Ma si può parlare di vera libertà dopo tanti anni trascorsi in carcere?

Estraneo nel proprio Paese, estraneo nella vita libera: così si sente uno straniero che

alla fine della pena viene espulso

 

di Milan Grgic

 

Ho scontato una pena che supera dieci anni di detenzione continua, e sono stato espulso al mio Paese, in Croazia. Voglio raccontare la mia esperienza di come ho vissuto il primo periodo di libertà, soprattutto dal punto di vista psicologico: come mi sento, come vedo un mondo per me nuovo, o quasi sconosciuto, come la verità che ti aspetta a fine pena è dura da accettare e anche da raccontare. Però, voglio essere sincero e senza ambiguità, voglio fornire dei materiali che permettano uno studio reale dei problemi del “dopo carcere” e che possano essere utili per valutare quei problemi con la massima razionalità e onestà. Per prima cosa dirò che non ho vissuto la mia liberazione con un minimo di gioia. Strano, ma vero, mi sarei aspettato dopo tanti anni in carcere che sarebbe stato un giorno tra quelli più felici e pieni di gioia, invece no, in questo momento non sono in grado di spiegare perché, non ho la capacità di farlo con un po’ di distacco, e nemmeno sono in possesso degli istrumenti per dare una valutazione valida e reale di questi miei stati d’animo, probabilmente ci vorrebbe uno psicologo o uno psichiatra. Ancora oggi mi alzoalle quattro e mezzo di mattino, sì, perché quello era il mio ritmo di studio e di lavoro nel carcere, ma adesso non so cosa farmene di tutto questo tempo, non riesco a studiare, mi sento quasi in colpa perche sono l’unico sveglio a quella ora e faccio tutto in silenzio per non svegliare mio figlio. Non è che

non ho voglia di studiare, al contrario, ma non riesco a concentrarmi, il mio cervello non segue la mia voglia, probabilmente perché adesso ci sono i problemi della vita vera: come procurarsi i mezzi per vivere, dove vivere, di che cosa, magari un lavoro che mi dia un minimo di mezzi per andare avanti, finché non costruirò una base solida che mi permetterà di progettare qualcosa che non posso chiamare un futuro, ma una sopravvivenza. Mentre cammino per la strada, questo mondo attorno a me mi sembra un formicaio, tutti hanno fretta, nessuno si è accorto della mia presenza, se vuoi chiedere una informazione devi rincorrere le persone e devi considerarti quasi fortunato se si fermano subito. Ma anche io mi rendo conto che in realtà sono cambiato molto, una cosa che ho sempre negato, o perché non mi sentivo tale, o perché non ci credevo e non volevo usare questo mio cambiamento in modo opportunistico, come è d’uso fare in carcere per qualche finalità, come quella di avere qualche beneficio. Qui nel passato mi consideravano una persona realizzata, non importa in quale modo avevo raggiunto il “successo”, l’importante è sempre che hai soldi, sì, perché nella società di oggi il parametro con cui si valuta una persona non è morale, non è l’onestà, ma il denaro. Da quando sono uscito non sono ancora andato a “divertirmi” perche non so nemmeno che cosa mi potrebbe far divertire, le persone che frequentavo nel passato se le incontro riesco appena a riconoscerle solo attraverso il loro sguardo, ma con poca certezza, non nascondo che delle volte faccio finta di non accorgermi che le ho riconosciute in qualche modo, perché non ho voglia nemmeno di parlargli, non so di che cosa potrei parlargli, forse della mia “tragedia”, degli anni di galera, di tutto quello che ho perso? No, il mio orgoglio non è morto, morirà il giorno che morirò anche io.

 

 

 

 

*I permessi premio (indispensabili), e i loro curativi effetti collaterali

 

di Filippo Filippi

 

