Si
può parlare di amore e di affetti in carcere?
O
forse si può solo, più realisticamente, cercare di ridurre i danni prodotti
dal carcere sull’amore, sugli affetti, sulle relazioni familiari
di
Ornella Favero
A
un convegno a Mantova, dedicato al tema degli affetti , mi è stato chiesto di
trattare il tema “Si può parlare di amore e di affetti in carcere?”. Io
direi di no, o meglio direi che tutto ciò che si può fare è cercare di
ridurre i danni prodotti dal carcere sull’amore, sugli affetti, sulle
relazioni familiari. Però, vorrei parlare prima della responsabilità che
abbiamo noi fuori, come società, rispetto a questi temi, e faccio un paio di
esempi.
Noi
abbiamo, nel carcere di Padova, un grande progetto di confronto con le scuole,
in cui le persone detenute incontrano piccoli gruppi di studenti, una classe,
due classi, ma ne abbiamo incontrati veramente migliaia, e non è che le persone
detenute parlano di quanto si sta male in carcere, no! Loro partono da se
stessi, dalla propria vita, da come può capitare nella vita di una persona di
violare la legge e finire in carcere. Una delle cose più interessanti che sono
venute fuori da questi incontri è che ci sono stati dei ragazzi che, dopo anni
di silenzi e di bugie, vedendo le persone detenute portare la propria
testimonianza, hanno trovato durante quell’incontro in carcere la forza, il
coraggio di parlare della loro esperienza di figli di genitori detenuti, un
coraggio che non avevano mai avuto prima. Perché un figlio, un familiare di un
detenuto vive prima di tutto un sentimento, la vergogna.
Allora
io mi domando che razza di società siamo noi, che non sappiamo che far provare
vergogna a chi vive storie di questo genere. Questi ragazzi non l’hanno mai
detto nemmeno ai loro amici più cari e si portano questo peso, questo silenzio
dentro che è devastante nella loro vita, devastante. Ricordo che in uno di
questi incontri; a un certo punto una detenuta – questo avveniva nel carcere
della Giudecca, a Venezia – ha chiesto alla classe: ma come vi comportereste
se un vostro compagno avesse la madre o il padre in carcere?. E questa ragazza
si è messa a piangere, e poi ha detto: “Io non l’ho mai raccontato, ma mio
padre è in carcere”.
Ecco,
allora la prima cosa da sottolineare è che dobbiamo noi, persone libere,
imparare a metterci in discussine. Questa distanza fasulla – e lo dico anche
da giornalista – che abbiamo creato fra il carcere e la società, facendo
credere alle persone fuori che a loro non capiterà mai di finire in galera,
coglie talmente impreparate le famiglie, quando poi gli capita qualcosa –
perché capita, anche nelle famiglie regolari, normali, le belle famiglie…
talmente impreparate che la loro vita ne esce spesso distrutta. E questo è il
risultato della devastazione che procura questa informazione che non fa capire
in alcun modo che invece può succedere, può succedere a TUTTI.
A
me si rivolgono spesso delle persone “regolari”, l’insegnante, il
professionista, che dicono che improvvisamente gli è stato arrestato un figlio,
e del resto la droga, l’abuso di alcol, la guida in stato di ebbrezza sono
comportamenti che riguardano tutti, riguardano i ragazzi delle buone famiglie, i
ragazzi giovanissimi. La cosa triste è, e noi lo ripetiamo sempre perché è
significativo questo fatto, che un genitore è in qualche modo “preparato”
alla morte di un figlio, perché la morte può capitare – gli incidenti
stradali riguardano spesso persone giovani – ma non è preparato all’evento
di un figlio che finisce in carcere. Io ho sentito una madre dire “Avrei
preferito che mio figlio morisse…”; ma non l’ha detto con cattiveria,
l’ha detto con desolazione, con senso di vergogna, con la disperazione per
quel figlio arrestato e per il dolore, il male che lui aveva provocato.
La
responsabilità che abbiamo noi, società “dei liberi”, ha diversi risvolti,
perché un altro aspetto importante da sottolineare è che i figli delle persone
detenute sono molto più a rischio di avere loro stessi un’esperienza di
carcere, cioè di finire loro stessi in carcere, e i motivi sono tanti. Ma uno
di questi motivi è che le stesse istituzioni vengono spesso vissute da questi
figli, da questi ragazzi, come “il nemico”.
Credo
che noi dovremmo fare di tutto perché questi figli non vivano queste
situazioni, del carcere che colpevolizza anche i famigliari, del carcere che ti
perquisisce., ti tratta con sospetto.
