Il
paziente che non sa
Non
sa che patologia ha, non sa che dieta deve fare, non sa che farmaci deve
prendere: è quello che succede troppo spesso alle persone detenute, di essere
tenute nella completa ignoranza della propria condizione
testimonianza
raccolta da Antonio Floris
Sono
Pasquale, detenuto nel carcere… e voglio raccontare una storia di ordinaria
malasanità. Dico ordinaria in quanto la malasanità è un fenomeno così
diffuso negli istituti penitenziari italiani da costituire ormai troppe volte la
norma e non l’eccezione. Questi i fatti: In data 27/03/2012, in seguito a un
mal di pancia così forte da mettere in allarme gli stessi dottori del carcere,
che non riuscivano a capire di che si trattava, sono stato portato al Pronto
Soccorso e, dopo un’accurata
visita,
sono stato riportato al carcere. Arrivato lì non mi è stata data alcuna
spiegazione su quale fosse stata la causa dei dolori, né tantomeno mi è stato
detto che dovevo seguire una determinata
cura
che i medici dell’ospedale mi avevano prescritto. È successo così che in
data 15 agosto 2012 sono stato colto da uno svenimento, in quanto la pressione
mi è scesa a 40, e così sono stato portato nuovamente al Pronto Soccorso.
Arrivato lì sono stato trattenuto in ospedale due giorni, il 15 e il 16, per
essere tenuto sotto osservazione, e quando mi è stato chiesto se avevo seguito
la cura
assegnatami
in precedenza, ho risposto che non mi era stata data nessuna medicina, ma solo
una pillola che non ricordavo cosa era. Dal controllo del diario clinico è
risultato che la terapia assegnata era la seguente: Dieta idrica per 24 ore e
assunzione di fermenti lattici (nel caso specifico ENTEROALCTIS PLUS). Inoltre
Ciproxin 500 MG 1 e CPRX2 per 7 giorni. Arrivato al carcere ho chiesto come mai
non mi avevano detto che dovevo fare la dieta idrica per 24 ore e l’altra
leggera così come prescritto. La risposta del medico è stata che lui la dieta
prescritta l’aveva mandata in cucina (ma a me non è arrivato mai niente) e
per quanto riguarda gli altri medicinali mi ha detto che il carcere questi
medicinali non li ha. E in pratica se uno li vuole se li deve comprare. Ma il
problema non sarebbe tanto quello di dovermi comprare le medicine, quanto il
fatto che nessuno
mi
ha detto niente di questo e in pratica sono rimasto senza fare la terapia.
Sarebbe bastato che me l’avessero detto e io mi sarei dato da fare per
comprarmi i farmaci. Non è la prima volta che questo si verifica e non soltanto
a me, perché le medicine, a parte gli antidepressivi, gli ansiolitici e tutto
quello che serve per ridurre le persone in stato di stordimento, scarseggiano
per tutti.
Intervista
a Tiziana Biolghini, del Comitato 7 marzo contro ogni internamento psichiatrico
Dobbiamo
rimettere mano a tutta la questione della salute mentale
È
importante che accompagniamo il percorso fino alla chiusura definitiva degli OPG,
perché non possiamo accettare che gli internati vengano di nuovo reclusi nelle
cliniche private, magari in nuovi piccoli manicomi
intervista
a cura di Alessio Guidotti
Con
la legge n. 9 del 17 febbraio 2012 il Parlamento Italiano ha previsto la
chiusura definitiva degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e stabilito la data
entro cui ogni Regione dovrà accogliere i
Il
“Comitato 7 marzo” che storia ha? Come nasce? Da quali volontà, da quale
idea, con quali
intenzioni?
Il
Comitato 7 marzo per il diritto di cura della salute mentale, nasce a seguito
dei decreti approvati dal Parlamento dopo i lavori della Commissione
d’Inchiesta sul Sistema sanitario, presieduta dall’Onorevole Ignazio Marino,
e finalmente si è decisa una data certa per la chiusura di questi lager, che
sono gli OPG. Il Comitato nasce su iniziativa delle Associazioni Democrazia
Solidale e Co.N.O.S.C.I. nonché di numerosi operatori del settore,
con l’obiettivo di accompagnare il percorso legislativo fino alla piena
attuazione ovvero alla chiusura definitiva degli OPG, allo stesso tempo si pone
l’obiettivo di costruire e realizzare valide ed innovative idee progettuali
alternative a nuovi “manicomi criminali” comunque intesi.
