Le famiglie infelici di chi sta in galera

 

“Tutte le famiglie felici sono simili le une alle altre; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”: comincia così un grande romanzo, “Anna Karenina”, e in quelle famiglie infelici ognuna in modo diverso pare di vedere le famiglie delle persone detenute: una infelicità che travolge i figli che possono incontrare i padri per pochissime ore al mese, le mogli che non possono scambiare neppure un bacio con i loro mariti. Ne continuiamo a parlare in modo ossessivo, con due testimonianze dolorose di detenuti, con la speranza che qualcuno trovi finalmente il coraggio per fare questa battaglia perché le persone detenute possano avere un po’ di intimità con le loro famiglie.

 

Io sono figlio di un carcerato e anche un padre carcerato

E ancora non so quale delle due situazioni mi abbia recato più dolore

 

Io sono stato un padre poco presente nella vita di mio figlio, e quelle sei ore di colloquio che ti concedono nelle carceri per vedere i tuoi cari hanno contribuito a perderlo ancora prima che mi lasciasse definitivamente per un tumore

 

di Lorenzo Sciacca

 

Quando ti viene a mancare una persona cara, ti ritrovi a pensare, a ricordare tutti gli istanti passati assieme a lei, ma purtroppo sai che non sarà possibile ricordare tutto. Nella nostra mente rimangono quei ricordi che comunemente chiamiamo “indelebili”.

Sono Lorenzo Sciacca, detenuto presso la Casa di Reclusione di Padova. Lavoro nella Redazione di Ristretti Orizzonti. Sono anni che la nostra redazione affronta la battaglia per la tutela degli affetti in carcere. Io sono figlio di un carcerato e anche un padre carcerato. Non so quale delle due situazioni mi abbia recato più dolore, sono sicuro che entrambe abbiano inciso profondamente sulla mia vita.

Parlavo dei ricordi perché il primo ricordo che ho di mio padre è nel carcere, avrò avuto 5/6 anni. La casualità volle che la mia scuola fosse proprio di fronte al carcere di San Vittore, Milano, dunque ogni sabato alle dieci mia madre mi veniva a prendere per andare al colloquio. Le porte d’ingresso dei colloqui erano sempre affollate da donne e bambini e persone anziane, e tutti avevano con sé pacchi e borse. Mi ricordo che ci perquisivano sempre, personalmente mi guardavano tasche, colletto della maglietta e le scarpe. La cosa brutta è che non trovavo strano tutto ciò, rientrava nella normalità. Una volta finite le perquisizioni ci ritrovavamo nella sala dei colloqui. Era una stanza non troppa grande, divisa da un grosso bancone e sopra di esso c’era un vetro di mezza altezza che serviva per tenerci separati dai nostri familiari. Sulla mia sinistra c’erano dei grossi vetri. Li fissavo di continuo perché da lì avrei visto mio padre arrivare. Non l’ho mai visto arrivare con un’espressione che non era un sorriso. Una volta entrati, i detenuti si sedevano di fronte alle rispettive famiglie. Mi ricordo che, quando ero piccolo, salivo sul bancone e mio padre mi prendeva in braccio, dunque avevo oltrepassato il limite consentito, e non mancava mai il suono di quelle maledette chiavi contro il vetro per richiamare all’ordine. Ho odiato e odio tuttora questo maledetto suono. Ecco da quel momento partiva la nostra ora di visita. Io e mia madre bombardavamo mio padre di domande, ma l’attenzione era, per lo più, rivolta a me. I primi anni che chiedevo a mio padre cos’era tutto questo e perché non veniva a prendermi a scuola, la risposta era una classica bugia che poi a mia volta imparai a dire a mio figlio: “Lavoro”. Con il tempo capii che non era lavoro, pensavo che mio padre avesse commesso qualche cosa di brutto, ma quando scoprii tramite i miei cugini che era un rapinatore di banche, mi sentivo fiero di lui. Prelevava soldi senza fare male a nessuno, salvo che non si mettessero di mezzo le “divise”, le stesse che lo tenevano rinchiuso. Crescendo iniziavo a scoprire molte cose, la prima fu la data di liberazione di mio padre, e il mio diario di scuola diventava un conto alla rovescia dove annotavo tutti i colloqui e quanti ne sarebbero rimasti.

Più crescevo e più nutrivo odio per quelle divise, mi dicevo che un giorno sarei diventato grande e mi sarei vendicato per tutto il male che la mia famiglia aveva dovuto subire, ma soprattutto per quei maledetti colloqui che non mi avevano permesso di vivere mio padre.

Poi sono diventato padre anch’io. Il mio posto era cambiato, ero dall’altra parte del bancone con di fronte un figlio, ma le bugie erano le stesse di mio padre. Quando penso a lui è come essere di fronte a uno specchio, questo non mi sconforta ma so che ho recato dolore alla mia famiglia, ho scoperto anche che è disumano pensare di poter vedere crescere i propri figli dietro a vetri, o in colloqui dove non puoi avere quella intimità necessaria per cercare di mantenere un rapporto con la propria moglie e i figli.

