Una
storia d’amore “nonostante la galera”
La
storia di Tanja inizia con una famiglia dove una bambina vede la madre picchiata
dal padre e assorbe da subito quella violenza, e diventa a sua volta violenta e
insofferente delle regole. Crescendo, trova “riparo” dalla sofferenza nella
droga, e finisce per distruggersi del tutto la vita. E inevitabilmente per lei
arriva la galera, perché questo è l’epilogo delle storie che hanno a che
fare con la droga: dalla galera non si salva nessuno, anche se tutti continuano
a dire che per i tossicodipendenti il carcere non serve, non è la soluzione di
nulla. E quella di Tanja però è una storia anche di speranza, perché Tanja in
carcere durante le ore d’aria è riuscita a conoscere un ragazzo, e lei che
viveva “di odio e rabbia” è tornata a sperare in una vita diversa. Ma il
carcere di possibilità di aver cura dei propri affetti ne concede ben poche:
ecco perché dalla Casa di reclusione di Padova abbiamo lanciato una campagna
per “un po’ di amore in più”: più telefonate e possibilità di colloqui
intimi con i propri cari per le persone detenute, come avviene nelle carceri dei
Paesi che davvero possono dirsi civili. E abbiamo chiesto a uomini e donne
reclusi di raccontare che cosa significa per loro cercare di “salvare gli
affetti” nonostante la galera. Cominciamo allora con la testimonianza di Tanja.
Scelte
che rovinano, scelte che ridanno la voglia di vivere
di
Tanja S.
Sangue.
Ognuno penso abbia il suo primo ricordo dell’infanzia. Il sangue è il mio.
Ricordo solo tanto fracasso, oggetti che andavano ad infrangersi contro i muri,
poi il silenzio. Mia madre teneva le mani premute contro la bocca, mio padre
aveva lo sguardo perso ma consapevole di chi l’aveva fatta grossa, la pozza
rossa si allargava ai piedi della “donna ferita”, ma si notava qualcosa di
bianco sparso qua e la, gli occhi di una bambina spaventata non avevano capito
che a causa dell’ultimo colpo che aveva subito la madre non aveva più i denti
davanti. Io sono scappata nel letto ad abbracciare il mio fedele orsacchiotto,
ero troppo piccola per poter intervenire, per fare qualcosa. Mia madre mi è
venuta dietro sicuramente, era più preoccupata per me che per la sua bocca, si
è buttata tra le mie braccia, vedevo il sangue scorrermi addosso e mi ricordo
che pensai che ormai anche le sue lacrime fossero diventate di sangue. Arrivò
anche mio padre, piangeva anche lui e in ginocchio abbracciò le “sue donne”
… Proprio un bel quadretto di una famiglia distrutta. Quello che succede
dentro le mura domestiche, la violenza che i bambini sono costretti a
“mangiare” e le donne a subire rimane quasi sempre lì, i panni sporchi si
lavano in casa a meno che non scappi il morto o meglio la morta. La mia è una
storia come tante, anzi sicuramente c’è chi ne ha passate peggio di me, ma io
voglio raccontare di me e spero di non annoiare ma soprattutto di non subire
giudizi per la scelta sbagliata che quella bambina ha fatto tanti anni fa. La
violenza avrebbe dovuto spaventarmi, contrariarmi, avrei dovuto capire bene il
grosso sbaglio di mio padre, ma non andò così.
Lui
ripeteva sempre che a lavare la testa all’asino si perde acqua e sapone, che
in parole povere per me significava che se le persone non capiscono è inutile
perdere tempo, mazzate e basta. A scuola un putiferio, quella povera donna di
mia madre veniva convocata di continuo, per me le regole le dettavo io ed era
all’ordine del giorno aspettare qualcuno fuori per mandarlo a casa fracassato
di botte. In quartiere non era diverso, risse, sempre risse, anzi i più piccoli
venivano picchiati spesso dai “vecchi”, dovevano farsi le ossa. Alla faccia
della spina dorsale, siamo arrivati quasi tutti a finire di fracassarci
nell’eroina.
