Finalmente una buona notizia… forse

Una svolta importante, nella sanità penitenziaria padovana, che tanto avevamo chiesto, pare sia in via di realizzazione: il “medico di famiglia” anche per le persone detenute

 

a cura della redazione

 

Erano mesi che cercavamo un confronto sul tema della salute nella Casa di reclusione di Padova, e finalmente un incontro importante è avvenuto nella nostra redazione, con Daniele Donato, direttore sanitario Ulss16 di Padova, e Felice Nava e Giuseppina Basta, i due medici responsabili della sanità penitenziaria nelle carceri padovane. Ecco alcuni stralci della discussione, alla quale hanno partecipato anche il direttore della Casa di reclusione e alcuni esponenti della CGIL, Alessandra Stivali, Giancarlo Gò e Gianpiero Pegoraro, con i quali da tempo collaboriamo per sollecitare le istituzioni a cambiare l’organizzazione sanitaria in carcere.

 

Ristretti Orizzonti: Noi abbiamo segnalato più volte alcuni problemi che ci sono in questo carcere rispetto all’assistenza sanitaria e anche una esigenza di riorganizzare complessivamente il comparto

della sanità carceraria, abbiamo pure cercato di capire come funziona da altre parti, nel senso che abbiamo avuto ospite la responsabile della sanità penitenziaria a Verona, non perché Verona sia

un’isola felice, ma perché lì sono andati al cuore del problema a cui vorremmo arrivare noi: che è il discorso del medico curante in ambito carcerario. Anche a partire dai casi drammatici avvenuti

in questo carcere, e li citiamo uno per uno: Graziano Scialpi che è arrivato al Pronto Soccorso ed è stato operato d’urgenza, non era stato creduto per mesi, quando lamentava dolori atroci alla schiena, ed è morto per una patologia grave diagnosticata troppo tardi, sulla quale c’è stata anche una inchiesta. Federico Rigolon, anche lui non è stato mandato al Pronto Soccorso come chiedeva, quando manifestava

i sintomi di un infarto, che poco dopo lo ha ucciso. Su questo caso c’è già un rinvio a giudizio. Vincenzo Boscarino, arrivato all’ospedale con un linfoma non Hodgkin ad uno stadio così avanzato, che poi la classica domanda dei medici dell’ospedale è stata “Ma come hanno fatto a ricoverarlo così tardi!?”. Nel Piano 2012 della sanità penitenziaria dell’Ulss 16 si parla di “domanda impropria” da parte del detenuto e di invii eccessivi al Pronto Soccorso, e si parla anche del “medico inviante”, ma il vero problema è che manca una figura fondamentale, che è quella del medico curante. E c’è invece, appunto, il medico “inviante”, che molto probabilmente il paziente non lo conosce proprio.

 

Daniele Donato, direttore sanitario Ulss 16 di Padova: L’incontro di oggi è un’opportunità che ci viene data, proprio per parlare anche con voi di qualcosa che è cambiato. Ci siamo resi conto tutti che in questi ultimi anni è cambiata l’assistenza e questo cambiamento ha portato delle ridefinizioni delle regole, perché le regole che valevano prima adesso non valgono più. Cosa significa tutto questo? Significa che sono stati ridefiniti i livelli di assistenza. Per chi non è del settore, ridefinire i livelli di assistenza vuole dire andare a cercare di capire che cosa possiamo fare noi per la popolazione detenuta, perché la nuova riforma ha rapportato la popolazione generale, qualsiasi cittadino presente fuori sul territorio, a chi è detenuto, a chi è ospite delle carceri. Quindi se prima vi erano delle differenze, adesso sono state appianate, non ci sono più. Perché prima ai detenuti veniva offerto qualcosa in più rispetto alla collettività, al cittadino. La ridefinizione dei livelli di assistenza va condivisa, perché se uno non sa che cosa può richiedere, poi si creano delle aspettative che la struttura non può garantire. Allora noi sulla base di questo, ci siamo incontrati, confrontati con i medici che sono qui presenti oramai da anni, perché la centralità del servizio deve essere l’utente che usufruisce del servizio, e chi usufruisce del servizio siete voi e di conseguenza è sempre chi utilizza che viene posto al centro dell’organizzazione, non è che noi

veniamo qui e diciamo “No, le regole le dettiamo noi”. Noi prima di tutto abbiamo trovato un nostro riferimento organizzativo con la dottoressa Basta e il dottor Nava, e ci siamo dati dei tempi per arrivare a proporre un progetto, che ha l’obiettivo di mettere al centro dell’organizzazione i detenuti, ma anche di cercare di dare la maggiore quantità di servizi possibile proprio all’interno della struttura. Quindi là dove

emerge il problema, avere l’interlocutore, lo specialista, la persona utile per risolvere quelle problematiche. Vi sarete accorti che qui possiamo fare le radiografie, perché qui vengono fatte le radiografie che vengono refertate per via telematica, perché le immagini vengono trasferite ai radiologi che sono in ospedale e poi le risposte arrivano qui. Abbiamo portato dentro alcuni specialisti, perché eravamo sguarniti di certe figure professionali, ma trasportare i detenuti in ospedale crea problemi un po’ a tutta l’organizzazione. Quindi era meglio cercare di portare l’ospedale qui all’interno. E questa è stata la

prima fase di lavoro che ci ha impegnati, dopodiché siamo andati avanti lavorando insieme, sentendo il personale infermieristico, sentendo anche il Direttore, e sentendo quelle che sono le voci sindacali e il volontariato. Abbiamo capito che bisogna un po’ andare a rivedere quella che è l’organizzazione generale, ed allora abbiamo pensato di mutuare, di proporre qui all’interno quella che è l’organizzazione che esiste nel territorio. Ovvero se un paziente ha un rapporto fiduciario con un medico, medico di medicina generale, con il medico di famiglia, abbiamo pensato di riproporre questo sistema anche all’interno del carcere. Si tratta di un sistema organizzativo che ha degli impatti anche sulla vita del carcere, non è una cosa semplicissima. Quindi bisogna avere e condividere degli obiettivi comuni, capire quali sono i nostri punti di forza nell’organizzazione, capire i punti di forza del carcere, e trovare quella giusta mediazione. Perché pensiamo che se il detenuto ha il medico di fiducia, è più facile avere un rapporto continuativo, vi è una presa in carico, il medico conosce i problemi che quella persona ha e di

conseguenza risulta più semplice trovare una risposta. Quindi vi è la cosiddetta presa in carico del paziente, non è che uno si rivolge al medico per quel problema e dopo se ne ritorna nuovamente per un