Quando i detenuti parlano di intimità, subito la società pensa che sia solo una questione di sesso, è vero è anche quello ma la priorità credo debbano averla quei figli che per anni non potranno vivere con il padre. Come si spiega il fatto che il 30/40% dei figli di carcerati pare siano “destinati” ad andare a delinquere? Secondo me perché fin da piccoli iniziano a nutrire odio verso le istituzioni che li privano della possibilità di vivere il rapporto con il proprio genitore in maniera umana. I valori del nostro Paese si fondano sull’importanza della famiglia. Anche se abbiamo commesso degli errori, siamo parte di questa società e la nostra famiglia pure. Volete estrometterci dalla società? Avete il potere per farlo, ma non fatelo per favore, così eliminereste anche quella ricchezza di sentimenti che caratterizza la natura dei bambini.

 

Il carcere è l’annientamento delle persone recluse, ma anche delle famiglie

 

 

Durante una delle mie latitanze in giro per l’Italia ho incontrato, una mattina, un mio vecchio amico. Mi ricordo che da piccoli il nostro gioco preferito era di fare guerre immaginarie contro qualsiasi divisa che conoscevamo.

Quella mattina, casualmente, ci siamo ritrovati a una inaugurazione di un nuovo emporio di abbigliamento. Abbiamo perso 20 minuti del nostro tempo a raccontarci cosa faceva l’uno e cosa faceva l’altro davanti a una tazza di caffè. Insomma lui era diventato un ingegnere e io un bandito. Ovviamente, per quanto mi riguardava, non ero stato onesto con lui nel raccontarmi, non potevo esserlo, avrei rischiato. Ma lui, sono sicuro che lo era stato, lo si vedeva, si capiva dal suo racconto, dalla soddisfazione che provava verso se stesso. Certo lui era cresciuto come me, anche lui veniva da una famiglia di criminali, ma lui era diverso. Lo studio, l’andar via dal quartiere l’avevano sicuramente aiutato a crescere in meglio. E io? Io questa fortuna non l’avevo avuta, a dieci anni mi ero ritrovato, io che ero nato a Milano, catapultato in una realtà molto peggiore di come poteva essere un quartiere malfamato del milanese: un quartiere di Catania. Due strade completamente opposte.

Non voglio pensare che tutta la mia vita sia stata sprecata per rincorrere il classico sogno del colpo perfetto che può sistemarti la vita, so di non essere stato solo un rapinatore che provocava disastri e se era necessario anche dolore al prossimo, sono stato anche un uomo molto leale, che se aveva vicino persone in difficoltà non si tirava indietro nell’aiutarle. Sono certo di avere però un rimpianto, un senso di colpa con cui credo dovrò convivere per tutta la mia esistenza: la perdita di mio figlio. Sono stato un padre poco presente nella sua vita, e quelle sei ore di colloquio che ti concedono nelle carceri per vedere i tuoi cari hanno contribuito a perderlo ancora prima che mi lasciasse definitivamente per un tumore. L’ultima volta che sono riuscito a vederlo era in ospedale perché ormai era allo stadio terminale di questa malattia, io ero latitante e vivevo in Spagna, dunque era molto difficile per me tornare in Italia per potergli stare vicino. Una mattina mi arrivò una telefonata che mi diceva che ci aveva lasciato. Era il momento di prendere una decisione che avrebbe posto fine alla mia libertà, partecipare al funerale. E io decisi allora di partecipare e così eccomi qui a scrivere dubbi, incertezze, paure e cercare di capire dove ho sbagliato. Ho passato un anno di depressione e sono riuscito a venirne fuori solo con pensieri negativi, pensavo che mi sarei vendicato prima o poi di questa ingiustizia che ho dovuto subire. Pensavo a tutti quei colloqui di un’ora, che non mi permettevano di vivere con mio figlio, di costruire qualcosa che poteva assomigliare a un rapporto normale, ecco tutti questi pensieri mi hanno portato a trovare un colpevole, le istituzioni. Attenzione, con questo non voglio trovare alibi per quello che sono stato, ma un detenuto che ha una famiglia non può che detestare quelle istituzioni che gli impediscono di avere con i suoi cari dei rapporti decenti. Ecco perché dico che questo rimpianto ha un’influenza negativa su di me.

A breve sarà la ricorrenza della sua morte e come ogni anno cercherò di isolarmi perché da solo riuscirò a trovare nel dolore la giusta punizione che mi spetta.

