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All'inferno e ritorno [scarica la versione in pdf completa di immagini]
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Ristretti
Orizzonti (Anno
13, numero 6, Novembre 2011) Editoriale Un
albanese “rieducato” in un Paese a volte ancora maleducato di Ornella Favero Parliamone Un
lungo e sofferto capitolo della mia vita si è chiuso di
Elton Kalica In
galera... per evitare di tornarci
a cura della Redazione Il
mio primo incontro con i ragazzi delle scuole di
Luigi Guida Comunichiamo
la nostra esperienza sempre con il nodo alla gola, di
Ulderico Galassini Con
molta fatica ho cercato di mettere a disposizione la mia storia di
Mohamed El Ins Gli
incontri che ci fan sentire tutti comunque Persone di
Filippo Filippi Ci
sono sentimenti che per chiunque sarebbero strettamente riservati di
Cesk Zefi Ri-strettamente
utile Quei
fornelletti che permettono un po’ di libertà Una
proposta di legge che ci complicherebbe la vita
di Antonio Floris Il
prezioso angolo cottura e preparazione cibo in cella di
Filippo Filippi Perché
togliere anche quel po’ di autonomia che ci dà un fornelletto? di
Ulderico Galassini Murati
vivi La
pena dell’ergastolo e il rischio di un inferocimento della società Cattive
nuove in materia di ergastolo di
Andrea Pugiotto L’ergastolo
comune toglie ogni diritto, quello ostativo toglie la vita di
Santo Napoli Sprigionare
gli affetti I
figli di detenuti devono sapere la verità ed essere aiutati a capire Non
posso più continuare a raccontare una mezza verità ai miei figli di
Germano V. Cosa
finora ho creduto giusto dire ai miei figli di
Luigi Guida Tra
i ragazzi delle scuole mi sembra sempre di vedere mio figlio di
Alain Canzian Pronto
papà, quando torni? di
Mohamed Tlili Ecco
perché devo raccontare la verità ai miei genitori di
Bardhyl Ismaili Tendiamo
tutti a nascondere come stanno realmente le cose di
Mohamed Tlili Come
raccontare ai miei una verità così angosciante? di
Qamar A. Quella
verità che fa tanto male alle nostre famiglie di
Ulderico Galassini Si
può ricostruire un rapporto con i figli, quando il reato è avvenuto in
famiglia?
di S.
Napoli Spazio
libero La
vita si sviluppa dall’interno di
Adriana Lorenzi Dopo
21 anni, la prima “libera uscita” di
Antonio Floris Dai
primi timidi assaggi, si arriva a
…
non se ne può più fare a meno di
Fabio Montagnino Donne
Dentro “Lei”
mi aveva completamente sotto controllo di Vanessa La scrittura per testimoniare il sovraffollamento Un
albanese “rieducato” in un Paese a volte ancora maleducato di
Ornella Favero “Churchill
diceva che, se stai attraversando l’inferno, è meglio non fermarsi, ed è per
questo che il mio inferno lo voglio attraversare di corsa, senza guardare
indietro ma invece pensando a quello che sarà di me quando tornerò in vita”.
Mi
è venuta in mente questa frase, che Elton aveva scritto in un momento di
scoraggiamento perché niente della sua pena (non parlo di vita, perché la
galera non è vita vera, è un po’, come ha sempre sostenuto lui, “stare via
dal mondo”) sembrava prendere la direzione giusta, quando il 24 ottobre, alla
vigilia della scarcerazione, l’abbiamo salutato in una festa nella redazione
di Ristretti che è stata tutta un intreccio tra lacrime e gioia. Quell’inferno
di quindici anni di pena in realtà non lo ha attraversato tanto di corsa,
Elton, non gli è stata data la possibilità di farlo, per una di quelle leggi
emergenziali tutte italiane, per cui capita di pagare il doppio perché c’è
una “emergenza” che non finisce mai. E lui ha pagato davvero il doppio,
senza poter mai uscire dal carcere neppure con un permesso, nonostante il reato,
commesso a vent’anni, non avesse niente di feroce e di irreparabile. Ma
cosa è successo il giorno in cui Elton doveva emergere da quell’inferno? alla
mattina è uscito dal carcere a fine pena dopo quindici anni, e alla sera era al
CIE di Modena. Io quel giorno sono arrivata in questura a Padova dove mi hanno
comunicato che non potevano espellerlo subito e gli “avevano trovato un posto
al CIE” in considerazione del fatto che aveva ancora in corso un procedimento
penale. Solo che da quel fatto, una rissa del 2003, per cui è stato assolto,
sono passati otto lunghi anni nei quali lui ha studiato, ha contribuito a
portare Ristretti Orizzonti a risultati davvero importanti, ha scritto racconti
e articoli di straordinaria efficacia. Ma a nulla sono valse le nostre proteste.
Niente. Ho dovuto andare con l’avvocato in una cella squallida della questura
e dire a Elton che invece della prima notte di libertà avrebbe passato una
notte in un camerone di un CIE con altri disperati. Ma
noi non abbiamo mollato, o meglio, prima di tutto non ha mollato Elton, che
quella sera mi ha telefonato dal CIE descrivendo magistralmente quella specie di
canile di lusso e lamentandosi non di essere stato ancora una volta privato
della libertà, ma di essere stato privato anche della penna, con cui aveva
cominciato a scrivere il suo primo articolo di un drammatico dopo carcere. Sono
passati due giorni, e il Giudice di Pace ha avuto il coraggio di non convalidare
proprio il trattenimento nel CIE, ritenendo che la documentazione fornita
dall’avvocato dimostrasse una cosa fondamentale: che Elton non è più
pericoloso. A
noi oggi di tutta questa storia preme dire una cosa: che le istituzioni italiane
dovrebbero essere ben felici di poter dimostrare che Elton, dopo quindici anni
di galera, non è rimasto “l’uomo del reato”, la fotografia di quello che
ha commesso, ma che dalla galera è uscita una persona che ha conseguito una
laurea magistrale e specialistica, che ha rafforzato la sua cultura, che ha
imparato a esprimersi in un italiano perfetto, che sa difendere le proprie idee
e rispettare quelle degli altri. Elton
Kalica “non più pericoloso socialmente” è un successo, e a dire la verità
in tanti ci abbiamo creduto, non solo la redazione di Ristretti Orizzonti. Ci
hanno creduto i suoi docenti universitari, ci ha creduto il Magistrato di
Sorveglianza, ci ha creduto la direzione del carcere, e oggi Elton è libero.
Libero con in tasca un permesso di soggiorno per motivi umanitari, “alla luce
del percorso di completa riabilitazione dell’interessato, certificato dalla
Magistratura di Sorveglianza e dall’amministrazione penitenziaria”, come ha
scritto il Prefetto di Padova, revocando l’espulsione. Per
una volta l’articolo 27 della Costituzione, il fatto che “la pena deve
tendere alla rieducazione”, è stato rispettato, e qualcuno alla fine ha avuto
il coraggio di dire che questa persona può restare in Italia, e continuare a
lavorare per Ristretti Orizzonti, e per tutta quella parte di società, che ha
voglia di imparare dalle esperienze negative, e farne tesoro, invece di
cancellarle dalla propria vita. La
redazione di Ristretti Orizzonti ringrazia tutti quelli che hanno contribuito a
questo piccolo miracolo, primi fra tutti Rita Bernardini e Marco Pannella, che
sono dei veri amici, conoscono Elton e, soprattutto, sono capaci di battersi per
migliorare il destino delle carceri, ma anche di ogni singolo detenuto, e poi
l’avvocato Fabio Corvaja, e Silvia Giralucci, il magistrato di Sorveglianza,
Marcello Bortolato, e la direzione della Casa di reclusione, e tutti i docenti
universitari che hanno aiutato Elton a laurearsi e a costruirsi un futuro. E la
nostra capacità di non mollare mai. Parliamone Un
lungo e sofferto capitolo della mia vita si è chiuso Quello
che voglio è che la galera stessa non sia più un incubo da cui scappare, ma
una lezione di umanità da tenere sempre in mente nella battaglia quotidiana
della vita di
Elton Kalica Ho
trascorso talmente tanti anni qui dentro che ho finito per non sentire più il
peso dei ferri e a denti stretti faccio gli ultimi passi senza togliere lo
sguardo dal traguardo, che ormai è vicinissimo. Ciò nonostante continuo a
essere incapace di fare progetti. Un sentimento schiacciante, causato da una
condizione prolungata di ristrettezza. La galera, si sa, proibisce di vivere:
non si possono vedere i genitori quando ne avresti bisogno e non si può fare
una camminata se ti prende un crampo al polpaccio, non si può mangiare ogni
volta che si ha fame, non si può alzare il telefono e chiamare un’amica o
chiamare il dentista e prenotare la visita se si ha mal di denti, non si può
fare la doccia quando si ha bisogno e ci sono altre migliaia di cose che non è
permesso fare. All’età
di vent’anni ho visto sollevarsi intorno a me un muro alto diciassette anni di
galera, del colore di una nebulosa intensa e fredda che impediva di vedere come
sarebbe stata la mia vita. Oggi che mancano pochi giorni alla fine della
condanna, continuo a essere circondato dall’ignoto. Non ho mai saputo cosa
succede veramente a casa, come stanno di salute le persone che amo o come vanno
le loro relazioni: loro si ostinano a tranquillizzarmi dicendo sempre di stare
bene. Vivere circondato da questo muro di ignoranza rende difficile ogni tipo di
pianificazione. Spesso
mi ritrovo a ripassare mentalmente la giornata in cui ho commesso l’atto per
cui sono finito qui dentro, ma un ventenne confuso che faceva cose difficili non
può essere compreso da un trentenne che sta imparando a ragionare. Rivedo il
processo concluso rapidamente, la difesa inesistente, la pesante condanna e
puntualmente finisco per odiare il fato che mi ha intrappolato nello sfortunato
vortice dell’odissea italiana. Certo, tutti i giorni sento di stranieri che
incontrano destini più spietati del mio, e magari senza colpa alcuna, tragedie
che trascinano donne incinte in fondo al mare, sfasciano impalcature sotto i
piedi di uomini sudati, incendiano baracche mentre i bambini dormono dentro.