Com’è
la situazione attuale riguardo alla legge che è stata approvata sulla chiusura
degli OPG, in che fase siamo? Che scadenze si prevedono?
Nel
2013 gli OPG devono essere chiusi. Ci auguriamo che le vecchie strutture,
peraltro fatiscenti, possano essere messe a disposizione per la realizzazione di
progetti innovativi sulla salute mentale. Vista la penuria di risorse delle
Regioni sarebbe utile riutilizzare i luoghi, infatti non possiamo accettare che
gli internati vengano di nuovo reclusi nelle cliniche private, magari in nuovi
piccoli manicomi, e questo dipenderà anche dal movimento, che noi saremo in
grado di mettere in piedi, di controllo democratico. Inoltre, siccome i decreti
legge prevedono spese per le strutture e per i servizi per le attività, mi
auguro che si spenda il meno possibile per le strutture, considerando, per
esempio, che nel Lazio abbiamo un patrimonio immobiliare e agricolo di grande
entità: dai beni confiscati alle mafie ai patrimoni delle ex Ipab, i patrimoni
anche dei singoli enti.
Invece
per quanto riguarda l’agricoltura sociale, le idee quali potrebbero essere?
L’idea
è quella che partendo comunque dal ragionamento delle comunità terapeutiche,
delle quali alcune funzionano bene ed altre meno bene, si debba lavorare su dei
modelli organizzativi che riguardano la comunità terapeutica in agricoltura
sociale, quindi fattorie sociali che abbiano tutti quei requisiti, anche
sanitari, in cui i processi di abilitazione e riabilitazione e cura passino
attraverso le pratiche di agricoltura oppure la cura degli animali e si
integrino in un processo virtuoso. Per quanto riguarda l’agricoltura sociale,
è importante, dal punto di vista socio riabilitativo, anche il sistema di
filiera, abbiamo esempi diversificati: dall’orto al giardino alla produzione
alla conservazione ai manufatti e alla vendita, quindi un percorso che può dare
spazio a cittadini con bisogni diversi, anche rispetto a quella che è la
valorizzazione dell’aspetto dell’integrazione. Ad esempio, la vendita dei
prodotti è un momento estremamente importante di confronto e comunicazione con
i “normodotati”. In ogni caso, abbiamo una certezza che ci viene da tutte le
esperienze fatte in questi anni: c’è sempre una diminuzione dell’uso di
farmaci nei pazienti che fanno esperienze di agricoltura sociale. Nello
specifico, per quanto riguarda i pazienti con disagio mentale internati, è
chiaro che bisognerà sperimentare e innovare dei modelli che tengano conto
della centralità della persona, del suo progetto di vita, di quelle che sono le
azioni che si possono svolgere nell’agricoltura sociale e nella zootecnia. È
chiaro anche che sicuramente nei primi anni, nel caso di progetti in fattorie
sociali, la rendita, la riuscita attesa non sarà sicuramente quella economica,
bisognerà investire tanto sulle risorse umane e competenze professionali per
riuscire ad ottenere molto in termini di valore terapeutico e riabilitativo.
Pensando
a quello che sta succedendo adesso con la chiusura degli OPG mi è venuto in
mente
quando
in Toscana hanno fatto una sorta di esperimento al Dipartimento di salute
mentale, prendendo delle persone che avevano delle misure di sicurezza o
comunque un pregresso psichiatrico molto forte, e creando questa comunità che
aveva anche a che fare con l’agricoltura, però questa cosa sul territorio fu
tenuta nascosta per circa un anno, e la giustificazione che poi diedero,
riguardo la “segretezza” che il progetto ebbe all’inizio, fu la paura di
creare panico sul territorio. Credo ci si debba pensare, altrimenti poi si
finisce per creare situazioni con tante “isole felici”, dove all’interno
tutto funziona ma non c’è una reale integrazione. Anche questo sarà un
argomento su cui il comitato dovrà lavorare?
Certo.