I
miei quando avevo diciott’anni si sono lasciati, altro che trauma, per me è
stata una liberazione, la guerra era finita e così sembrava, ma nessuno ne è
uscito vincitore, per tutti e tre è rimasto il sapore amaro della sconfitta,
perché nessuno è stato in grado di avere un briciolo di obiettività, nessuno
è riuscito a prendere le redini in mano. Mia madre era piena di rancore, mio
padre pensava per sé e io, io che ero l’unica che poteva cambiare e cercare
di cambiare le cose, mi sono caricata solo di rabbia e frustrazione che ho
riversato contro me stessa, contro il mio corpo. Pastiglie, ecstasy, cocaina e
discoteca, poi anoressia e bulimia.
Una
sera ero in giro per il quartiere e non si trovava niente di niente, ho
incontrato un tossico, uno “sbusino” come chiamavo io quei reietti che si
bucavano. Non sputare in cielo che in faccia ti torna, ho cominciato anche a
bucarmi, sono diventata una “sbusina” anch’io.
Per
raccontare tutto quello che è successo in 14 anni di tossicodipendenza dovrei
scrivere un libro,
potrei
far “sbregare” dal ridere ma sono sicura anche commuovere, noi drogati siamo
vittime ma anche carnefici.
Adesso
sono in carcere a scontare i miei errori e oggi, visto che sono anche in
isolamento, visto che le regole le schifo anche qua, mi sono messa a riflettere
con la mia amica penna. Ho parlato del mio passato forse per non pensare a
quanto mi spaventava il futuro. In questo posto dimenticato da Dio, ma anche
dalla Giustizia, perché chi non si piega se la deve fare da solo, è successo
un miracolo. Io che vivevo di odio e rabbia sono crollata davanti all’uomo che
ho sempre sognato, che non pensavo mai e poi mai di poter incontrare, e invece
mi sono, ci siamo innamorati davvero. Viviamo allo stesso numero civico, ci
possiamo vedere e parlare poche ore all’aria e nella mia vita non ho mai
sentitocosì vivo dentro di me il bisogno di un piccolo contatto. Siamo esseri
umani e ci viene negata la possibilità di scambiarci una carezza, di appoggiare
le labbra sulla bocca della persona che ami e che sarà il tuo sposo, per
vederci dovremo mettere una firma qua, dicono che è squallido ma io me ne frego
e penso solo al giorno che dirò: “Si, lo voglio!” davanti a nostro Signore.
Stavo precipitando, Dio mi hadato gli occhi per scovare una
rosa nel deserto. Però ogni giorno ci troviamo davanti sempre ostacoli.
Sembra che il destino stia facendo
di
tutto pur di dividerci. Renzo e Lucia delle Patrie Galere! Ma come per loro,
anche dopo mille peripezie, la storia avrà un lieto fine.
Per
me lui è come se fosse già mio marito e nessuno in terra può dividere chi è
unito in cielo. La vita mi ha insegnato che non succede un male che non ci sia
anche del bene, basta avere la pazienza e il coraggio, anche mentre pensi che
sia finita, di aprire il tuo cuore.
Dopo
una vita di scelte sbagliate di droga e galera, adesso sto facendo la scelta
giusta. Bambini già ce ne sono e magari ce ne saranno altri che vivranno
l’avventura che è crescere nell’amore, nella dolcezza e nella sicurezza che
due genitori che si amano possono infondere. Ornella, che è mia amica, mi ha
sempre detto di smettere di essere dura con me stessa, di darmi una possibilità.
Spero sia felice per me.
30
Febbraio 9999: Approvata la riforma sul “Carcere affettivo”
di
Emanuela,
moglie di un ragazzo detenuto
Il
governo ha approvato oggi la nuova riforma del sistema carcerario, contro le
ipocrisie e il populismo di alcune correnti politiche, che sembravano voler
bloccare qualunque cambiamento, solo fino a qualche anno fa.
Invece,
alla fine di un confronto durato poche settimane, si è arrivati
all’approvazione. Tempi strettissimi, dettati dall’inaspettata mobilitazione
dell’opinione pubblica, che nei mesi precedenti era scesa in piazza e davanti
agli istituti di pena italiani, al fianco di ex detenuti e familiari di persone
ristrette, per chiedere a gran voce un cambiamento deciso e forte,
nell’interesse di tutti.
“Vi
sbagliate, non è un problema che riguarda solo i detenuti. Noi persone libere,
che non abbiamo e forse non avremo mai a che fare col carcere, abbiamo il dovere
di interessarci a questo argomento, esattamente come la moglie o la madre di un
detenuto”. Così rispondeva una donna, sotto al carcere di Poggioreale, alla
domanda dei giornalisti “Perché vi mobilitate per un problema che non vi
riguarda?”.
