Un
permesso di necessità costruito per dare affetto a un figlio
La
frattura che la carcerazione provoca,recide così profondamente le relazioni
umane, che non basta una vita per ricostruirle
di
Monica Lazzaroni,
Presidente
del Tribunale di Sorveglianza di Brescia
Premetto
che la donna di cui parlerò è ormai libera perché ha terminato di espiare la
sua pena. In passato, si è resa responsabile di uno dei reati più gravi,
l’omicidio, consumato ai danni del marito dopo una vicenda matrimoniale
conflittuale e caratterizzata da forte tensione. Si è trattato di una donna che
ha subito, nel corso della sua vita coniugale, maltrattamenti e gravi angherie
poste in essere sia dalla vittima che dai parenti della stessa. Non è stata
riconosciuta l’attenuante della provocazione e, pur tuttavia, si è pervenuti
ad una condanna che la collettività non giudicherebbe degna di un paese civile:
anni 9 e mesi 4 di reclusione, riconosciute le attenuanti generiche prevalenti
sull’aggravante del rapporto di coniugio, la diminuente del rito nonché il
risarcimento alle parti offese costituite dai genitori e dal fratello della
vittima. Nella determinazione della pena si è attribuita molta rilevanza al
comportamento violento ed aggressivo della parte offesa, antecedente al delitto;
si è ritenuto, infatti, che l’autrice del reato avesse agito con dolo
d’impeto in una condizione di totale esasperazione.
Aggiungo
qualche dato di carattere cronologico alla vicenda perché assolutamente
significativo. L’omicidio è stato consumato nel 1995, epoca nella quale
l’unico bambino della coppia aveva due anni e da quel giorno il piccolo,
privato bruscamente della figura paterna, ha continuato la convivenza con la
mamma, interrotta solo per un brevissimo periodo nell’immediatezza dei fatti:
la donna, infatti , è stata arrestata e detenuta in stato di custodia cautelare
in carcere per un paio di mesi e subito scarcerata in quanto ritenuta non
socialmente pericolosa.
L’esecuzione
della condanna ha avuto inizio il 9 giugno del 2000, cinque anni dopo la
commissione del reato.
Il
bambino, ignaro della responsabilità della mamma per la morte del papà e delle
circostanze ad essa correlate, aveva allora sette anni. Privato delle figure
genitoriali, venne affidato prevalentemente alle cure dei nonni materni e, solo
in parte, di quelli paterni.
E’
un’ età nella quale i bambini cominciano a porsi delle domande e, se non
avviene in autonomia, sono gli amichetti ad intervenire o chi per essi, tanto più
se determinati eventi accadono non in grandi città ma in luoghi dove le vicende
umane sono conosciute e motivo di conversazione.
La
nostra legge penitenziaria, quanto meno quella sulla carta, è bellissima, ma
cosa ben diversa è la sua reale attuazione. Molte sono, infatti, le buone
intenzioni nel nostro ordinamento e un tempo ancora considerevole dovrà
trascorrere perché possano trovare applicazione: basti pensare che dal ’75 si
è previsto che le “celle “ dei detenuti dovessero fungere esclusivamente
per il pernottamento degli stessi anche se di regime detentivo cosiddetto
“aperto” si parla solo da una manciata di mesi.
Variegato
e di elevata civiltà giuridica è anche il ventaglio di possibilità di
espiazione della pena in forma alternativa al carcere, eppure timidamente
applicate: a titolo esemplificativo ed in un’ottica di gradualità, si va dal
permesso premiale alla detenzione domiciliare, semilibertà, affidamento in
prova al Servizio Sociale, liberazione condizionale.
Trattasi,
tuttavia, di istituti giuridici sottoposti a requisiti soggettivi ed oggettivi
che nel caso di specie, ovvero in presenza del grave reato commesso, possono
trovare applicazione non certo dopo un breve periodo di carcerazione.
Per
essere più chiara, la prima opportunità di uscita dal carcere per l’autrice
dell’omicidio sarebbe maturata dopo l’espiazione di almeno metà della pena
inflitta, con la tragica conseguenza che quel bambino, lasciato all’età di 7
anni, avrebbe potuto rivedere la propria madre non prima degli 11 e per qualche
giorno al massimo.