Disgrazie che non consolano, milioni di progetti migratori fatti di sofferenza e
di non-vita. Se
qualcuno esce di galera e riesce a godere di appaganti opportunità sentimentali
e lavorative, tanti altri non riescono a trovare gli appigli e la forza per
costruirsi un’esistenza decente. Qui dentro invece, chi più chi meno, hanno
tutti imparato a sopravvivere adattandosi anche alle condizioni più difficili,
oppure rendendosi insensibili alla sofferenza. Forse anch’io ormai sono
assuefatto alla galera a tal punto che la vedo come una sfortunata parentesi
della mia vita piuttosto che il crudele castigo dell’emigrazione. Non mostro
segni evidenti di questo trauma, come se non sia stato io a passare una vita qui
dentro. Solo quando uscirò di qui mi libererò del muro di nebbia che mi
circonda e finalmente realizzerò davvero cosa sono stati per me questi anni. Ovviamente
uscirò una persona trasformata rispetto al ventenne che ero ma, nella stessa
misura, anche il mio dimenticato mondo di amici e parenti sarà cambiato. E dovrò
imparare a fare lavori che non ho mai fatto finora, dovrò relazionarmi con
persone di un’età di cui conosco poco. Dovrò sopravvivere in una società
complessa e sempre più ostile verso uno come me: concentrato a vincere le mie
paure e a contenere il mio orgoglio. E infine scriverò anch’io ai miei
compagni di cella per raccontare le delusioni o i successi della vita da libero,
magari da un bar di Tirana, seduto insieme a collerici rimpatriati che
progettano nuove odissee italiane. C‘è
chi dice che la difficoltà più grande è rappresentata dal momento in cui si
attraversa la porta del carcere, ma che poi tutto diventa facile come prima. Io
invece credo che sarà drammatico quando si apriranno le porte di questa galera,
strapperò il velo d’ignoranza che mi ha avvolto in questi anni e scoprirò
tutto quello che è successo, mentre io cercavo di sopravvivere alla galera. Un
pensiero ai compagni morti Pochi
giorni fa è stato l’anniversario della morte di Graziano, il vignettista di
Ristretti Orizzonti morto nel peggior modo immaginabile. Triste coincidenza, a
giorni sarà anche l’anniversario della morte di Stefano, un altro dei nostri,
che durante la sua detenzione ha saputo raccontare sulle pagine di Ristretti la
sofferenza di un tossicodipendente, capace di fare riflessioni intelligenti e
originali. Oggi,
in corridoio, ho incontrato Jani e Alberto, entrambi ergastolani. Abbiamo
parlato attraverso un cancello, mentre aspettavamo. Ci siamo stretti la mano e
subito mi hanno chiesto quanti giorni ancora mancano al fine pena. Ho sussurrato
imbarazzato un numero. “Non sei felice?” mi ha domandato Jani, che è anche
mio connazionale. Gli ho risposto che di fronte a loro la mia felicità era
schiacciata dal dolore, dall’idea che molte persone che ho conosciuto qui
dentro dovranno attendere ancora molti anni per sentirsi domandare “quanti
giorni ancora al fine pena?”. Il
cancello si è aperto. Ho salutato i miei due amici ergastolani e mi sono
incamminato verso la redazione. Di fronte al cancello del secondo piano mi è
tornato in mente Stefano. Di solito lo vedevo appoggiato all’angolo, raccolto
nelle spalle, con una cartella gialla sempre sotto il braccio. Aspettava di
andare in redazione dove riusciva a dare un grande contributo, nonostante i suoi
tanti problemi. Quando Stefano poi uscì dal carcere fummo felici di vederlo
riacquistare la libertà, ma la sua fu una grande perdita per la redazione. Dopo
un po’ ricevetti una sua lettera nella quale mi raccontava che fuori tirava
una brutta aria verso noi stranieri, che sempre più persone cadevano vittime
dell’odio e dell’intolleranza. Mi incoraggiava a coinvolgere tutti gli
stranieri della redazione per produrre idee su come avviare un confronto sulla
questione. Un’unica lettera. Le notizie che lo riguardavano erano sempre
tristi. Stefano stava male. Una pesante depressione l’aveva ricacciato
nell’eroina. Poi, l’errore fatale, l’overdose. La
sua morte mi inquieta ora, mentre aspetto di attraversare un altro cancello. Una
porta che Graziano ha attraversato in una sedia a rotelle, dopo che un agente
penitenziario aveva preso l’iniziativa di farlo portare in ospedale, ignorando
il parere di un medico diffidente. Non sono mai riuscito a capire come faceva a
conciliare la sua sofferenza con quello spirito capace di far sorridere i
lettori di Ristretti: un’esistenza simile alle sue vignette, un miscuglio di
dolore e umorismo. E mentre le sue vignette dall’interno di un libro
raccontavano la storia del suo personaggio, Graziano in silenzio ha aspettato
per un anno una banale risonanza magnetica per vedere da cosa dipendeva quel
dolore alla schiena che si trascinava da tempo. E quando alla fine è stato
portato in ospedale, gli hanno detto che stava vivendo la peggiore delle morti,
un tumore conclamato in una galera sovraffollata. Il cancello si apre e
finalmente mi avvicino alla redazione. Una ventina di uomini, tanto fumo, voci
che si sovrappongono, vite che s’intrecciano rendendo l’aula accogliente,
per me. Incapace di spiegarmi il motivo perché stamani il pensiero sia andato a
Stefano e a Graziano, guardo come tante delle persone che animano questa galera
hanno imparato a vivere la loro condanna, e la loro sofferenza e anche la morte,
con dignità. Il
“fine pena mai” e i compagni che lascerò qui dentro Da
un po’ di settimane in carcere non si parla d’altro che del processo lungo.