La questione riguarda in maniera più forte questi cittadini internati negli OPG,
ma certi atteggiamenti riguardano tutto quello che afferisce alla malattia
mentale, basta vedere le reazioni che si hanno ogni volta che dei ragazzi
autistici gravi stanno in un parco o in strada, nel momento in cui sopraggiunge
un attacco di epilessia, il vuoto che si crea intorno fino all’intervento
della polizia, e l’intervento iniziale non è di soccorso, ma di controllo e
contenimento perché c’è un disturbo della quiete pubblica. È chiaro che lo
stigma non lo abbiamo superato assolutamente. Personalmente è da trent’anni
che mi occupo di questo mondo, ho iniziato con una borsa di studio al Santa
Maria della Pietà nel momento di passaggio della legge Basaglia, e posso dire
che anche rispetto alla disabilità più in generale, l’atteggiamento della
comunità è, per alcune categorie di disabili, un po’ più di accettazione
perché vengono considerati “docili”, uso questo termine apposta, perché io
ho sentito dire spesso delle persone down per esempio che sono “docili”,
come i cani, è terrificante. Mentre il ragazzo autistico spaventa, perché
spesso sono ragazzi alti e forti, quindi non hanno quelle caratteristiche
somatiche di riconoscibilità della diversità, e non sai qual è il livello di
“docilità”. Certo che sarà un problema anche questo da affrontare con la
comunità. Fino a quando le istituzioni non investiranno più risorse in una
cultura che veramente sia una cultura dell’integrazione. Noi lo stiamo
facendo, la Provincia di Roma attraverso i progetti di assistenza specialistica
nelle scuole superiori a favore di alunni disabili sta investendo molto sulla
costruzione di una cultura diversa, lavorando sulla comunità classe.
Quasi
un’educazione tra pari
Esattamente.
È significativa l’esperienza che ho fatto come Consigliere Delegato
all’handicap della Provincia di Roma: è proprio nelle scuole superiori, per
esempio, dove l’integrazione degli alunni disabili funziona, che scende il
bullismo e l’incultura del branco. Sono questi elementi che fanno la
differenza: una società che non deve dire “io sto facendo assistenza agli
alunni disabili”, ma “io sviluppo politiche di integrazione, faccio
investimenti culturali etici per l’intera comunità”, un’educazione
permanente che tu fai per tutti. Bisogna comunque continuare ad investire e
organizzarsi, per evitare l’emarginazione, la
paura
dello stigma, anche costruendo reti territoriali, perché la pericolosità
sociale non è legata alla malattia mentale, raramente lo è: gli omicidi e gli
atti di violenza nel 94% dei casi vengono commessi dai cittadini cosiddetti “normaloidi”,
quindi non abbiamo una quantità di violenza elevata che si lega alla malattia
mentale, capovolgiamo proprio questa bugia.
Ripensando
alla legge 180, e a quello che era il progetto di Franco Basaglia, che prevedeva
anche di combattere sul territorio lo stigma nei confronti della malattia
mentale, sicuramente questa cosa della chiusura degli OPG è interessante. Ma
forse si parla ancora poco di malattia mentale?
Spesso
i cittadini fanno finta di non vedere, perché non vedere significa non cogliere
anche quello che c’è dentro di noi e intorno a noi, nel nucleo familiare,
magari non vedi che hai un figlio che si droga, non vedi che hai una figlia che
non mangia più e che sta diventando anoressica, tutti quelli che sono i
campanelli di disagio sociale e psicologico che si ha paura di affrontare. Ma la
paura maggiore poi è rappresentata da questa montagna insormontabile che è la
malattia mentale, dove l’uomo per non sentirsi piccolo di fronte alla montagna
fa finta che non esista. Oppure ti devi allontanare e cerchi altri paesaggi,
perché quella ti potrebbe cadere addosso, invece la montagna non ti cade
addosso perché dentro quella montagna ci stiamo tutti, ci tocca tutti. La
chiusura degli OPG potrebbe essere l’occasione per avviare una grossa campagna
di comunicazione su questi temi.
Quanto
è importante la formazione degli operatori che dovranno lavorare in un contesto
che nasce con le migliori intenzioni socio-riabilitative, ma è comunque
enormemente complesso?
