Il paziente che non sa

Non sa che patologia ha, non sa che dieta deve fare, non sa che farmaci deve prendere: è quello che succede troppo spesso alle persone detenute, di essere tenute nella completa ignoranza della propria condizione

 

testimonianza raccolta da Antonio Floris

 

Sono Pasquale, detenuto nel carcere… e voglio raccontare una storia di ordinaria malasanità. Dico ordinaria in quanto la malasanità è un fenomeno così diffuso negli istituti penitenziari italiani da costituire ormai troppe volte la norma e non l’eccezione. Questi i fatti: In data 27/03/2012, in seguito a un mal di pancia così forte da mettere in allarme gli stessi dottori del carcere, che non riuscivano a capire di che si trattava, sono stato portato al Pronto Soccorso e, dopo un’accurata

visita, sono stato riportato al carcere. Arrivato lì non mi è stata data alcuna spiegazione su quale fosse stata la causa dei dolori, né tantomeno mi è stato detto che dovevo seguire una determinata

cura che i medici dell’ospedale mi avevano prescritto. È successo così che in data 15 agosto 2012 sono stato colto da uno svenimento, in quanto la pressione mi è scesa a 40, e così sono stato portato nuovamente al Pronto Soccorso. Arrivato lì sono stato trattenuto in ospedale due giorni, il 15 e il 16, per essere tenuto sotto osservazione, e quando mi è stato chiesto se avevo seguito la cura

assegnatami in precedenza, ho risposto che non mi era stata data nessuna medicina, ma solo una pillola che non ricordavo cosa era. Dal controllo del diario clinico è risultato che la terapia assegnata era la seguente: Dieta idrica per 24 ore e assunzione di fermenti lattici (nel caso specifico ENTEROALCTIS PLUS). Inoltre Ciproxin 500 MG 1 e CPRX2 per 7 giorni. Arrivato al carcere ho chiesto come mai non mi avevano detto che dovevo fare la dieta idrica per 24 ore e l’altra leggera così come prescritto. La risposta del medico è stata che lui la dieta prescritta l’aveva mandata in cucina (ma a me non è arrivato mai niente) e per quanto riguarda gli altri medicinali mi ha detto che il carcere questi medicinali non li ha. E in pratica se uno li vuole se li deve comprare. Ma il problema non sarebbe tanto quello di dovermi comprare le medicine, quanto il fatto che nessuno

mi ha detto niente di questo e in pratica sono rimasto senza fare la terapia. Sarebbe bastato che me l’avessero detto e io mi sarei dato da fare per comprarmi i farmaci. Non è la prima volta che questo si verifica e non soltanto a me, perché le medicine, a parte gli antidepressivi, gli ansiolitici e tutto quello che serve per ridurre le persone in stato di stordimento, scarseggiano per tutti.

 

 

 

 

Intervista a Tiziana Biolghini, del Comitato 7 marzo contro ogni internamento psichiatrico

Dobbiamo rimettere mano a tutta la questione della salute mentale

È importante che accompagniamo il percorso fino alla chiusura definitiva degli OPG, perché non possiamo accettare che gli internati vengano di nuovo reclusi nelle cliniche private, magari in nuovi piccoli manicomi

 

intervista a cura di Alessio Guidotti

 

Con la legge n. 9 del 17 febbraio 2012 il Parlamento Italiano ha previsto la chiusura definitiva degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e stabilito la data entro cui ogni Regione dovrà accogliere i propri pazienti oggi internati, il 31 marzo 2013. Ne abbiamo parlato con Tiziana Biolghini, coordinatore del Forum Fattorie Sociali della Provincia di Roma, impegnata da anni per sperimentare nel Lazio nuove forma di accoglienza contro ogni internamento psichiatrico, che ha dato vita di recente al Comitato 7 marzo contro ogni internamento psichiatrico per il diritto di cura nella malattia mentale.

 

Il “Comitato 7 marzo” che storia ha? Come nasce? Da quali volontà, da quale idea, con quali

intenzioni?

Il Comitato 7 marzo per il diritto di cura della salute mentale, nasce a seguito dei decreti approvati dal Parlamento dopo i lavori della Commissione d’Inchiesta sul Sistema sanitario, presieduta dall’Onorevole Ignazio Marino, e finalmente si è decisa una data certa per la chiusura di questi lager, che sono gli OPG. Il Comitato nasce su iniziativa delle Associazioni Democrazia Solidale e Co.N.O.S.C.I. nonché di numerosi operatori del settore, con l’obiettivo di accompagnare il percorso legislativo fino alla piena attuazione ovvero alla chiusura definitiva degli OPG, allo stesso tempo si pone l’obiettivo di costruire e realizzare valide ed innovative idee progettuali alternative a nuovi “manicomi criminali” comunque intesi.