A noi detenuti interessa poco la parte, tanto discussa, che permetterebbe di
portare in aula un numero infinito di testimoni e trascinare il processo fino
alla prescrizione. Ci preoccupa l’altra metà della legge, quella che
impedisce tra l’altro ai condannati all’ergastolo di chiedere permessi prima
di aver scontato un minimo di ventisei anni di carcere. Nella
nostra redazione di ergastolani ce ne sono diversi. Alcuni sono qui da tanti
anni e hanno già iniziato a chiedere qualche permesso. Senza fortuna. Altri
sono arrivati da poco e cercano di vivere le loro giornate lontano dai guai,
aspettando che passino gli anni necessari per poter chiedere qualche permesso
premio e iniziare poi un’eterna semilibertà. “Io ho quarant’anni”, mi
ha detto un compagno oggi, “se devo aspettare ventisei anni per chiedere un
permesso, significa che probabilmente uscirò di qui morto”. La
sua paura mi ha fatto riflettere. Tra poche settimane sarò fuori, ma non potrò
dimenticare le persone con le quali ho condiviso la mia vita qui dentro. Solo
che la speranza di incontrarle fuori riguarda una parte di loro e dovrò
salutare le persone condannate all’ergastolo con la paura di non rivederle mai
uscire di qui. In fin dei conti, l’unica cosa che a un ergastolano dà il
coraggio per andare avanti è la speranza che un giorno potrà uscire alla
mattina per andare a lavorare e rientrare alla sera in carcere. Io credo che
reinserimento per un ergastolano sia permettergli di fare almeno quell’attività,
così essenziale per la nostra esistenza, che è lavorare. Certo,
chi è condannato al massimo della pena ha delle responsabilità gravi. Ma
questa legge non si accontenta del fine pena mai. Essa vorrebbe togliere
definitivamente la speranza di un futuro diverso a un’intera categoria di
persone. Un atteggiamento che rischia di colpire indiscriminatamente, così come
ancora oggi le leggi emergenziali fatte vent’anni fa per colpire le mafie
continuano a escludere dalle misure alternative detenuti che, come me, non hanno
alcun legame con il crimine organizzato. Allora
mi domando: se il “fine pena mai” non soddisfa abbastanza il “bisogno di
giustizia” di alcune forze politiche, perché non chiedono di introdurre la
pena di morte? Oggi viviamo in un’epoca in cui i media hanno forse il potere
di modellare i desideri e i pensieri delle persone, impoverendone la cultura, e
certe volte mi pare che non sarebbe difficile nemmeno ritornare alla legge del
taglione. Ma se ci fosse un’informazione “pulita” e meno “rabbiosa”,
nessuno vorrebbe delegare lo Stato a uccidere delle persone, indipendentemente
dal loro crimine, e forse nessuno vorrebbe che ci fosse questa forma di tortura
moderna, che obbliga chi ha un “fine pena mai” a stare in carcere fino a
morire. Perché chiudere una persona in cella per il resto della sua vita, senza
alcuna prospettiva diversa, è un trattamento inumano. Alla
ricerca di un lavoro “Caro
Elton, dovrei raccontarti quanto sono felice di essere uscito dal carcere e
quanto sia bella la vita fuori, invece mentirei. È un mese che vivo
nell’appartamentino dei miei genitori. Dormo in soggiorno sul divano-letto e
non sono ancora riuscito a trovare un lavoro. Qui in quartiere sanno tutti che
sono stato in gabbia e mi guardano come se avessi la lebbra. Adesso capisco
perfettamente che cosa provate voi stranieri quando vi sbattono le porte in
faccia…”. Inizia così la lettera di M., un ragazzo padovano, mio compagno
di detenzione, uscito da poco. Tra
pochissimo uscirò e inevitabilmente andrò a cercare lavoro. Non ho tante
aspettative, vista la crisi che c’è, tuttavia penso di provare nel campo che
più mi compete. Immagino come sarà: camminerò lungo strade sconosciute,
busserò a ogni negozio di copisteria o grafica e chiederò se assumono. Certo,
dapprima mi accoglieranno con un sorriso, ma una volta dichiarato il motivo per
cui sono lì, nel migliore dei casi mi chiederanno cosa so fare. Dovrò imparare
a sintetizzare il mio curriculum. Forse sarà meglio accantonare le lauree e
passerò subito alle esperienze lavorative: dirò che ho lavorato in una
redazione dove ho battuto testi, sbobinato interviste, impaginato riviste,
stampato e rilegato opuscoli, creato pagine web, tagliato e montato riprese
video, preparato e proiettato slide per seminari e convegni e, nel tempo libero,
ho anche scritto un centinaio di racconti. Poi ci sarà forse una pausa, ci
guarderemo, e poi… chissà! Nel peggiore dei casi il sorriso si trasformerà
in smarrimento, per non aver capito subito che non sono un cliente, e forse
anche in paura, perché l’accento straniero potrebbe tradire cattive
intenzioni. Il
mio amico nella sua lettera raccontava come l’essere ex-detenuto lo faceva
sentire, pur essendo italiano, uno straniero in casa propria, perché tutti
sanno che è stato in gabbia. Allora mi domando: che sia meglio nascondere di
essere stato anch’io dentro? Quattordici anni di galera non sono un bel
biglietto da visita. Conviene nasconderlo quindi, per evitare pregiudizi. Il
problema è che ho un carattere complicato: non so rassegnarmi alla sofferenza o
alle difficoltà, il che mi porta sempre a scegliere la strada più difficile,
ma alla fine dei conti credo che reagire con dignità paghi. Se è vero che sto
facendo la galera fino all’ultimo giorno, perché mi sono rifiutato di entrare
in quei circuiti di delazione che spesso ti aprono le porte del carcere
anticipatamente, è altrettanto vero che ho dedicato dieci anni della mia vita a
fare informazione dal carcere, che in realtà significa combattere
quotidianamente per difendere i diritti dei detenuti da un’informazione spesso
incattivita e forcaiola. Significa esporsi, raccontare storie di uomini che non
sono solo “reati che camminano”, lamentare disfunzioni del sistema,
denunciare abusi di chi ha un ruolo di potere, insomma mettere la faccia, per
quanto macchiata, in difesa di valori e di idee che vanno oltre ogni interesse
di tutela personale. Si chiama sacrificio ed è il miglior allenamento alla
dignità. Ecco perché, nonostante ci siano nel mio passato cose che non
smetteranno di farmi vergognare, non negherò mai questa parte della mia vita,
dovesse costarmi uno stato di disoccupazione perpetua. Ultimo
giorno della vecchia vita Oggi
pomeriggio, dopo due ore di riunione nella redazione di Ristretti Orizzonti, il
tintinnio delle chiavi ci ha ricordato che era l’ora di tornare in reparto.
Mentre tutti i presenti si alzavano, mi sono guardato intorno invaso dalla
melanconia al pensiero che oggi pomeriggio darò uno sguardo d’addio alla
redazione di Ristretti. Nove anni fa sono entrato in questa stanza con l’aria
di uno reso quasi incapace di comunicare da cinque anni di alta sicurezza. Avevo
occupato un angolo, dove un vecchio computer con la sua tastiera ingiallita ha
memorizzato i miei primi testi. Poi le riunioni mi hanno fatto riscoprire
l’amore per le discussioni e la passione delle idee. “Dai Kalica, sei sempre
l’ultimo!” mi rimprovera l’agente dalla porta d’ingresso. Guardo le
copertine di Ristretti appese sui muri. Non mi serve contare per sapere quante
ne abbiamo realizzate finora. In questi giorni stiamo completando il
novantaduesimo numero, che come al solito ci ha costretti a lavorare tanto. E
queste mura ora mi ricordano quanta fatica, quanta sofferenza, quanta galera è
stata analizzata e raccontata in quest’aula. Attualmente
a frequentare la redazione e a lavorare sono una trentina di detenuti, ma in
questi anni ho visto centinaia di persone passare di qui, centinaia di vite e
migliaia di anni di galera che hanno offerto al mondo di fuori una finestra per
vedere cosa succede, chi e come ci finisce, qui dentro. Convinti di fare la cosa
giusta, abbiamo lavorato trascorrendo insieme tanto tempo quanto, ora che ci
penso, non ne avevo trascorso nemmeno con la mia famiglia. Esco
dall’aula. La porta di ferro sbatte rumorosamente dietro le mie spalle, senza
però riuscire a chiudervi dentro anche la mia melanconia. Mi assale un dubbio.
Sarò mai in grado di parlare, di scrivere ancora, senza mettere piede in
redazione? Ho sempre sostenuto che nessuno scrittore o giornalista sarebbe
capace di raccontare bene il carcere senza averlo vissuto. Ora invece comincio a
nutrire il sospetto che forse presto perderò il contatto con la vita della
galera e non sarò più in grado di raccontarla. Forse,
là fuori, l’entusiasmo di qualche nuova vita mi assorbirà totalmente e non
dovrò più scrivere di carcere. Tuttavia mi rammarica l’idea che, fuori dal
carcere, difficilmente troverò uno spazio così interessante come questa
redazione, dove lavorano persone provenienti da vari ceti sociali e da ogni
parte del mondo e insieme collaborano con la tolleranza e la generosità che sa
assumere chi ha fatto abbastanza galera da riconoscere l’umanità nelle
persone che lo circondano, anche se sono diverse, anche se hanno fatto cose
mostruose. Certo, forse perderò la capacità di scrivere, forse non troverò più
uno spazio di discussione così interessante, ma conserverò per sempre la
memoria delle persone conosciute qui dentro e ricorderò sempre gli sforzi che
si fanno qui per conservare la dignità e per imparare a credere nelle forme più
alte dell’esistenza umana, che sono l’uguaglianza, la solidarietà e la
fiducia nel prossimo. Ultimi
minuti dietro le sbarre Ormai
la galera è finita, anche per me. Ho sempre visto la vita come il prodotto di
una serie di coincidenze guidate dal caso e non nego che la mia infanzia e
adolescenza siano da considerare fortunate. Solo dopo la maturità sono stato
perseguitato da una serie angosciosa di sfortunate coincidenze che, unite a
scelte sbagliate, mi hanno trattenuto qui dentro tanti anni. Tuttavia, confesso
che le gioie non appartengono solo alla vita passata. Nella disgrazia del
carcere, non tutto è da buttare via. Qui dentro ho conosciuto delle persone
interessanti, dalla sorprendente umanità, ho fatto un lavoro che mi piace nella
redazione di Ristretti, ho studiato e mi sono laureato, due volte: ovviamente i
momenti di felicità sono ancora più brevi di quanto lo sono fuori, ma penso
che la sfortuna a volte molli le briglie anche con me, giusto per farmi
respirare. Negli
ultimi quattordici anni, due mesi e dodici giorni, ho fatto i conti con
un’esistenza sospesa, affrontando quotidianamente le umiliazioni e le
frustrazioni che solo la galera sa produrre. Dal canto mio ho sempre cercato di
non pensare al luogo in cui mi trovavo occupandomi d’altro, ma l’aria spesso
è stata soffocante e la solitudine schiacciante. In quei momenti, l’istinto
mi ha portato ad aggrapparmi ai ricordi, viaggiando nel labirinto di quel
piccolo mondo che ho conosciuto prima di finire qui dentro. Ricordi che ho
