Quanto
importanti sono i colloqui con “terze persone”
Lasciarsi
al telefono
di
Cristina Buiatti
Trattare
l’argomento degli affetti, fra chi sta in carcere, spesso con lunghe condanne,
e le persone care, trovo che è una questione molto delicata. Qui, siamo noi,
persone recluse, a porci con grande fatica di fronte alla burocrazia inumana,
alle perquisizioni, allo sguardo delle agenti penitenziarie durante i colloqui,
o nelle brevi telefonate, spesso in “viva voce”, tutte registrate. lo,
d’impatto, mi chiudo a riccio, per tutelare chi amo, le persone a me care,
quel bene che reputo inviolabile e intoccabile. Tali ragioni mi inducono ad
evitare, ad esempio, di vedere mio figlio, anche se è un giovane adulto, al
corrente, come la sua compagna, dei motivi per cui sono in carcere. Sento un
senso protettivo, così forte da limitarmi al mezzo più semplice (quando
funziona, tra Poste non sempre veloci e tempi dettati dal carcere), ossia,
quello epistolare. Sono fortunata, devo ammetterlo, perché con lui non c’è
bisogno di tanti sproloqui, esiste un feeling per cui non serve molto per
mantenere un legame. Naturalmente, sarei felice di vederlo, però, conoscendo il
suo carattere, le perquisizioni, all’ingresso, sarebbero, per lui,
un’umiliazione, che mai, come madre, vorrei subisse. Il telefono l’ho
scartato, dopo il liceo, ora, tra università, lavoro part-time, e la sua
ragazza, è troppo impegnato.
Dovendo
poi io chiamare il legale di fiducia, inoltre, già perdo una delle quattro
telefonate al mese permesse, anche se io credo che la chiamata all’avvocato
dovrebbe essere esclusa dalle telefonate con i familiari. A volte, vengono
concesse le telefonate straordinarie, due mensili, qualora si abbiano figli
minori, o nel caso in cui non si hanno frequenti colloqui. Tutte decisioni prese
a discrezione dalla direzione.
Sempre
per esperienze che tocco sulla mia pelle, anche il colloquio con la cosiddetta
“terza persona”, sia un amico, o una persona più intima, trova un altro
muro di gomma, dove le richieste, con generalità autocertificate e documento
che all’ingresso del carcere vengono consegnati, ricevono spesso un altro
diniego. In alcune carceri, mostrando i documenti, e compilando, appunto, le
autocertificazioni, non hanno nessuna remora a far entrare la persona
richiedente il colloquio. Perché in altre carceri invece bisogna essere
conviventi, con medesima residenza, o coniugi per poter entrare? Oppure non si
riesce neppure a vedere un caro amico?
Un
sabato, che ben ricordo, visto che avevo un brutto presentimento, ho invitato
una persona che prima del mio arresto aveva per me un particolare significato
affettivo. Spesso ho pernottato presso l’abitazione che lui condivide con la
madre, una cara signora, a cui sono affezionata, con lei si pranzava spesso
insieme e si dialogava serenamente. Lui poi era stato condotto in carcere prima
di me, che sapevo di dover aspettare una sentenza in arrivo dalla Cassazione,
incerta nel tempo di notifica.
Quindi,
accompagnavo spesso sua madre, presso il carcere cittadino, e con il mio
sostegno anche lei poteva vedere il figlio per tutto il colloquio, altrimenti,
causa i dolori di cui soffre alle gambe, avrebbe dovuto dimezzare le ore da
trascorrere col figlio in carcere, come poi è accaduto quando non ho più
potuto esserle di aiuto. Questo perché, proprio una mattina in cui lei mi
aspettava per recarci in carcere, vennero a presentarmi l’ordinanza
d’arresto. Ho lasciato tutto a casa, telefonini, oggetti d’oro e chiavi, che
sono andata a consegnare al mio vicino, raccomandandogli i miei gatti, perché
sapevo che sarei mancata per un tempo non breve. Nel frattempo, lui, per
un’operazione all’intestino da eseguire, è stato trasferito a Opera,
Milano, dove è rimasto per circa quattro anni.
Comunque,
per ottenere la possibilità di un contatto con me, essendo entrambi reclusi, io
a Trieste ancora, lui a Opera, e per riuscire a mantenere quel legame, pur nella
consapevolezza della lunga condanna, lui ha pressato il personale penitenziario,
al fine di ottenere un colloquio con il direttore di Opera. Cosa non semplice,
ma quando si hanno le idee chiare e si perora una giusta causa, l’obiettivo lo
si può raggiungere. In effetti lui è riuscito ad ottenere un colloquio
privato, a cui si è presentato ancora pieno di acciacchi, con i punti sul
torace, e dolorante per l’intervento subito, ma ben deciso.
L’accoglienza
è stata cordiale, lui ha esposto le sue richieste e alla fine ha ottenuto
subito le telefonate.
Da
allora abbiamo riallacciato quel filo invisibile, che il trambusto delle
rispettive reclusioni, il trasferimento di lui, aveva in qualche modo spezzato.
Abbiamo
vissuto, oltre alle telefonate, un rapporto epistolare, mentre il tempo
scorreva. Un giorno ho ricevuto un telex, dove mi comunicava che era uscito
scarcerato senza tanto preavviso o aspettavi, e subito è tornato a casa. Da
allora, circa due anni, ho cercato di vederlo, ne aveva bisogno lui, un po’
spaesato e solo, ne avevo bisogno io, bloccata ancora in carcere.
Ma
niente, solo quei dieci minuti al telefono, freddi, poco intimi, un percorso in
salita per una coppia che ha bisogno di essere alimentata, scaldata da un
sentimento, che è stato invece interrotto così bruscamente e tenuto a distanza
fisicamente, per anni. Una dura prova.
Forse,
per una donna, è più facile resistere, sempre vi sia nel cuore una fiamma
viva, però un uomo... Ebbene sì, proprio lui, così coinvolto, geloso,
attaccato e vicino a me, oggi, sempre al telefono, mi ha detto che ha trovato
una vecchia conoscenza, e sta vivendo con lei una nuova attrazione. Che dire, un
po’ ne avevo percezione, però sono qui! Ho apprezzato la sincerità, ma il
resto lo reputo la dimostrazione di una estrema, imperdonabile debolezza. Per me
è cosa chiusa. Forse, chissà, se quando è venuto, l’anno scorso, qui fuori
e gli è stato impedito l’ingresso, se ci fossimo visti, almeno una volta al
mese (per la distanza), guardandoci negli occhi, toccati, accarezzandoci le
mani, baciati, sfiorando le labbra, allora, bè, chissà!
Ma
questo muro di gomma è duro da abbattere, io ho lottato, sola non ce l’ho
fatta, le risposte che ho ricevuto alla mia richiesta di colloquio con una
persona, che non è un famigliare, sono state un NO. Questi sono gli affetti da
coltivare, mentre la realtà è che non ci è concesso farlo, e la sofferenza si
aggiunge alla sofferenza. Bisogna attingere una gran forza da noi stessi, per
non abbattersi, o ancor peggio scivolare in una depressione...
Ma
di quali affetti parliamo? La mia, sembra una storia quasi inverosimile, o
inventata, ma dietro al
mio
sorriso, esiste un’amarezza, e la ferita dei sentimenti che addolorerebbe
anche le persone libere.
Qui le ferite stanno nascoste nell’intimo più profondo, perché, da reclusa, vivo l’impotenza di parlare direttamente, agire verificare fare qualcosa per cambiare.