 

Com’è la situazione attuale riguardo alla legge che è stata approvata sulla chiusura degli OPG, in che fase siamo? Che scadenze si prevedono?

Nel 2013 gli OPG devono essere chiusi. Ci auguriamo che le vecchie strutture, peraltro fatiscenti, possano essere messe a disposizione per la realizzazione di progetti innovativi sulla salute mentale. Vista la penuria di risorse delle Regioni sarebbe utile riutilizzare i luoghi, infatti non possiamo accettare che gli internati vengano di nuovo reclusi nelle cliniche private, magari in nuovi piccoli manicomi, e questo dipenderà anche dal movimento, che noi saremo in grado di mettere in piedi, di controllo democratico. Inoltre, siccome i decreti legge prevedono spese per le strutture e per i servizi per le attività, mi auguro che si spenda il meno possibile per le strutture, considerando, per esempio, che nel Lazio abbiamo un patrimonio immobiliare e agricolo di grande entità: dai beni confiscati alle mafie ai patrimoni delle ex Ipab, i patrimoni anche dei singoli enti.

 

Invece per quanto riguarda l’agricoltura sociale, le idee quali potrebbero essere?

L’idea è quella che partendo comunque dal ragionamento delle comunità terapeutiche, delle quali alcune funzionano bene ed altre meno bene, si debba lavorare su dei modelli organizzativi che riguardano la comunità terapeutica in agricoltura sociale, quindi fattorie sociali che abbiano tutti quei requisiti, anche sanitari, in cui i processi di abilitazione e riabilitazione e cura passino attraverso le pratiche di agricoltura oppure la cura degli animali e si integrino in un processo virtuoso. Per quanto riguarda l’agricoltura sociale, è importante, dal punto di vista socio riabilitativo, anche il sistema di filiera, abbiamo esempi diversificati: dall’orto al giardino alla produzione alla conservazione ai manufatti e alla vendita, quindi un percorso che può dare spazio a cittadini con bisogni diversi, anche rispetto a quella che è la valorizzazione dell’aspetto dell’integrazione. Ad esempio, la vendita dei prodotti è un momento estremamente importante di confronto e comunicazione con i “normodotati”. In ogni caso, abbiamo una certezza che ci viene da tutte le esperienze fatte in questi anni: c’è sempre una diminuzione dell’uso di farmaci nei pazienti che fanno esperienze di agricoltura sociale. Nello specifico, per quanto riguarda i pazienti con disagio mentale internati, è chiaro che bisognerà sperimentare e innovare dei modelli che tengano conto della centralità della persona, del suo progetto di vita, di quelle che sono le azioni che si possono svolgere nell’agricoltura sociale e nella zootecnia. È chiaro anche che sicuramente nei primi anni, nel caso di progetti in fattorie sociali, la rendita, la riuscita attesa non sarà sicuramente quella economica, bisognerà investire tanto sulle risorse umane e competenze professionali per riuscire ad ottenere molto in termini di valore terapeutico e riabilitativo.

 

Pensando a quello che sta succedendo adesso con la chiusura degli OPG mi è venuto in mente

quando in Toscana hanno fatto una sorta di esperimento al Dipartimento di salute mentale, prendendo delle persone che avevano delle misure di sicurezza o comunque un pregresso psichiatrico molto forte, e creando questa comunità che aveva anche a che fare con l’agricoltura, però questa cosa sul territorio fu tenuta nascosta per circa un anno, e la giustificazione che poi diedero, riguardo la “segretezza” che il progetto ebbe all’inizio, fu la paura di creare panico sul territorio. Credo ci si debba pensare, altrimenti poi si finisce per creare situazioni con tante “isole felici”, dove all’interno tutto funziona ma non c’è una reale integrazione. Anche questo sarà un argomento su cui il comitato dovrà lavorare?