buttato nero su bianco con il desiderio di ribellarmi all’abbrutimento che
questo posto rischiava di causarmi, ma anche per raccontare come qui dentro ci
siano soprattutto persone, che provengono da vite “normali”, con storie
spesso interessanti, e non mostri. Così
ho scritto alcuni racconti in cui descrivevo il mio periodo scolastico e i miei
compagni di scuola. Non nego che, spesso, ripercorrere quella fase della
esistenza mi ha aiutato a trovare spunti per ragionare su questioni attuali, di
politica e di società. Altre volte, invece, parlare dei miei compagni di scuola
mi ha rallegrato nel richiamare la nostra immagine adolescenziale che conservo
gelosamente nella mia mente. Da domani forse ritornerò nei luoghi che ho
descritto in questi anni, ma il quartiere, le strade, il condominio, la casa non
saranno quelli dei miei racconti. Non ci saranno più i miei amici di quando
avevo diciannove anni, la mia ragazza di diciassette anni, e non chiederò più
la paghetta a mia madre. Da domani dovrò essere la persona che il mondo reale
si aspetta da me: un trentacinquenne con l’esperienza, le conoscenze e la
testa di un trentacinquenne, mentre la mia vita vissuta si è fermata ai
diciannove anni. Ma
sono cose che non mi fanno paura. E mentre scalpito per riscoprire il mondo,
concludo un lungo e sofferto capitolo della mia vita nella convinzione che, così
come i ricordi più belli della mia vita hanno fatto da salvagente nei periodi
più brutti della galera, anche negli immancabili momenti in cui la vita
“libera” mi tratterà male ricorderò la galera, le persone che mi hanno
voluto bene, le battaglie vinte e quelle perse, le lacrime e le gioie di questi
anni e sono sicuro che ritroverò le forze per andare avanti, come ho fatto
finora. E la galera non sarà più un incubo da cui scappare, ma una lezione di
umanità da tenere sempre in mente nella battaglia quotidiana della vita. Il
carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere In galera... per evitare di tornarci Gli
studenti che entrano nel carcere non per restarci, ma per allenarsi a tenersene
lontani Le
persone detenute che finiscono di scontare la pena a Padova e che hanno
partecipato, in qualche momento, al progetto di confronto fra scuole e carcere,
non potranno mai pensare di nascondere i loro precedenti penali e di
“cancellare” in qualche modo la galera dalle loro vite: perché, girando in
città, sono sempre di più i ragazzi delle scuole che li riconoscono e sanno
tutto di loro e della loro storia personale. Ma è una sensazione non
sgradevole, anzi per qualcuno è come la conferma di stare facendo qualcosa di
utile, e non per se stessi ma proprio per quei giovani, che sono tentati dal
piacere della trasgressione e magari riescono a ritrovare il filo della propria
vita proprio ascoltando l’esperienza di chi, superando un limite dopo
l’altro, alla fine si è trovato nella desolazione della galera. E così, ogni
anno ci sono classi che “assaggiano” il carcere e detenuti che imparano a
confrontarsi con gli studenti, timidamente, con le mani sudate dall’emozione e
il cuore che batte, perché anche i “delinquenti” sono capaci di provare dei
sentimenti. Il
mio primo incontro con i ragazzi delle scuole di
Luigi Guida L’incontro
con la classe 4aC dell’Istituto Calvi per me è stato molto emozionante. È
la prima volta che faccio questo tipo di esperienze in carcere e non posso
nascondere che prima di rispondere ho riflettuto mille volte per paura di non
trovare il giusto linguaggio nel rapportarmi con loro, vista la loro giovane età
ed anche perché prima di quel giorno delle mie vicende giudiziarie e personali
avevo parlato solo con persone che, come me, avevano vissuto esperienze simili,
in pratica solo con altri detenuti. Devo
dire che per la prima volta ho provato vergogna nel raccontare le situazioni
negative della mia vita. Un’emozione che nel mondo reale era a me sconosciuta,
anzi tante volte quando si raccontava qualcosa di negativo tra di noi amici, lo
si faceva con il vanto e con la presunzione di essere furbi nell’essere
riusciti a commettere un atto delittuoso e averla fatta franca. Quindi
devo solo ringraziare gli studenti per avermi fatto provare quel senso di
vergogna, che mai fino ad oggi avevo associato allo stile di vita che mi ha
portato in carcere, e quindi di avermi fatto riflettere una volta in più su
quello che ho commesso e a cui, prima di quel giorno, non avevo mai pensato. Da
parte dei ragazzi, invece, ho intravisto molta curiosità di conoscere la nostra
realtà, e di capire se il carcere ci dà le opportunità di rieducarci, con
lavoro, corsi e scuola. Per
quanto riguarda le risposte date da alcuni di noi, mi sono rispecchiato molto in
quelle di quei detenuti che, come me, hanno reati contro il patrimonio, non
tanto per le affinità dei reati che si possono mettere sullo stesso piano, ma
per le motivazioni simili, che ci hanno portato a commetterli: la possibilità
di vivere una vita con più benessere e di poter avere quelle cose che con un
lavoro regolare mai avrei potuto ottenere… Nell’incontro
con le scuole, con i ragazzi giovani, che ti guardano diritto negli occhi, non
puoi più mentire a te stesso, ed ecco che scaturisce quel senso di vergogna di
cui ho parlato. Nel mio caso, avendo tre figlie, la più grande ha undici anni,
so che molto presto mia figlia potrà essere una di loro. Dover immaginare di
confrontarmi con lei e spiegarle che per tanti anni sono mancato da casa, quindi
non ho potuto essere insieme a loro mentre crescevano, per un’idea sbagliata
di come affrontare la vita o di come raggiungere degli obiettivi che ritenevo
indispensabili, e non lo erano, mi fa ancora più vergognare di ciò che dovrò
dir loro. Comunichiamo
la nostra esperienza sempre con un nodo alla gola di
Ulderico Galassini Ai
ragazzi delle scuole noi ci poniamo come un libro aperto, nessuna pagina viene
celata o censurata, vogliamo che percepiscano quelli che sono stati i nostri
punti deboli, quelli che ci hanno fatto cadere nella rete dei reati e a volte
distrutto ciò che ci era più caro, nel mio caso la mia famiglia. Non
cerchiamo mai di giustificarci di fronte ai giovani, ma desideriamo dare loro
quelle informazioni utili per non arrivare a superare i limiti della legalità e
a infilarsi in situazioni che portano all’annullamento della persona. E se
alla fine avrai pagato il tuo debito, non finirà comunque mai la pena: perché
sei sempre uno che è rimasto in galera, un diverso, e anche se molto hai fatto
di buono, per quella parte della società che non ti ha conosciuto prima rimani
qualcuno da evitare. Gli
studenti non hanno paura a domandare, ad informarsi, infine traggono le loro
conclusioni e spesso poi ci dicono, nei loro scritti, che i pregiudizi che
alcuni avevano sono svaniti o modificati. Raccontarci
non è una cosa facile, qualcuno afferma di aver raccontato agli studenti, che
possono essere i nostri figli, ciò che neppure al giudice aveva dichiarato. La
sensibilità e il forte impegno che molti di noi sentono nel porsi a
disposizione di chi ci ascolta è tale, che supera tutte le ansie e paure che ti
assalgono quando proponi a degli sconosciuti la tua esperienza e ci metti anche
il cuore e devi gestire la tensione, qualche palpitazione ed i sudori freddi,
perché nel frattempo ti si ripropone il tragico film, le crude scene del tuo
reato, che tu racconti per far emergere ciò che ti ha fatto precipitare in
quella situazione. I
ragazzi entrano in carcere e percepiscono un certo senso di oppressione
attraversando i lunghi corridoi con tanti cancelli, poi hanno modo di vedere
tante altre sbarre e dietro a quelle volti di persone che li osservano e magari
si meravigliano nel vedere tanti giovani tutti assieme. Loro hanno avuto altri
incontri con alcuni di noi nella loro scuola, hanno ascoltato storie ma hanno il
desiderio di sentirne altre, di conoscere di più, e poi a loro volta
racconteranno questa esperienza ai loro compagni che non hanno avuto questa
opportunità e anche ai loro famigliari. Ecco che il nostro messaggio arriva in
un modo diverso, una verità diversa da quella che è stata raccontata dai
giornali e dalla televisione. Quello
che importa è che loro percepiscano che non vogliamo raccontare una favola ma
tutta la tragicità di comportamenti sbagliati, che ci hanno portato a provocare
un terribile danno e ad avere delle vittime, delle quali non possiamo
dimenticarci. Ci vorrà tanto impegno personale per riemergere e per
riabilitarci, e dobbiamo essere per primi noi a cercare gli spazi per
riflettere, e per non lasciarci travolgere dalla realtà del carcere. Spesso
penso che sarebbe più utile della galera essere impegnati in un ambito sociale,
dedicarsi a chi ne ha veramente bisogno. Per il momento tanti di noi si dedicano
ai giovani, che così hanno l’opportunità e la fortuna di entrare nel
carcere, non per restarci ma per evitare di finirci. Noi
ce la mettiamo tutta, siamo a loro disposizione mettendoci a nudo, spogliandoci
di ogni difesa e trovando il coraggio di comunicare la nostra esperienza, ma
sempre con il nodo alla gola ed il forte senso di colpa che ci opprime ora e che
mai ci abbandonerà. Con
molta fatica ho cercato di mettere a disposizione la mia storia di
Mohamed El Ins Da
alcuni anni partecipo a questo progetto, incontrare i ragazzi è sempre
un’esperienza emozionante ed anche difficile quando si decide di raccontare il
proprio passato. Ho
provato anch’io a volte a parlare agli studenti, con molta fatica ho cercato
di mettere a disposizione la mia storia per trasmettere loro un messaggio che
gli fornisse gli strumenti per riconoscere i comportamenti a rischio. I miei
errori, gli stessi che poi mi hanno portato a vivere questo incubo del carcere,
li vorrei utilizzare affinché qualche giovane riesca almeno a riflettere su
quei comportamenti spesso superficiali, ai quali i ragazzi non danno la giusta
importanza, e che da giovani difficilmente si capiscono, ma che possono comunque
compromettere la loro vita. Mercoledì
26 Ottobre è stato il primo incontro con una classe dell’Istituto Calvi. Quando
i ragazzi sono arrivati nella redazione, ho notato che erano intimiditi come
spesso accade, tuttavia erano attenti fin da subito. Una volta rotto il
ghiaccio, e dopo aver ascoltato alcune storie personali, a partire dai reati che
ci hanno portato in carcere, hanno cominciato a farci delle domande. Durante i
diversi incontri capita che alcune domande siano ripetute con frequenza, ma
stavolta mi ha colpito una domanda in particolare rivolta a un giovane detenuto
tunisino, condannato per un omicidio in una rissa: come può una persona
credente, un musulmano, commettere un reato e fare delle scelte sbagliate,
proprio quando la sua religione gli impone delle prescrizioni molto rigide?
