Affetti
e carcere: il Belgio ma anche l’Albania e il Kazakhstan sono più civili di
noi
Sono
Paesi nei quali sono permessi i colloqui intimi per le persone detenute e le
loro famiglie, senza gridare allo scandalo, senza ipocrisie
Nel
Kazakhstan, alcune volte all’anno le mogli passano con i loro mariti detenuti
tre giorni e tre notti. Nelle carceri albanesi invece marito e moglie possono
passare insieme alcune ore, senza i controlli degli agenti. Succede, in Paesi
che noi riteniamo senz’altro meno civili del nostro, che le carceri abbiano
qualcosa di più civile che non in Italia, i colloqui “intimi”. È
particolarmente significativo il delicato racconto di una donna, moglie di un
detenuto politico, incinta, che in Kazakhstan va a trovare il marito in una
colonia penale e passa con lui tre giorni pieni di amore, di sofferenza anche,
di piccole cose condivise. Viene da vergognarsi a pensare che, quando in Italia
si è cercato di parlare di colloqui intimi per le persone detenute, i nostri
giornali hanno intitolato “Celle a luci rosse”.
Colloqui
intimi: nulla di cui scandalizzarsi
di
Elton Kalica
Recentemente
“The Economist” ha dedicato un articolo ai colloqui intimi in carcere
intitolandolo, No laughing matter che significa “Non c’è nulla da
ridere”. È curioso, ma il titolo risponde probabilmente alla reazione che
l’opinione pubblica ha su questo argomento in America e in Inghilterra. Vale a
dire che, quando un giornale parla di colloqui intimi in carcere, il rischio è
quello di suscitare nel lettore una risata. Ovviamente il tema è serio, e il
giornale - che sulla questione penale ha sempre avuto una posizione progressista
schierandosi contro la pena di morte e appoggiando progetti di riforma
dell’attuale sistema penale - esprime già la sua posizione critica con il
sottotitolo “Sempre più carceri consentono i colloqui intimi, a parte la Gran
Bretagna e l’America”.
È
una pratica insolita recensire un articolo, ma leggere altri che scrivono le
stesse cose che noi diciamo da anni, fa sentire meno soli in questa nostra
battaglia per introdurre i colloqui intimi in Italia. Sulle pagine di Ristretti
abbiamo raccontato di posti dove i colloqui intimi ci sono già, come Svizzera,
Spagna, Russia, Albania e Kazakhstan. E visto che The Economist ci ricorda oggi
come in Arabia Saudita e in Iran ci sono i colloqui intimi per i detenuti
sposati, e come più recentemente, il Qatar ha mostrato le villette
all’interno del “Central Prison” dove i detenuti potranno ricevere visite
prolungate di moglie e figli, così come la Turchia ha fatto entrare le
telecamere a riprendere le quattro stanze matrimoniali arredate all’interno
del carcere di Mus, credo che valga la pena recensire un articolo di poche
migliaia di battute.
Credo
che l’esempio dei colloqui intimi nei paesi musulmani sia importante anche per
l’Italia cattolica, perché significa che si può fare ovunque. Gli esempi
sono tanti. Così l’articolo ci ricorda come molti Paesi permettono le visite
anche a detenuti non sposati, e altri ancora sono andati oltre, come Costarica,
Israele e Messico che hanno esteso i colloqui intimi anche a partner dello
stesso sesso. Negli Stati Uniti invece solo cinque Stati consentono le “conjugal
visits”, mentre la Gran Bretagna no.
Il
dibattito sintetizzato da The Economist riporta alcune posizioni, come
quella di un funzionario del Dipartimento in Ohio che sostiene di non permettere
i colloqui intimi per evitare la diffusione di malattie e di gravidanze, quella
di Chris Hensley, un criminologo dell’università di Tennessee, che assegna
una connotazione deviante anche alla stessa frase “conjugal visits”.