Come
spesso accade in questi casi, i figli sono tenuti all’oscuro delle
carcerazioni dei familiari sia per preservarli da ulteriori sofferenze che per
l’enorme difficoltà di confessare le gravi colpe di coloro che, per
definizione, dovrebbero costituire l’esempio di una vita improntata al
rispetto delle regole.
Questa
madre si è sempre rifiutata di far vedere al proprio bambino, così piccolo e
già provato dai dolorosi eventi subiti, la triste realtà del carcere,
limitandosi ad intrattenere con lo stesso rapporti telefonici settimanali: di
fronte alle costanti sollecitazioni di fare ritorno a casa, un’unica, costante
e pietosa bugia: “la mamma è all’estero per lavoro”. Settimanalmente tuo
figlio, il tuo unico figlio al quale hai sottratto il padre e verso il quale sei
divorata da immani sensi di colpa, chiede di te perché è di te che ha bisogno
e tu non puoi esserci.
A
metà dell’anno 2001, tuttavia, si celebrò la Prima Comunione di questo
bambino e venne formulata la richiesta di potervi partecipare.
L’Ordinamento
penitenziario prevede, accanto agli istituti giuridici già accennati, il cd.
“permesso di necessità”, concedibile in presenza di un imminente pericolo
di vita di un familiare o di un convivente ed eccezionalmente per eventi
familiari di particolare gravità.
I
presupposti giuridici di questo permesso sono particolarmente stringenti, ma
sempre meritevoli di umano apprezzamento da parte del magistrato di
Sorveglianza. Per quel che mi riguarda, e sempre nel rispetto dei paletti
imposti dalla legge, mi rifiuto di concedere il permesso al detenuto per recarsi
al capezzale del familiare soltanto quando quest’ultimo non è più in grado
di riconoscerlo, mentre ritengo che l’imminente pericolo di vita possa
coincidere con una fase avanzata della malattia, tale tuttavia da consentire al
familiare di interagire ancora con il proprio caro, dando un significato umano a
quel verosimile ultimo incontro. Non dimentichiamo che in carcere uomini e donne
giustamente privati della libertà vivono in solitudine la morte degli affetti
anche più cari: madri, padri, fratelli, sorelle, mogli, mariti, conviventi.
E’
mediante la concessione di questo permesso (otto ore) che la detenuta esce per
la prima volta dal carcere e dopo un anno esatto dall’inizio della
carcerazione può riabbracciare il figlio ed essere presente a quel Sacramento,
la cui celebrazione costituisce, anche per la Cassazione, un evento di
particolare gravità, accezione quest’ultima non necessariamente di contenuto
negativo.
Agli
atti sono conservate le numerose lettere che la detenuta mi ha scritto
descrivendo gli stati d’animo vissuti durante il primo incontro con il figlio,
le emozioni provate, la gioia ed il dolore e soprattutto la crescente paura per
il futuro del proprio bambino, quella paura che non ha tardato a materializzarsi
proprio attraverso le parole dello stesso: “mi hanno detto a scuola che la
mamma …”.
E
qui è cominciata un’altra tragedia che non poteva essere ignorata, né poteva
aspettare i tempi del permesso premiale: dopo un anno e mezzo di carcerazione,
raggiunti quasi i nove anni, il bambino aveva visto la mamma una sola volta e
per qualche ora ma le “voci” ed i pettegolezzi sempre più insistenti nella
piccola realtà di vita del bambino e l’incapacità dei nonni di arginare la
situazione, hanno imposto di individuare una soluzione. Vi era un’unica
possibilità, il ricorso allo strumento del permesso di necessità.
Nel
frattempo nell’interesse del bambino, portato inevitabilmente a conoscenza
dello stato detentivo della madre, venne richiesta, da parte del competente
Distretto Sociale, la presenza della madre “per iniziare un programma di
sostegno al minore oltre che a tutto il nucleo familiare”.
Viene
“costruito” il permesso di necessità nel pieno convincimento, supportato da
tutta la documentazione agli atti e dagli elementi direttamente acquisiti
durante i numerosi colloqui con la detenuta, che si fosse in presenza di “un
evento familiare di particolare gravità”, in un’accezione dal contenuto
fortemente negativo.
Era
importante che tale permesso venisse adeguatamente motivato, affinché si desse
contezza che i paletti giuridici richiesti dalla legge fossero stati rispettati.