Davanti
ai cancelli di San Vittore, Regina Coeli, Le Vallette, fino alle carceri delle
città più piccole, folle più o meno grandi manifestavano, affinché si
prendesse una decisione su come riformare il sistema di esecuzione penale.
Un’opinione pubblica inaspettatamente agguerrita, stanca di un carcere che
fosse solo un contenitore in cui riversare ingenti somme pubbliche, vuoto di
contenuti e sovraffollato, dove si obbligavano le persone a trascorrere la somma
di millenni di pene, in inutile ozio.
“Ci
riguarda, perché chi è detenuto non è uscito per sempre dalla società
civile. Presto o tardi, vi farà ritorno e la rabbia, la sottomissione, l’odio
che si respirano in carcere, hanno da sempre restituito a noi, come società,
persone apparentemente disciplinate, ma cariche di rancore, che non temono più
il carcere. Noi siamo qui a manifestare principalmente per la nostra
sicurezza!”.
Una
delle norme approvate oggi, riguarda il tema dell’affettività in carcere. Per
decenni si è pensato che la pena dovesse incarnare alla lettera il nome che
portava, trasformandosi in una sofferenza, se non addirittura in un’agonia.
A
questo scopo, si erano bandite dal trattamento delle persone detenute tutte le
attività capaci di produrre gioia, poiché ritenute dannose ai fini della
rieducazione e si sono resi illegali l’amore e l’affetto, in ogni loro
forma: tra uomini e donne, tra padri e figli, tra figli e genitori, tra
fratelli, tra amici.
Per
anni si sono accettate come necessarie pratiche disumane come colloqui vigilati,
sotto lo sguardo di polizia o telecamere; trasferimenti disciplinari, a
centinaia di chilometri di distanza dalla famiglia; telefonate rare, brevi e
registrate; visite dei parenti ridotte al minimo necessario, sia per quantità,
che per qualità e così via.
In
tempi di crisi, il provvedimento che è contenuto nella nuova legge e da cui ci
si aspetta il cambiamento maggiore, è anche quello che richiederà i costi di
attuazione più bassi: l’amore.
Nei
prossimi mesi, una commissione studierà i casi di detenuti allontanati dalla
famiglia, in modo da organizzare trasferimenti mirati, allo scopo di
riavvicinare i detenuti ai loro cari.
A
questo, che è il presupposto, si aggiungeranno tutta una serie di novità, che
avranno lo scopo di incentivare le visite dei parenti, rendendole meno moleste
(lunghe attese, perquisizioni, burocrazia,…) e più intime.
Verranno
attrezzati degli spazi interni al carcere, dove le famiglie che ne faranno
richiesta, potranno
riunirsi,
come in una vera e propria casa e ricostruire quei legami affettivi, che fino ad
oggi il carcere aveva scrupolosamente reciso.
Non
meno importante, sarà la nuova configurazione del personale di polizia
penitenziaria.
Fino
ad oggi l’addestramento di raccontar questo corpo è stato spiccatamente
militare, basato principalmente sull’obbedienza gerarchica, che regolava tanto
il rapporto tra poliziotti, quanto tra poliziotti e detenuti, visti più come
esseri ubbidienti, che pensanti. Stato di fatto che la nuova legge vuole
rovesciare, prevedendo una formazione più umana della polizia.
Un
percorso sicuramente impegnativo e ambizioso, quanto necessario, per trasformare
la polizia penitenziaria, da semplice organo di controllo e vigilanza, in figura
chiave nel recupero della persona detenuta. La migliore gestione umana dei
detenuti coinciderà con l’allentamento graduale del controllo, per poter
guardare all’amore e all’affettività con occhio meno sospettoso, anche se
dentro un carcere.
Peccato
solo che il giorno 30 Febbraio non esista e che il 9999 sia un modo elegante per
dire “mai”… Ma è proprio così che deve finire?
Mio
figlio mi ha detto che non mi conosce, non sa come sono, cosa penso
La
nostra condanna è di stare in galera, la condanna dei nostri figli è di
sentirci al telefono solo per dieci minuti alla settimana
di
Doina Matei
È
molto difficile per chi non vive nel mondo carcerario capire i sentimenti che
abbiamo noi detenuti dentro il nostro cuore quando dobbiamo sentire i nostri
familiari solo per dieci minuti alla settimana. Sono una madre di due bambini e
quando sono entrata in carcere loro avevano quattro e sei anni. Io avevo 21
anni, adesso ne ho 29 e da poco mi rendo conto di quanto hanno sofferto anche
loro per certe assurde regole carcerarie.
