì
immediatamente. Il pensiero volò a quei tre figli che continuavano a seguirmi e
alla famiglia, sapendo che anche loro avrebbero affrontato una condanna per
colpa mia e di un sistema che porta ad eliminare tutti gli affetti.
E
così fu, sapete non è facile scrivere queste righe senza che la rabbia prenda
il sopravvento sulla mia penna e tutto si riduca ad una mera lettera di lamento.
Arrivo
dunque dalla Spagna dove potevo chiamare la famiglia cinque volte la settimana,
così cercando di aiutare i miei cari nelle decisioni quotidiane, dando conforto
alla mia compagna e ai miei figli che subivano le decisioni sbagliate della mia
vita.
Adesso
invece il vero dolore nasce dalla situazione carceraria italiana, dove i bambini
si sentono abbandonati completamente dal genitore, e finiscono spesso per
pensare di essere responsabili di quest’abbandono. Come spiegare che non puoi
chiamarli perché una legge assurda te lo vieta?
Poi
in Spagna avevo la possibilità una volta al mese di stare con la mia compagna
in intimità, e non è come pensano i benpensanti una questione di sesso. Perché
dico la verità il sesso è una componente relativamente piccola del colloquio
intimo. Ma sapete cosa vuol dire per tante donne rimanere sole, lontano dalla
persona amata, con tutte le responsabilità di una famiglia sulle proprie
spalle? E la possibilità di passare due ore con il proprio compagno diventa uno
scoglio a cui aggrapparsi, una speranza e un momento dove potersi sentire amati
ancora.
Il
momento che più ricordo era quando la sua testa si appoggiava al mio petto, e
nel momento che la coccolavo e cercavo di rassicurarla iniziava a piangere, un
pianto lento liberatorio. Per me era difficile, e mi faceva sentire tutto il
peso delle mie azioni. È in quel momento che capisci realmente cosa è
importante e cosa hai perso.
Poi
inizi pian piano a parlare con lei e cerchi di trovare una soluzione, e questo
colloquio dopo colloquio, cresce, riesci quasi a vivere una vita normale, dove
puoi far parte di quella famiglia che poi il giorno che uscirai sarà lì ad
aspettarti.
Ma
la Spagna non è solo il colloquio intimo, ci sono anche i “Colloqui
famigliari e di convivenza”, uno è il colloquio con la famiglia di due ore al
mese dove puoi passare il tempo con i tuoi cari trovando quella intimità
necessaria per recuperare un punto d’incontro.
Invece
il “Colloquio di convivenza” sono sei ore trimestrali che si possono
prendere assieme una volta ogni trimestre o due ore mensilmente dove i piccoli
passano il tempo con i papà. Questo colloquio è proprio per loro, la sala è
attrezzata con giochi e tappeti dove un padre può ritrovare un po’ di intimità
persa.
In
queste sale ho visto effettuare i primi passi al mio piccolo Luigi, gli ho
insegnato a scrivere il suo nome e ho visto lo sguardo della mia compagna
riempirsi di lacrime più di una volta.
Invece
in Italia non è così, ti riduci ad essere un ammalato, quel padre lontano che
non sa che suo figlio non va bene a scuola e che la compagna ha perso il lavoro,
e tu mister nessuno non hai potuto neanche dirle “mi dispiace”.
Alla
fine sono sempre sei ore al mese di colloquio ma la differenza è abissale. Ecco
è questo che mi manca della Spagna, e mi domando cosa aspetta una nazione come
la nostra a capire che rompendo una famiglia si creano solo situazioni di
disagio. Vedove e orfani di persone vive, i cosiddetti carcerati.
Sapete qual è il paradosso, mi manca il carcere spagnolo, e mi rattrista pensare che sento la mancanza di un carcere. Da qui si può capire che condanna stiamo passando in Italia.