Il carcere, oggi, è diventato una malattia sociale che nessuno vuole ammettere che abbiamo e, ovviamente, nessuno vuole curare. Il carcere è l’annientamento non solo delle persone recluse, ma anche delle famiglie che per anni seguono i loro cari. Quando un detenuto esce e vuole riprendersi la sua vita deve prima cercare di rientrare a fare parte della vita della sua famiglia, ma se ha passato tanti anni in carcere riavvicinarsi a un figlio lasciato in età adolescenziale e trovarlo ragazzo è molto duro. Questo perché all’interno delle carceri non c’è un progetto che consenta di mantenere e curare i rapporti umani con l’esterno. Credo che la condanna più dura che oggi ci infliggono sia proprio questa.

 

Aiutateci ad amare

Non è giusto buttare al vento tutto ciò che di buono avevamo costruito nella nostra vita prima della galera, per colpa di un sistema arretrato e totalmente ingiusto nei confronti di chi amiamo

 

di Alex Gianduzzo

 

Sono uno dei tanti detenuti italiani, che ripetutamente si fa la stessa domanda, cioè: perché noi detenuti, in questo Paese, veniamo privati dalla possibilità di aver cura dei nostri affetti e veniamo obbligati alla disintegrazione della famiglia? La nostra Costituzione difende la legittimità e il valore della famiglia, ma forse questo non vale per noi detenuti, visto che oltre ad essere puniti allontanandoci dalla società verso cui siamo debitori, veniamo anche impossibilitati a dare amore ai nostri figli e alle nostre mogli, conviventi, o fidanzate, perché in sei ore al mese di colloquio di certo non lo possiamo umanamente fare, ma se chi ce lo impone la pensa diversamente ed ha un metodo per far si che le nostre famiglie non si distruggano, lo preghiamo di spiegarcelo in fretta. Ormai in moltissimi Paesi ai detenuti vengono permessi periodicamente dei colloqui nei quali si ha la possibilità di stare privatamente in apposite stanze con i famigliari per alcune ore, senza un agente che stia li a fissarti tutto il tempo e con la possibilità di fare l’amore con la propria compagna, cosa fondamentale per salvare i rapporti coniugali. Si pensi che in Paesi che noi italiani definiamo arretrati, tipo i paesi dell’EST Europa, o del SUD America, i cosiddetti colloqui intimi ci sono da anni, come ci sono in buona parte dei Paesi della Comunità Europea, ma in Italia no, anzi fare discorsi in merito è tabù. Perché? Me lo chiedo continuamente e non mi do spiegazioni, anzi una me la do, ossia che il nostro stato non ci condanna per un reato, finalizzando la nostra pena ad un reinserimento nella società in forma migliore, ma si vendica contro di noi distruggendoci anche negli affetti, in modo tale che quando usciamo non abbiamo neanche più quello che di positivo avevamo!

Forse sembrerò duro nei mie commenti, ma sono arrabbiato, e ho tanta paura di perdere mia moglie per colpa della mentalità arretrata del mio Paese. Come può una moglie vivere per anni senza un minimo contatto fisico con il proprio uomo? È logico che dopo un po’ si stanchi e senta il bisogno del sesso, ed è li che la famiglia si sfascia, cosa che potrebbe non accadere se almeno ogni tanto potesse fare l’amore con il marito anche se detenuto, ma in Italia no, non si può, se solo viene proposto, nei giornali si parla di “celle a luci rosse” com’è già accaduto alcuni anni fa, quando qualche parlamentare con buon senso aveva proposto una legge che introduceva i colloqui intimi.

Cosa ci vuole a creare uno spazio per far si che si possano svolgere questi colloqui intimi? Niente! Eppure lo negano, mentre lo spazio per costruire nuovi padiglioni dove stiparci come polli lo trovano sempre.

Come può un essere umano rieducarsi durante l’espiazione di una pena? può solo incattivirsi e provare tanto rancore nei confronti delle Istituzioni. Ma a chi può interessare tutto questo? Io spero a chi ha un po’ di coscienza e umanità, visto che non sto chiedendo nulla di più che la possibilità di dare amore alla mia famiglia, alla fine devo pagare io un errore, non loro. Come posso stare tranquillo io con una moglie di ventisette anni, che posso frequentare sei ore al mese, con un attento agente che osserva ogni attimo in cui sto con lei e che se mi vede che la bacio con un po’ di passione, è subito pronto a bussare sul vetro dicendomi che non si può? È impossibile, ho sempre il costante terrore che prima o poi si stanchi e che si rifaccia una nuova vita, come in effetti mi è successo con la prima moglie e come vedo ripetutamente accadere a tanti miei compagni. In carcere se baci sulle labbra tua moglie vieni ripreso, è un gesto che viene considerato indecoroso, ma io credo che indecorosi sono quelli che ci negano un po’ d’affetto.

Per quanto riguarda il discorso “figli”, si può benissimo capire che in sei ore di colloquio mensili, è impossibile avere un sano e costruttivo rapporto con un figlio, specie se in tenera età. Infatti con il passare del tempo per tuo figlio diventi un estraneo, e lo noti da come si allontana da te anche nelle cose più banali, perché ti esclude da ogni sua emozione ed esperienza di vita. È una cosa molto dolorosa e all’inizio mi faceva arrabbiare, ma poi ho imparato a capire che è la conseguenza di questo obbligato distacco.