I
miei famigliari per fortuna sono riusciti a portare mio figlio grande al
colloquio due volte all’anno e in queste ore di vicinanza riuscivo a fargli
sempre tante domande. Ad un certo punto diventa una cosa automatica chiedere ai
figli le stesse cose, tipo come va a scuola, se ha mangiato, se ti ama, e
raccomandargli di ascoltare le persone che hanno cura di loro. Ti rendi conto
che in ogni telefonata in cui non riesci ad avere una conversazione normale, non
riesci più a conoscerli come una volta perché non hanno il tempo di
raccontarti che amici hanno, che colori gli piacciono, che libro leggono. Ci
sono le lettere ma spesso si perdono e si aggiunge un’altra sofferenza a
quella che già c’è nel nostro cuore.
Non
poche volte mi è successo che non ho avuto neanche quei 2,40 euro per pagare la
telefonata, perché in carcere c’è poco lavoro, o per problemi processuali.
Forse quando i figli sono piccoli non capiscono la distanza che ci separa, ma
con l’età adolescenziale tutto diventa ancora più difficile. Mi sono trovata
anche nella situazione di dire a mio figlio piccolo che non bisogna giudicare
solo per quello che ha sentito dire di me in televisione anni fa. Mi ha detto
direttamente che lui non mi conosce, non sa come sono, cosa penso, perché non
posso parlare di più con lui. In dieci minuti di telefonata, devo sentire anche
chi ha cura dei miei figli per capire di più le loro giornate o per
raccontargli le novità processuali.
Sono
sempre stata una mamma presente, non mi sono mai distaccata da loro, anche se ho
commesso una cosa da me non perdonabile sto qui per pagare. Non credo che
insieme a me devono pagare anche i miei figli e i miei famigliari. I bambini
hanno bisogno dei loro genitori, per poter avere un futuro migliore del nostro.
Spesso prendiamo strade sbagliate, e la nostra condanna è di stare in galera,
la loro condanna è di sentirci solo per dieci minuti alla settimana, sempre a
nostre spese. Credo che tutti i detenuti sarebbero d’accordo di fare più
telefonate, soprattutto perché questo conta tantissimo per la crescita e
l’educazione di un bambino, ma anche per noi, perché cosi non rischiamo di
trasformare le nostre preoccupazioni in rabbia, in arroganza verso la legge.
La
menzogna è come il crimine, non paga mai
di
Marcello,
Casa circondariale di Venezia, redazione L’Impronta
Mia
figlia: “Quand’è che ritorni a casa?” Rispondo: “Presto! Devi portare
ancora pazienza, ok?”
“Va
bene, però mi devi promettere che una volta tornato a casa non ti allontanerai
più da me e che non andrai più a lavorare così distante”.
Rispondo:
“Non te lo prometto… te lo giuro! Sai devo dirti una cosa, è vero che in
questi due anni ho lavorato, ma non è vero che la sera sono troppo stanco per
tornare a casa, la verità è che sono in una prigione perché il tuo papà ha
sbagliato.”È così che mi sono espresso durante l’ultimo incontro avuto
qualche giorno fa fuori dalla Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore qui a
Venezia durante un confronto con gli studenti in una scuola.
Sono
in regime di semilibertà da qualche mese, mia madre quando può viene a farmi
visita con mia figlia, approfitto di quel poco lasco di tempo che ho per
rientrare dal posto di lavoro in carcere, per stare insieme a loro. Queste
visite sono brevi, ma io preferisco così. Meglio pochi minuti trascorsi
all’aperto in libertà e a bordo di un autobus o di un vaporetto piuttosto che
avere colloqui in carcere, all’interno di una sala blindata. Ho trovato il
coraggio di dire come stanno veramente le cose.
Può
sembrare facile dire alla propria figlia di cinque anni la verità, ma non è
affatto così; mi sono preparato mentalmente per cercare le parole giuste e
adeguate per far capire a mia figlia questa situazione familiare anomala e
complessa.
Mentre
spiego alla piccola che il papà in passato ha sbagliato e che ora sta pagando
per gli errori commessi, mia madre con gli occhi fuori dalle orbite mi fa cenno
di stare zitto, ma non le ho dato retta perché credo che spetti a me decidere
cosa dire e come crescere mia figlia.