Quello che io posso rispondere è che i reati purtroppo si commettono a
prescindere dall’educazione famigliare o dalla religione. Questo dimostra che
qui dentro ci può finire anche chi pensa “a me non capiterà mai”. In
carcere ci stanno sempre in maggioranza le categorie più deboli della società,
ma le leggi sul consumo di stupefacenti e il nuovo Codice della strada insieme a
qualche legge d’emergenza hanno fatto sì che in carcere siano ben
rappresentati tutti i ceti sociali. Questo spero che sia d’insegnamento per
tutti, e che nessuno si senta troppo al sicuro da questi rischi. Gli
incontri che ci fan sentire tutti comunque Persone di
Filippo Filippi In
questi giorni noi persone detenute di Ristretti Orizzonti abbiamo ricominciato
con l’impegnativo Progetto Scuole/carcere, che ci spreme tante energie.
Parteciparvi raccontandosi e raccontando ai ragazzi quali sono stati gli
scivolamenti o deragliamenti iniziali, nella nostra adolescenza, che ci hanno
fatto arrivare qui, non è semplice. Raccontare dei reati fatti, delle proprie
debolezze, delle cose delle quali andiamo meno fieri ora, ma che all’epoca ci
facevano sentire più grandi dandoci un falso senso di appartenenza, o che ci
facevano sentire anche semplicemente diversi dagli altri che facevano le cose
“a modo”, decisamente per me è molto faticoso, certe volte preferirei
scaricare un paio di camion (per fare un paragone sulla fatica). Si tratta di
rivivere un passato che fa stare male, una cosa del tipo “oltre al danno…
(la galera) la beffa (raccontare quanto stupido sono stato o che illusioni ho
inseguito per decenni usando la droga)”. Intendiamoci, noi stiamo comunque
scontando la nostra più o meno pesante condanna in condizioni di
sovraffollamento, e non è che ci aspettiamo o riceviamo particolari premi per
questa partecipazione al progetto, anche se a me sembra un modo personale per
ripagare in parte i danni fatti. A
noi sembra che questo progetto sia un buon modo affinché gli studenti a rischio
devianza abbiano almeno la possibilità di riflettere vedendo come e dove siamo
finiti noi, che spesso abbiamo alle spalle famiglie oneste come le loro. Gli
altri (quelli cosiddetti “non a rischio”) possono riconoscere (e magari
sorreggere) qualche loro compagno che sta deviando. Non si tratta di salire in
cattedra, si tratta di interagire e dialogare con loro su come perché e quando
siamo arrivati a fare ciò che abbiamo fatto: semplice… ma quanta fatica. Ci
sono sentimenti che per chiunque sarebbero strettamente riservati di
Cesk Zefi Molti
vorrebbero che qualcuno tornasse “dall’al di là” per spiegarci qualcosa
di quel mondo cosi misterioso di cui non sappiamo nulla e non riusciamo nemmeno
ad immaginarlo, tanti altri non si pongono neanche il problema e vivono la vita
come meglio gli piace, secondo le loro regole. Purtroppo due mondi cosi separati
esistono anche tra noi, nella città dove viviamo: “liberi” e
“carcerati”, due mondi divisi da una “linea” sottilissima che chiunque
potrebbe oltrepassare e nello stesso tempo divisi da un “muro” cosi alto che
crea una totale ignoranza, a tal punto che le persone cosiddette “libere”
non vogliono sapere chi vive e come vive in carcere, e preferiscono pensare che
esista un’altra razza, diversa dagli esseri umani, nata per vivere in carcere,
senza immaginare che in carcere capitano sempre di più persone giovani e che
non hanno nulla a che fare con la criminalità, ma che per una piccola voglia di
trasgressione si stravolgono la vita e finiscono in quel mondo che non avrebbero
mai pensato potesse riguardarli. Dall’altra parte, le persone che vivono in
carcere passano anni fuori dal mondo, in molti casi non si tratta più di anni,
ma del resto della loro vita, senza avere la possibilità di una seconda chance,
rifiutati dalla società per sempre. E quelli che nella società prima o poi ci
torneranno, torneranno veramente come se fossero dei “marziani”, perché in
tutti questi anni in cui devono vivere fuori dal mondo, viste le condizioni
delle carceri, rischiano di perdere anche quelle regole minime di comportamento
civile che avevano prima del loro arresto. La
redazione di Ristretti Orizzonti ha ideato un progetto, che ogni anno dà la
possibilità ad alcune migliaia di studenti di entrare in carcere e confrontarsi
con i detenuti, un progetto pensato per rendere trasparente questo muro che
divide nettamente due mondi, che nella realtà però sono sempre meno estranei
l’uno all’altro. In questi incontri si provano esperienze molto forti sia da
parte degli studenti, sia da parte di noi detenuti che con le nostre
testimonianze “mettiamo in piazza” i più brutti momenti della nostra vita e
rispondiamo alle domande più personali che possono esistere, per ragionare
insieme e aiutarci a vicenda a capire il senso della vita. Da
parte nostra non possiamo negare che sia difficile rendere pubblici anche quei
sentimenti che per chiunque sarebbero strettamente riservati, intimi, però lo
facciamo volentieri pensando al fatto che è importante anche se un solo
studente dovesse trovare utili le nostre testimonianze per avere una vita
migliore e non commettere gli stessi errori che abbiamo commesso noi. Tutto ciò
ci alleggerisce in qualche modo dai sensi di colpa per quello che abbiamo
commesso nel passato. L’anno
scorso ho partecipato a tutti gli incontri fatti all’interno del carcere e
posso assicurare che non è mai stata la stessa cosa, le emozioni erano sempre
più coinvolgenti. Quest’anno
per la prima volta ho avuto la possibilità di partecipare a un incontro del
progetto all’esterno, grazie ad un permesso premio, e devo ammettere che
l’esperienza che ho vissuto è stata forte, a livello emozionale, perché
l’incontro si è svolto in luoghi che non mi erano famigliari e la difficoltà
ad esprimermi è così raddoppiata. Ma proprio questi percorsi alternativi così
complicati, che gradatamente mi portano alla libertà, mi permettono e mi
permetteranno in futuro, quando uscirò definitivamente, di acquisire gli
strumenti necessari per potermi confrontare con gli altri senza paura. Ristrettamente
liberi Quei
fornelletti che permettono un po’ di libertà Farsi
da mangiare in carcere è a volte una necessità, vista la scarsità del vitto
che passa l’Amministrazione, e la qualità a volte scadente, ma è sempre e
comunque un motivo di consolazione, un modo per passare un tempo spesso vuoto,
una possibilità di non farsi schiacciare dalle giornate tutte uguali. In
un momento in cui per descrivere la situazione delle carceri si devono usare gli
aggettivi più cupi, è stata presentata da alcuni parlamentari una proposta di
legge che sembra toccare un tema molto “leggero”: la distribuzione dei
pasti. L’idea è che vengano costruiti dei refettori, (già previsti, per
altro, dal Regolamento penitenziario) in cui i detenuti mangino insieme, e
quindi non ci sia più il carrello che dalle cucine arriva ai piani e il
detenuto “portavitto” che passa attraverso le sbarre il pranzo e poi la
cena. Via naturalmente anche i fornelletti a gas, che adesso permettono a chi ha
un po’ di soldi di cucinarsi qualcosa che “sappia di casa”, e a chi fa
spesso i colloqui di riscaldarsi il cibo che i famigliari gli portano. Ma è
davvero così “innocua” una simile proposta di legge? Tanti detenuti la
pensano diversamente. Una
proposta di legge che ci complicherebbe la vita di
Antonio Floris È
di pochi giorni fa la proposta di legge del deputato del PDL Rocco Girlanda,
alla quale hanno già aderito 18 parlamentari, che propone la creazione di
refettori comuni all’interno delle carceri e di conseguenza l’eliminazione
dei fornellini dalle celle. Alcuni
dei vantaggi elencati dal deputato sarebbero i seguenti: eliminando
le bombolette, che talvolta vengono usate per sniffare il gas, per stordirsi,
per riuscire a dormire o anche per suicidarsi, si aumenterebbe di molto lo
“standard di sicurezza” degli istituti; si
ottimizzerebbe la gestione di alcune operazioni potenzialmente critiche per il
lavoro degli agenti e per la stessa sicurezza dei detenuti e si favorirebbe la
socialità e il loro recupero, consentendo alla Polizia penitenziaria di