altro problema. Invece così il medico ha “la storia” del paziente detenuto e questa storia deve essere contenuta in una cartella clinica informatizzata, in modo tale che, nel momento in cui il medico aggiorna la cartella clinica, tutte le informazioni sono presenti ed eventualmente in caso di urgenze, quando quel medico non c‘è, il sostituto o il medico che è di guardia può entrare nella cartella clinica della persona, capisce che problemi di salute quella persona ha, e quindi è facilitata nell’individuare la terapia appropriata. Questa è un’organizzazione che abbiamo condiviso con i colleghi, adesso dovevamo fare il passaggio con il Direttore del carcere perché dovevamo capire se questa organizzazione è opportuno tenerla al piano oppure ipotizzare delle sedi diverse, in modo tale da costruire questi ambulatori diffusi nell’Istituto, dove voi persone detenute potete andare a richiedere la prestazione e dove lavorano i medici assistiti da infermieri o dal personale necessario per dare le risposte necessarie. Questo è il piano attuativo che abbiamo strutturato, io poi volevo farvi vedere quale è l’organizzazione generale, perché i problemi che ci sono e che abbiamo registrato sono che i detenuti, nel momento in cui arrivano al livello del Pronto Soccorso, vengono classificati come “codici bianchi”. Che cosa significa codici bianchi? I problemi di salute importanti sono rappresentati dal codice giallo e ancora di più dal codice rosso. Il rosso rappresenta la più grande emergenza ed urgenza che deve essere affrontata, allora il nostro obiettivo è quello di fare in modo che il medico, nel momento in cui ha un sospetto diagnostico, pensi che quella persona che ha in ambulatorio possa trovare quella risposta all’interno dell’organizzazione, oppure se è di una certa gravità, allora va portato in ospedale. E questo significa entrare nella logica dell’appropriatezza, cioè utilizzare quelle risorse che servono per trattare in modo adeguato i problemi dei pazienti. Avere degli accessi inappropriati oppure aver sottovalutato in altri casi i problemi di salute, significa dover fare un’analisi delle difficoltà che sono sorte all’interno dell’organizzazione. E allora proprio su questo noi siamo impegnati a dare una risposta puntuale, con i medici che lavorano qui, i medici di medicina generale ci siamo già confrontati, loro hanno fornito delle indicazioni, se voi avete delle richieste, dei suggerimenti da darci, siamo pronti ad ascoltarvi.

 

Ristretti Orizzonti: Per quel che riguarda l’assunzione di responsabilità, noi vorremmo suggerire

una soluzione che forse può essere d’aiuto. La responsabilità del medico, fuori si esplica attraverso un atto che è fondamentale, quello della prescrizione. Se uno va da un medico, che sia il medico di base, del Pronto Soccorso, del reparto, il medico quando ha finito la visita rilascia un foglio dove è impresso il suo codice di identificazione, con le indicazioni necessarie, se il paziente deve fare degli esami e una cura

eventuale. Ecco questo è il minimo del rapporto che ci deve essere tra il medico e il paziente e che a noi

manca tanto, manca tanto perché noi, rispetto ad un cittadino fuori, siamo molto più deboli. Se il cittadino che è fuori va al Pronto Soccorso e non riceve una risposta, va in un altro ospedale o cerca comunque un’alternativa. Se il suo medico di base non sa dirgli che cosa ha, se ne va in ospedale, si fa curare in qualche maniera. Noi non abbiamo scelta, noi abbiamo questa scelta soltanto, quindi l’attenzione deve essere un po’ più  precisa, un po’ più presente. Se poi introducete il medico curante,

questo aiuterà ancora di più ad avere una presenza ed una collaborazione tra detenuto e medico, e quindi vedrete che in questa nuova modalità, dopo una prima impennata, tanti “falsi malati” si scremano subito, perché in realtà c’è soprattutto bisogno di dialogo, di rassicurazione, di capirsi. Se c’è troppo distacco tra il medico e il detenuto, c’è sempre una certa ansia (già le ansie sono tante qui), e non hai la possibilità, quando sei in sezione, in cella di essere rassicurato. A noi fa piacere che vi siate resi conto di una cosa che è fondamentale, la necessità di una riorganizzazione del servizio a partire dal medico curante, perché noi lo chiediamo da anni, ora però vi invitiamo a pronunciarvi sui tempi, perché non è da ieri che è stato completato il passaggio della sanità penitenziaria al Sistema Sanitario Nazionale. Quindi crediamo che sia un problema che non possa più essere rimandato.

 

Daniele Donato: A me sembra vada chiarito quello che è il nostro obiettivo, perché noi ci eravamo dati per fine dicembre, inizio gennaio l’obiettivo di tentare di partire con la nuova organizzazione, questi sono i tempi che ci eravamo dati con i medici, anche perché a loro viene richiesto un maggiore impegno rispetto all’attuale. Quindi non è una cosa semplice quella che stiamo cercando di organizzare.

 

Ristretti Orizzonti: Vorremmo tornare un attimo sulla questione che i livelli di assistenza del detenuto

oggi sono parificati a quelli del cittadino comune, libero, e che questo significherà che qualche servizio in carcere verrà soppresso perché il cittadino libero non ce l’ha. Ecco, crediamo che sia importante sottolineare che la Legge non dice esattamente questo, perché vi sono dei casi in cui il paziente detenuto ha bisogno di più servizi. A noi pare che si debba sempre cercare di mettersi dalla parte delle persone, se uno si mette dalla parte del detenuto, e prova a immaginare la condizione di impotenza totale in cui vive, soprattutto di fronte alla malattia, allora forse capisce che vi può essere bisogno di qualcosa in più, per la persona che è privata della libertà, rispetto al paziente libero. Provate a pensare di essere qui, come quel detenuto che ha chiesto ripetutamente di essere mandato in ospedale, che aveva una serie di sintomi tipici dell’infarto e non è stato creduto, e poi ha fatto davvero un infarto, ed è morto, qui, in questo carcere. Questo caso poi ci ricorda che vorremmo anche arrivare a parlare della formazione dei medici e di questa questione del sospetto di simulazione rispetto ai detenuti, che va affrontata con una formazione seria. Quindi su questo vi inviteremmo a una riflessione e a conoscere di più, a sentire le persone detenute, che devono assolutamente avere un ruolo rispetto alla propria salute, devono essere

ascoltate, per capire di più, perché il tema della salute qui dentro è un tema del quale voi potete parlare con gli operatori, ma dovete anche parlare con gli utenti, dal momento che sono loro che vivono sulla loro pelle una condizione in cui la malattia ti lascia totalmente in balia della paura, dell’angoscia, dell’impotenza. A questo aggiungeremmo che l’abitudine che avevano alcuni medici prima di non visitare magari è rimasta, quindi la formazione è importante, perché qualsiasi persona quando va incontro a un medico è disarmata, quando sta male non sa cosa le sta succedendo e ha bisogno di incontrare qualcuno che le sappia dire che cosa ha, o per lo meno le dia sicurezza, ma se vede un medico e il giorno dopo ne vede un altro e magari le dà un’altra terapia, ne vede un terzo e si sente ancora più confusa, tutte le sicurezze cadono, ed è normale che dopo trovate delle persone che vanno in ospedale con il codice bianco, come dire “Tu non mi sai curare, mandami in ospedale”.