Ne riporto alcuni passaggi: ”…il bambino già gravemente provato, prima,
dalla perdita del padre poi dalla prolungata assenza della madre, è stato
tenuto all’oscuro delle circostanze della morte della figura genitoriale
paterna, sia delle responsabilità della figura genitoriale materna che hanno
condotto all’attuale stato di detenzione iniziato… Il confronto costante con
i nonni, a cui è affidata la cura e l’assistenza, ha permesso di evidenziare
la necessità di esplicitare al bambino, con i modi e tempi necessari ed
adeguati, quanto è avvenuto nella sua famiglia, permettendogli di avvicinarsi
gradualmente alla verità ed aiutandolo a rimettere insieme i pezzi di una
storia confusa e ambigua. Perché questo avvenga pare necessaria la possibilità
d’incontro in un contesto familiare, con i tempi e i modi adeguati ad
affrontare un tema così grande e doloroso”.
Non
era possibile organizzare l’ incontro tra madre e questo figlio nella
“sala” colloqui del carcere perché il carcere non era l’ambiente
adeguato, non poteva consentire affettività né relazioni. È stato necessario
permettere alla madre di uscire dall’Istituto di pena per riallacciare, sia
pure faticosamente, i rapporti con il proprio figlio.
Dal
gennaio del 2002 all’aprile del 2004 la donna ha fruito dei permessi di
necessità riuscendo pian piano, anche con l’aiuto di personale specializzato,
a ricostruire una relazione con il figlio, in una fase quanto mai fragile e
delicata per l’equilibrio psico-fisico di un bambino (dagli otto anni e mezzo
agli undici).
Il
percorso è stato contrassegnato da numerose e crescenti difficoltà, generate
da una presenza comunque ad “intermittenza” dalla madre, da miglioramenti,
spesso solo apparenti, dalla difficoltà di tornare ad avere fiducia in lei. Ben
presto anche il luogo di fruizione del permesso, l’abitazione dei nonni
materni, si è rivelato inidoneo perché la relazione madre-figlio, in fase di
complessa ricostruzione, si intersecava con la relazione costantemente vissuta
con i nonni materni e paterni e con la sovrapposizione di interventi, seppure
involontari, spesso fra di loro confliggenti.
In
sintesi: il bambino appariva sempre più confuso e si rendeva necessario
consentire, cosa che avvenne, che le visite fra i due avvenissero in un contesto
neutro, ove mamma e figlio potessero vivere momenti di intimità, senza
interferenza alcuna.
Nel
2003 la condannata venne ammessa a svolgere attività lavorativa all’esterno
(art. 21 O.P.).
Successivamente,
nell’aprile del 2014, quando il bambino aveva ormai undici anni, (ne aveva
sette quando la madre entrò in carcere), la donna ha potuto iniziare a fruire
dei permessi-premiali, avendo espiato la metà della pena ed in presenza di
tutti i requisiti di meritevolezza.
Nel
2005 venne concessa la misura alternativa della semilibertà e nel 2006
l’affidamento in prova al Servizio Sociale.
Nel
2008 ha terminato di espiare la pena: il figlio aveva allora 15 anni. Oggi ne ha
19.
Non
sono mai riusciti a vivere insieme, se non per brevi periodi e non certamente
perché il ragazzo non ha ricostruito una relazione umana ed affettiva con la
propria madre, ma perché la ferita che la detenzione ha provocato non si è mai
completamente rimarginata. La carcerazione recide così profondamente le
relazioni umane che non basta una vita intera per ricostituirle.
Questo
figlio è un bravo ragazzo, anche perché l’ambiente familiare nel quale il
grave reato si è sviluppato era comunque sano, precisazione doverosa per
sfatare un luogo comune: non tutti i detenuti vengono da contesti
delinquenziali. Il reato, talvolta, nasce in ambienti legati a marginalità,
povertà, incapacità di comunicare e di comprendere, mancanza di solidarietà e
di quegli affetti necessari per la vita di ogni essere umano.
In
questo caso, il reato si è verificato in presenza di contingenze che mai più
si ripeteranno nella vita di quella persona, un fatto gravissimo, gravissimo che
nessuno vuole negare, ma se non avessimo concesso a questa donna l’opportunità
di rimettere insieme i pezzi rimasti della propria vita, forse avremmo perso
anche il loro unico figlio.