In più i pochi figli che nonostante tutto mantengono un minimo rapporto con il proprio padre, finiscono per provare un senso di odio nei confronti delle Istituzioni, che gli vietano di comunicare normalmente e assiduamente con il loro genitore. Questo è totalmente sbagliato, perché i giovani dovrebbero imparare ad aver fiducia nelle Istituzioni, altrimenti creiamo solo una società malata.

Provate voi solo ad immaginare, di poter stare con i vostri figli un’ora alla settimana, che rapporto potreste costruire? So che la risposta è pressoché identica per tutti, quindi chiedo a nome di noi tutti detenuti di aiutarci a far cambiare le cose, perché in galera ci si può finire anche per un errore e non solo per una scelta di vita, perciò può capitare a tutti, e non è giusto buttare al vento tutto ciò che di buono avevamo precedentemente costruito per colpa di un sistema arretrato e totalmente ingiusto nei confronti di chi amiamo.

 

 

Affetti dietro il cemento

Quando ero libero cittadino, anch’io non facevo caso alle cose belle che mi circondavano nella mia vita, davo tutto per scontato. Sapevo che a casa avevo i miei cari e che era importante il Dio denaro per risolvere tutto

 

di Luca Raimondo

 

Sono un detenuto ristretto nella Casa di Reclusione di Padova. Il mio ultimo arresto risale al 2008 e, da allora, ho girato molte carceri al nord dell’Italia. Siccome provengo da Catania, ho molta difficoltà a fare i colloqui con i miei cari, quindi sto affrontando, come si dice nel nostro gergo, una “doppia carcerazione” causata proprio dal fatto che non ho la possibilità di coltivare i miei affetti.

Quello che mi sta incuriosendo e interessando in questo periodo, è la tematica che riguarda proprio l’affettività, un argomento molto discusso nella redazione di Ristretti Orizzonti. Questo è un problema molto delicato che riguarda sia noi, all’interno di queste mura, ma soprattutto tutti i nostri familiari.

Voglio premettere che io sono in carcere per una scelta di vita che ho fatto da giovane e che oggi pago a caro prezzo.

Quando ti arrestano sai che oltre a privarti della libertà, sarai privato anche della tua famiglia, dunque lascerai a casa la tua famiglia con tutti i problemi e con quella realtà crudele che il carcere ti riserva, cioè non poter in alcun modo curare i propri affetti, in particolare per chi in carcere ci deve rimanere per molto tempo o a vita. Allora nelle nostre menti sappiamo che lo Stato su questo ci distrugge, forse perché a mio parere non siamo più considerati come “uomini o cittadini”. Però si fa fatica ad assimilare tutto ciò, allora si arriva ad una decisione, specialmente ci arriva chi come me viene dal sud Italia: lasci fare una vita dignitosa alla persona di cui sei stato innamorato, che è anche la madre dei tuoi figli, ed è proprio per questo che a volte la fai soffrire, riferendole che è meglio non vedersi più.

Poi subentrano i figli, vittime innocenti di tutto questo sistema malato, che li costringe a crescere senza una madre o senza un padre: se puoi vederli una volta la settimana sei fortunato, ma se sei come me o come tanti altri miei compagni di sventura, questo non è possibile, allora gli mandi delle lettere, gli parli al telefono quelle sei volte al mese, ma i figli crescono. Per chi come me li ha lasciati piccoli ed ora sono grandi, che cos’hai da insegnargli, quando per tutto questo tempo non sei stato presente nelle loro vite, nella loro crescita e nel calore che puoi dargli quando li abbracci forte forte al tuo petto, ed hanno bisogno di te?

A volte sembra di non conoscerli più. Questa è una cosa che te la porti come il peso di un macigno fino alla fine dei tuoi giorni, non potrai più tornare indietro, e non potrai mai avere tutte le cose belle che hai perso, anche quelle più banali, come portarli il primo giorno di scuola mani nelle mani. Queste cose ti fanno male, allora la carcerazione diventa “tripla”.

Per ultimi, ma non nella scala dell’affettività, stanno i propri genitori anziani, chi come me è fortunato ancora li ha in vita, ma altri miei compagni li hanno persi, anche mentre erano qui in carcere, ma non solo loro, figli, fratelli e parenti, e puntualizzo che la maggior parte delle volte, se ti capita un lutto in famiglia, non ti portano nemmeno al funerale, allora ti cade il mondo addosso, ti ritrovi con una realtà che non auguri a nessuno, ti vengono i rimorsi di coscienza, perché non gli sei potuto stare vicino e non gli hai potuto dire tutto quello che ti sentivi nel cuore, e di questo non potrai più perdonarti.