 

Daniele Donato: Mi pare opportuno che dopo questa riunione ci si ritrovi con i medici del carcere, in modo tale che ci confrontiamo anche con loro, perché quello  che stiamo tentando di fare è di migliorare il servizio, siamo qui per dirlo in modo molto chiaro. Io penso che nel momento in cui identifichiamo il medico di fiducia, lui non avrà un numero enorme di pazienti, ne avrà un numero molto limitato, avrà le informazioni del paziente raccolte in modo organico su una cartella clinica, quindi quando il paziente chiede visita, il medico consulta la cartella clinica e sa che quel paziente è arrivato lì dieci giorni prima, un mese prima con quel problema, quindi non corre il rischio di sbagliare, ed è più facile che si stabilisca tra medico e paziente un rapporto di fiducia, quel rapporto fiduciario che è alla base di tutto. Perché allora il medico spiegherà in modo chiaro: guarda, tu hai l’ipertensione, hai il diabete, devi prendere questi farmaci con questa cadenza e per questo periodo. Il nostro obiettivo è di passare da una medicina di attesa, com’è adesso, che quando uno ha un problema si rivolge al medico, a una medicina che si

chiama di iniziativa, cioè una medicina che applica la prevenzione, che si fa carico di promuovere delle

indagini preventive, capire che cosa si può fare per migliorare la situazione di carattere generale, anche qui partire con quelle prevenzioni che si fanno fuori. Allora questo lo fai solo quando certi prerequisiti ci sono, il prerequisito fondamentale, come avete detto voi, è avere un rapporto fiduciario con il medico, se poi dopo il paziente non si trova bene con quel medico lo può anche cambiare. Questa è la cosa che volevamo condividere con voi. Io penso che riusciremo a programmare via via l’estensione del passaggio al medico di fiducia, che non è una cosa semplice: partiremo con un medico, poi partiremo con due, con tre, via via ci sarà una implementazione del nuovo sistema in modo tale da poter arrivare a regime in quelli che sono i tempi fisiologici, io penso che nel giro di pochi mesi saremo a regime. Questo ci permetterà di partire con altre iniziative, che sono iniziative di monitoraggio dello stato di salute della popolazione interna.

 

 

 

 

Intervista ad Antonella Vesentini, responsabile della Sanità penitenziaria a Verona

A Verona il medico di sezione prende in carico la salute di ogni paziente detenuto

Succede nel carcere dove è stata fatta una piccola, grande rivoluzione nell’organizzazione della Sanità penitenziaria

 

a cura della redazione di Ristretti Orizzonti

Antonella Vesentini è la responsabile della Sanità penitenziaria del carcere di Verona-Montorio, dove ha rivoluzionato l’organizzazione interna, introducendo una innovazione fondamentale: il medico di sezione. E spezzando così quella che noi chiamiamo “la catena della deresponsabilizzazione”, quel meccanismo perverso che scatta in un sistema, dove il paziente detenuto non ha un suo medico curante a cui affidarsi davvero, come ha bisogno di fare qualsiasi persona malata. Abbiamo invitato Antonella nella nostra redazione per farci raccontare come funziona a Verona oggi il Sistema sanitario in carcere.

 

Antonella Vesentini: Sono entrata nella sanità penitenziaria quando c’è stato il passaggio di competenza all’ULSS, io sono un medico dell’ULSS e nel 2008 mi è stato dato l’incarico di occuparmi della sanità in carcere. Con le risorse che avevamo a disposizione, ci siamo chiesti come si poteva cambiare, e abbiamo ritenuto utile (ma è stata proprio una decisione presa a tavolino fra medici che lavoravano in carcere, quella di Verona) di riprodurre in carcere il modello di assistenza del medico di base che c’è a casa, sul territorio. Abbiamo pensato alle varie sezioni come se fossero dei rioni, delle vie della città. Per cui abbiamo detto: “Prendiamo come unità di misura le sezioni ed ogni medico segue una o due sezioni

a seconda di quante ore ha a disposizione e, a meno che non sia in ferie o ad un aggiornamento, ci va sempre lo stesso medico nella stessa sezione. Come avviene con il medico del Ser.D. che segue i detenuti con diagnosi di tossicodipendenza. Abbiamo cominciato questa esperienza il 4 Ottobre 2010, con quello che avevamo, e non l’abbiamo nemmeno pubblicizzata, non l’abbiamo detto neppure agli utenti, agli assistiti, ma gli assistiti detenuti sono stati i primi che si sono accorti che era cambiato qualcosa. In fin dei conti il medico ci andava due volte alla settimana ed ha continuato ad andarci due volte alla settimana, gli ambulatori erano sempre gli stessi, vedevano ancora le stesse facce, io mi aspettavo che nessuno se

ne accorgesse, che fosse magari un apprezzamento che facevamo noi “tecnici”. Invece proprio se ne sono accorti nel giro di un mese o due già i detenuti che si trovavano sempre ad avere a che fare con lo stesso medico, e questo si è dimostrato uno strumento utile perché se uno ha un sintomo eclatante, magari un ascesso dentario, non è difficile fare una diagnosi, oppure ha uno svenimento, cioè un’acuzie obiettivabile, il medico di guardia anche se arriva in quel momento lì è in grado di affrontarla. Diversi sono quei sintomi di malattie che si manifestano magari lentamente, per esempio un calo di appetito, la pressione arteriosa sempre un pochino alta, la minzione più frequente, ti viene il dubbio e dici “Ma che sia iperteso? che abbia il diabete?”, cominci a chiedergli “Ma tua mamma o tuo papà? Ce l’aveva qualcuno in famiglia?”, insomma quelle situazioni che per essere diagnosticate necessitano della presa in carico del paziente, come peraltro previsto dalla legge. A Verona il medico di cure primarie provvede anche a redigere le relazioni al Magistrato, su richiesta o d’iniziativa in quanto è il medico che segue il paziente, che si deve rendere conto se questa persona detenuta ha una situazione di incompatibilità carceraria. Se il medico mi chiede qualcosa ci sono per qualsiasi cosa, se l’infermiere mi consulta ci sono, ma la tutela

della salute dei propri pazienti è in mano al medico di cure primarie, il medico di sezione come è stato

chiamato. È stata una scelta radicale, che sta dando i suoi risultati, anche se non tutti la condividono. Di qui a dire che sia ripetibile o che sia quella migliore, non me la sento di dirlo, però sta funzionando, viene apprezzata (soprattutto dagli utenti), e i medici l’hanno scelta in prima persona, nessuno ce l’ha imposta, non c’è stata la Direzione dell’ULSS che ci ha detto “Fate così!”, e questo è determinante nella motivazione ad andare avanti.

 

Bruno Turci (Ristretti Orizzonti): La prima domanda che mi viene in mente è: sicuramente il medico curante, il medico di base, il medico del piano o di sezione (come lo vogliamo chiamare), ha una funzione importantissima per raddrizzare i guasti della sanità penitenziaria, perché il medico si responsabilizza quando diventa medico curante, diventa responsabile della persona, sa con chi ha a che fare, sa se il paziente è ipocondriaco, se è uno che ha bisogno del “confessore”, oppure si rende conto che la persona è davvero malata, a differenza di quello che può succedere da altre parti dove invece il paziente passa da un medico all’altro e ogni volta deve prima fargli un “promemoria”. A Verona hanno attrezzato dei laboratori, degli ambulatori nei piani, oppure le persone vengono chiamate in infermeria? E ancora il detenuto viene messo a conoscenza con un certificato, una specie di impegnativa dell’esito della visita e magari delle eventuali cure mediche alle quali si deve sottoporre? E le cartelle cliniche sono trattenute in infermeria centrale o sono nel piano detentivo e magari il medico può prenderne visione là dove non siano informatizzate?

 

Antonella Vesentini: Da dove cominciamo? Dall’informazione? Normalmente non vengono rilasciate ricette di sorta, la prescrizione medica viene messa per iscritto sul diario clinico e viene spiegata a voce; va ricordato che vi è sempre l’azione dell’infermiere che, nel distribuire le terapie, è in grado di spiegare ulteriormente la prescrizione medica. Fa eccezione l’oculista che consegna all’interessato la prescrizione degli occhiali, in modo che se li possa far fare fuori; negli altri casi non si consegna una ricetta scritta e non ci è neanche mai stata chiesta.