Certo. La questione riguarda in maniera più forte questi cittadini internati negli OPG, ma certi atteggiamenti riguardano tutto quello che afferisce alla malattia mentale, basta vedere le reazioni che si hanno ogni volta che dei ragazzi autistici gravi stanno in un parco o in strada, nel momento in cui sopraggiunge un attacco di epilessia, il vuoto che si crea intorno fino all’intervento della polizia, e l’intervento iniziale non è di soccorso, ma di controllo e contenimento perché c’è un disturbo della quiete pubblica. È chiaro che lo stigma non lo abbiamo superato assolutamente. Personalmente è da trent’anni che mi occupo di questo mondo, ho iniziato con una borsa di studio al Santa Maria della Pietà nel momento di passaggio della legge Basaglia, e posso dire che anche rispetto alla disabilità più in generale, l’atteggiamento della comunità è, per alcune categorie di disabili, un po’ più di accettazione perché vengono considerati “docili”, uso questo termine apposta, perché io ho sentito dire spesso delle persone down per esempio che sono “docili”, come i cani, è terrificante. Mentre il ragazzo autistico spaventa, perché spesso sono ragazzi alti e forti, quindi non hanno quelle caratteristiche somatiche di riconoscibilità della diversità, e non sai qual è il livello di “docilità”. Certo che sarà un problema anche questo da affrontare con la comunità. Fino a quando le istituzioni non investiranno più risorse in una cultura che veramente sia una cultura dell’integrazione. Noi lo stiamo facendo, la Provincia di Roma attraverso i progetti di assistenza specialistica nelle scuole superiori a favore di alunni disabili sta investendo molto sulla costruzione di una cultura diversa, lavorando sulla comunità classe.

 

Quasi un’educazione tra pari

Esattamente. È significativa l’esperienza che ho fatto come Consigliere Delegato all’handicap della Provincia di Roma: è proprio nelle scuole superiori, per esempio, dove l’integrazione degli alunni disabili funziona, che scende il bullismo e l’incultura del branco. Sono questi elementi che fanno la differenza: una società che non deve dire “io sto facendo assistenza agli alunni disabili”, ma “io sviluppo politiche di integrazione, faccio investimenti culturali etici per l’intera comunità”, un’educazione permanente che tu fai per tutti. Bisogna comunque continuare ad investire e organizzarsi, per evitare l’emarginazione, la

paura dello stigma, anche costruendo reti territoriali, perché la pericolosità sociale non è legata alla malattia mentale, raramente lo è: gli omicidi e gli atti di violenza nel 94% dei casi vengono commessi dai cittadini cosiddetti “normaloidi”, quindi non abbiamo una quantità di violenza elevata che si lega alla malattia mentale, capovolgiamo proprio questa bugia.

 

Ripensando alla legge 180, e a quello che era il progetto di Franco Basaglia, che prevedeva anche di combattere sul territorio lo stigma nei confronti della malattia mentale, sicuramente questa cosa della chiusura degli OPG è interessante. Ma forse si parla ancora poco di malattia mentale?

Spesso i cittadini fanno finta di non vedere, perché non vedere significa non cogliere anche quello che c’è dentro di noi e intorno a noi, nel nucleo familiare, magari non vedi che hai un figlio che si droga, non vedi che hai una figlia che non mangia più e che sta diventando anoressica, tutti quelli che sono i campanelli di disagio sociale e psicologico che si ha paura di affrontare. Ma la paura maggiore poi è rappresentata da questa montagna insormontabile che è la malattia mentale, dove l’uomo per non sentirsi piccolo di fronte alla montagna fa finta che non esista. Oppure ti devi allontanare e cerchi altri paesaggi, perché quella ti potrebbe cadere addosso, invece la montagna non ti cade addosso perché dentro quella montagna ci stiamo tutti, ci tocca tutti. La chiusura degli OPG potrebbe essere l’occasione per avviare una grossa campagna di comunicazione su questi temi.

 

Quanto è importante la formazione degli operatori che dovranno lavorare in un contesto che nasce con le migliori intenzioni socio-riabilitative, ma è comunque enormemente complesso?

Per noi la formazione degli operatori è prevista dentro quel budget che arriverà alle Regioni. Comunque con l’assessore Claudio Cecchini stavamo valutando di promuovere dei seminari di riqualificazione nell’ambito sociosanitario per gli operatori che dovranno occuparsi degli ex internati. Anche con lo scopo di capire bene quelli che sono stati i danni prodotti dall’isolamento negli OPG e come si sono aggravate, per chi le aveva, le patologie di partenza e, allo stesso tempo, come innescare processi di integrazione che abbiano anche un forte valore di riabilitazione. Per questi motivi la Provincia di Roma ha in animo di organizzare nei prossimi mesi dei seminari su questo tema.

 

Tornando un po’ nel dettaglio della legge, quali sono le volontà politiche contrarie, che opposizioni si incontrano, che difficoltà ci sono?