Quando ero libero cittadino, anch’io non facevo caso alle cose belle che mi circondavano nella mia vita, davo tutto per scontato. Sapevo che a casa avevo i miei cari e che era importante il Dio denaro per risolvere tutto, ma non è così, ho potuto capire l’importanza degli affetti da quando sono in carcere, qui le emozioni sono tutte amplificate, e non c’è cosa più bella al mondo dell’amore che ti possono dare le persone verso cui nutri affetto.

Allora penso: io in vita mia ho fatto molti errori, a volte anche irreparabili, ma perché la società e la politica sono così crudeli nei nostri confronti? Forse non sanno che, oltre che della libertà, ci stanno privando pure delle nostre famiglie? Non siamo anche noi figli di Dio? E se abbiamo colpa, perché devono pagare i nostri cari dei nostri debiti verso la società e lo Stato? Vi lascio riflettere.

Spero che presto siano varate delle leggi che tutelino sia noi sia i nostri familiari, per non perdere quel poco che ci è rimasto, l’affetto per chi amiamo, così almeno possiamo aggrapparci a una speranza che si chiama “FAMIGLIA”.

 

 

Serve una legge che tuteli i diritti dei famigliari dei detenuti

È un investimento sulla sicurezza sociale, perché recuperare gli affetti è il primo passo per rientrare nella società e non tornare a commettere reati

 

di Angelo Meneghetti

 

In questi ultimi tempi si parla di più della necessità di una riforma della giustizia per adeguarsi all’Europa, e l’Italia se è un Paese civile deve dimostrare di esserlo a 360 gradi, anche sui diritti dei detenuti e dei loro famigliari.

Esistono infatti in diversi Paesi europei e non solo, anche negli Stati Uniti e in America meridionale, i cosiddetti colloqui affettivi intimi per i detenuti con i loro famigliari. Nel sistema carcerario italiano questo tipo di colloqui invece non esiste, in passato se ne era discusso, ma la proposta fu stravolta e trasformata in qualcosa di proibito e di cui vergognarsi. Va detto allora che i colloqui affettivi non hanno niente a che vedere con le celle a luci rosse, sono importanti per tenere vivo il rapporto famigliare con la compagna e i propri figli, in modo che nella loro crescita percepiscano il calore del padre. Tutto questo serve al detenuto che, dopo una lunga condanna, rischia di diventare un estraneo nell’ambito famigliare una volta libero, perché è questo che succede per la maggior parte dei detenuti con pene lunghe da scontare.

Bisogna tener presente che tanti detenuti hanno figli che, quando escono dall’adolescenza, hanno bisogno di visite psicologiche e psichiatriche, a causa di quei colloqui fatti in carcere da piccoli. A tutt’oggi i colloqui svolti in carcere con i famigliari sono controllati a vista e ripresi dalle telecamere, c’è sempre un agente che guarda, che ti proibisce di tenere abbracciati i tuoi cari, di scambiare delle coccole con la tua compagna e con i figli. Ecco perché si spera che nelle nuove riforme approvino i colloqui intimi, in modo che ogni detenuto salvaguardi il rapporto con i propri famigliari. Con la famiglia di origine e, per chi è sposato, con la propria compagna e i figli.

Attualmente parecchi dei detenuti che stanno scontando pene detentive lunghe vengono abbandonati dalla propria compagna e anche dai loro figli, a tutto questo a volte contribuiscono quei magistrati di Sorveglianza che non applicano o applicano col contagocce ai detenuti i benefici dell’Ordinamento penitenziario, in particolare i permessi premio, a chi è nei termini di legge. Invece è importante che si capisca che i permessi premio sono un percorso necessario non solo per chi è rinchiuso, ma soprattutto per i famigliari che sono in attesa di accogliere il figlio, il marito o il compagno.

Oggi i famigliari dei detenuti si sentono a volte presi in giro da un sistema burocratico che rende difficile la concessione di benefici, e questa è anche la causa della rottura delle famiglie dei detenuti. Quando un detenuto richiede il permesso premio, si svolge un’attività di verifica mirata a capire se ci sono i requisiti per concederlo, dunque anche i famigliari vengono coinvolti e cominciano a sperare che a breve tornerà a casa il figlio o il marito per qualche giorno. Ma per tanti detenuti non è così, e gli viene comunicato che non possono usufruire dei permessi perché il fine pena è ancora lontano. Figuriamoci chi ha una condanna all’ergastolo. Eppure una condanna fatta scontare fino all’ultimo giorno rinchiusi alza la recidiva, e invece il giusto percorso per il detenuto è quello che gli consente di conservare gli affetti famigliari, in modo da non essere abbandonato dai propri cari e da non dover affrontare da solo il rientro nella società.

 

 

Il “miracolo” di una domenica a pranzo con i propri cari in carcere

 

a cura della redazione di Ristretti Orizzonti

 

“Bellissima giornata! Piena di emozioni e di esperienze nuove: mangiare qualcosa insieme, fare qualche passo mano nella mano… è stato un bel regalo! Grazie Ristretti Orizzonti”.