 

Ornella Favero: Forse questo è un punto da affrontare, ecco ti chiedo di prendere in considerazione questa esigenza, perché noi ovviamente essendo la nostra redazione una realtà fatta di persone detenute che però si occupano di informazione, è chiaro che ti faremo delle domande sulle esigenze che le persone esprimono e tu puoi valutare se hanno un senso, se non ce l’hanno, se potrebbe essere un’idea per il futuro. Io se vado dal mio medico e se mi prescrive di fare una visita, una TAC, una gastroscopia mi scrive l’impegnativa. Se invece mi visita e mi prescrive un farmaco, mi dice anche come prenderlo, ed io esco comunque con un pezzo di carta. Ora qui questo problema è doppiamente sentito per una prima

ragione: che spesso molti medici non visitano, quindi partiamo da un problema che è fondamentale perché se il detenuto avesse il suo medico, forse le cose cambierebbero. Poi per esempio qui magari ti dicono che devi fare urgentemente una TAC, e poi passa il tempo e non capisci più quanto sia urgente e perché l’urgenza venga spesso ignorata. Allora se uno avesse un pezzo di carta come l’impegnativa in cui c’è scritto “Richiesta urgente di…”, se dopo 15 giorni non l’hanno chiamato per fare questi accertamenti, può andare e sollecitare con la sua carta, può chiedere che cosa è successo.

 

Antonella Vesentini: Io distinguerei bene le due cose. Un conto è l’informazione al paziente; l’informazione non è detto che debba essere scritta, anzi l’informazione più diretta è proprio quella

a voce; quando il medico ritiene opportuno fare un accertamento, approfondire, ha un sospetto diagnostico, deve informarne il paziente. Non c’entra niente che siamo in carcere, è un dovere di

informazione in modo che il paziente possa dire “Si, ritengo di sottopormi ad una TAC per un accertamento”, oppure “No, non ho nessuna intenzione di farla!”. Il medico deve dare l’informazione,

mettere in condizioni il paziente di accettare o meno. Il consenso informato è a voce tranne in pochissimi casi previsti per legge: le trasfusioni, il mezzo di contrasto, la risonanza magnetica. Sono poche, rare situazioni, ma previste per legge, quindi il consenso informato va fatto a voce, dovete parlare con i medici, con gli infermieri e pretendere che vi spieghino, come lo pretendiamo dal nostro medico di base. Dobbiamo mettervi in grado di decidere della vostra salute, e uno per decidere della sua salute, siccome non sa, deve essere informato. Altra cosa è il modo in cui viene informato. Ornella dice che fuori uno va e gli fanno l’impegnativa (la ricetta rossa, avete presente?), noi la facciamo la ricetta rossa, i nostri medici hanno il ricettario, solo che fuori viene consegnata al paziente che poi provvede in proprio a prenotarsi la visita e prende la propria macchina per andarla a fare. In carcere, dove il paziente ha bisogno di essere prenotato ed accompagnato, la ricetta rossa viene recapitata al medico della struttura esterna; inoltre ne diamo comunicazione al Direttore del carcere per l’autorizzazione all’uscita e per l’organizzazione del trasporto. Ecco quindi che l’impegnativa viene scritta comunque, ma non viene data al paziente, perché l’organizzazione della traduzione viene fatto da altri. Quindi un conto è lo strumento scritto e un conto è l’informazione, son due cose diverse, certo l’informazione è fondamentale, bisogna informare. Quando uno informa, scrive anche, prescrive. Allora se trovo scritto sul diario clinico “È stata prescritta una RX toracica mesi fa (io comunque a campione le cartelle le guardo!), controllo se il detenuto l’ha fatta. Se non l’ha ancora fatta può esserci un qualche motivo per cui ad un certo punto hanno ritenuto di non farla più, ma io vado a chiederlo al medico che segue quel paziente lì, chiedo a lui perché dopo cinque mesi quella

persona non ha ancora fatto l’RX torace: non è più necessario? La Polizia penitenziaria non l’ha accompagnato? È stato mandato un sollecito che deve rimanere agli atti? Ma certo i diari clinici sono la mia disperazione, sono stata stamane al servizio informatico dell’ULSS e gli ho detto che abbiamo bisogno di una rete informatica perché io non voglio più il diario clinico cartaceo, stiamo morendo nella carta e nella polvere. I diari clinici li teniamo in infermeria proprio perché è la postazione centrale e da lì parte il medico di guardia, in modo che se c’è una urgenza se li trova lì. Quando ci sarà un sistema informatizzato, siccome abbiamo un ambulatorio in ogni sezione, ho chiesto la rete in ogni sezione in modo che in qualsiasi posto il medico possa accedere alle informazioni di tutti i pazienti, ma adesso dobbiamo tenerle ancora centralizzate.

 

Gianluca Cappuzzo (Ristretti Orizzonti): Lei ha tirato fuori un argomento che è molto delicato e interessante anche per i pazienti che sono fuori, che riguarda il consenso informato. Quindi io comprendo che cos’è fuori il consenso nella dinamica del rapporto medico-paziente, io ti spiego il tuo caso, ti dico qual è la tua patologia, ti dico quali sono le indicazioni e i tempi ed i modi per metterle in pratica. Ma per un senso di maggior trasparenza, vista la realtà un po’ più complicata dove siamo, in carcere non solo si dovrebbe spiegare tutto questo, ma anche scriverlo, così non ci sarebbero problemi dopo, di interpretazione rispetto a quello che il medico può dire.

 

Antonella Vesentini: Mi sa un po’ di “medicina difensiva!”. Io la sento per la prima volta questa richiesta,

perché o non ve ne è stato il bisogno o nessuno me lo ha detto, cioè non mi è mai arrivata una richiesta in questo senso.

 

Gianluca Cappuzzo: Sì, ma anch’io sono medico, e quando mi hanno insegnato semeiotica, mi hanno detto che prima di tutto devi visitare il paziente, quando hai visitato il paziente devi spiegare, come ha detto lei giustamente, ma devi anche scrivere quello che hai visto! Non sarebbe molto più semplice ripensare al classico certificato medico come si è sempre fatto, come chi fa la libera professione è tenuto a fare?

 

Antonella Vesentini: Il medico scrive tutto sul diario clinico. Io ho spesso richieste di fotocopie del diario, se voi chiedete una fotocopia del vostro diario clinico penso che ve la diano. Comunque provo a pensarci, perché, lo ripeto, è la prima volta che mi viene posto il problema.

 

Ornella Favero: Probabilmente non è un caso che venga fuori questa riflessione da qui, dalla Casa di

reclusione di Padova, perché dove non c’è il medico di sezione, spesso c’è una catena di deresponsabilizzazione. Se tu detenuto non hai un medico di riferimento, ma puoi passare attraverso quattro o cinque medici nel giro di pochissimo tempo, è evidente che il bisogno di avere “nero su bianco” qualche indicazione sul tuo stato di salute è molto più sentito. Per contro se tu avessi il tuo medico, probabilmente questa esigenza non verrebbe fuori con questa urgenza. Qui invece il problema è che a volte prima di avere una diagnosi ne passi tanti, di medici, uno ti dice una cosa, ti dà un farmaco, poi

viene un altro e ti dice “Chi è che le ha prescritto questa cosa!?”, lo stesso può succederti anche fuori ma qui è la normalità, la “normalità malata” nelle carceri, spesso, mentre dove c’è il medico curante il problema non si pone in questa maniera! Rispetto poi al fatto che alcuni medici non visitano affatto i detenuti, sei in qualche modo intervenuta con delle sollecitazioni da questo punto di vista, è stato un problema che hai posto o no?