Per
noi la formazione degli operatori è prevista dentro quel budget che arriverà
alle Regioni. Comunque con l’assessore Claudio Cecchini stavamo valutando di
promuovere dei seminari di riqualificazione nell’ambito sociosanitario per gli
operatori che dovranno occuparsi degli ex internati. Anche con lo scopo di
capire bene quelli che sono stati i danni prodotti dall’isolamento negli OPG e
come si sono aggravate, per chi le aveva, le patologie di partenza e, allo
stesso tempo, come innescare processi di integrazione che abbiano anche un forte
valore di riabilitazione. Per questi motivi la Provincia di Roma ha in animo di
organizzare nei prossimi mesi dei seminari su questo tema.
Tornando
un po’ nel dettaglio della legge, quali sono le volontà politiche contrarie,
che opposizioni si incontrano, che difficoltà ci sono?
Apparentemente
non ci sono opposizioni politiche nell’applicazione della legge, però certo
è inquietante quello che abbiamo letto in questi giorni sui giornali: Ciccioli,
esponente del PDL promotore della proposta di legge per riaprire i
“manicomietti” privati da 50 posti letto, ha proposto in Commissione affari
sociali un emendamento per cui sono previsti trattamenti sanitari (psichiatrici)
“necessari”, TSN, prolungati e attuati contro la volontà del cittadino in
apposite strutture, anche in convenzione con i privati. Un modo subdolo per
tornare ai manicomi, magari più piccoli. Spero che la Camera bocci
quest’aberrazione, che serve solo a sostenere gli interessi delle cliniche
private che con la chiusura degli OPG già si sono organizzate per offrire posti
nelle loro strutture.
Questi
interessi, in previsione del 2013, sono fortissimi...
Gli
interessi sono fortissimi, si sono già organizzati, hanno fatto
ristrutturazioni in alcune cliniche per ospitare, “ospitare” è un termine
esagerato, per detenere i pazienti che escono dagli OPG. Ce ne
sono
almeno quattro o cinque nel Lazio che già hanno fatto i lavori di adeguamento,
si sono preparati
a
raccogliere soldi e non esseri umani, chiaramente.
Voi
lavorate anche con l’associazione StopOPG?
Abbiamo
lavorato molto per arrivare ad un processo che sia più unitario possibile,
perché almeno noi crediamo che in questo momento storico, per un’Italia che
ha delle leggi straordinarie ma scarsamente
applicate,
presentarci a una scadenza come quella della chiusura degli OPG, che ha un
valore etico enorme, perché riguarda la vita poi di migliaia di persone, perché
il circuito dell’internamento non è una cosa che finisce con i 1500 attuali
internati, è una spirale di cittadini per cui verrà poi richiesta dai
tribunali la custodia a livello psichiatrico, quindi in questo momento
presentarci divisi a un appuntamento con la storia così importante sarebbe
idiota, perché noi abbiamo di fronte interessi economici e ideologici che
sono
molto diversi da quelli che noi rappresentiamo, quindi il nostro sforzo come Comitato
7 marzo per il diritto di cura nella malattia mentale è stato quello di
costruire un ragionamento che fosse il più forte e unito possibile. Per questo
stiamo lavorando insieme a StopOPG per predeterminare anche le condizioni più
strutturate e non solo ideologiche del dopo.
Ogni
Regione dovrà fare i conti con le proprie risorse, con le proprie possibilità?