Apparentemente non ci sono opposizioni politiche nell’applicazione della legge, però certo è inquietante quello che abbiamo letto in questi giorni sui giornali: Ciccioli, esponente del PDL promotore della proposta di legge per riaprire i “manicomietti” privati da 50 posti letto, ha proposto in Commissione affari sociali un emendamento per cui sono previsti trattamenti sanitari (psichiatrici) “necessari”, TSN, prolungati e attuati contro la volontà del cittadino in apposite strutture, anche in convenzione con i privati. Un modo subdolo per tornare ai manicomi, magari più piccoli. Spero che la Camera bocci quest’aberrazione, che serve solo a sostenere gli interessi delle cliniche private che con la chiusura degli OPG già si sono organizzate per offrire posti nelle loro strutture.

 

Questi interessi, in previsione del 2013, sono fortissimi...

Gli interessi sono fortissimi, si sono già organizzati, hanno fatto ristrutturazioni in alcune cliniche per ospitare, “ospitare” è un termine esagerato, per detenere i pazienti che escono dagli OPG. Ce ne

sono almeno quattro o cinque nel Lazio che già hanno fatto i lavori di adeguamento, si sono preparati

a raccogliere soldi e non esseri umani, chiaramente.

 

Voi lavorate anche con l’associazione StopOPG?

Abbiamo lavorato molto per arrivare ad un processo che sia più unitario possibile, perché almeno noi crediamo che in questo momento storico, per un’Italia che ha delle leggi straordinarie ma scarsamente

applicate, presentarci a una scadenza come quella della chiusura degli OPG, che ha un valore etico enorme, perché riguarda la vita poi di migliaia di persone, perché il circuito dell’internamento non è una cosa che finisce con i 1500 attuali internati, è una spirale di cittadini per cui verrà poi richiesta dai tribunali la custodia a livello psichiatrico, quindi in questo momento presentarci divisi a un appuntamento con la storia così importante sarebbe idiota, perché noi abbiamo di fronte interessi economici e ideologici che

sono molto diversi da quelli che noi rappresentiamo, quindi il nostro sforzo come Comitato 7 marzo per il diritto di cura nella malattia mentale è stato quello di costruire un ragionamento che fosse il più forte e unito possibile. Per questo stiamo lavorando insieme a StopOPG per predeterminare anche le condizioni più strutturate e non solo ideologiche del dopo.

 

Ogni Regione dovrà fare i conti con le proprie risorse, con le proprie possibilità?

Sì, infatti per esempio devo andare a Napoli perché nasce il Forum dell’agricoltura sociale della Campania, e lì loro lavorano già con alcuni ex pazienti degli OPG, quindi già c’è un’agricoltura sociale in una fattoria sociale, e ci sono dentro alcuni ex pazienti degli OPG. Andiamo in ogni Regione, dobbiamo fare in modo anche di sensibilizzare la società, cercheremo di sensibilizzare tutti gli attori dell’agricoltura sociale che sono comunità, cooperative, associazioni, sul fatto di muoversi con le regioni di provenienza per discutere di modelli organizzativi flessibili, aperti, autenticamente partecipati da tutti, e quindi anche di proporre il modello dell’agricoltura sociale. Per concludere, quello cui terremmo molto che non avvenisse più, è quello che ho vissuto sempre in tutti questi anni, e di cui racconto un piccolo esempio: di

fronte a casa mia abita un uomo schizofrenico, ha questa diagnosi, e lui è stato lasciato solo dai servizi per tanti anni, perché se uno non prende le medicine, succede che il servizio non è mai chiamato, quindi non si sapeva se era vivo o se era morto, e molte volte ha rischiato anche di morire. Non voglio dare la colpa a “quel” Centro di salute mentale, però credo che dobbiamo rimettere le mani sul serio su tutta la questione della salute mentale e ridare dignità ai cittadini che soffrono di queste malattie, riconoscere il ruolo delle famiglie, e sviluppare tutti quei processi di auto-mutuo aiuto in cui si cresce insieme, operatori, famiglie e utenti. È un’occasione per tutta la salute mentale.