Non
è semplice andare da un genitore in carcere, non è affatto semplice, per
questo è fondamentale che questi figli non crescano con il senso di
un’istituzione cattiva, solo punitiva, che tiene rinchiuso il loro genitore e
maltratta anche loro. E su questo molto si può e si deve fare.
Ci
sono poi ragazzi, figli di genitori detenuti, che addirittura – ho scoperto da
poco un’espressione che non conoscevo - dicono: “Io sono nato in
Matricola”, che vuol dire che il ragazzo, il figlio è stato riconosciuto dal
padre detenuto nell’Ufficio Matricola del carcere, già con il marchio del
carcere. Ed è questo che la società fuori fa molto spesso: applicare il
marchio del carcere, il marchio del “cattivo”, sempre con quella illusione
che “a me non capiterà mai”. E quindi io credo che il primo passo da fare
rispetto a questi temi è di portarli davvero dentro alla società, perché è
la società che ne deve discutere in modo non banale, che deve capire che può
capitare a tutti un’esperienza drammatica del genere.
Una
cosa interessante, sempre riguardo a questo progetto che noi facciamo con le
scuole - che secondo me dovrebbe essere per noi volontari l’impegno
prioritario - è proprio il coinvolgimento della società, che impone di trovare
delle modalità nuove di comunicazione. L’incontro dei ragazzi delle scuole
con le persone detenute, sia fuori, grazie ai permessi, che in carcere, è
fondamentale, perché pone al centro dell’attenzione l’altra faccia del
problema, quella della responsabilità. Io non sono una tenera con chi commette
reati, anzi mi batto duramente perché le persone si assumano la responsabilità,
e non è sempre così facile. Molto spesso il carcere, il carcere sovraffollato
di oggi, rischia di deresponsabilizzare le persone, perché ne sento tanti di
detenuti che in questa situazione in cui devono vivere, stipati in una cella in
condizioni disumane, vedono nell’istituzione “il nemico”. E il reato in un
certo senso sparisce, cioè non te lo ricordi più, perché sei talmente preso
dalla fatica di sopravvivere, che tutto il resto perde di significato.
I
primi a cui le persone detenute dovranno dare delle risposte sono proprio i loro
figli
Il
carcere così com’è adesso – e questo la società dovrebbe capirlo, e
preoccuparsene - tutto fa fuorché responsabilizzare le persone. Proprio nel
confronto con gli studenti ho visto invece che le persone detenute cominciano ad
affrontare la questione della responsabilità, prima di tutto perché vedono nei
ragazzi i loro figli, e si rendono conto che i primi a cui dovranno dare delle
risposte sono proprio loro. Perché i figli prima o poi te le pongono le
domande, e te le pongono in particolare quando esci. Finché sei in carcere
infatti la famiglia molto spesso in qualche modo ti protegge, perché capisce
che comunque sei in una situazione di sofferenza. Ma quando cominci a uscire il
conto te lo presenta, per il dolore e la vergogna che gli hai provocato – è
inevitabile questo.
Più
il carcere è aperto alla società, più le persone riescono a crescere nella
responsabilità.
Io
ho visto persone detenute parlare della loro storia, del loro reato, del
disastro della loro vita, con fatica, con sofferenza, ma con un fine chiaro,
importante: la mia testimonianza la metto al servizio di ragazzi giovani, che
potrebbero essere i miei figli, “rovescio la mia vita” e, da un’esperienza
così devastante com’è il carcere, traggo qualcosa che sento che può
servire. Sento che, se magari fermerò un ragazzo - per esempio in un percorso
di scivolamento verso la droga - io avrò reso quell’esperienza negativa in
qualche modo utile, le avrò dato un senso diverso.
Se
vogliamo allora davvero parlare di amore, di affetto e di responsabilità in
carcere, dobbiamo porci il problema di un carcere più aperto alla società, di
trovare dei modi per aprirlo di più alla società, e con società intendo anche
aprirlo di più alle famiglie delle persone detenute. E questo ci impone di
parlare del nostro Ordinamento penitenziario, perché è vero che per certi
versi è bello, è avanzato, però sugli affetti è antico, è rigido, è
superato, perché sei ore al mese per vedere i propri figli sono una miseria,
dieci minuti di telefonata a settimana sono una miseria.