osservare meglio il loro comportamento; inoltre
si eliminerebbe la disparità tra reclusi, in quanto non tutti hanno soldi per
acquistare cibi dal sopravvitto. Il
deputato suggerisce che nei progetti delle carceri ancora da costruire vengano
inseriti anche i refettori, mentre per le carceri attualmente esistenti si
potrebbero “con facilità riconvertire spazi non utilizzati, come magazzini o
palestre”. Bisognerebbe che qualcuno informasse il deputato che se in certi
posti i magazzini e le palestre non vengono utilizzati come tali, è perché
sono impiegati come camerate per ospitare i detenuti che non trovano posto nelle
celle troppo piene. Ma nel caso si trovassero altri spazi per dormire, sarebbe
bene forse che le palestre venissero nuovamente utilizzate come palestre e i
magazzini come magazzini. Il
deputato dice ancora che con i refettori, dove tutti sono costretti a mangiare
le stesse cose, si elimina la disparità di trattamento nel mangiare. In pratica
quelli che hanno soldi devono mangiare alla stessa maniera di quelli che non ne
hanno. È bene che si sappia che quelli che si comprano da mangiare raramente lo
fanno per mania di grandezza rispetto a quelli che non se lo possono permettere:
il fatto è che il vitto dell’amministrazione è troppo scarso (3,80 € al
giorno per tre pasti) e in tante carceri è anche immangiabile La
proposta sui refettori è basata anche sul fatto che i fornelli con le
bombolette sono pericolosi e tante volte si fa un uso diverso da quello di
cucinare, perché c’è chi sniffa gas per stordirsi e qualcuno è pure morto
asfissiato. Ma se apriamo il discorso sui suicidi possiamo dire che quelli che
si stordiscono con i farmaci (forniti legalmente dall’amministrazione) sono in
numero infinitamente più alto di quelli che lo fanno con il gas e tante volte
è anche successo che qualcuno sia morto per abuso di farmaci. Se poi parliamo
di suicidi, il gas non è il mezzo più usato per togliersi la vita. Nel 2010 ci
sono stati 63 suicidi, 53 per impiccagione, 7 con il gas, 2 per avvelenamento da
farmaci, 1 tagliandosi le vene. Se qualcuno decidesse di suicidarsi, non sarebbe
certo la mancanza del gas che lo distoglierebbe da tale proposito, questo perciò
non è un buon motivo per levare i fornelli, ché se così fosse si dovrebbero
levare anche le lamette, che potrebbero servire per tagliarsi le vene, i
farmaci, e tutto ciò che può essere usato per fare corde, lenzuola, lacci di
scarpe, vestiti. Il
prezioso angolo cottura e preparazione cibo in cella di
Filippo Filippi Avere
un fornello da camping in cella è una grande comodità, considerata anche la
qualità e la quantità del vitto delle patrie galere. Soprattutto ora che
l’Amministrazione Penitenziaria non sa più dove “raschiare il barile” per
continuare a dar da mangiare alle persone detenute che son sempre di più e
sempre più povere. Anzi, non avendo il carcere più la concreta possibilità di
tenere costruttivamente impegnati molti detenuti (lavoro, corsi, scuola,
volontariato), parecchie persone trovano il modo di occupare il tempo che non
scorre mai, ingegnandosi nella preparazione per loro e per i loro compagni di
cibo, qualche volta pizze o torte “fatte in casa” con artifizi che hanno
dell’incredibile visti gli spazi esigui e i mezzi scarsissimi. Purtroppo
le carceri continuano ad essere discarica sociale di corpi, e così in questo
gran calderone vi sono anche molte persone con l’enorme problema della
tossicodipendenza e le patologie ad essa correlate. Questi miei compagni, oltre
che gestire la disperazione con psicofarmaci, talvolta completamente scorati da
tutto cercano di sballarsi aggiuntivamente aspirando gas e arrivando nel tempo
ad abusarne sempre di più, svenendo perdendo coscienza, non accorgendosi così
del graduale congelamento dei bronchi in fisici già minati, e trovandovi
talvolta la morte. Di certo parte di queste persone tossicodipendenti non
dovrebbe essere in carcere, e si dice che siano oltre 20.000. La cosa triste è
che non si cerca una soluzione praticabile affinché queste persone non debbano
stare in galera a poltrire o ad affinare “le conoscenze” sul tema. No, si
annunciano rivoluzioni copernicane relative alle ipotetiche e future nuove
carceri, provviste di mensa comune così che non vi sia più il problema della
distribuzione del vitto in sezione, ma soprattutto si vorrebbe tendere alla
risoluzione del problema delle persone che inalano gas per sballarsi in modo
radicale, impedendo a tutti i detenuti di preparare qualcosa di diverso dal
vitto giornaliero o di riciclare, migliorandolo un po’, lo stesso. Perché
togliere anche quel po’ di autonomia che ci dà un fornelletto? di
Ulderico Galassini I
circa 68.000 detenuti presenti oggi nelle carceri da tempo si aspettano novità
dai Ministri della Giustizia, che da anni parlano di come trovare soluzioni al
sovraffollamento delle carceri italiane, soluzioni che non si sono però in
alcun modo materializzate. Evidentemente, siamo una parte del “popolo” che
non interessa, non porta voti e non merita dignità. Sembra che la realtà delle
carceri non sia ben conosciuta da molti parlamentari, e quindi ci si accanisce a
volte su proposte di soluzioni, che a noi che viviamo quotidianamente la galera
sembrano astratte e lontane anni luce dalla realtà. Ultimamente
si sta proponendo di creare dei refettori, e di togliere fornelli e bombolette a
disposizione, da sempre, dei detenuti, e che ora sono diventati improvvisamente
pericolosi e antisociali. Via quindi fornelli e bombolette. Via anche quel po’
di autonomia che ci lascia anche solo il gusto di poterci cibare di qualcosa
preparato di persona, da poter condividere con qualche altro detenuto che magari
non ha la possibilità di cimentarsi nella cucina. È questo che nessuno valuta,
piccole soddisfazioni che riempiono l’animo e staccano la spina dalla
situazione dell’essere persone private della libertà. A volte il fornello può
bastare anche per farsi un caffè, chi vive oltre le mura un caffè lo può bere
ovunque, perché noi non possiamo avere questo piccolo piacere in cella? E
perché non possiamo continuare a prepararci qualche piatto che integri il vitto
che non sempre è decente come gusto e spesso è anche insufficiente? E così
verrebbe a mancare anche la soddisfazione di riscaldarci i cibi che riceviamo
dai famigliari in occasione dei colloqui, e questo significa togliere anche a
loro la gioia di portarci qualcosa che rappresenta una parte delle tradizioni di
casa nostra, che qui non riusciremo per molto tempo a gustare, sia sotto
l’aspetto culinario che per quello affettivo, significa impedire a noi di
ripensare, mentre riscaldiamo il cibo e mangiamo, alle feste e riunioni in
famiglia con parenti e amici. Lasciateci
allora i fornelli e le bombolette del gas che spesso ci sono utili nei periodi
freddi per riscaldare anche un po’ d’acqua per lavarci o anche solo per
farci la barba, e magari, prima di prendere qualsiasi decisione che ci riguardi,
provate a pensare che nelle medesime condizioni in cui siamo noi potrebbe
trovarsi un vostro famigliare. Murati
vivi La
pena dell’ergastolo e il rischio di un inferocimento della società Pubblichiamo
un ampio abstract del saggio del Professor Andrea Pugiotto, Ordinario di Diritto
costituzionale nell’Università di Ferrara, dedicato al disegno di legge, già
approvato al Senato, che inasprisce oltremisura il regime giuridico
dell’ergastolo (e, più in generale, dell’accesso ai benefici penitenziari
per i condannati per reati particolarmente gravi). Tali
norme sono inserite nel disegno di legge (A.S. n. 2567) mirante ad introdurre il
cosiddetto “processo lungo”. La recente crisi di governo e il conseguente
mutamento di maggioranza parlamentare rendono improbabile l’approvazione di
tale disciplina “ad personam”. Viceversa, le norme in tema di ergastolo
mantengono un alto consenso parlamentare, perché condivise non solo dalle forze
politiche di centrodestra ma anche da ampi settori del centrosinistra. La
riflessione su di esse, dunque, conserva tutta la sua attualità. Il
saggio del Professor Pugiotto, nella sua versione integrale, è destinato alla