 

 

 

 

 

Un servizio di informazione sull’esercizio del diritto alla salute in carcere

A Sollicciano, è partito il progetto Articolo 32, per non dimenticare che la Costituzione tutela la salute come ‘fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività’

 

a cura di Giada Ceri, Associazione Pantaguel – Firenze

 

Quasi due anni - quanto occorre al cucciolo di elefante per svilupparsi nel grembo materno - sono trascorsi dalla formulazione del progetto Articolo trentadue: informazione e promozione della salute in carcere alla sua sottoscrizione fra la Direzione della Casa circondariale di Sollicciano (che lo ospita), l’Azienda sanitaria 10 di Firenze (che ne è il soggetto promotore) e l’Associazione Pantagruel (che lo realizzerà). Il progetto Articolo trentadue parte dai risultati dell’indagine su Lo stato di salute dei detenuti toscani, coordinata dall’Osservatorio di Epidemiologia ARS – Toscana fra il 2009 e il 2010 presso i diciannove istituti penitenziari della regione1,e si ispira all’esperienza del Centro di ascolto e informazione attivato dall’associazione “Gli amici di Zaccheo” nella Seconda casa di reclusione di Milano-Bollate. L’obiettivo  - di carattere insieme sanitario e sociale - è quello di organizzare un servizio di informazione sui temi inerenti la prevenzione e l’esercizio del diritto alla salute fra le persone detenute nell’istituto di Sollicciano (secondo le modalità della comunicazione orizzontale, detta “tra pari”, che nel campo della prevenzione si è dimostrata particolarmente efficace) e un servizio di facilitazione tra le persone detenute e l’area sanitaria. Questi servizi saranno svolti da un gruppo di detenuti “facilitatori” appositamente formati attraverso un corso che affronterà gli argomenti in questione: organizzazione sanitaria in carcere, malattie infettive, vaccinazioni, forme cliniche e strumenti della salute mentale, diritto alla salute e tutela della privacy, patologia degli spazi, e il tema della differenza, che tanto peso ha in carcere (e non solo). Il gruppo di lavoro si comporrà di circa trenta facilitatori (fra “titolari” e “supplenti” previsti per le eventuali assenze), che, suddivisi per sezione, raggiungeranno le altre persone detenute, distribuiranno i materiali informativi predisposti dall’Azienda sanitaria e raccoglieranno le richieste su moduli appositamente compilati. I facilitatori si riuniranno periodicamente con due supervisori esterni – uno psicologo e uno psichiatra – per discutere delle criticità che potranno emergere durante il servizio e stabilire le eventuali soluzioni. Questi incontri sono intesi quale strumento di lavoro e autovalutazione per i facilitatori stessi: il loro collegamento con gli altri soggetti coinvolti nel progetto (direzione dell’istituto, area sanitaria etc.) sarà curato, in base alle indicazioni dei supervisori, dal coordinatore che seguirà il progetto nelle sue varie fasi. Il monitoraggio complessivo dello stato di attuazione di Articolo trentadue è affidato invece a un gruppo tecnico composto dai rappresentanti dell’area sanitaria, della direzione dell’istituto, dell’Associazione Pantagruel.