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Intervento
al convegno “Famiglia e
affetti nella vicenda penitenziaria”, organizzato dalla Società
San Vincenzo De Paoli, Mantova 11 ottobre 2013
Una
proposta di legge per le famiglie più sole e più abbandonate
Nel
2002 avevamo elaborato, in una Giornata di studi dal titolo “Carcere: salviamo
gli affetti”, una proposta di legge sugli affetti delle persone detenute, e la
possibilità di “salvarli” anche attraverso i colloqui intimi, non
controllati a vista, che era stata sottoscritta da più di 60 parlamentari di
tutti gli schieramenti politici. Ma come succede spesso, le cose sensate nel
nostro Paese non trovano spazio, e quella proposta di legge non è mai stata
calendarizzata nei lavori parlamentari. Di recente, alcuni parlamentari del PD,
Sel, M5stelle, hanno incontrato la redazione di Ristretti Orizzonti: a loro
abbiamo chiesto di portare avanti questa battaglia, di tutelare con forza i
diritti delle famiglie delle persone detenute, speriamo che siano davvero in
tanti a sostenere la nostra proposta di legge.
Condannati
ad amare senza fare l’amore
di
Carmelo Musumeci
Il
sesso dura qualche istante, l’amore invece tutta una vita (Frase anonima
scritta sulla parete di una cella).
Nelle
carceri in Croazia sono consentiti colloqui non sorvegliati di quattro ore con
il coniuge o il partner. In Germania alcuni Lander hanno predisposto piccoli
appartamenti in cui i detenuti con lunghe pene possono incontrare i propri cari.
In Olanda, Norvegia e Danimarca vi sono miniappartamenti, immersi nel verde,
forniti di camera matrimoniale, servizi e cucina con diritto di visite senza
esclusioni relative alla posizione giuridica dei reclusi. In Albania, una volta
la settimana, sono previste visite non sorvegliate per i detenuti coniugati. In
Québec, come nel resto del Canada, i detenuti incontrano le loro famiglie nella
più completa intimità all’interno di prefabbricati, siti nel perimetro degli
istituti di pena, per tre giorni consecutivi. In Francia, come in Belgio, sono
in corso sperimentazioni analoghe: la famiglia può far visita al detenuto in un
appartamento di tre stanze con servizi, anche per la durata di quarantotto ore
consecutive. In Canton Ticino (Svizzera), chi non fruisce di congedi esterni può
contare su una serie articolata di colloqui anche intimi in un’apposita
casetta per gli incontri affettivi. In Catalogna (Spagna) si distinguono i
“Vis a vis”, incontri in apposite strutture attrezzate per accogliere
familiari e amici. La possibilità di coltivare i propri affetti è prevista
anche in alcuni Paesi degli Stati Uniti e in quasi tutte le altre parti del
mondo. In Italia invece fare l’amore con la donna che ami in carcere è un
grave reato.
Nel
nostro Paese dicono che la famiglia è la principale e basilare formazione
sociale che costituisce la “prima cellula” della società. E che la persona
umana conserva pienamente anche nella condizione di detenzione il suo diritto
inalienabile alla manifestazione della propria personalità nell’affettività.
Eppure io e la mia compagna sono ventitré anni che sogniamo l’amore senza
poterlo fare. Lei, anche dopo tanti anni, è ancora l’amore che avevo sempre
atteso. Mi ricordo ancora le sue prime parole, i suoi primi sorrisi e i suoi
primi baci. Da molti anni viviamo giorni smarriti, perduti e disperati. Da tanti
anni lei ama e si fa amare da un uomo senza speranza e senza futuro. Da ventitré
anni il suo amore mi genera la vita di giorno e di notte. Eppure da molti anni i
suoi sorrisi sanno di tristezza, delusione e malinconia perché da tanti anni le
mie mani non la accarezzano. Da ventitré anni penso a lei in ogni battito del
mio cuore. Da molti anni mi sta dando tanto ed io invece così poco, perché
nonostante lei per me sia il mare, il cielo, il sole e l’aria che respiro, da
tanti anni ci abbracciamo, ci baciamo e ci amiamo solo con i nostri pensieri.