pubblicazione in uno dei prossimi fascicoli della rivista “Studium Iuris”,
ed è già stato anticipato nel notiziario on-line di “Ristretti Orizzonti”. Cattive
nuove in materia di ergastolo Il
ddl A.S. n. 2567 (processo lungo): Il rischio di un «fine pena: mai» (più che
di un «fine processo: mai ») di
Andrea Pugiotto, Ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di
Ferrara Quando
le forche andavano meno di moda che adesso, prefigurare l’abolizione
dell’ergastolo significava porsi un realistico obiettivo di ritrovata civiltà
giuridica. Oggi, invece, sembra configurare un orizzonte smarrito, oscurato da
una doxa dominante (tra le forze politiche non meno che tra l’opinione
pubblica) tutta chiacchiere e distintivo. Poco stupisce, dunque, che il
legislatore esprima scelte normative orientate alla conservazione e, se
possibile, all’inasprimento del carcere a vita. Ultimo
esempio di tale tendenza è il ddl A.S. n. 2567, approvato a Palazzo Madama il
29 luglio scorso, che incide profondamente sul regime giuridico
dell’ergastolo. E lo fa agendo su due versanti. Da un lato, il condannato
all’ergastolo non avrà più la possibilità – avvalendosi del cd. giudizio
abbreviato – di ottenere la conversione del carcere a vita in 30 anni di
reclusione (ovvero dell’ergastolo con isolamento diurno in semplice
ergastolo). Dall’altro lato, l’accesso per l’ergastolano alle misure
alternative alla detenzione al carcere, previste dalla legge sull’ordinamento
penitenziario, diventerà possibile solo dopo aver scontato almeno 26 anni di
reclusione. Si
tratta di aspetti della novella in esame rimasti pericolosamente in ombra
rispetto a quella sua parte che, incidendo sul regime dell’acquisizione delle
prove nel procedimento penale, è salita con clamore agli onori della cronaca,
inducendo a ribattezzare polemicamente il provvedimento in discussione come
“processo lungo”. In realtà, siamo davanti ad una matrioska legislativa
che, dentro l’ipotetico rischio del «fine processo: mai», cela la ben più
concreta probabilità del «fine pena: mai». Il segmento legislativo mirante ad
innovare il regime probatorio è infatti destinato ad incontrare la ferma
contrarietà delle opposizioni parlamentari. Altrettanto non può dirsi, invece,
per i due segmenti normativi in tema di ergastolo: accanto ai gruppi
(all’epoca) di maggioranza ad entrambi favorevoli (PdL, Lega Nord), si devono
infatti registrare il consenso parlamentare dell’IdV e la presenza di proposte
di legge provenienti da autorevoli deputati e senatori del PD, egualmente
orientate ad escludere per i delitti più gravi l’applicazione della riduzione
di pena conseguente alla scelta del rito abbreviato. Diventa
allora necessario ed urgente - almeno per chi continua, nonostante tutto, a
ritenere l’ergastolo una sanzione estranea al disegno costituzionale della
pena e della sua esecuzione – marcare con una biro rossa quanto sta accadendo
nelle Aule parlamentari. E segnare, con una matita blu, i non pochi profili di
illegittimità delle novità che si vorrebbero introdurre, destinate – se in
Parlamento non vi si porrà rimedio – ad essere oggetto di eccezioni
d’incostituzionalità più che fondate. (…) Un
giro di vite (anche) per gli ergastolani nell’accesso ai benefici
dell’Ordinamento penitenziario Il
ddl. A.S. n. 2567 inasprisce ulteriormente il regime giuridico dell’ergastolo,
incidendo direttamente sulla possibilità di beneficiare delle misure
alternative al carcere previste dall’Ordinamento penitenziario: con la sola
eccezione della liberazione anticipata, esse restano accessibili
all’ergastolano solo dopo aver espiato «almeno ventisei anni» di reclusione
(art. 1, comma 8). Un giro di vite terribile. Quale
sia la ratio legislativa capace di giustificare un simile inferocimento non è
dato sapere. La disposizione non era presente nel testo base assunto come punto
di partenza dell’iter legislativo alla Camera: dunque, la sua relazione
introduttiva non aiuta. Né risulta inclusa nel testo approvato in prima lettura
dai deputati il 17 febbraio 2011 (A.C. n. 638/B), poi trasmesso al Senato:
neppure il relativo dibattito parlamentare, quindi, soccorre. La sua genesi è
riconducibile all’emendamento 2.0.200 presentato dal relatore a Palazzo
Madama, sen. Centaro, la cui discussione viene però preclusa a seguito della
presentazione del maxiemendamento (che lo recepisce) sul quale il Governo pone
la questione di fiducia. Il dato procedurale va sottolineato con forza per le
sue conseguenze: siamo in presenza di una possibile novazione ordinamentale
dalle gravissime ricadute sul percorso di risocializzazione del reo, eppure mai
istruita né discussa nelle Aule parlamentari. Per
quanto putativa, l’intenzione del legislatore non è difficile da cogliere.
Filtra dalle dichiarazioni di voto dei senatori di maggioranza: introdurre «un
severo sbarramento alla concessione dei benefici penitenziari per i condannati
per delitti gravissimi […], nessun permesso premio, nulla di nulla sino a che
il condannato non avrà espiato in carcere almeno tre quarti della condanna
inflitta, o almeno 26 anni, in caso di condanna all’ergastolo». Si mira, in
sostanza, ad ostacolare l’applicazione della cd. legge Gozzini, «interpretata
troppo di frequente con superficiale disinvoltura e buonismo da alcuni
magistrati, all’origine di gravi delitti perpetrati proprio da pericolosi
criminali, che avrebbero dovuto rimanere più tempo nelle patrie galere» Il
disco (rotto) ripete il consueto motivo: «Signori criminali, se volete
uccidere, sappiate che potete andare in galera e rimanerci per tutta la vita:
questo è il messaggio che abbiamo mandato». Dubbi
di costituzionalità: un ergastolo illegittimo perché tendenzialmente perpetuo Pure
di fronte all’inaudito, ragionare giuridicamente si deve. Specialmente se
l’argomentazione costituzionale permette di prospettare robusti dubbi di
legittimità nei confronti (anche) di questo segmento normativo del ddl A.S. n.
2567. Precludendo
a chi è condannato al carcere a vita di poter accedere a misure alternative
alla reclusione prima di 26 anni, la pena dell’ergastolo recupera la sua
(tendenziale) perpetuità. Con ciò, però, perdendo quell’equilibrio precario
che, fino ad oggi, riusciva a mantenerlo in piedi sul filo sottile teso sopra il
vuoto dell’incostituzionalità. Anche
qui siamo davanti ad un rapporto sinallagmatico, questa volta tra legittimazione
costituzionale dell’ergastolo e accesso ai benefici previsti
nell’Ordinamento penitenziario. È stato infatti il Giudice delle leggi - con
un’argomentazione simile ad un arabesco - a valutare l’ergastolo non
incompatibile con la Costituzione nella misura in cui non è più ergastolo, cioè
non è più pena perpetua. Tale era stato fino al 1962. Da allora. grazie ad
alcuni interventi legislativi, la sua natura di pena senza fine può essere
mitigata dalla possibilità per l’ergastolano di ottenere taluni benefici
penitenziari: i permessi premio (in caso di buona condotta e dopo 10 anni di
reclusione), la semilibertà (in caso di buona condotta e dopo 20 anni di
reclusione), la liberazione condizionale (in caso di buona condotta e dopo aver
scontato 26 anni di reclusione). Nell’ipotesi di ravvedimento tali soglie
temporali possono abbassarsi (rispettivamente a 8, 16 e 21 anni). Così come il
loro raggiungimento può essere accelerato grazie al meccanismo degli sconti di
pena (45 giorni ogni semestre di detenzione) per condotta regolare. Questo
quadro normativo ora potrebbe mutare. La sua scansione diacronica ne verrebbe
stravolta, in ragione dello spostamento in avanti dei suoi orizzonti temporali,
incrementati di (almeno) sei anni per poter accedere alla semilibertà e di
(almeno) sedici anni per poter beneficiare di un permesso premio. È
qui che si radica il primo dubbio di costituzionalità. La legittimità
dell’ergastolo è subordinata al fatto che il carcere a vita sia limitato e
interrotto da benefici penitenziari spalmati entro i tempi ragionevoli di un
possibile percorso rieducativo. Viceversa, la novella in esame accorpa tutte le
misure alternative (fatta salva la liberazione anticipata) comprimendole in un
orizzonte temporale sempre più lontano.