Ci
sono un sacco di domande che la piccola si pone spesso, non le si può
rispondere sempre: “Sei troppo piccola per capire, quando sarai grande...”.
Nell’arco di due anni, mia figlia ha subito il trauma del nostro distacco,
dovuto alla carcerazione e, come se non bastasse, ora provo dolore per
l’abbandono da parte di sua madre; se non ci fossero i nonni a prendersi cura
di lei, di sicuro ora si ritroverebbe rinchiusa in qualche istituto.
“Perché
la mamma non la vedo mai? Perché si comporta così?” Ci sono domande ancora
più pesanti di queste due che mia figlia mi rivolge, sono le stesse domande che
io stesso mi sono posto un sacco di volte standomene rinchiuso in cella. Ora
conosco le risposte a tali domande, nel momento in cui sono entrato in carcere,
mia moglie ha mollato tutto e tutti. Questa realtà è troppo dura da accettare
per me, figuriamoci per mia figlia.
Ho
scelto di dire la verità a mia figlia per diversi motivi: l’ho fatto per
mettere a tacere la mia coscienza, non sono un bugiardo e non voglio diventarlo
proprio ora, specialmente nei confronti della persona per me più cara al mondo.
Detesto
i bugiardi, forse perché spesso le persone cui tenevo mi hanno mentito e
continuano a farlo, mi credono ingenuo o stupido, mi spiace vedere che queste
persone non hanno capito a fondo che persona sono realmente.
Dove
c’è menzogna non c’è spazio per amore, affetto, onestà, fiducia e
rispetto. Come potrò pretendere che un domani mia figlia possa fidarsi ed
essere sincera nei miei confronti se io per primo mento?
Prima
o poi la verità viene sempre a galla, prima che qualche mala lingua adulta
pronunci la frase “Tuo padre è un galeotto”, preferisco essere sincero
evitando e prevenendo così eventuali possibili traumi e delusioni future.
Nel
mio percorso di vita ho commesso molti errori, sono stato l’artefice di molti
dei miei fallimenti, ho paura di fallire anche come genitore, non me lo
perdonerei mai, per questo ho deciso di impegnarmi al massimo per costruire un
rapporto leale e sincero con mia figlia.
Lettere
di circostanza: la corrispondenza epistolare con i tuoi affetti
di
Ermanno,
Casa circondariale di Venezia, redazione L’Impronta
“Ciao
papy come stai???”
Quasi
tutte le lettere che ricevo dai miei figli, dal 07 febbraio 2013, data del mio
arresto e permanenza in carcere, iniziano così, con la domanda retorica alla
quale altrettanto retoricamente rispondo, quasi sempre nello stesso modo: “sì
tesoro mio, io sto bene tutto tranquillo e a posto sto solo aspettando….”.
Quando
sei qui, in questo mondo parallelo che è il carcere, le domande e le risposte
sono canonizzate, si cerca di non far trapelare alle persone a te care le tue
sofferenze, le emozioni ed umiliazioni che subisci. Cerchi di scrivere
sforzandoti di dire che tutto fila liscio, ma immancabilmente traspare dalla
lettura completa della lettera il tuo stato di disagio, e poi, se hai la fortuna
di avere i colloqui, il palco costruito e la messinscena messa in atto cadono
immediatamente dinnanzi allo sguardo attento e scrutatore di chi ti conosce
bene, poiché solo nel guardarti negli occhi capisce il tuo stato di disagio e
di sofferenza.
Le
12.30, è il momento della consegna della posta, è il momento più bello e
crudele della giornata poiché spero sino all’ultimo di aver ricevuto la
missiva tanto attesa e, se l’agente viene davanti alla mia cella per un
momento mi dimentico di tutto e quando apro la busta per i controlli di routine
mi si apre il cuore, viceversa se l’agente si ferma solo davanti alla cella
precedente o vicina alla mia il cuore mi si ferma e cado in una tristezza
difficile da spiegare, ma facile da comprendere da tutte quelle persone che,
come me, son qui rinchiuse.
Apro
la busta, respiro un’aria di casa, di amore, di affetto. Poi mi dedico alla
lettura cercando un po’ di privacy, immancabilmente mi isolo da tutto e da
tutti per il tempo necessario alla lettura di ciò che i miei cari mi hanno
scritto.