Sì,
infatti per esempio devo andare a Napoli perché nasce il Forum
dell’agricoltura sociale della Campania, e lì loro lavorano già con alcuni
ex pazienti degli OPG, quindi già c’è un’agricoltura sociale in una
fattoria sociale, e ci sono dentro alcuni ex pazienti degli OPG. Andiamo in ogni
Regione, dobbiamo fare in modo anche di sensibilizzare la società, cercheremo
di sensibilizzare tutti gli attori dell’agricoltura sociale che sono comunità,
cooperative, associazioni, sul fatto di muoversi con le regioni di provenienza
per discutere di modelli organizzativi flessibili, aperti, autenticamente
partecipati da tutti, e quindi anche di proporre il modello dell’agricoltura
sociale. Per concludere, quello cui terremmo molto che non avvenisse più, è
quello che ho vissuto sempre in tutti questi anni, e di cui racconto un piccolo
esempio: di
fronte
a casa mia abita un uomo schizofrenico, ha questa diagnosi, e lui è stato
lasciato solo dai servizi per tanti anni, perché se uno non prende le medicine,
succede che il servizio non è mai chiamato, quindi non si sapeva se era vivo o
se era morto, e molte volte ha rischiato anche di morire. Non voglio dare la
colpa a “quel” Centro di salute mentale, però credo che dobbiamo rimettere
le mani sul serio su tutta la questione della salute mentale e ridare dignità
ai cittadini che soffrono di queste malattie, riconoscere il ruolo delle
famiglie, e sviluppare tutti quei processi di auto-mutuo aiuto in cui si cresce
insieme, operatori, famiglie e utenti. È un’occasione per tutta la salute
mentale.
Un
servizio di informazione sull’esercizio del diritto alla salute in carcere
A
Sollicciano, è partito il progetto Articolo 32, per non dimenticare che la
Costituzione tutela la salute come ‘fondamentale diritto dell’individuo e
interesse della collettività’
a
cura di Giada Ceri, Associazione
Pantaguel – Firenze
Quasi
due anni - quanto occorre al cucciolo di elefante per svilupparsi nel grembo
materno - sono trascorsi dalla formulazione del progetto Articolo trentadue:
informazione e promozione della salute in carcere alla sua
sottoscrizione fra la Direzione della Casa circondariale di Sollicciano (che lo
ospita), l’Azienda sanitaria 10 di Firenze (che ne è il soggetto promotore) e
l’Associazione Pantagruel (che lo realizzerà). Il progetto Articolo
trentadue parte dai risultati dell’indagine su Lo stato di
salute dei detenuti toscani, coordinata dall’Osservatorio di Epidemiologia
ARS – Toscana fra il 2009 e il 2010 presso i diciannove istituti penitenziari
della regione1,e si ispira all’esperienza del
Centro di ascolto e informazione attivato dall’associazione “Gli amici di
Zaccheo” nella Seconda casa di reclusione di Milano-Bollate. L’obiettivo
- di carattere insieme sanitario e sociale - è quello di organizzare un
servizio di informazione sui temi inerenti la prevenzione e l’esercizio del
diritto alla salute fra le persone detenute nell’istituto di Sollicciano
(secondo le modalità della comunicazione orizzontale,
Per
queste vie si mira a realizzare una concreta parità delle persone detenute
rispetto al diritto alla salute,
1
Due parole sull’indagine condotta da ARS – Toscana, dai cui risultati il
progetto scaturisce: si è evidenziato che su 2.985 persone detenute sottoposte
alla prima visita medica il 27% risulta privo di patologie in atto, il 73%
presenta almeno una diagnosi (di tipo internistico per il 54,5%, psichiatrico
per l’11%), il 34,5% presenta una diagnosi sia internistica sia psichiatrica.
Rispetto al tipo di patologia è stato rilevato che si tratta prevalentemente di disturbi di natura psichica (33,2%), malattie dell’apparato digerente (25,4%), malattie di tipo infettivo e parassitario (15,9%). Altri dati significativi riguardano la diffusione di disturbi che interessano l’apparato gastro-intestinale, malattie del sistema circolatorio e dell’apparato respiratorio, malattie endocrine, metaboliche, immunitarie, traumatismi e avvelenamenti. Si è rilevato, infine, che il 10,6% delle persone detenute ha messo in atto almeno una volta azioni autolesive, mentre il 4,3% almeno una volta ha tentato il suicidio.