Per queste vie si mira a realizzare una concreta parità delle persone detenute rispetto al diritto alla salute, favorendo la loro responsabilizzazione in quanto non oggetto di un’azione assistenziale ma soggetti, capaci di autotutela e modificando la condizione di inerzia prevalente in carcere per far sì che il tempo della “pena” non trascorra privo di senso. In ciò, il lavoro che le persone detenute possono svolgere rispetto al proprio benessere diventa un momento e uno strumento fondamentale: la realizzazione di Articolo trentadue, infatti, è possibile grazie a finanziamenti in buona parte utilizzati per retribuire i facilitatori (complessivamente sono stati erogati 65.000,00 euro, con i contributi della Tavola Valdese, del Cesvot – Centro servizi volontariato Toscana, della Provincia di Firenze – Assessorato alle Politiche sociali, sicurezza, politiche della legalità e dell’Assessorato regionale per il diritto alla salute). Con questi presupposti Articolo trentadue fa propri gli stessi principi che dettano la strategia seguita dalla Regione Toscana in materia sanitaria, per cui si pone al centro la persona e si punta – più ancora che sulla cura delle malattie – sulla tutela della salute concepita come un bene non soltanto individuale ma anche collettivo, al quale corrispondono l’interesse della comunità e determinati orientamenti delle istituzioni. Il diritto alla salute, dunque, è assunto come un diritto sociale del cittadino che implica il rifiuto della separatezza fra le persone. Il servizio di informazione e facilitazione ideato da Articolo trentadue, e proposto in un contesto piuttosto diverso da quello che lo ha ispirato (il Nuovo complesso penitenziario di Firenze-Sollicciano è una Casa circondariale che “ospita” stabilmente circa il doppio delle persone previste a norma di legge), intende favorire l’espressione dei bisogni in tema di salute da parte delle persone detenute e, insieme, una più efficace comunicazione di tali bisogni agli operatori sanitari competenti, promuovendo l’informazione sui servizi sanitari accessibili nell’istituto e sui temi della prevenzione e collaborando all’attività svolta in tal senso dall’Azienda sanitaria. Nella realizzazione dei servizi collaboreranno diversi soggetti, tutti parimente interessati alla tutela della salute: oltre alle persone detenute, dunque, anche l’istituzione penitenziaria, le autorità sanitarie, insieme con una pluralità di sostenitori (Assessorato regionale al Welfare e politiche per la casa, il Centro Franco Basaglia di Arezzo, Ce.S.D.A. – Centro Studi, Ricerca e Documentazione Dipendenze e Aids, la Società della Salute di Firenze, CNCA Toscana – Coordinamento Nazionale Comunità d’Accoglienza, Garante dei diritti dei detenuti a Firenze, Garante regionale dei diritti dei detenuti) e di partner direttamente coinvolti nelle azioni previste (AVP – Associazione Volontariato Penitenziario, L’Altro diritto, C.A.T. Cooperativa sociale, Ce.R.I.S.C. – Centro Ricerche e Interventi nei Sistemi Complessi onlus, Fondazione Michelucci, LILA – Toscana). Raccogliere l’esperienza di Bollate significa anche, infatti, costruire una rete di rapporti sia tra gli operatori attivi a Sollicciano (e tra questi e il territorio) sia fra contesti penitenziari diversi, per dare forza al senso complessivo dell’idea: proporre un nuovo modo di fare carcere, a partire dall’apparentemente ovvia constatazione del fatto che tutti – liberi, ristretti, operatori, agenti di polizia, volontari – condividono lo stesso “ambiente” e sono titolari dello stesso diritto alla salute. E delle responsabilità che ne conseguono. Articolo trentadue si pone, così, entro una prospettiva di cambiamento che è anche culturale e politico (nel senso etimologico che qui si attribuisce al termine): il carcere viene assunto come misura delle ambizioni e dei loro fallimenti, dei risultati attesi e di quelli effettivamente raggiunti da parte dell’intero sistema di protezione sociale, perché dietro il problema “carcere” ci sono anche quelli della cittadinanza, della titolarità di diritti, della responsabilità sociale della persona detenuta. Ecco perché il titolo del progetto non viene dall’articolo 27 della Costituzione italiana, che parla della funzione riabilitativa della pena, ma dall’articolo 32, che tutela la salute come ‘fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività’, indicando un limite invalicabile anche da parte della legge: il rispetto della persona umana.

 

1 Due parole sull’indagine condotta da ARS – Toscana, dai cui risultati il progetto scaturisce: si è evidenziato che su 2.985 persone detenute sottoposte alla prima visita medica il 27% risulta privo di patologie in atto, il 73% presenta almeno una diagnosi (di tipo internistico per il 54,5%, psichiatrico per l’11%), il 34,5% presenta una diagnosi sia internistica sia psichiatrica.

Rispetto al tipo di patologia è stato rilevato che si tratta prevalentemente di disturbi di natura psichica (33,2%), malattie dell’apparato digerente (25,4%), malattie di tipo infettivo e parassitario (15,9%). Altri dati significativi riguardano la diffusione di disturbi che interessano l’apparato gastro-intestinale, malattie del sistema circolatorio e dell’apparato respiratorio, malattie endocrine, metaboliche, immunitarie, traumatismi e avvelenamenti. Si è rilevato, infine, che il 10,6% delle persone detenute ha messo in atto almeno una volta azioni autolesive, mentre il 4,3% almeno una volta ha tentato il suicidio.

 

 

 

 

È sempre più difficile in carcere trovare un appiglio per attaccarsi alla vita

Un ragazzo è morto inalando gas, voleva suicidarsi o “sballarsi”? Non lo sappiamo e non ci interessa, sappiamo solo che le persone stanno male, e non c’è tempo né risorse per curarsi di loro

 

A cura della Redazione

 

Qualche giorno fa un giovane detenuto è morto nella Casa di reclusione di Padova per aver inalato del gas. C’è veramente un degrado senza precedenti oggi nelle carceri, ci sono troppe persone ammassate senza la possibilità di intravedere una speranza per il loro futuro. Già la carcerazione in condizioni “decenti” segna in ogni caso le persone, le logora nel corpo e nella mente, fiacca la loro voglia di reagire e di ritrovare un motivo per vivere, ma quando le condizioni di detenzione sono indecenti come in questi ultimi anni, spesso non si riesce a trovare nessun appiglio per attaccarsi alla vita: perché le giornate per la gran parte dei detenuti passano nell’ozio più distruttivo, e non ci sono operatori che li possano seguire, sono pochissimi gli educatori, ancora meno gli psicologi. A raccontare la galera dove si muore di disperazione sono tre detenuti che hanno saputo che un loro compagno è morto per quel gas col quale cercava forse di stordirsi, perché oggi è drammaticamente difficile sopportare una esperienza come quella della detenzione, che rischia di essere devastante per chi non ha energie e risorse sufficienti per reagire di fronte alla disperazione, alla solitudine, all’abbandono.