Nello
scorrere la lettera spero sempre che non ci siano cattive notizie, solo nel
guardare una persona intenta nella lettura, della preziosa missiva ricevuta,
puoi capire le sue emozioni, i suoi pensieri, la sua felicità mista a
tristezza.
Oggi,
in un mondo in cui l’inchiostro della penna ha lasciato spazio al più comodo
e veloce “messaggino” inviato dal telefonino, perlopiù con geroglifici
scritti con rapidità e maestria, ho riscoperto il vero valore della scrittura,
poiché dal carcere per poter comunicare coi tuoi cari esiste solo la possibilità
della scrittura epistolare e, in alcuni casi, tramite telefonata.
Così,
aprendo la lettera e leggendola, mi immergo nel mio mondo, dal sapore un po’
antico, ma pieno di ricordi indelebili e affetti sinceri.
Mi
trovo a leggere ciò che il mio affetto più caro mi scrive: “Ciao papy come
stai?? Siamo preoccupati per te, ti abbiamo visto male l’ultima volta e non
possiamo pensare che oltre al dolore della lontananza forzata tu possa vivere in
queste condizioni di privazioni e sofferenze, perché è successo
tutto questo?? Perché non ti fanno tornare a casa??? “
E
così, mentre scorre la lettura, penso già alle risposte e, in alcuni casi, mi
devo ingegnare per poter rispondere qualcosa di credibile, perché io stesso non
ho risposte da darmi.
La
lettera continua: “Sei il miglior papy, il più bravo, il più…, ma
sinceramente non riesco a capire il perché delle tue assenze, di quante volte
hai promesso di venire a trovarci e poi all’ultimo, per impegni di lavoro
improvvisi, sei venuto meno alla promessa data.
Ora
ti dico una cosa forte, spero tu non t’arrabbi e mi capisca. All’inizio il
fatto che tu fossi in prigione mi ha dato la certezza che almeno potevo decidere
io quando venire a vederti, sicura di trovarti, e ciò mi ha dato un senso di
tranquillità, ma poi il primo giorno che son venuta ho capito che era solo un
mio forte egoismo e all’uscita ho pianto pensando a dov’eri e a come
soffrivi in silenzio. Tu mi dici sempre che stai bene e che devo avere forza e
coraggio che tutto si sistemerà, di aver fiducia nella giustizia. Tutte frasi
di circostanza, ma io e mio fratello abbiamo bisogno, ora più che mai, della
tua presenza, ma non forzata in quel luogo di sofferenza, ma qui libero e vicino
a noi. Promettimi che non mi dirai più le solite cose che tutto va bene ecc...
sono cazzate, io voglio sapere la verità sapere veramente come stai. Non son più
una bambina, ma un’adulta e come tale mi devi trattare. Sì ho ancora tanto
bisogno di te, ma ti voglio vicino a me e sincero, basta bugie, mezze verità,
sii te stesso e parla tranquillamente perché noi siamo i tuoi figli e ti saremo
sempre e comunque vicini e presenti nel bene e nel male.”
A
queste parole non ci son tante risposte, sono combattuto tra il dire ciò che
provo veramente e realisticamente, o non dirlo per non far star male chi mi è
vicino, che soffre con me e per me per la situazione che sto passando e che
vivo, consapevole del fatto che oltre al dolore della pena che sto scontando, ho
involontariamente trasmesso un dolore enorme a chi mi sta vicino, una pena
accessoria ed invisibile ma ben marcata nell’animo, la mia forzata assenza.
E
così, tra i miei conflitti interni e i miei dubbi, prendo la penna e inizio a
rispondere, cercando di camuffare la realtà per non far soffrire di più chi mi
sta vicino, sperando che le mie mezze verità non vengano subito scoperte.
“Ciao
ragazzi qui, nonostante la solitudine e la carcerazione, sto bene. Vi ringrazio
per le vostre belle parole e le lettere che mi avete inviato e speriamo che
presto la situazione si risolva, intanto aspettiamo fiduciosi… spero di
rivedervi presto.”
Sì
aspetto fiducioso. Io purtroppo, come tutti gli altri detenuti devo, anzi posso
solo aspettare fiducioso che qualcosa accada, non posso fare altro che aspettare
e sperare che domani sia un giorno migliore, magari se sono fortunato ricevo una
lettera che mi può cambiare la giornata rendendomi felice per la bella missiva,
oppure se sono più fortunato ricevere una visita nei giorni stabiliti per i
colloqui e così poter incontrare i miei affetti e abbracciarli vivendo
intensamente questo magico momento dell’incontro.