L’inglese Paul Nuttall, parlamentare europeo, scarta invece ogni tipo di
studio sull’affettività in carcere definendolo uno spreco e “denunciando”
che le carceri sono già come dei “campi di riposo” invece che dei luoghi di
punizione. Un argomento simile a quello del nostro ex-ministro Castelli, che
aveva definito le carceri italiane degli “alberghi a 5 stelle”. Eppure,
ricorda The Economist, molte ricerche suggeriscono che i colloqui intimi non
solo riducono la violenza in carcere, ma riducono la recidività anche dopo il
carcere, in quanto aiutano a mantenere i legami familiari.
In
Canada i detenuti possono fare, ogni due mesi, un colloquio che può durare fino
a tre giorni, dove possono entrare coniugi, partner, figli, genitori e persino i
suoceri. Insomma un sistema dei colloqui come quello canadese è considerato
anche dall’Economist come un esempio di progresso perché assegna maggior
valore ai colloqui intimi, come descritto anche dalla compagna di un uomo
detenuto in Canada: “Cuciniamo insieme, giochiamo a carte, a bingo, e siamo
una famiglia... I bambini imparano a conoscere il loro padre”. “I
colloqui”, confessa il detenuto, “ci fanno sapere che là fuori c’è
ancora qualcuno che si preoccupa di noi”.
Se
i colloqui intimi sono un privilegio per alcuni Stati americani, ai detenuti
negli altri Stati rimane la speranza che le cose cambino se arriva un governo
diverso. In Italia invece è difficile fare previsioni. Le proposte di legge
sull’affettività in carcere sono state tante (Folena, Pisapia, Manconi, 1997;
Boato, 2002; Malabarba, 2006; Amalia 2010; Della Seta e Ferrante, 2012) e quando
c’è stata la prima proposta di legge, il tema dei colloqui intimi non ha
provocato risate, ma ha suscitato scandalo. I giornali hanno parlato di celle a
luci rosse, oppure di sesso libero in galera: un surreale ritorno alle reazioni
clericali (il sesso fuori dalle mura domestiche come peccato) e conservatrici
(il sesso come lusso che non si deve concedere a ladri e assassini).
Tuttavia
sembra che si respiri una nuova aria per quanto riguarda i diritti dei detenuti,
soprattutto perché l’Italia è stata condannata più volte da Strasburgo. E
allora, la nostra convinzione è che oggi si possa parlare di affettività o di
sessualità in carcere dicendo agli italiani “non c’è nulla di cui
scandalizzarvi!”. E intanto speranzosi aspettiamo di vedere che, tra le varie
riforme messe in atto dal Governo per rendere il sovraffollamento più
sopportabile, ci sia anche l’apertura dei colloqui.
A
Padova, dopo ripetute richieste della nostra redazione, si è sperimentato un
primo colloquio prolungato la domenica. Nella palestra del carcere alcuni
detenuti hanno potuto trascorrere qualche ora con i propri cari, fuori dalla
solita stanza e senza il solito cronometro delle sei ore mensili. La palestra si
prestava bene anche alla corsa dei bambini, che per una volta si sono visti i
padri lanciarsi al loro inseguimento, senza dover adempiere all’esigenza di
compostezza dettata dalla sala colloqui. Tuttavia, sarebbe tutto più dignitoso
se si potesse stare in un luogo intimo, lontano dagli occhi degli altri, e poter
essere genitori o figli, amici o amanti, per una notte intera.
Nelle
carceri del Kazakhstan, tre giorni e tre notti da passare con i propri cari
Testimonianza
della moglie di un detenuto nelle carceri del Kazakhstan
Voglio
condividere con voi le sensazioni che ho provato nel mio incontro in carcere con
mio marito Vladimir.