 

 

 

Quel disumano abbandono che troppe persone oggi subiscono all’interno delle carceri

 

di Luigi Guida

 

Purtroppo in carcere si continua a morire. Proprio oggi sono venuto a conoscenza che un ragazzo di 26 anni di origine tunisina, che stava nella quarta sezione della Casa di reclusione Due Palazzi di Padova, è morto per aver inalato del gas. Sono all’interno di questo istituto da due anni, ed è la terza persona che vedo perdere la vita in questo modo, quindi non può essere semplicemente una coincidenza. C’è veramente qualcosa che non va oggi nelle carceri, ci sono troppe persone ammassate senza la possibilità di intravedere una speranza per il loro futuro. Non conosco le motivazioni che hanno spinto questo mio compagno detenuto ad inalare il gas, ma la lunga esperienza detentiva che ho mi porta a pensare che non sempre lo si fa per togliersi la vita, ma molto spesso si cerca uno sballo, e però non uno sballo per divertirsi, piuttosto uno sballo di disperazione, derivato dal disumano abbandono che la persona oggi subisce all’interno del carcere. La cosa che più mi sconvolge in tutto questo è la rassegnazione che si percepisce nelle riflessioni degli altri detenuti, perché, quando se ne discute, lo si fa come se la morte di un detenuto per inalazione di gas fosse un atto di normale vita quotidiana per chi vive un’esperienza carceraria in un periodo di terribile sovraffollamento.

 

 

 

Amata Morte

“Quando hanno aperto la cella/

era già tardi perché/

con una corda sul collo/

freddo pendeva Michè”

(Fabrizio De Andrè)

 

di Carmelo Musumeci

 

Sul giornale di oggi leggo: “Detenuto morto con il gas. È un tunisino: suicidio o tentativo di sballo finito male?”. Un altro morto in carcere: e non fa però più notizia. Ormai i morti sono troppi. E là fuori dal muro di cinta si sono abituati, ma io non ci riesco perché il prossimo morto potrei essere io o il mio compagno della cella di fronte a me. Molti pensano che il detenuto, se si uccide, non sia normale e che sia malato di mente, oppure che sia un ribelle. Nessuno invece pensa che chi si toglie la vita spesso lo fa perché l’ama troppo per vederla appassire senza fare nulla. O per protesta contro l’ingiustizia, perché non ha altra possibilità per attirare l’attenzione, per farsi ascoltare, oppure per “vendicarsi” contro le prepotenze del carcere o della giustizia degli uomini. Molti non sanno che a volte sono proprio i detenuti più “forti” che si tolgono la vita, perché quelli “deboli” accettano più facilmente di vegetare perché non amano abbastanza la vita. Piuttosto bisognerebbe domandarsi chi sono quelli che si tolgono la vita o chi sono quelli che accettano di vivere una non-vita? Per questo penso che siano i detenuti più buoni quelli che si tolgono la vita.

 

 

 

Un ragazzo che conosco è uscito dal carcere, ma ha dovuto pagare un caro prezzo

 

di Andrea Zambonini

 