È sempre
più difficile in carcere trovare un appiglio per attaccarsi alla vita
Un
ragazzo è morto inalando gas, voleva suicidarsi o “sballarsi”? Non lo
sappiamo e non ci interessa, sappiamo solo che le persone stanno male, e non
c’è tempo né risorse per curarsi di loro
A
cura della Redazione
Qualche
giorno fa un giovane detenuto è morto nella Casa di reclusione di Padova per
aver inalato del gas. C’è veramente un degrado senza precedenti oggi nelle
carceri, ci sono troppe persone ammassate senza la possibilità di intravedere
una speranza per il loro futuro. Già la carcerazione in condizioni
“decenti” segna in ogni caso le persone, le logora nel corpo e nella mente,
fiacca la loro voglia di reagire e di ritrovare un motivo per vivere, ma quando
le condizioni di detenzione sono indecenti come in questi ultimi anni, spesso
non si riesce a trovare nessun appiglio per attaccarsi alla vita: perché le
giornate per la gran parte dei detenuti passano nell’ozio più distruttivo, e
non ci sono operatori che li possano seguire, sono pochissimi gli educatori,
ancora meno gli psicologi. A raccontare la galera dove si muore di disperazione
sono tre detenuti che hanno saputo che un loro compagno è morto per quel gas
col quale cercava forse di stordirsi, perché oggi è drammaticamente difficile
sopportare una esperienza come quella della detenzione, che rischia di essere
devastante per chi non ha energie e risorse sufficienti per reagire di fronte
alla disperazione, alla solitudine, all’abbandono.
Quel
disumano abbandono che troppe persone oggi subiscono all’interno delle carceri
di
Luigi Guida
Purtroppo
in carcere si continua a morire. Proprio oggi sono venuto a conoscenza che un
ragazzo di 26 anni di origine tunisina, che stava nella quarta sezione della
Casa di reclusione Due Palazzi di Padova, è morto per aver inalato del gas.
Sono all’interno di questo istituto da due anni, ed è la terza persona che
vedo perdere la vita in questo modo, quindi non può essere semplicemente una
coincidenza. C’è veramente qualcosa che non va oggi nelle carceri, ci sono
troppe persone ammassate senza la possibilità di intravedere una speranza per
il loro futuro. Non conosco le motivazioni che hanno spinto questo mio compagno
detenuto ad inalare il gas, ma la lunga esperienza detentiva che ho mi porta a
pensare che non sempre lo si fa per togliersi la vita, ma molto spesso si cerca
uno sballo, e però non uno sballo per divertirsi, piuttosto uno sballo di
disperazione, derivato dal disumano abbandono che la persona oggi subisce
all’interno del carcere. La cosa che più mi sconvolge in tutto questo è la
rassegnazione che si percepisce nelle riflessioni degli altri detenuti, perché,
quando se ne discute, lo si fa come se la morte di un detenuto per inalazione di
gas fosse un atto di normale vita quotidiana per chi vive un’esperienza
carceraria in un periodo di terribile sovraffollamento.
Amata
Morte
“Quando
hanno aperto la cella/
era
già tardi perché/
con
una corda sul collo/
freddo
pendeva Michè”
(Fabrizio
De Andrè)
di
Carmelo Musumeci
Sul
giornale di oggi leggo: “Detenuto morto con il gas. È un tunisino: suicidio o
tentativo di sballo finito male?”. Un altro morto in carcere: e non fa però
più notizia. Ormai i morti sono troppi. E là fuori dal muro di cinta si sono
abituati, ma io non ci riesco perché il prossimo morto potrei essere io o il
mio compagno della cella di fronte a me. Molti pensano che il detenuto, se si
uccide, non sia normale e che sia malato di mente, oppure che sia un ribelle.
Nessuno invece pensa che chi si toglie la vita spesso lo fa perché l’ama
troppo per vederla appassire senza fare nulla. O per protesta
Un
ragazzo che conosco è uscito dal carcere, ma ha dovuto pagare un caro prezzo
di
Andrea Zambonini
È
successo ancora. È morto un detenuto. Questa volta mi ha toccato da vicino,
perché è successo nella stessa sezione dove sto scontando la mia pena. Lo
conoscevo. Ho potuto constatare che dopo il “fatto” la monotonia ha ripreso
il suo corso fra i detenuti ben prima di quanto potessi immaginare. Ho notato
l’indifferenza generale, una forma di cinismo verso questi eventi che ormai si
sta insinuando gradualmente sempre di più anche in noi detenuti. Ma questo non
è del tutto vero, più che altro siamo “obbligati” a comportarci cosi. È
il sistema: non ci permette di protestare, esprimere il nostro disagio, siamo
costretti a reprimere i nostri pensieri, la nostra rabbia verso chi in un certo
qual modo è corresponsabile per tutte queste morti in carcere. Questo ragazzo
è morto a 26 anni. Si dice che forse non voleva uccidersi inalando il gas del
fornelletto, ma solo “sballarsi”. Io credo invece che voleva soltanto
fuggire dalla tortura alla quale lo Stato lo aveva sottoposto perché trovato in
possesso di sostanze stupefacenti. Quindi non si è ucciso, è stato ucciso.