Pochi giorni fa sono uscito in permesso premio accompagnato dai volontari di Ristretti Orizzonti, un giorno per circa dieci ore. Il permesso era stato concesso nell’ambito del Progetto sulla legalità, meglio conosciuto come progetto “scuole/carcere”. Sono state dieci ore a tratti intense, impegnative e brevemente spaesanti dopo quasi cinque anni di carcere, per me nella mia particolare situazione senza colloqui e/o telefonate. Il permesso ha avuto esiti positivi, nel senso che ci siamo potuti vedere “fuori le mura”, con i volontari che da qualche anno già conosco e l’obiettivo dichiarato del permesso è stato messo in pratica. Tutto sommato è stata una bella giornata. Vedere molti professori interessati al progetto mi ha reso più consapevole di come qui a Padova esso sia radicato e utile, probabilmente anche in senso preventivo (in particolare mi è rimasta impressa l’immagine di una trentina di docenti seduti in cerchio che parlavano, chiedevano lumi e si confrontavano con la prof. Ornella Favero). Però da quando sono rientrato è come se tutto il mio “malessere”, e le poche ma sostanziali cose che non ho più, si siano riacuite. Uscire anche solo dieci ore e rigorosamente accompagnato ha contribuito, da un lato, a rendermi ancora più consapevole e pensieroso su quanta strada e quanto “lavoro” ho ancora da fare, e dall’altro sono inevitabilmente ritornato auto criticamente sulla terra, ripensando ai reali motivi che mi hanno ricondotto in carcere cinque anni fa, a quanto mi è costata, per esempio, una pesante ricaduta con le droghe dopo poco più di due anni nei quali ne ero completamente fuori, fuori ma povero, estremamente povero, nel senso che in tre decenni o poco più ho “bruciato” molto danaro, ma anche “perduto”, o lasciato andare, persone alle quali sono stato molto legato sentimentalmente ed altre che mi sono state amiche ed affettivamente importanti. La ricaduta con l’eroina (anche se di poco meno di due mesi), quando avevo cominciato a ricostruirmi uno straccio di vita normale, ha azzerato anche quel poco che lentamente mi stavo ricostruendo. Ovviamente tutto questo, in un contesto carcerario più consapevole, come quando inizi un percorso con i permessi all’esterno, fa stare male, e così quella parziale e sommaria serenità che mi ero costruito è andata letteralmente a farsi friggere. Per questo parlo di indispensabili permessi premio, ma anche dei loro dolorosi, ma benefici effetti collaterali. Perché con i permessi graduali, si comincia già a “fare i conti”, a prepararsi a quello che verrà, che non sarà più la galera sovraffollata ed i suoi “percorsi guidati” tutti i santi giorni (cella, passeggi, qualche corso, talvolta lavoro), l’inutile ripetitività inattiva e inoperosa, e si comincia anche a pensare e, in alcuni casi, ad “arrovellarsi”, sul prima della galera e sulle difficoltà che ci saranno dopo la galera. Ovviamente il tempo passato in carcere non si potrà riprenderselo, resta da vedere come questo tempo lo si è trascorso… Questo sto imparando, che è fondamentale, ed io, nella mia particolare condizione, credo che nulla (o molto poco), sarà più come prima, prima dell’ennesima ricaduta con la droga. Rammento a me soprattutto che la droga sottintende la ricerca del “piacere chimico”, il tentativo di non star male, ed è con questo che dovrò ancora fare i conti quando sarò di nuovo libero. Ed è in questo senso generale (non solo per i tossicodipendenti detenuti), che i permessi premio sono indispensabili, proprio e soprattutto per i loro effetti collaterali “urto”, di confronto graduale con la realtà e con i cittadini liberi.

 

*Permessi premio: Ai condannati che hanno tenuto regolare condotta ai sensi del successivo comma 8 e che non risultino socialmente pericolosi, il magistrato di sorveglianza, sentito il direttore dell’istituto, può concedere permessi premio di durata non superiore ogni volta a quindici giorni per consentire di coltivare interessi, culturali e di lavoro. La durata dei permessi non può superare complessivamente quarantacinque giorni di ciascun anno di espiazione.

 

 

 

 

Carcere e depressione

Quella stessa depressione di cui soffrivo in libertà in carcere era diventata il mio pane quotidiano. Ma forse senza quella sofferenza non sarei diventata la persona che sono oggi

 

di Luminita G.

 