È bello, questo messaggio che abbiamo ricevuto dalla compagna di una persona detenuta, appena rientrata dal primo “colloquio lungo” avvenuto nella palestra della Casa di reclusione di Padova: quattro ore per pranzare insieme ai propri cari, una domenica quasi come una famiglia vera.

Ma perché ci prendiamo volentieri i ringraziamenti?

I ringraziamenti vanno certamente alla direzione, e alla Polizia penitenziaria in particolare, perché la domenica è sacra per tutti, e non è facile accettare di rinunciare un po’ alle proprie feste per una iniziativa come questa. Però questa questione dei “colloqui lungi” a rotazione per tutti, non solo per la festa del papà, per poter assaporare la gioia di pranzare con i propri cari la domenica, è una richiesta che Ristretti Orizzonti aveva avanzato anni fa, e a ogni incontro con il Direttore avevamo tenacemente insistito sull’importanza di questa proposta, finché si sono convinti tutti della sua utilità. E la cosa è iniziata.

 

Ricordiamo anche che le proposte minime per “ridurre i danni da sovraffollamento e salvare gli affetti delle persone detenute” Ristretti Orizzonti le aveva elaborate anni fa e presentate nell’estate del 2011 all’allora Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Franco Ionta.

Le riportiamo qui sotto, chiedendo che in tutte le carceri, come nella Casa di reclusione di Padova, si possa non solo aprire le celle per buona parte della giornata, ma anche consentire a tutti di telefonare di più e di pranzare ogni tanto con i propri cari.

 

Ricordiamo inoltre che il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri ha ribadito in questi giorni l’importanza di una maggiore apertura delle celle. Sì, è IMPORTANTE, ma è importante anche che quelle ore di “apertura” non siano ore vuote di passeggi in una sezione strapiena, ma siano ore piene di contenuti.

Chiediamo allora che le associazioni di volontariato, i giornali delle carceri, la scuola, le cooperative siano chiamati intorno a un tavolo a parlare con il Ministro di come dare un senso al tempo recluso. E, tanto per cominciare, che l’orario di permanenza negli istituti dei volontari sia ampliato da subito.

 

 

documento del 2010

Proposte minime di riduzione del danno da sovraffollamento carcerario

 

Si può fare qualcosa perché le persone detenute non finiscano a marcire nelle galere nell’indifferenza di tutti?

 

La redazione di Ristretti Orizzonti ha elaborato delle Proposte minime di riduzione del danno da sovraffollamento carcerario, sia per i detenuti che per le loro famiglie, indirizzate ai Provveditorati dell’Amministrazione penitenziaria, ai direttori delle carceri, ai magistrati di Sorveglianza. Si tratta di proposte semplici (attuabili da subito e a costo zero dalle direzioni) già in parte presenti nella lettera circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del 24/04/2010 (Nuovi interventi per ridurre il disagio derivante dalla condizione di privazione della libertà e per prevenire i fenomeni auto aggressivi) e in quella del 7/7/2010 (Ulteriori iniziative per fronteggiare il sovraffollamento), che non dovrebbero però costituire un “invito alle Direzioni” a metterle in pratica, ma essere recepite come misure fondamentali per riportare un minimo di legalità nelle carceri.

 

Chiediamo quindi che le indicazioni presenti nelle circolari diventino disposizioni vincolanti per le Direzioni e non suggerimenti da attuare a discrezione

 

·         apertura 24 ore su 24 dei blindi per favorire la ventilazione e il ricambio di aria nelle celle sovraffollate;

·         apertura delle celle nel corso di tutta la giornata con libero accesso alle docce;

·         utilizzo più ampio possibile dell’area verde per i colloqui;

·         concessione dell’aria estiva: un’ora aggiuntiva di passeggi dalle 17:00 alle 18:00;

·         aumento delle ore di attività sportive (campo e palestra) e predisposizione di attrezzi nelle aree dei passeggi per permettere alle persone, compresse per ore nelle celle in spazi ridottissimi, di fare almeno un minimo di esercizio fisico;

·         utilizzo di tutti gli spazi comuni nelle sezioni per iniziative che coinvolgano i detenuti, che non lavorano e non sono impegnati in nessuna attività;

·         accesso del volontariato nelle carceri almeno fino alle 18

 

 

 

documento del 2012

Diritto all’amore della propria famiglia

Piccole proposte per “salvare” le famiglie delle persone detenute

 

Nelle carceri è sempre più difficile rispettare la Costituzione, sia per quel che riguarda il fatto che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, sia per quella rieducazione che ormai per migliaia di detenuti è solo una parola vuota.