8
agosto mattina. Arrivo in aereo a Kokshetau e da lì raggiungo in più di
quattro ore Petropavlovsk. Stanno riparando la strada, dappertutto interruzioni,
la velocità non supera mai i 20 chilometri all’ora. A Petropavlovsk corro al
mercato per comperare i generi alimentari che mi servono… Tutta la sera e metà
notte l’ho passata a cucinare. La cucina comune nelle “stanze degli incontri
prolungati”, anche se è grande, non è sufficiente per 18 donne insieme. Per
questo avevo deciso che avrei preparato da mangiare il più possibile prima del
colloquio.
Il
9 mattina vado al carcere per consegnare i documenti per il colloquio. Dal
momento della consegna al momento in cui noi parenti veniamo fatti entrare,
passano quattro ore. Dappertutto recinzioni alte, filo spinato, cani, soldati
dell’esercito. Un’altra ora passa nel controllo di tutti i famigliari, e
anche dei prodotti alimentari. Alla fine ci comunicano il numero delle stanze.
Tutte noi, mogli, madri, sorelle corriamo subito in cucina per riscaldare
qualcosa, preparare il te, intanto che aspettiamo i nostri cari.
Poi
sono andata nella stanza. E li la schiena ha cominciato a farmi male, il bambino
si è mosso nella pancia. Ho pensato di stendermi cinque minuti prima di tornare
a vedere se arrivava mio marito. Ma non è andata così… Apro gli occhi, e lui
sta davanti a me, e sorride. Avevo proprio dormito! Volodja ride di me, scherza
sulla mia faccia assonnata, come faceva prima in libertà... mi chiama
“panciona”, e tutti e tre i giorni del nostro colloquio mi ha chiamata così.
La
mia schiena di tanto in tanto mi fa male, e visto che anche lui soffre di mal di
schiena, ci siamo fatti un massaggio a vicenda. Quanto poco basta agli esseri
umani per la felicità!
Decido
poi che passerò quei tre giorni a far mangiare Volodja 24 ore su 24, non mi
piace il suo aspetto, è troppo dimagrito. Subito gli annuncio che prepareremo
il pollo al forno, le polpette, dolci e ciambelle, e ci mangeremo tutto. Volodja
è l’unico maschio che aiuta in cucina, le altre donne invece passano quasi
tutto il giorno a cucinare mentre i loro mariti stanno seduti nella “sala
comune” a guardare la televisione.
Il
peggior nemico in questi incontri è il tempo che corre, e io sento che molto
presto si porteranno via di nuovo mio marito... Dopo il pranzo torniamo nella
nostra stanza per parlare, o stare seduti in silenzio, abbracciati. Ognuno di
noi sta cercando di non far vedere all’altro quanto male sta… Io un paio di
volte mi sono girata silenziosamente, per piangere di nascosto. Purtroppo, non
sempre sono riuscita a trattenere le lacrime.
Il
10 agosto abbiamo festeggiato il suo compleanno seduti a un tavolino mangiando
polpette. Volodja continuava a dire: Oggi ho mangiato come a casa, tutto fatto
in casa, tutto mi ricorda casa. La casa è dove sei stato bene. È stato
piacevole e triste allo stesso tempo.
Il
nostro bambino ha deciso di darci un po’ di gioia: ha cominciato infatti a
fare una attività frenetica. All’inizio scalciava sotto le mie mani, ma non
appena Volodja ha messo una mano sulla pancia, subito si è bloccato. Sembrava
che sentisse che erano le mani di uno sconosciuto… Così è stato per tutto il
giorno, ma alla sera il bambino era già abituato a suo padre e ballava
allegramente sotto le sue mani.
Il
tempo è volato senza che ce ne accorgessimo. Ed ecco arriva la mattina del 12
agosto. L’umore si fa sempre più nero, aspetti ogni minuto che vengano a
prendere i detenuti, tutto diventa triste.
Nell’aria,
c’è nervosismo. Tutti si guardano, come se fosse l’ultima volta. Poi anche
Volodja se ne va salutandomi a lungo con la mano.