 

Antonella Vesentini: Io a tutti chiedo di visitare i pazienti, poi non vado a controllare se lo facciano o meno. Ne vedo però i risultati, il fatto che l’anno scorso abbiamo avuto vari casi di tubercolosi attiva a Verona-Montorio, e sono stati tutti riscontrati in ambulatorio, non con il sistema dello screening; sono state tutte situazioni cliniche diagnosticate in ambulatorio dal medico di cura primario, a cui è venuto un sospetto che l’ha spinto a mandare il paziente a fare una lastra. Quindi io non so dirvi fino a che punto visitino, io dico che a fronte di una malattia come la tubercolosi che ha dei segni, dei sintomi molto sfumati, dei quali non ci si accorge il più delle volte, i medici li hanno saputi cogliere. Evidentemente li guardano, questi pazienti.

 

Ornella Favero: Parliamo anche delle visite specialistiche e del fatto che spesso i tempi di attesa sono lunghissimi, anche quando invece c’è una urgenza.

 

Antonella Vesentini: Allora parliamo delle visite specialistiche esterne, cioè quelle prestazioni che vengono prescritte dal medico di cure primarie. Tutte le prestazioni vengono prescritte dal medico di sezione, anche quelle indicate dagli specialisti. Nessuno lo scavalca, si passa da lì. L’attenzione dell’ULSS e il mandato di legge è anche quello di portare il più possibile le prestazioni all’interno del carcere per, ovviamente, rispondere ad esigenze di sicurezza. Uno sforzo è stato fatto, vi dicevo che noi stiamo allestendo un ambulatorio di radiologia, voi qui ce l’avete già mi pare una radiologia funzionante, giusto? L’attività radiologica è stata avviata nel giugno 2011 con ubicazione provvisoria e adesso arriviamo all’ambulatorio definitivo; abbiamo fatto anche altre cose, ma non si può portare tutto all’interno, non si potrà mai portare dentro un ospedale, in una struttura che eroga assistenza ambulatoriale. Io vengo quotidianamente contestata dalla Polizia penitenziaria e dalla Direzione, perché per loro un accompagnamento esterno comporta rischi per la sicurezza, comporta una spesa per la benzina, la scorta, insomma sono soldi pubblici ed anche loro hanno un budget (quindi non dico sia sbagliato), e mi dicono sempre che sono troppi gli accompagnamenti in ospedale. Ma se io ritengo che per il paziente

vi sia bisogno di fare una TAC, o una visita cardiologica e non sono in grado di farla all’interno del carcere, debbo fare in modo che l’abbia fuori e nei tempi che prevedo. Se è una urgenza la deve fare subito! Se è una priorità “B” sono 10-20 giorni, se è una “attività programmabile”, possono passare anche sei mesi, un anno. Bisogna trovare il modo di organizzare le prenotazioni un po’ a gruppi e non derogare sulle urgenze. Quello no, mai! C’è il codice “U”, sta a dire urgente, poi c’è il codice “B”, che sono 10 o 20 giorni per fare la prestazione, poi ancora c’è la “P”, che è programmabile per cui possono essere sei mesi, otto mesi, ed è il tipico controllo “differibile”, che può essere anche fino ad un anno. Sceglie il medico quale priorità dare.

 

Ornella Favero: È per questo che il detenuto vorrebbe vederselo scritto, forse.

 

Antonella Vesentini: Ecco, il fatto è che li da noi il medico di base scrive l’impegnativa, però non ha modo di darla al paziente perché deve inserirla nel diario clinico in modo che il medico dell’ospedale la riceva; nel contempo scrive al Direttore del carcere per avviare la procedura per poterlo mandare a fare la visita. Noi abbiamo un po’ aggirato l’ostacolo delle prenotazioni perché ce le facciamo noi. Cioè abbiamo

preso accordi con l’Azienda Ospedaliera (che è l’ospedale civile che ci fa da riferimento), il medico fa le

prescrizioni e poi le mandiamo in Direzione Ospedaliera e poi loro ci rispondono: il detenuto … farà la

visita urologica (gli mettiamo un numero in modo che non vadano in giro nomi), il tal giorno alle 14.00 del pomeriggio, il detenuto … farà la TAC il tal giorno…

 

Gianluca Cappuzzo: Quindi funziona come un Reparto ospedaliero essenzialmente, cioè le prenotazioni

le faccio in Reparto e le passo direttamente alla specialistica, funziona così? Ma la refertazione? La cosa importante non è tanto avere un gabinetto radiologico, quanto piuttosto avere una refertazione che sia in tempi utili.

 

Antonella Vesentini: Riguardo alla refertazione della radiologia interna, non faccio venire il radiologo in carcere, ma solo il tecnico di radiologia medica che esegue le radiografie. Il radiologo in ospedale le può vedere il giorno stesso se sono tutti casi tranquilli anche se mi manda i dischetti e i referti da qui ad una settimana non cambia niente. Se invece riscontra una situazione di acuzie, di pericolo (nel 2010 e 2011 a Verona abbiamo avuto più casi di tubercolosi attiva), telefona subito al centralino del carcere e parla col medico, che poi prende i provvedimenti necessari. Possono essere di sanità pubblica per la tutela della collettività se c’è il sospetto di una malattia contagiosa, oppure non so, se uno per esempio vede un cuore ingrossato provvede ad ulteriori accertamenti.

 

Gianluca Cappuzzo: Questo tipo di refertazione la prevedete solo per la radiologia oppure anche per altre branche tipo cardiologia, medicina da laboratorio?

 

Antonella Vesentini: Per la cardiologia, abbiamo sperimentato un elettrocardiografo portatile, che tra l’altro ci permette di andare così nelle sezioni, che trasmette direttamente il tracciato in Cardiologia,

e poi il cardiologo ci manda la refertazione dell’elettrocardiogramma, quindi non una visita cardiologica che è un’altra cosa.

 

Ornella Favero: Qui a Padova c’è stato un rinvio a giudizio proprio per un detenuto morto d’infarto, che aveva manifestato doversi sintomi, voleva assolutamente essere mandato al Pronto Soccorso, non è stato creduto e poi effettivamente dopo poche ore ha fatto un infarto. Ma il problema è la tempestività, il problema vero del carcere sono i tempi, quindi l’elettrocardiografo permette una tempestività rispetto alla diagnosi e ai problemi connessi?

 

Antonella Vesentini: Se il medico vede uno che ha sudore freddo, ha dolore al torace, sintomi indicativi

di possibile infarto, non può che chiamare l’ambulanza e mandarlo al Pronto Soccorso. Ma c’è il paziente che non ha altri sintomi, ha un po’ di dolore, potrebbe essere anche un dolore intercostale, una nevralgia. Gli strumenti diagnostici che ci sono a disposizione in carcere sono limitati. Cioè è inutile dire, “è andato al Pronto Soccorso, non aveva niente, dopo tre ore è tornato”. Io possibilmente devo saperlo prima che non ha niente, ecco allora se riusciamo ad acquisire qualche strumento diagnostico un po’ più robusto, magari in certi casi gli accompagnamenti esterni si potranno anche evitare.