In questa situazione, quello che almeno si potrebbe fare subito è promuovere finalmente alcune misure per “salvare” le famiglie:

 

·         in considerazione del sovraffollamento in strutture, pensate e attrezzate per ospitare meno della metà dei detenuti presenti, per cercare di “salvare” le famiglie sarebbe opportuno portare almeno a otto le ore mensili previste per i colloqui;

·         dovrebbero essere organizzati colloqui lunghi, in aggiunta alle ore mensili da  Regolamento, per pranzare con i propri cari, possibilmente di domenica, per dar modo alle famiglie di vedersi in condizioni di quasi normalità;

·         dovrebbero essere migliorati i locali adibiti ai colloqui, e in particolare all’attesa dei colloqui, anche venendo incontro alle esigenze che possono avere i famigliari anziani o i bambini piccoli, oggi costretti spesso a restare ore in attesa senza un riparo (servirebbero strutture provviste di servizi igienici);

·         dovrebbero essere concessi con maggior rapidità i colloqui con le “terze persone”;

·         dovrebbero essere autorizzati colloqui via Internet per i detenuti che non possono fare regolarmente i colloqui visivi, utilizzando anche sperimentalmente Skype;

·         dovrebbero essere concesse a tutti i detenuti due telefonate supplementari, senza necessità di fare richiesta e motivarla con particolari esigenze personali, in considerazione delle condizioni poco umane in cui stanno vivendo. Questo si può fare senza cambiare la legge, ma l’obiettivo dovrebbe essere per tutti una “liberalizzazione” delle telefonate, come già avviene in molti Paesi. E forse telefonare più liberamente ai propri cari, mantenere contatti più stretti quando si sta male e si sente il bisogno del calore della famiglia, ma anche quando a star male è un famigliare, potrebbe davvero costituire una forma di prevenzione dei suicidi. Vanno anche studiate possibilità di utilizzo di carte prepagate per chiamare all’estero, molto più economiche del costo attuale delle telefonate;

·         dovrebbero essere rese più chiare le regole che riguardano il rapporto dei famigliari con la persona detenuta, uniformando per esempio le liste di quello che è consentito spedire o consegnare a colloquio, che dovrebbero essere più ampie possibile, e raddoppiando il peso consentito per i pacchi da spedire alle persone detenute.

Chiediamo inoltre che sia predisposto in tutte le carceri il sistema della scheda telefonica come già in atto nella Casa circondariale di Rebibbia, nella Casa di reclusione di Padova e in altre carceri, sistema che permette un grande risparmio di lavoro, eliminando l’inutile burocrazia delle domandine per telefonare, e che consentirebbe di passare con più facilità a una “liberalizzazione” delle telefonate, come avviene appunto nella maggior parte dei Paesi europei.

* Nella Casa di reclusione di Padova è stata accolta dalla Direzione la richiesta di Ristretti Orizzonti e tutti i detenuti possono fare due telefonate in più al mese a fissi e cellulari senza distinzioni.

 

 

Una bellissima giornata in compagnia di mia figlia

 

di Ylli S.

 

Mi chiamo Ylli. Voglio mettere per iscritto l’esperienza vissuta domenica scorsa durante il colloquio con la mia famiglia, è stata una bellissima giornata passata in compagnia di mia figlia Caterina, che ha dieci anni, e la mia ex compagna, con la quale purtroppo non stiamo più insieme, ma fortunatamente siamo rimasti in buoni rapporti. Lei mi è stata sempre vicina nonostante la sofferenza che le ho causato, commettendo dei reati sempre di spaccio, perché essendo io tossicodipendente di guai ne combinavo abbastanza.

Nonostante tutto la mia ex compagna mi ha sempre portato ai colloqui mia figlia, e le racconta unicamente le cose positive, le dice che suo papà le vuole bene ed è bravo, e se sta in carcere è perché è successo un incidente, insomma le racconta solo il lato positivo, e si capisce allora perché mia figlia mi vuole veramente bene, e l’ultimo colloquio domenica scorsa, dopo cinque anni che sono in carcere, è stato il più bel colloquio che ho fatto in tutta la carcerazione.

Io voglio ringraziare la Direzione per i sacrifici che hanno fatto e pure gli altri compagni che hanno rinunciato a un giorno di attività sportiva, visto che il colloquio si è svolto nella palestra del carcere. Il giorno prima in cella ho preparato le lasagne al forno e un tiramisu, poi quando abbiamo pranzato insieme mia figlia diceva che il papà cucina molto meglio della mamma e vedevo negli occhi di lei la gioia che aveva per quel pranzo, consumato in compagnia della mamma e del papà.

È una esperienza indimenticabile: in quelle quattro ore eravamo una trentina di famiglie, tutti i bambini che giocavano, e tra noi ci scambiavamo dei dolci gesti di affetto e umanità, l’unica cosa che non ti può togliere nessuno perché nella sofferenza nascono tante cose positive.

Ho scritto questa esperienza per testimoniare che quello dei colloqui lunghi è un bel progetto e che vorrei che non si fermasse qui, ma che continuasse a svolgersi, visto che la domenica in carcere è il giorno più triste, mentre facendoci fare dei colloqui con i nostri famigliari e in particolare con i nostri figli, la domenica diventa la giornata più gioiosa e più felice. Ma vorrei ringraziare a nome mio e di tutti i compagni la redazione di Ristretti Orizzonti per la battaglia che hanno fatto e stanno facendo ogni giorno per ottenere dei benefici, che altrimenti senza di loro non credo verrebbero concessi.