A
questo punto ti rendi conto che la cosa peggiore non è il dolore fisico, è il
dolore nell’anima. E qualcuno dall’alto, per una specie di capriccio, gode a
infliggerti questo dolore... Mi assale un senso di solitudine, sento che mio
marito mi manca, che ho già nostalgia di lui, della vita insieme.
Per
noi donne è più facile: abbiamo pianto, poi ci siamo un po’ calmate. Ma ho
visto tanta sofferenza negli occhi di quelli che sono rimasti nella galera... Se
gli uomini potessero almeno piangere...
Nelle
carceri albanesi, colloqui prolungati svolti in ambienti riservati
di
Elton Kalica
Mi
trovo per un periodo di studio a Tirana, dove c’è un ufficio che svolge
visite ispettive nelle carceri. Si tratta di un’attività di monitoraggio
svolta all’interno dell’ufficio del Garante nazionale. Ho così
l’occasione di conoscere da vicino la condizione carceraria albanese.
Confesso
che la prima cosa che colpisce è come la Costituzione albanese abbia accolto le
direttive dettate da organismi internazionali che operano per insegnare a
rispettare i diritti umani. Ad esempio l’articolo 17 dichiara che le
limitazioni delle libertà e dei diritti non possono andare oltre ai limiti
previsti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Inserire nella
Costituzione la Carta internazionale più importante in materia di diritti umani
penso sia un grande gesto di umiltà. E penso anche a tutte le Corti italiane
chiamate in causa in questi anni per decidere su problemi nati nel dare
applicazione alle sentenze della Corte europea, e mi domando se un articolo
simile non potrebbe essere una soluzione.
L’art.
25 poi dichiara che nessuno può essere sottoposto a tortura, a pene o a
trattamenti inumani o degradanti. Ricordo le giornate passate sotto il sole
padovano a raccogliere firme per una proposta di legge che introduce il reato di
tortura, mentre qui la tortura c’è anche nel Codice penale, chiaramente
definita come circostanze e come sanzioni.
Ad
una prima lettura, la parte riguardante i rapporti con le famiglie sembra invece
essere stata copiata dall’Ordinamento penitenziario italiano. Infatti,
l’articolo 57 del Regolamento
penitenziario albanese prevede quattro colloqui al mese. Solo che il secondo
comma enuncia una cosa singolare, “uno dei colloqui è prolungato fino a
cinque ore, per i detenuti sposati e con figli”. Ancora, l’art. 41 della
Carta dei diritti e del trattamento dei detenuti, del 1998, dice che le visite
prolungate possono essere svolte in ambienti riservati. In poche parole, il
detenuto può trascorre uno dei quattro colloqui previsti in un mese, con moglie
e figli, in una stanza separata per un periodo prolungato: una frase semplice e
comprensibile, eppure, in Italia nessuno ha trovato il coraggio di scrivere
qualcosa del genere.
Anche
riguardo alle telefonate la normativa albanese supera quella italiana in quanto
prevede otto telefonate al mese, ciascuna della durata di 10 minuti (una a
settimana in Italia). E il Direttore può autorizzare altre telefonate
supplementari. Otto telefonate significa poter chiamare a casa ogni tre giorni,
un privilegio che farebbe arrossire d’invidia molti detenuti italiani.
Sicuramente
non sono così ingenuo da scrivere che le carceri albanesi garantiscono ai
detenuti livelli di vita migliori rispetto all’Italia. Le difficoltà
economiche, l’illegalità diffusa e la complessa situazione politica
ingabbiano la gestione della cosa pubblica in una situazione ancora molto
carente. Anche il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, visitando
le carceri albanesi, si è dapprima congratulato per l’aumento del numero
delle telefonate (specialmente per i minori che possono fare sedici telefonate
al mese) e del numero delle visite, poi però ha visto che nella maggior parte
degli istituti visitati l’orario dei colloqui era ridotto a 15-20 minuti. Una
pratica considerata intollerabile agli occhi degli esperti europei.