È successo ancora. È morto un detenuto. Questa volta mi ha toccato da vicino, perché è successo nella stessa sezione dove sto scontando la mia pena. Lo conoscevo. Ho potuto constatare che dopo il “fatto” la monotonia ha ripreso il suo corso fra i detenuti ben prima di quanto potessi immaginare. Ho notato l’indifferenza generale, una forma di cinismo verso questi eventi che ormai si sta insinuando gradualmente sempre di più anche in noi detenuti. Ma questo non è del tutto vero, più che altro siamo “obbligati” a comportarci cosi. È il sistema: non ci permette di protestare, esprimere il nostro disagio, siamo costretti a reprimere i nostri pensieri, la nostra rabbia verso chi in un certo qual modo è corresponsabile per tutte queste morti in carcere. Questo ragazzo è morto a 26 anni. Si dice che forse non voleva uccidersi inalando il gas del fornelletto, ma solo “sballarsi”. Io credo invece che voleva soltanto fuggire dalla tortura alla quale lo Stato lo aveva sottoposto perché trovato in possesso di sostanze stupefacenti. Quindi non si è ucciso, è stato ucciso. L’indomani qualcuno leggendo il giornale, un articoletto di poche battute, avrà pensato: “Un rifiuto della società in meno”. Purtroppo questa è la verità, questo è quello che pensa tanta gente. A quella gente io vorrei far capire che se in Italia ci sono tanti di questi “rifiuti sociali” forse è anche colpa di chi dà il consenso a guidare il nostro Paese a persone che, con il loro modo di governare, stanno solo contribuendo a crearne sempre di più, di questi “rifiuti”. E non solo ne creano sempre di più, ma li trasformano in “rifiuti pericolosi”: perché se un individuo entra, magari per un piccolo furto, in un sistema carcerario come quello attuale, che non gli dà la possibilità di essere rieducato, allora quell’individuo uscirà peggio di prima, pieno solo di rabbia repressa. È lì che esce fuori il “rifiuto sociale pericoloso”. Scrivo queste cose con cognizione di causa, perché è quello che è successo a me. Sono entrato la prima volta in carcere per un furto in appartamento… ora mi ritrovo qui per una serie di rapine. E per lo stato sono un individuo “socialmente pericoloso”. Con questo non voglio discolparmi, perché so di meritare una condanna per i reati che ho commesso, ma qualcun altro forse ha qualche responsabilità, oltre a me. Direi quindi che attualmente le carceri italiane sono “fabbriche di mostri”, strutture nelle quali le persone spesso vengono plasmate in modo talmente negativo, che nella maggior parte dei casi si trasformano, evolvendosi in veri e propri criminali.

 

 

 

 

Di simulazione si muore

In ogni numero del nostro giornale che dedichiamo alla salute, torniamo a parlare quasi ossessivamente di simulazione. E non perché siamo monomaniacali, fissati su certi temi, ma semplicemente perché essere creduti, per un detenuto malato, è spesso ancora un problema. E questo è davvero insopportabile.

 

 

Simulazione

Spesso la prima cosa da fare se stai male è convincere il medico che tu detenuto non stai fingendo

 

Di Alain Canzian

 

Parlare di salute in carcere è una cosa molto difficile, anche perché la gente in carcere muore più che fuori, e non è che noi parliamo male di come funziona la sanità perché, essendo detenuti, ci viene facile dire che tutto va male e per forza dobbiamo sempre lamentarci. Purtroppo questa è una dura realtà: se hai un po’ di fortuna di essere chiamato da un medico, spesso la prima cosa da fare è convincerlo che tu detenuto non stai simulando. Quando hai avuto il primo contatto, lì allora discuti con l’unica persona che dovrebbe darti assistenza, e gli fai capire che veramente stai male, ed è in quel momento che ti rendi conto se veramente il medico ti ha creduto oppure no. Molte volte va a finire che ti rimanda in cella con due pastiglie di tachipirina, e se non funziona come rimedio, ti rimetti in lista per una visita, non si sa quando e sperando di trovare il medico più attento. Sono parecchi i casi di malasanità a cui ho assistito, con delle circostanze veramente distruttive: detenuti che hanno perso la vita e non erano stati neppure creduti, anche se veramente stavano molto male, in altri casi persone che godevano di buona salute e non erano certo di quelle che si segnano sempre dal medico, e però ai primi sintomi di qualcosa di serio non venivano ugualmente presi in considerazione. Purtroppo anche la burocrazia in carcere la fa da padrona e i tempi sono veramente lunghi: persone accompagnate in ospedale troppo tardi, con una patologia che se fosse stata diagnosticata in tempo non avrebbe portato il paziente a un ricovero in condizioni disperate. Io penso che ogni detenuto deve essere creduto, che finga o no, e visitato, come succede negli ambulatori esterni. Se anche una simulazione ci fosse, molto probabilmente sarebbe il segnale di una situazione comunque patologica, di stress, di depressione, e quindi dovrebbe avere la giusta attenzione, perché a volte la disperazione in carcere porta anche a perdere il controllo della propria vita e a fare di tutto per uscire, fino al punto da distruggere la propria salute. Il male che si respira in un carcere è veramente forte, anche quando non sei tu ad essere malato. Vedi qualcuno star male, e ti senti anche tu inerme e lasciato a te stesso, abbandonato, non considerato persona, e ti affidi all’unica speranza che a te nulla può succedere, ma sai benissimo che non è vero. E sai, soprattutto, che se dovesse capitare anche a te di ammalarti, dovrai lottare prima di tutto per essere creduto.