L’indomani qualcuno leggendo il giornale, un articoletto di poche battute, avrà
pensato: “Un rifiuto della società in meno”. Purtroppo questa è la verità,
questo è quello che pensa tanta gente. A quella gente io vorrei far capire che
se in Italia ci sono tanti di questi “rifiuti sociali” forse è anche colpa
di chi dà il consenso a guidare il nostro Paese a persone che, con il loro modo
di governare, stanno solo contribuendo a crearne sempre di più, di questi
“rifiuti”. E non solo ne creano sempre di più, ma li trasformano in
“rifiuti pericolosi”: perché se un individuo entra, magari per un piccolo
furto, in un sistema carcerario come quello attuale, che non gli dà la
possibilità di essere rieducato, allora quell’individuo uscirà peggio di
prima, pieno solo di rabbia repressa. È lì che esce fuori il “rifiuto
Di
simulazione si muore
In
ogni numero del nostro giornale che dedichiamo alla salute, torniamo a parlare
quasi ossessivamente di simulazione. E non perché siamo monomaniacali, fissati
su certi temi, ma semplicemente perché essere creduti, per un detenuto malato,
è spesso ancora un problema. E questo è davvero insopportabile.
Simulazione
Spesso
la prima cosa da fare se stai male è convincere il medico che tu detenuto non
stai fingendo
Di
Alain Canzian
Parlare
di salute in carcere è una cosa molto difficile, anche perché la gente in
carcere muore più che fuori, e non è che noi parliamo male di come funziona la
sanità perché, essendo detenuti, ci viene facile dire che tutto va male e per
forza dobbiamo sempre lamentarci. Purtroppo questa è una dura realtà: se hai
un po’ di fortuna di essere chiamato da un medico, spesso la prima cosa da
fare è convincerlo che tu detenuto non stai simulando. Quando hai avuto il
primo contatto, lì allora discuti con l’unica persona che dovrebbe darti
assistenza, e gli fai capire che veramente stai male, ed è in quel momento che
ti rendi conto se veramente il medico ti ha creduto oppure no. Molte volte va a
finire che ti rimanda in cella con due pastiglie di tachipirina, e se non
funziona come rimedio, ti rimetti in lista per una visita, non si sa quando e
sperando di trovare il medico più attento. Sono parecchi i casi di malasanità
a cui ho assistito, con delle circostanze veramente distruttive: detenuti che
hanno perso la vita e non erano stati neppure creduti, anche se veramente
stavano molto male, in altri casi persone che godevano di buona salute e non
erano certo di quelle che si segnano sempre dal medico, e però ai primi sintomi
di qualcosa di serio non venivano ugualmente presi in considerazione. Purtroppo
anche la burocrazia in carcere la fa da padrona e i tempi sono veramente lunghi:
persone accompagnate in ospedale troppo tardi, con una patologia che se fosse
stata diagnosticata in tempo non avrebbe portato il paziente a un ricovero in
condizioni disperate. Io penso che ogni detenuto deve essere creduto, che finga
o no, e visitato, come succede negli ambulatori esterni. Se anche una
simulazione ci fosse, molto probabilmente sarebbe il segnale di una situazione
comunque patologica, di stress, di depressione, e quindi dovrebbe avere la
giusta attenzione, perché a volte la disperazione in carcere porta anche a
perdere il controllo della propria vita e a fare di tutto per uscire, fino al
punto da distruggere la propria salute. Il male che si respira in un carcere è
veramente forte, anche quando non sei tu ad essere malato. Vedi qualcuno star
male, e ti senti anche tu inerme e lasciato a te stesso, abbandonato, non
considerato persona, e ti affidi all’unica speranza che a te nulla può
succedere, ma sai benissimo che non è vero. E sai, soprattutto, che se dovesse
capitare anche a te di ammalarti, dovrai lottare prima di tutto per essere
creduto.