In
questo numero di Ristretti pubblichiamo due articoli, sul tema degli affetti e
del carcere, uno riguarda l’Albania, l’altro il Kazakhstan, quest’ultimo
in particolare è il racconto di una moglie incinta che va a trovare il marito
nelle carceri del Kazakhstan. In queste carceri, come in tutti i Paesi dell’ex
Unione Sovietica e dell’Europa dell’Est, ci sono i colloqui intimi. Cosa
vuol dire? Vuol dire che la famiglia passa del tempo (in Kazakhstan tre giorni
quattro volte l’anno) con il suo parente detenuto senza i controlli visivi.
Sembra poco, ma è straordinaria questa cosa… Noi abbiamo pubblicato questa
lettera che ti fa accapponare la pelle, perché quando nel nostro Paese – e
questo fa veramente schifo, dal punto di vista dell’informazione - abbiamo
cominciato a parlare di colloqui intimi, sono venuti fuori titoli dei giornali
che parlavano di celle a luci rosse… Questa donna incinta racconta cosa sono
stati questi tre giorni passati in intimità col marito, che sta imparando a
conoscere il figlio sin da quando è ancora in pancia, che vive con lei queste
emozioni… Questi sono i colloqui intimi! Possibile che non riusciamo a
capirlo?!
Ecco
su quali temi dobbiamo muoverci anche noi del volontariato. Che paura abbiamo?
La redazione di Ristretti Orizzonti alcuni anni fa aveva elaborato una proposta
di legge sugli affetti e i colloqui intimi, adesso l’abbiamo riproposta ad
alcuni parlamentari di schieramenti diversi che pare vogliano farla propria. Io
dico: facciamo questa battaglia, facciamola subito, non possiamo nasconderci
dietro l’alibi delle condizioni che ci sono nelle carceri, non è vero che non
è possibile, non è vero… Creare degli spazi diversi è possibile, ed è
fondamentale, perché un figlio che può vedere un genitore solo in una sala
colloqui con altre dieci famiglie, nelle urla e nella confusione di situazioni
innaturali, per una, due ore a settimana, che rapporto può creare con quel
genitore?
Così
come sono oggi, per quanto attenta sia l’istituzione a predisporre
un’accoglienza migliore per le famiglie, e in qualche carcere lo è, i
colloqui sono davvero una cosa misera. Non si riesce neppure a iniziare a
parlare di qualcosa che è già finito il tempo.
Il
tempo, lo spazio, dovrebbero essere pensati per ogni famiglia, non per una marea
di altre famiglie che lo devono condividere nella più totale assenza di intimità.
Come si può non capire che questo è un punto fondamentale?
Voglio
parlare anche di altre piccolissime cose che si possono già fare adesso, poche
cose, ma che sono possibili senza cambiare le leggi. Noi, per esempio, nel
carcere di Padova abbiamo fatto una “battaglia”, o meglio, un confronto con
il direttore, dicendogli: la situazione di sovraffollamento è veramente
insopportabile - perché non c’è dignità dove si vive così - il problema
del sovraffollamento è solo in parte quello degli spazi, la cosa drammatica è
che molte di queste persone non fanno niente dalla mattina alla sera. E come fa
una persona ad assumersi la responsabilità rispetto al suo futuro, a
“crescere”, a cambiare, a uscire diversa, in un carcere dove dalla mattina
alla sera può solo “ammazzare il tempo”? Questo è il dramma vero del
sovraffollamento. Di fronte a questa situazione abbiamo chiesto almeno delle
piccole cose, per rendere le condizioni di vita meno disumane. Per esempio le
telefonate: tutti a Padova fanno due telefonate in più al mese, perché il
direttore ha deciso, su nostra sollecitazione, che siccome la situazione è
fuori della normalità e della legalità per tutti – è “straordinaria”
per tutti, lui concede a tutti queste due telefonate “straordinarie” al
mese, senza bisogno di una richiesta del detenuto, senza motivazioni
particolari.
Sono
piccole cose, ma a me molti detenuti, che sono anche padri, hanno detto che
avere quelle due telefonate in più è una boccata di ossigeno, è poca cosa, ma
è già qualcosa sapere che puoi gestirti coi figli questi due piccoli spazi in
più, puoi dirgli che li richiami presto, che non devi aspettare una settimana.
Ripeto, sono piccole cose, ma nella condizione attuale delle carceri anche
queste piccole cose possono avere un grande valore.
Su
questo, delle cose che si possono cambiare già da subito, voglio fare una
riflessione, perché noi siamo troppe volte un Paese che vive con molti alibi,
c’è sempre un alibi per non fare: l’alibi del sovraffollamento, l’alibi
delle difficoltà economiche, della mancanza di personale. Io dico invece che
tante cose si possono e si devono fare, e su questo prendo spunto
dall’intervento della magistrata di sorveglianza, Monica Lazzaroni, riguardo
ai permessi di necessità.