 

Gianluca Cappuzzo: Avete già avuto modo di fare una valutazione complessiva di questo nuovo modo di lavorare?

 

Antonella Vesentini: Mi pare che i detenuti dimostrino un maggior gradimento di questo sistema, ma anche la capacità diagnostica secondo me è migliorata, però non ho dati oggettivi. Io dico che per esempio il fatto che le tubercolosi l’anno scorso siano tutte state diagnosticate in ambulatorio, per me questa è un’evidenza importante.

 

Lorena Orazi (Responsabile dell’Area pedagogica della Casa di reclusione di Padova): I dati che ci dava il dottor Nava, che ha fatto per un po’ di tempo un monitoraggio della sanità penitenziaria a Padova, dicevano che gli invii al Pronto Soccorso (tra qui e il Circondariale), e gli invii per le visite specialistiche prenotate, sono un numero molto consistente, e il costo medio per l’anno passato per detenuto è quasi di 2400 euro all’anno, a fronte di una spesa regionale per cittadino che è di 1400 euro. Quindi pur con un investimento, che è maggiore rispetto a quello per un cittadino libero, il livello di “gradimento” dell’utenza è invece bassissimo, il problema esiste… E un’organizzazione diversa è probabilmente una soluzione in grado di rendere le risposte più appropriate ai bisogni e alle esigenze che emergono.

 

Antonella Vesentini: Il medico deve sempre agire nell’esclusivo interesse del paziente, che sia dentro o fuori il carcere fa lo stesso. Quindi si cercano delle modalità, delle soluzioni snelle, però il medico non deve mai derogare da questo principio che è un principio deontologico, non è una legge, è un principio etico. Per cui anche se la situazione organizzativa è particolarmente pesante, se il medico ritiene che per tutelare la salute del paziente questa cosa vada fatta, la deve prescrivere. In questo caso gli “attori” sono l’Amministrazione penitenziaria e l’ULSS, quindi chi organizza deve trovare il modo per rendere la cosa fattibile, ha questa responsabilità Il medico però non deve rinunciare a una prescrizione perché sa che vi sono poi dei problemi per accompagnare il detenuto, son due ambiti diversi di responsabilità.

 

Sandro Calderoni: Io volevo entrare un po’ di più nel discorso del medico di sezione, per sapere come è stato organizzato il servizio. A noi interessa capire come lei sia riuscita a mettere in moto questo meccanismo, se ha visto che vi è stata una adesione dei medici o comunque ha dovuto imporre questo cambiamento.

 

Antonella Vesentini: Ci siamo seduti intorno ad un tavolo e abbiamo detto: “Ci sono questi problemi, come li affrontiamo?”, e io ho proposto allora: “Perché non facciamo il medico di base o il medico di famiglia? E ognuno si prende  in carico i suoi pazienti, comprese le relazioni al Magistrato?”. È stata una scelta condivisa, e quando le persone sono motivate è più facile che una operazione del genere abbia successo. La decisione poi l’abbiamo formalizzata con la Direzione, indicando per ogni sezione il suo medico.

 

Sandro Calderoni: È un’esperienza che secondo me va esportata in altre carceri e quindi sarebbe il caso di documentarla in modo da spiegare come va strutturata.

 

Antonella Vesentini: Il concetto di base è che il problema dell’avvicendamento dei medici, e della visita che rischia di diventare una specie di consulenza, viene affrontato con la presa in carico del paziente, quindi del medico che ti vede nella tua complessità e nel tempo, valuta la visita specialistica che hai fatto, ti dice se è il caso di fare altri accertamenti. Questa è la presa in carico. In tante carceri oggi invece magari

ci sono dieci medici che si turnano e fanno l’assistenza (perché io credo comunque che l’assistenza ci sia in tutte le carceri), che però non può sostituire la “conoscenza medico-sanitaria” nel tempo. Voi parlavate di esportare il sistema adottato a Verona, probabilmente è una cosa che può essere presa in considerazione oltre un certo numero di detenuti assistiti, oltre i 600/700 detenuti, sono le carceri grandi quelle dove si sente il peso dell’avvicendamento dei medici, ed è lì che infatti troviamo i problemi di presa in carico del paziente detenuto. Io posso dire che a Verona-Montorio abbiamo provato a riorganizzare l’assistenza sanitaria e lo sto raccontando così, però non mi permetto di esprimere un giudizio su altri sistemi, noi continuiamo così però…

 

Francesca Rapanà (responsabile dello Sportello di Segretariato sociale nelle carceri padovane): Vi sono delle criticità nel vostro sistema, delle questioni che richiedono ancora una messa a punto, delle critiche da parte di qualche operatore che non è convinto del sistema adottato?

 

Antonella Vesentini: Nel passaggio dalla Sanità penitenziaria alle ULSS, Verona ha avuto una storia piuttosto tribolata. C’era la figura del medico incaricato che era responsabile dell’Area sanitaria e che prima del passaggio dipendeva dal Direttore del carcere. Il medico incaricato magari non seguiva direttamente i pazienti o solo qualche volta (soprattutto in una struttura grande), e in genere teneva i rapporti con la Direzione del carcere e provvedeva a tutte le relazioni all’Autorità Giudiziaria, o al DAP o al Direttore, cioè le relazioni sullo stato di salute del paziente che sta scontando una condanna. La scelta di mettere un medico di sezione è stata “radicale”, nel senso che anche le relazioni sullo stato di salute del paziente ogni medico le fa per il paziente di cui si occupa, e il medico deve essere libero nell’esercizio della sua professione e, torno a dirlo, agire solo nell’interesse del proprio paziente. Io sono stata pesantemente contestata da vari medici incaricati in incontri nazionali, perché mi dicono “No, deve essere sempre lo stesso medico che relaziona al magistrato di Sorveglianza!” A Verona non è più così. Di quello che riguarda la salute di un paziente se ne occupa il suo medico, il che non significa che il medico viene lasciato da solo, perché tante volte ci si mette anche in quattro o cinque a valutare una situazione, ma la scelta della presa in carico del paziente è totale.

 

Luigi Guida: Io volevo tornare sui problemi dentistici perché qui a Padova, anche per una visita normale

per una carie di un dente, ci sono persone che hanno aspettato un anno. C’è un dentista che lavora per l’ULSS (quindi fa prestazioni gratuite a nome dell’ULSS), e un professionista pagato dalla persona detenuta tramite domandina, quindi se uno non ha soldi non riesce a fare niente, e comunque i tempi di attesa sono interminabili.

 

Antonella Vesentini: Per l’assistenza odontoiatrica le liste di attesa anche a Verona sono lunghe, in quanto i “LEA”, cioè le prestazioni che dobbiamo erogare, sono per gli adulti le urgenze infettivo- antalgiche, tutto il resto non si fa. Il quadro clinico deve essere l’urgenza infettivo-antalgica, quindi l’infezione in corso, quella che si manifesta con il mal di denti, più o meno pulsante, l’ascesso, situazione magari di compromissione generale perché compare la febbre, il dolore che non passa con l’antidolorifico. Certo ci sono molte richieste, ma le prestazioni a cui io debbo dare priorità sono queste.