Avevo camminato molto tempo con il cuore “ghiacciato” e l’anima spenta, triste e spaventata. Una donna che doveva fare anche da uomo per poter sostenere la sua famiglia lontana. Avevo un divorzio alle spalle e due figli da mantenere al mio Paese. Correvo per il mondo aggrappandomi a quel poco di coraggio che mi facevo venire ogni mattina guardandomi nello specchio: Dai! Dai che ce la fai! Prova ancora, anche oggi, ogni giorno può essere l’inizio della tua fortuna Ho avuto tante delusioni per tanto tempo e ogni volta che cadevo dentro un fallimento, mi era difficile scrivere ai miei figli per spiegare che non trovavo un buon lavoro e una sistemazione decente. Però speravo. Ero molto vulnerabile di fronte alla quotidianità della vita di un’emigrante. Ero “piccola” e stavo sul precipizio della depressione. Sola, molto sola, mai stata così sola in vita mia. Avevo abbandonato anche me stessa. Avevo 38 anni e la mia vita era di una banalità incredibile. In cerca di un lavoro stabile, il resto del tempo lo passavo guardando il vuoto attorno a me, e non vedevo nulla. La mancanza dei miei figli per così tanti anni mi aveva bloccato la mente. Nel febbraio 2008, attraversando i numerosi cancelli di ingresso del carcere di Forlì, non sentivo nulla. Né rabbia, né paura, né impotenza. Ero assente. Non volevo gridare, né piangere. Nei primi due anni di carcere non ho versato una lacrima. Quella stessa depressione di cui soffrivo in libertà in carcere diventava il mio pane quotidiano. Con una mano stringevo forte questa depressione e con l’altra

mi imbottivo di psicofarmaci. Non ero nemmeno capace di fare un urlo di dolore quando aprivo la

posta di mio figlio e le sue parole, i suoi disegni mi invitavano ad alzarmi dalla branda e a cominciare a camminare e lottare per la mia vita e la mia libertà psicologica. Poi mi sono resa conto del messaggio che mi trasmetteva mio figlio. Marcivo ancora in questa sofferenza, ma almeno il dolore mi invitava a scrivere. Quello che non potevo dire a nessuno a voce, lo scrivevo. Scrivevo poesie. Poi le rileggevo. Così mi sono resa conto che c’è tanto, tanto dolore in me. Con piccoli passi ho lasciato libere le lacrime e ho abbandonato piano piano la terapia. Ho abbandonato quel nido di sofferenza prendendo, come stampelle per iniziare un nuovo cammino, lavoretti banali come i giochi di bambini, e la mia esistenza così riprendeva a girare come un mulino. Più giravo, più trovavo la luce, e così sono arrivata alla finestra. Aggrappata a quelle sbarre arrugginite non mi sono più sentita ristretta mentalmente, ma le ho strette bene tra le mani con tutta la mia forza e mi sono detta: voi non mi costringerete a essere chiusa, voi diventerete il mio trampolino e io riuscirò a salire in alto, e non scenderò più! Mi liberavo così ogni giorno di più dal passato e mi ripromettevo di essere un’altra. Questa mia lunga latitanza da me stessa si colmava ogni giorno con una nuova scoperta di me. Passati altri due anni e otto mesi mi sono ricostruita tutta, e quella donna che tempo prima era entrata in carcere depressa e sofferente e che non sapeva nulla di se stessa, l’ho seppellita tra quei muri. Non so come ho fatto, però ho capito che “Io” ora lo posso scrivere con la maiuscola. Nonostante sia appena uscita dal carcere, dove, si sa, le persone vivono ristrette e compresse, posso dire di essermi sentita sempre, nonostante tutto, “libera” di poter conoscermi, e a questo di sicuro non hanno contribuito il carcere e la condizione di ristretta. Perché quel dolore che provi in carcere non fa altro che seppellirti dal primo giorno senza lasciarti spazio per respirare. Tutto quello che sono riuscita a fare è perché ho trovato la forza di alzarmi dal fango in cui vivevo. Era soltanto un conto in sospeso con la mia volontà e la mia cecità di non vedere chi sono. Ora quella Luminita che entrava in carcere con la sofferenza in tasca è rimasta “là” e io sono uscita tutta un’altra persona. Sorridevo, quando sono uscita dal carcere, guardando attorno a me e dritto avanti. Anche se ancora non riesco a vedere i miei figli, ho in tasca la voglia di lottare per loro come non ho mai fatto, e anche per me! La mia strada non si ferma qui. Tra le mani avrò tutta la mia vita, e mi resterà però il ricordo di quelle sbarre, tanto forte da non farmi dimenticare mai quella sofferenza!

 

Da sola

A questo dolore

non si può aggiungere nulla

a questo urlo interiore

a questo pianto

a questo mio graffio nel profondo

del cuore.

È inverno gelido

là dove è la mia anima

ghiaccio nel mio profondo

e il dolore non entra più

non ho nemmeno forza

di gridare più

di pianger

né braccia per sollevare

questo peso

sono sfinita

esausta

lacrime chiuse negli occhi

e viso stravolto

mi fanno tremare l’anima

Questo dolore, dolore

e questo pianto secco

se potessi, se sapessi io

non piangerei più.

Ma sono sempre sola

sola.