Noi
il suo intervento lo pubblichiamo, perché è importante, è importante proprio
sul tema degli affetti. Quando una persona è in carcere con una condanna
pesante e per molti anni non potrà uscire, perché la legge gli impone di
scontare una parte consistente della pena prima di poter accedere ai permessi
premio, esiste solo questa possibilità: il permesso di necessità. E viene dato
con una difficoltà enorme, anzi non viene dato quasi per niente; spesso bisogna
che un genitore sia morto, morto, perché si ritenga di poter concedere un
permesso di necessità. In Italia, un Paese dove si sottolinea sempre
l’importanza della famiglia, quando si tratta delle famiglie dei detenuti
bisogna essere morti perché un figlio abbia un permesso di necessità. E invece
l’esempio fatto dalla magistrata è perfetto: si possono concedere dei
permessi di necessità a una madre detenuta che aveva assoluto bisogno di stare
vicina a suo figlio, di non abbandonarlo del tutto.
Io
ho visto il caso di un detenuto che ha una figlia autistica, per esempio, e
spera che gli venga autorizzato qualche permesso di necessità per vederla
fuori, in un ambiente protetto… Non la può vedere in carcere, la bambina sta
male e ha bisogno che le sia concessa una boccata d’ossigeno, ossigeno alla
figlia, non al detenuto. Perché principalmente è il figlio che deve essere
tenuto in primo piano, sulle questioni di necessità.
Ecco,
l’intervento della magistrata ha messo al centro il figlio, prima ancora della
detenuta. In tutto questo discorso noi dobbiamo capire che comunque le prime
vittime sono veramente i figli, quelli che restano più segnati dalla
carcerazione sono i figli, non solo per la lontananza, ma per la vergogna, per
tutti quei sentimenti che gli facciamo vivere molto spesso noi, per
l’emarginazione, per la paura della verità, per la paura di affrontare la
gente fuori…
Io
credo che anche questa sia una battaglia da fare: cercare di capire che quando
c’è una necessità del figlio, quello è veramente il motivo per un permesso
di necessità, non che un famigliare stia morendo o sia già morto. La legge lo
permette con difficoltà e credo che ci voglia coraggio – come ne ha
dimostrato la magistrata – per capire quanto è fondamentale tutto questo.
Per
finire, il carcere di per sé è devastante per le famiglie e noi dobbiamo fare
di tutto per ridurre i danni prodotti. E allora credo che dobbiamo spiegare alla
società fuori che lasciare, come dicono tanti, “marcire in galera” le
persone fino all’ultimo giorno è insensato e non crea nessuna sicurezza. Il
cortocircuito che c’è nel nostro Paese tra politica e informazione, fa sì
che si faccia credere alla gente che un carcere in questa maniera, il carcere
chiuso, il carcere “cattivo”, dove si passano le giornate accatastati senza
far niente, ci renda più sicuri. Certo, apparentemente ci rende più sicuri,
per quel periodo in cui il detenuto è rinchiuso, ma queste persone escono, non
è che viviamo in una società in cui le persone vengono incarcerate e stanno in
carcere a vita, non siamo una dittatura che può decidere di lasciarle in
carcere quanto vogliamo.
La
persona finisce di scontare una pena e se noi non l’aiutiamo ad essere in
grado di riaffrontare la vita, di riaffrontare il rapporto coi figli, di
“reinserirsi” nella sua famiglia, difficilmente si potrà reinserire nella
società. Sapete quanto è difficile ricostruire i rapporti familiari? Io li
vedo i detenuti che vanno in permesso e sono felici, al primo permesso, ma già
al secondo cominciano ad essere in difficoltà per quanto è faticoso questo
ritorno a casa, perché non hanno più un ruolo, perché non sono più nessuno,
perché i figli faticano a riconoscerli, perché i figli al primo momento vivono
la loro presenza come un’invasione di questo genitore che non c’è mai
stato…
Ma
se noi vogliamo veramente creare una società più sicura, dobbiamo accompagnare
le persone in questi percorsi e non far credere che è il carcere la soluzione,
che più uno sta dentro, meglio ancora se ci sta fino all’ultimo giorno della
sua pena, e più tranquilli stiamo. Perché queste persone saranno infinitamente
più pericolose quando usciranno, se non sono state aiutate a rientrare prima di
tutto nelle loro famiglie.
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Intervento
al convegno “Famiglia e affetti nella vicenda penitenziaria”, organizzato
dalla Società San Vincenzo De Paoli, Mantova 11 ottobre 2013