 

Gianluca Cappuzzo: Tornando ai problemi dell’assistenza sanitaria, una persona in una situazione così ristretta già ha poche sicurezze, se poi è incerto, anche su come viene curata, è logico che continuerà a fare richieste o continuerà a fare domandine per avere una visita, per capire.

 

Antonella Vesentini: Noi a Verona abbiamo introdotto (sempre condiviso con i medici), le visite su chiamata. Perché tra i detenuti c’è chi viene e si ripresenta perché ha una situazione cronica, oppure ha una acuzie e va bene questo è normale che venga in ambulatorio, e poi ci sono quelle persone che invece non si vedono mai! Allora può essere che stiano totalmente bene, può essere che siano timide, può essere che non abbiano coscienza di malattia, quindi per evitare che ci siano dei buchi neri, ogni medico ha la sua sezione, e quelli che non vede mai ogni tanto li chiama. Se l’assistito decide di non presentarsi, il medico annota sul diario clinico che rifiuta la visita. Quindi stiamo anche cercando di evolverci, di non aspettare solo la domandina, ma di fare anche una proposta attiva di medicina. Anche perché se sono sul territorio ed ho un problema di salute, posso decidere cosa fare. Qui invece la responsabilità, sia dell’Amministrazione Penitenziaria, sia della parte sanitaria nei vostri confronti è più alta rispetto al medico fuori, perché siete in carico nostro e quindi dobbiamo investire di più in termini di energie e risorse.

 

Lorena Orazi: Ma come è organizzato in concreto questo sistema del medico di sezione?

 

Antonella Vesentini: Il lavoro è organizzato così: raccogliamo le domandine alla mattina del giorno stesso, e le raccoglie l’infermiere, non l’agente. Ma se uno è li che ha il mal di pancia, è una situazione anche non grave ma comunque acuta e quel giorno non ci sono le visite di quella sezione, interviene il medico di guardia.

 

Bruno Monzoni: Volevo chiederle come vi siete organizzati in merito a chi ha il problema “aggiuntivo”

della tossicodipendenza. Cioè, con il medico di sezione, voi avete fatto un piano dove ci sono detenuti che hanno tutti questo tipo di problemi, come magari avviene in altre carceri?

 

Antonella Vesentini: No, no! Il medico del Ser.D. esterno fa anche da medico di base per la persona tossicodipendente sul territorio, cioè lo prende in carico totalmente, se lo segue, il suo paziente: per la pressione alta, il diabete, se ha l’HIV, ecc. cioè lo segue in tutte le sue problematiche sanitarie. Il Ser.D. a Verona ha portato dentro questo modello, per cui ci sono i medici del Ser.D. che visitano per le cure primarie (cioè come medico di sezione per circa quattro mattine a settimana); coloro che hanno la diagnosi di tossicodipendenza vengono seguiti completamente dai medici del Ser.D. Per gli aspetti

psichiatrici sono seguiti dagli psichiatri, anche questi del Ser.D.

 

Ornella Favero: Secondo noi voi dovreste avere un po’ di coraggio in più a parlare di questa vostra esperienza, si dovrebbe sapere che ci sono delle carceri in cui la medicina funziona diversamente, e sarebbe interessante sentire il punto di vista dei detenuti, visto che la legge parla del ruolo attivo che dovrebbero avere i detenuti rispetto alla propria salute, sentire il livello di soddisfazione. Perché noi siamo convinti che sia alto, mentre invece un detenuto che passa da un medico all’altro vive una situazione di grande precarietà nella salute. Ecco perché pensiamo che di questo modello dovreste parlare molto di più.

 

 

 

Il diritto alla salute in carcere inizia con il diritto a essere visitati

Un confronto della redazione di Ristretti Orizzonti con il senatore Roberto Di Giovan Paolo, presidente del Forum per la tutela della Salute delle persone private della libertà personale

 

a cura della redazione di Ristretti Orizzonti

 

Roberto Di Giovan Paolo è un parlamentare impegnato sul fronte dei diritti umani, e proprio questo impegno l’ha portato ad accettare di fare il presidente del Forum per la tutela della Salute delle persone private della libertà personale, una carica che non dà nessun vantaggio ma solo il peso di dover fare qualcosa perché i pazienti detenuti vengano davvero trattati come qualsiasi cittadino libero. La redazione di Ristretti Orizzonti l’ha invitato a Padova il 29 ottobre proprio per segnalargli una situazione molto carente del servizio sanitario nel penitenziario padovano. Il primo problema sollevato dalla redazione è quello, che sembra elementare, ma è invece estremamente serio e complesso, delle visite mediche. “In tanti anni di detenzione, non mi è mai successo di trovare il medico che ti fa stendere sul lettino dell’ambulatorio, ti sente il respiro e ti chiede dove hai male”, racconta Filippo. Alza la mano e chiede di intervenire Andrea: “Qui i medici mettono sempre i guanti, ma perché non vogliono toccare a mani nude i cancelli, le porte, le sbarre, noi in ogni caso non ci toccano mai”. Prende la parola un altro detenuto, si chiama Paolo e spiega quanto sia imbarazzante dover spiegare i propri problemi ogni volta ad un medico diverso. E poi aggiunge: “Qui vedo ogni sera quello della cella di fronte alla mia che si fa fare la puntura attraverso le sbarre, mi domando perché non si ribella a un modo così poco umano di trattare una persona malata”. Un’altra questione sollevata riguarda i detenuti tossicodipendenti. È sempre Paolo a raccontare: “I tossicodipendenti rischiano di essere emarginati tra gli emarginati. Nel mio reparto ci sono dei ragazzi ai quali vengono dati solo psicofarmaci, a volte è difficile anche avere i farmaci retrovirali”. “La riforma della sanità penitenziaria è una legge fatta dieci anni fa, ma le aziende sanitarie continuano ancora a giustificarsi dicendo che c’è una lentezza nel passaggio del sistema sanitario dall’amministrazione penitenziaria al Sistema Sanitario nazionale”. È il senatore Di Giovan Paolo questa volta ad intervenire, difendendo il passaggio al SSN, perché se ci sono cose che non funzionano, non è perché si stava meglio prima, quando la sanità dipendeva dall’amministrazione penitenziaria, la riforma è stata giusta, ma bisogna fare in modo che le cose funzionino come dovrebbero funzionare. Il dibattito si rivela intenso di esperienze personali, ma non mancano anche le riflessioni generali. Tutti sono convinti che c’è urgente bisogno di una campagna di responsabilizzazione dei medici, e di una assunzione di responsabilità maggiore dei direttori, i quali si dovrebbero rendere conto che la salute delle persone affidate loro in custodia è responsabilità anche del Direttore del carcere. Il primo obiettivo su cui si focalizza il dibattito è che non ci deve più essere il palleggiarsi della responsabilità tra azienda sanitaria e amministrazione penitenziaria, e ci deve invece essere una presa in carico della persona detenuta da parte di un medico preciso, il medico curante. Su questo basterebbe seguire l’esempio del carcere di Verona dove la responsabile per la sanità ha riorganizzato il servizio istituendo la figura del medico di reparto. Questo è un metodo che evita il passare della cartella clinica da un medico all’altro e soprattutto crea quella continuità che alle persone libere è data dal medico di famiglia. Un altro punto importante è bandire le “visite a distanza” in cui il medico non tocca il paziente: la visita medica deve essere fatta in modo effettivo, serio e approfondito. E ci vuole più trasparenza: è diritto di ogni persona sapere tutto sulla sua condizione di salute, sapere