In
carcere gli affetti e le relazioni, il rapporto stesso di un individuo con le
persone amate, con la propria vitalità e con i desideri viene sepolto. Di
fronte all’impossibilità di coltivare i sentimenti se non in forme
frammentarie ed episodiche (i colloqui, le lettere, le telefonate dalla sezione)
spesso i detenuti e le detenute cancellano l’idea stessa di potersi sentire
ancora vivi e vive nel cuore. Mentre il corpo viene abbandonato come un cadavere
nel fiume, oppure, al contrario, imbalsamato nella cura ripetitiva degli
esercizi di palestra, fino a raggiungere una forma perfetta quanto
inservibile.
È
triste, quando si apre il cancello del carcere, non trovare nessuno fuori che ti
aspetta
di
Alain Canzian
Quello
che oggi dovrebbero fare le istituzioni, sapendo che non sono in grado di
garantire la legalità nelle carceri, è di ascoltare tutte le storie di ognuna
delle persone detenute, specialmente quando parlano di quegli affetti con i
quali piano piano perdono ogni contatto, se non gli si consente di coltivarli,
incominciando proprio dai colloqui intimi, cosa che in molti paesi già è
autorizzata.
Certo
negli anni passati molte volte è emerso questo problema, e già qualcuno
parlava di celle “a luci rosse”, senza capire quanto importante è, per chi
è detenuto, non perdere la moglie. Ma quando si ha una pena importante, come si
può sperare che la tua compagna ti aspetti tutti quegli anni se non può avere
anche un po’ di intimità? certamente se lei trovasse un altro legame sarebbe
del tutto comprensibile. Io sono un detenuto come tanti, solo che non ho una
donna fuori che mi aspetta, ma ho dei figli, e in tutti questi anni di
carcerazione ho cercato di recuperare la loro fiducia e il loro affetto,
purtroppo con esito negativo. Loro stanno crescendo, oramai abituati a vivere
senza avere un padre vicino a loro, e soprattutto non l’hanno avuto quando più
ne avevano bisogno, e tutto questo porta molta tristezza. Io non so se nel mio
caso le istituzioni potevano fare qualcosa, io penso di si, ci sono persone in
carcere che ti devono educare perché hai sbagliato, ma se non lo fanno quando
tutto questo riguarda la famiglia, cosa c’è di più importante? Esistono gli
assistenti sociali che dovrebbero seguire sia il condannato sia tutto quello che
c’è attorno a quella persona, specialmente se di affetti si parla, ma in
tempi di sovraffollamento non ci sono mai operatori a sufficienza per occuparsi
di questi problemi.
Ho
combattuto molto in questi anni di galera e in qualche modo sono stato premiato,
perché ho potuto usufruire dei permessi premio, incominciando ad uscire per
qualche ora, prima con il Progetto scuola/carcere e poi in una Casa famiglia
protetta, una fortuna che ci sia non avendo io una famiglia che mi può
ospitare. Però non voglio piangermi addosso e se ora le cose non vanno per il
verso giusto, ho molte colpe, ma vivo con la speranza che anche i miei figli
potranno capire o almeno ascoltare quel padre che anni fa ha avuto uno
sbandamento.
A
dire la verità, devo almeno essere un po’ felice perché ho ancora un padre
che, pur avendo una età molto importante, non perde una occasione per farmi
visita, dal momento che ora posso incontrarlo al di fuori di un istituto di
pena, senza essere guardato a vista. Ricordo quelle poche visite che mio padre
mi faceva in carcere, era sempre molto spaesato e mi diceva con grande
sofferenza: “Guarda cosa mi è capitato, chi l’avrebbe mai detto che dovevo
entrare in un posto cosi?”. Però devo ancora dire grazie, perché non sono
proprio abbandonato a me stesso, ed è ancora lui che mi dà la forza di
continuare a lottare per tutti quegli obiettivi che devo realizzare per tornare
ad essere una persona normale.
Ecco perché la famiglia è così importante, e chi ci controlla a vista deve capire che se un detenuto perde queste grandi cose, non potrà certo continuare a portare avanti il suo percorso di cambiamento, sapendo che un domani quando si aprirà l’ultimo cancello non troverà nessuno fuori che lo aspetta. Proprio per tutto questo bisogna coltivare bene quel poco che ancora si ha, con la speranza di poter avere un futuro, magari invecchiando vicino a figli e nipoti.