Se
in materia di colloqui e di telefonate la norma ha cercato di rispecchiare gli
standard europei, la cosa strana è che durante il processo di riforma del
sistema penale e giudiziario albanese, tra gli esperti chiamati a seguire il
lavori vi erano diversi italiani: non è facile immaginare i loro commenti
mentre i tecnici albanesi scrivevano “colloqui prolungati di 5 ore…”,
oppure “otto telefonate…”. Forse si sono resi conto anche loro che a Roma
c’è ancora molto da fare, e che si deve iniziare dalla riforma
dell’Ordinamento penitenziario, dove i colloqui intimi e la liberalizzazione
delle telefonate devono essere la priorità perché l’Italia possa diventare
davvero un esempio di civiltà.
Nelle
carceri del Belgio c’è rispetto e attenzione per le mogli e le compagne
E
i figli li puoi sentire due o tre volte al giorno al telefono, e puoi così
seguirli nella loro crescita
di
Biagio Campailla
Ho
vissuto nelle carceri in Belgio dal 1998 al 2003, finché non sono stato
estradato nelle carceri italiane. Quando arrivai in Italia dall’aeroporto di
Fiumicino venni tradotto nel nuovo complesso di Rebibbia. E capii subito la
grande differenza fra le carceri dell’Italia, patria del Diritto Romano e
della Cristianità, e quelle belghe.
In
Belgio facevo tre colloqui settimanali di un’ora, seduti intorno a un tavolo,
e mangiavo con la famiglia. Inoltre il mercoledì dalle 14,OO alle 18,00 mi
venivano portati i miei figli minori, e con una psicologa ed educatrice ci
lasciavano in una stanza bene attrezzata con giochi e materiale didattico dove
si potevano fare dei disegni, o dei montaggi in scatola. Si poteva aiutare i
propri figli a fare i compiti di scuola e poi si poteva fare anche una merenda
insieme.
A
livello affettivo nelle carceri del Belgio ci autorizzavano, o con la moglie o
con la compagna, a stare quattro ore al mese in una stanza ben arredata, con un
letto, una piccola cucina, un salottino e un bagno. Le visite coniugali si
potevano fare una sola volta al mese per quattro ore, oppure in due volte da due
ore. Ci si poteva portare da mangiare oppure all’interno si poteva acquistare
tramite delle macchinette qualcosa da bere o da mangiare. Le lenzuola le
portavano le nostre mogli o compagne.
Ma
la cosa più bella è che c’era un rispetto da parte degli agenti verso le
nostre mogli, anche perché erano accompagnate da agenti donne, che le
lasciavano davanti alla stanza e andavano via. Subito dopo arrivavo io, e mi
sentivo quasi come se fossi a casa mia. Nell’appartamentino c’era una doppia
porta per non sentire rumori, la stanza si trovava fuori dalle sezioni, e non
eri assolutamente condizionato dal fatto di trovarti in carcere. Durante quei
cinque anni ho passato i migliori momenti di intimità con la mia compagna,
perché c’era un grande affetto e ci si capiva su tutto. Lo stesso era il
colloquio con i miei figli, perché ti sentivi così in colpa di non essere
sempre presente, che in quelle quattro ore davi tutto te stesso. Poi li sentivo
due tre volte al giorno al telefono. E potevo seguirli nella loro crescita.
Nel regno del Belgio ti danno anche una seconda possibilità, perché la massima condanna è a trent’anni. E se è la prima volta che vai dentro ne fai dieci, e ti vengono sospesi i venti, cioè puoi essere liberato dopo aver scontato un terzo della pe5a, se prima della condanna eri incensurato, oppure dopo aver scontato due terzi della pena, in caso di recidiva. Ma soprattutto nelle carceri belghe non tolgono l’affettività con la propria famiglia.