 

 

A pranzo con i miei, in carcere

 

di Lejdi Shalari

 

Erano passati più di dieci anni dall’ultima volta che di domenica mattina mi sono preparato per fare qualcosa di bello. Ed è successo di nuovo domenica scorsa: sveglia alle sette, caffè e una merendina, e poi l’attesa perché alle dieci di mattina avrei incontrato mia madre per fare un picnic particolare. Io, partito dall’Albania dieci anni fa ancora minorenne, finito ben presto in galera qui in Italia, la scorsa domenica ho pranzato con mia madre dentro il carcere. L’iniziativa, davvero straordinaria, vuole aiutare i detenuti ad aver cura dei loro affetti, e della loro normalità aggiungerei io.

Può sembrare a chi si trova in libertà che io sia un alieno, ma non è cosi, sono un ragazzo di quasi 26 anni che da un bel pezzo non pranzava con sua madre. Ho apparecchiato la tavola nella palestra allestita a sala colloqui per l’occasione, mi tremavano le mani dall’emozione, ero felice come una pasqua e lo stesso mia madre, mentre ero lì vedevo attorno gli altri miei compagni, tutti emozionati certamente, vedevo i bambini giocare con un pallone fatto di carte, loro forse non capivano la gioia che trasmettevano a noi. L’aria magica di quella domenica è difficile da immaginare per chi non c’era, le famiglie come per incanto avevano un sorriso stampato sulle labbra. Durante la settimana ho pensato a quanto aiuto dia ai detenuti ritrovare un po’ della normalità che si vive fuori, a quanto un gesto o un incentivo al miglioramento incida sul nostro cammino, a quanto sia servito questo colloquio a curare la depressione che si vive nelle carceri italiane. Sicuramente iniziative del genere aiutano più di tutti i farmaci che vengono assunti dai detenuti per andare avanti.

Mi auguro di cuore che questa iniziativa non resti unica, perché certamente la migliore medicina in questi posti è l’umanità. Quell’umanità che mi ha permesso di mangiare con mia madre dopo dieci anni.

 

 

 

Basta un colloquio in più per rafforzare gli affetti famigliari

A pranzo con la mia famiglia: sono state quattro ore nelle quali ho dimenticato di essere in carcere, sono questi i momenti che ti danno speranza nel futuro

 

di Mohamed Tlili

 

Quando uno viene arrestato e portato in carcere, comincia a vedere distruggere pian piano le sue relazioni, gli affetti famigliari e i rapporti con i figli, mentre basterebbe solo un po’ di più umanità, per rendere meno precari i nostri legami famigliari. Ma con sei ore di colloqui al mese è difficile rafforzare quegli affetti di cui uno ha bisogno in un ambiente pieno di sofferenza e malinconia. E finalmente il direttore ha mostrato la sua umanità, accogliendo la proposta di Ristretti Orizzonti di avere la possibilità di effettuare, seppure in via sperimentale, un colloquio lungo quattro ore con i propri famigliari. Ed è stata una cosa che ha trasmesso alla maggioranza dei detenuti entusiasmo e felicità per un grande passo avanti in fatto di rapporti famigliari.

Proprio oggi, domenica, abbiamo fatto il primo colloquio a cui hanno partecipato 25 famiglie. Guardando le facce dei detenuti e dei loro cari, si vede la felicità di tutti, grandi e piccoli, sembra una festa dove i bambini giocano e gli adulti chiacchierano, con il piacere di mangiare qualcosa di diverso, perché siamo stati autorizzati a far portare anche da fuori cose cucinate dai parenti.

A pranzare con me sono venuti due dei miei fratelli, è stata una delle belle cose che ho avuto dopo cinque anni di galera, perché per quasi 15 anni non ci siamo visti tutti e tre insieme, seduti allo stesso tavolo, e fortunatamente nostra madre ci ha mandato del cibo che ha cucinato lei, mi credete ho provato in tutto il mio essere fisico emozionale e spirituale una esplosione di vita, di felicità e di serenità. Abbiamo parlato del più e del meno, ci siamo immersi nei ricordi di quando eravamo tutti insieme con tutta la famiglia, ci siamo divertiti un sacco, sono state quattro ore nelle quali ho dimenticato di essere in carcere, sono questi i momenti che ti danno speranza nel futuro e ti fanno sentire che esiste qualcuno che ti vuole bene (un fratello, una moglie, una fidanzata).

Per questo l’affettività oltre che un diritto fondamentale e imprescindibile è una possibilità di riabilitazione, di sviluppo e di crescita interiore.

Spero che questo tipo di colloqui continui per sempre e non rimanga una cosa sperimentale che finisce lì.