che patologia gli è stata diagnosticata e che farmaci gli sono stati prescritti. Il carcere è uno dei posti più controllati in assoluto. Da un lato c’è il controllo esercitato sulle persone private della libertà, e dall’altro c’è il controllo sui controllori e sugli operatori, affinché tutto funzioni all’interno della legalità. Tuttavia, i medici a volte sembrano essere diventati una categoria che sfugge a simili controlli. L’unica forma di protezione al detenuto/ paziente è offerta dal ricorso alla magistratura, come è già successo alcune volte in cui i parenti di detenuti morti in carcere (anche nel carcere di Padova) hanno denunciato i medici per negligenza e omicidio colposo, o dalla richiesta al magistrati di Sorveglianza di intervenire a tutela del diritto alla salute. “Ci vuole la Carta dei servizi”, riprende il discorso Ornella Favero. “La legge dice che i detenuti devono avere un ruolo attivo nella stesura di questa Carta che stabilisce quali sono le prestazioni e i servizi che il Servizio Sanitario fornisce. Mentre i detenuti troppo spesso non sono ritenuti degni di sapere nemmeno che tipo di pastiglie stanno prendendo. Allora la Carta dei servizi deve avere all’interno anche degli strumenti di controllo delle prestazioni erogate che coinvolgano sia l’Asl, sia la Direzione del carcere”. Il senatore Di Giovan Paolo ha ascoltato con attenzione le proposte della Redazione e si è impegnato a segnalare in tempi rapidi tutte le carenze dell’assistenza sanitaria alle autorità competenti, vale a dire al Sindaco, al presidente della Regione, ai responsabili dell’Azienda sanitaria, e ad appoggiare la richiesta dei detenuti di incontrare il responsabile della Asl per la sanità penitenziaria e avere un ruolo attivo almeno rispetto a una cosa delicata come la loro salute. “Per fare in modo che la riforma sanitaria venga completata”, conclude, “bisogna che ognuno faccia il proprio lavoro bene, che i dirigenti facciano le circolari, ma anche che i controllori controllino, e che gli operatori operino con professionalità, serve quindi anche una seria proposta di formazione e aggiornamento del personale”.

 

Carcere e salute:ripartiamo dal “medico di fiducia”

Una persona che sta male e si rivolge ad un medico oltre al dolore o all’indisposizione che sente, prova un indiscutibile senso di paura, più o meno dominato, che è comprensibilmente determinato dal “non sapere”, dall’incapacità di decifrare i sintomi. Proviamo ad immaginare come queste sensazioni possano essere amplificate dalla restrizione coatta in un ambiente angusto come una cella, per di più sovraffollata. Magari avendo anche difficoltà di comunicazione perché di lingua straniera, e quindi spesso con un approccio nei confronti della malattia lontano dalla nostra

mentalità e sensibilità. La prima cosa che ci preme ricordare è che la cosiddetta “simulazione” non è certo compresa in alcun manuale di medicina clinica, e però purtroppo è forse la causa prima di malasanità in carcere: ecco perché la cosa più importante affinché la sanità in carcere funzioni è che il rapporto tra medico del carcere e detenuto cambi, che il detenuto sia creduto quando sta male, e sia ascoltato e VISITATO davvero. In fondo la straordinaria professione del medico è proprio quella di poter lenire e guarire, attraverso la propria capacità di ascoltare, le sofferenze di un’altra persona che a lui si affida e affida le proprie angosce. Detto ciò, indichiamo alcuni punti e situazioni che, se presi in considerazione, potrebbero dare un notevole contributo per un’azione sanitaria più efficace e partecipata:

 

  • La Carta dei servizi sanitari per il detenuto: secondo l’intento legislativo definisce i campi e la possibilità di intervento del Servizio Sanitario Nazionale. Ad oggi nel Veneto non è ancora stata redatta.

  • La prescrizione medica: al momento della visita chiediamo venga rilasciata al detenuto (come avviene normalmente in qualsiasi ambiente medico all’atto della visita), una prescrizione che descriva l’eventuale patologia riscontrata ed indichi la terapia ordinata (e se necessarie la eventuali indagini – es. Rx o TAC o RMN o esami ematochimici), ovviamente in modo leggibile, così che la comunicazione tra medico e detenuto non sia più occasione di fraintendimenti, ma piuttosto si instauri un clima di fiducia che può solo giovare all’obiettivo di tutela della salute.

  • Il medico di fiducia: il detenuto all’interno dell’istituto deve poter fare riferimento ad un solo medico, come avviene nel caso dell’educatore, ma anche più semplicemente come avviene con i medici di base per i cittadini liberi (può essere il medico di sezione, come nel carcere di Verona). È fondamentale che una persona detenuta abbia il suo medico curante. Questa richiesta va nella direzione di stabilire un migliore rapporto di conoscenza tra medico e detenuto disinnescando, da una parte, quelle situazioni che possono sfociare in episodi cosiddetti di “simulazione”, e dall’altra qualificando l’intervento sanitario.

  • La comunicazione dell’esito degli esami: per tutte le ragioni ricordate è importante che l’esito degli eventuali esami strumentali eseguiti sia spiegato con puntualità e in modo da essere compresi. Nessun medico, in altro ambiente, liquida un suo paziente con “va bene” o “non ti devi preoccupare” senza dare una spiegazione o, peggio, lasciando trascorrere mesi prima di comunicare un esito.

  • Gli esami specialistici: lo stesso CUP al momento della prenotazione di un esame specialistico ricorda le eventuali prescrizioni coadiuvanti l’esecuzione (digiuno prima di determinati esami etc.). Due righe scritte a promemoria del detenuto eviterebbero esecuzioni inutili o perdita di prenotazioni con inevitabile rinvio dell’esame e spreco di tempo, a volte prezioso, non solo per la salute del paziente ma anche per l’organizzazione della traduzione e la sicurezza

  • Il rimborso delle spese sanitarie: ex art. 18 dPR n° 230/2000 è fatto divieto di richiedere ai detenuti di partecipare in alcuna forma alla spesa per prestazioni sanitarie erogate dal Servizio Sanitario Nazionale, sussiste, però, l’eventualità sempre meno rara che in seguito ad una visita specialistica vengano prescritti farmaci non rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale, e non per questo sostituibili con altri o meno indispensabili ai fini della cura. Farmaci il cui acquisto molto spesso non è nelle disponibilità del detenuto indigente e senza aiuti esterni, o straniero e senza qualcuno che lo possa sostenere.

  • La prevenzione: non esiste quasi nessun tipo di prevenzione, che in particolare sarebbe importante per patologie come l’epatite c, molto diffuse in ambienti come il carcere.

  • È sempre gravissimo il problema dei dentisti, se non puoi pagare (ma anche per il dentista a pagamento l’attesa è lunga) passi mesi imbottito di farmaci ad aspettare che ti chiami il dentista. Ci sono persone che si sono tolte i denti da sole, esasperate da questa attesa