La
carcerazione del mio papà: non riuscivo a capire
di
Enrico,
Carcere di Piacenza, redazione di Sosta Forzata
Se
un genitore incarcerato ha figli piccoli o adolescenti, deve dire loro dove si
trova e perché?
Si
deve giustificare con loro o è meglio tentare di tenere celata questa realtà
con bugie e sotterfugi? Se un genitore tace è perché tende a tutelare
l’equilibrio del figlio, a non dargli un dispiacere, a non farlo sentire
diverso dai suoi coetanei, o è piuttosto perché vuole evitare un giudizio e
non si sente di dare spiegazioni?
Il
comportamento di un individuo è la risultante di quanto ha assorbito
nell’infanzia e adolescenza, quartiere e humus culturale o è solo una
scelta di vita dipendente da una morale che a tutti è stata instillata in
eguale misura?
Il
libero arbitrio, è una verità dogmatica o piuttosto una tesi della società
che autorizza a intervenire su chi contravviene alle regole?
Sofri
sostiene che “alla galera molti detenuti erano più o meno destinati
per censo e nascita”; io ritengo che abbia ragione. L’individuo può
intervenire solo in una modestissima parte sul proprio destino.
Quali
sono i canoni di giudizio di un adolescente tra i 7 e i 12 anni?
A
volte una bugia od omissione, può salvare un matrimonio, perché una bugia non
potrebbe tutelare l’equilibrio di un minore ?
Il
quesito è vasto, molto complesso; le componenti in gioco sono moltissime e
queste premesse sono d’obbligo per dare un parere.
Personalmente
ritengo che la consapevolezza che il papà o la mamma non abbiano dimenticato il
bambino, sia preferibile ad un senso di abbandono nel quale si potrebbe perdere,
cercando altri riferimenti spesso inadatti alla sua età.
Di
contro il dolore per un genitore detenuto, può portare ad una contestazione
della società, ad un rifiuto di essa. Ero bambino ed anche mio padre conobbe
una reclusione durante la quale io andai a trovarlo.
Ricordo
che provavo avversione verso gli agenti che aprivano e chiudevano i cancelli. In
essi, non nel reato di mio padre, vedevo la causa di quella forzata lontananza..
Quando per la strada, vedevo un’auto della polizia, dei carabinieri o dei
vigili, provavo risentimento nei loro confronti. Ora mi rendo conto che provavo
rancore verso tutto e tutti coloro che rappresentavano il potere. Nella mia
ottica infantile, era il potere, erano le istituzioni che tenevano mio padre in
prigione.
A
mia madre, già impegnata a far fronte alle prove che doveva risolvere da sola,
non venne in mente di spiegarmi che anche per gli adulti come per i bambini,
esistono sanzioni per chi commette degli errori. Forse non l’avrei nemmeno
capito, o forse sì.
La
reazione fu di chiudermi in me stesso. Rifiutai la scuola già dalle elementari,
nonostante fossi un bambino sveglio e pieno di risorse. Anche la scuola era un
luogo che rappresentava il potere.
L’adolescente,
non può superare da solo lo “stress” cui va incontro con la carcerazione di
un genitore. Il genitore superstite, deve aiutarlo a superare il trauma,
ovviamente quando abbia basi e nozioni per farlo. Deve spiegargli con parole
semplici e comprensibili che la nostra società si basa su regole come la
scuola. Non deve manifestare rancore verso la società o vittimismo, altrimenti
insinuerà sentimenti di rivalsa che, con il tempo, porterebbero a una
contrapposizione inevitabile.
Credo
che per un adolescente sia necessario il supporto di uno psicologo capace,
altrimenti ci si ritroverà davanti un altro individuo che contravviene alle
regole.
Molto
attenta deve essere l’opera di assistenza sociale da parte delle istituzioni,
non è possibile lasciare una madre con tre o quattro figli nella più totale
indigenza. E’ noto quello che possono generare la miseria economica, il
bisogno, le privazioni. Spesso le persone in difficoltà non sanno nemmeno dove
cercare aiuto. Bisogna andare loro incontro.
Tutte queste raccomandazioni affinché il reato non diventi un fattore ereditario, affinché la catena si spezzi e dia origine a cittadini osservanti delle regole.