Solo
un sofisma può (tentare di) argomentare che una reclusione a vita non è più
tale perché – dopo più di un quarto di secolo – l’ergastolano forse potrà,
per la prima volta, uscire di galera grazie ad un permesso premio da consumarsi
in giornata. Nella realtà, quel carcere a vita si rivelerebbe, per molti
ergastolani, un carcere a morte. Tanto più che l’accesso ad un qualsiasi
beneficio penitenziario è solo possibile, ma mai automatico, subordinato com’è
a presupposti – sostanziali e procedurali – tali da renderlo una circostanza
del tutto eventuale, nell’an come nel quando: l’avverbio «almeno»
[ventisei anni di reclusione per l’ergastolano, prima di essere ammesso alla
misura alternativa], scolpito nel comma 8 dell’art. 1 del ddl. A.S. n. 2657,
certifica esattamente questa aleatorietà. Più
di quanto già oggi non sia, rischiamo domani di avere una condanna a vita
davvero definitiva, un’interdizione davvero perpetua: detto altrimenti, un
eterno riposo. Un
ergastolo sempre più lungo che elude il paradigma costituzionale della
risocializzazione del reo La
pena perpetua della reclusione, assicurata dal nuovo regime temporale per la
concessione dei benefici penitenziari all’ergastolano, è un eterno riposo che
schiaccia con la sua pietra tombale ogni realistica possibilità di
risocializzazione del condannato al carcere a vita (rectius: a morte). È qui
che fa breccia un secondo dubbio di costituzionalità. A
far data almeno dalla sentenza n.313/1990, l’evoluzione ormai compiutasi nella
giurisprudenza della Corte costituzionale è nel senso di una presa di distanza
dall’originaria concezione polifunzionale della pena, a favore di una
valorizzazione in massimo grado della finalità di risocializzazione del reo.
Oggi, tutti i soggetti che entrano nella dinamica della sanzione penale
partecipano di questo medesimo vincolo teleologico: il legislatore (nella fase
della astratta previsione normativa), il giudice di cognizione (nella fase della
commisurazione della pena), il giudice dell’esecuzione e quello di
sorveglianza al pari della polizia penitenziaria (nella fase della sua
applicazione), finanche il Presidente della Repubblica (nell’esercizio del suo
potere di fare grazia). Unitamente
al «senso di umanità», la finalità rieducativa traccia dunque – in ragione
dell’art. 27, comma 3, Cost. - l’orizzonte costituzionale della pena cui
tutte le condanne limitative della libertà personale «devono tendere»: dove
l’accento cade non più sul tendere ma sul devono. Questo
orientamento del Giudice delle leggi è stato messo in sicurezza con la scelta
legislativa costituzionale di abolire la pena di morte dall’ordinamento,
incondizionatamente, senza se e senza ma: ne esce così risolta la
contraddizione interna all’originario art. 27 Cost., tra il finalismo
rieducativo della pena (comma 3) e la previsione della pena capitale nelle
ipotesi delle leggi militari di guerra (comma 4). Con la pena di morte è caduta
l’unica eccezione costituzionalmente prevista al principio secolarizzato del
finalismo rieducativo penale, che recupera così la propria natura di autentico
paradigma costituzionale: per la Repubblica italiana nessuna persona è mai
persa per sempre. A tale paradigma vanno dunque commisurate tutte le misure
incidenti sulla libertà personale del condannato e sulle modalità della sua
reclusione. Compreso l’ergastolo. Ora,
è evidente a chiunque che, alzando l’asticella della loro possibilità di
accedere ai benefici penitenziari, la questione (costituzionalmente non
eludibile) della risocializzazione neppure si porrà per gli ergastolani più
anziani di età. Quanto a quelli che, per avventura, beneficiassero di un
trattamento extramurario, sarebbero persone impreparate ad affrontare nuovamente
la vita fuori dal carcere, dopo decenni trascorsi ininterrottamente dietro le
sbarre. Il
problema di una violazione dell’art. 27, comma 3, Cost. si pone comunque,
anche ad ammettere che il novellato «fine pena: mai» eserciti una funzione di
emenda, inducendo il condannato a rimeditare (per «almeno ventisei anni») sui
suoi precedenti criminosi e a pentirsene: la funzione rieducativa
costituzionalmente imposta mira al recupero sociale del soggetto, non ad una sua
conversione interiore. La Costituzione pluralista non può né vuole trasformare
l’ergastolano in un Frá Cristoforo dell’epoca contemporanea. Ancora
dubbi di costituzionalità Un
meccanismo di accesso ai benefici penitenziari irrazionalmente rigido e tale da
rendere l’ergastolo un trattamento contrario al senso di umanità Anche
guardato da altre angolature, il muro, che il legislatore vorrebbe alzare per
rendere più rari e difficili i benefici penitenziari, rivela ulteriori crepe
(costituzionali). Dubbi
di legittimità nascono dalla eccessiva rigidità del meccanismo di accesso a
tutte le pene alternative (con la sola eccezione della liberazione anticipata),
così come progettato dal ddl A.S. n. 2567. Una
volta compiuta la scelta politica di inasprire il regime dell’ergastolo, non
si è infatti proceduto – come almeno sarebbe stato razionale – ad innalzare
pro quota e proporzionalmente le soglie temporali che è necessario varcare per
accedere al permesso premio, alla semilibertà, alla liberazione condizionale.
Il braccio violento del legislatore ha scritto la disposizione diversamente,
elevandole tutte al medesimo termine del ventiseiesimo anno di reclusione, il più
lungo tra quelli vigenti, attualmente previsto per beneficiare della sola
liberazione condizionale. In
tal modo, però, si finisce per assimilare sul piano diacronico ciò che non è
assimilabile: le pene alternative così parificate, infatti, presentano profonde
differenze ordinamentali, sia per modalità esecutive che per intensità della
(pur comune) finalità risocializzatrice. Né va dimenticato che meccanismi
giuridici eccessivamente rigidi sono sempre sospetti di irrazionalità, se
destinati ad operare in un ambito – quello del percorso rieducativo del
singolo condannato – che per sua natura richiederebbe, semmai, margini di
discrezionalità non asfittici né ridotti ai minimi termini. La
decisione normativa di rinviare al giorno del mai la speranza per il recluso a
vita di poter aspirare ad un trattamento extramurario, spinge l’ergastolo
entro il recinto dei «trattamenti contrari al senso di umanità», vietati
dall’art. 27, comma 3, Cost. Limitare la libertà personale del condannato,
salvaguardandone comunque la dignità che include un possibile orizzonte futuro:
è quanto impone la Costituzione, ma è proprio quanto viene meno con la novella
in esame. Né
va dimenticato che tale quadro normativo in divenire si innesterà su una
condizione cronica di sovraffollamento carcerario: un regime detentivo inumano e
degradante, vera e propria pena aggiuntiva (non prevista dalla legge né
irrogata da alcun giudice) ad una reclusione già lunghissima e che si vorrebbe
tendenzialmente senza fine. Il problema degli spazi di vita nel carcere è
intimamente connesso alla connotazione disumanizzante della reclusione (a
fortiori se tendenzialmente perpetua): come ha statuito la Corte di Strasburgo,
condannando l’Italia per violazione dell’art. 3 CEDU; come ha riconosciuto
il 28 luglio scorso il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, con
parole di denuncia soppesate una ad una.
Il
quadro va completato con ulteriori dati concernenti il carcere a vita. Abolita
dall’ordinamento la pena capitale, l’ergastolo rappresenta oggi la sanzione
massima tra le pene detentive (art. 17, n. 2, c.p.), frequentemente irrogata,
dunque tutt’altro che simbolica: l’elenco dei reati così puniti è lungo,
come elevato è altresì il numero di detenuti ad esso condannati. Ed è un
ergastolo sempre più afflittivo, per coloro che cadono sotto il regime speciale
del cd. carcere duro (art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario), ai quali
sono precluse quelle stesse pene alternative che, domani, si vorrebbero rendere
più difficilmente accessibili a tutti gli ergastolani. Di
questo sembrano non essere preoccupati i tanti fautori della massima pena,
avversari della legge Gozzini al motto di «legge e ordine». Eppure, un carcere
inferno dei vivi, dove si è reclusi sine die, configura un pericoloso
detonatore all’interno della comunità penitenziaria: «Ho
deciso di appoggiare anch’io la richiesta di abolire ogni pena alternativa e
ogni idea di risocializzazione. La vita è troppo noiosa. Bisogna tornare ai
tempi in cui, non essendoci altra prospettiva, neanche la più remota e
illusoria, gli ergastolani piantavano una lama alla gola del primo ostaggio. Ai
bei tempi delle rivolte devastanti, dei tetti scoperchiati, delle prigioni
incendiate, degli ammazzamenti all’ingrosso. Ai bei tempi in cui
l’inflessibilità delle pene persuadeva la malavita alla ferocia senza
riserve. Anzi: le violenze del passato non erano niente rispetto a quello che
sarebbe possibile con le carceri d’oggi, che hanno il doppio e più di
abitatori, e fra loro una folla di disperati senza famiglia, senza casa e senza
Gozzini». Quando
il Parlamento aveva una maggiore stima di sé, trovava anche il coraggio per
dirlo (anche se non per abolirlo): l’ergastolo vìola il divieto di punizioni
crudeli, disumane e degradanti, collocandosi tra quelle pene che «ripugnano
alla coscienza democratica e al senso di umanità di ogni persona e comunque non
costituiscono neppure un ragionevole deterrente al crimine, essendo invece
un’esemplare manifestazione di brutalità dello Stato». Alla
radice del problema: L’ergastolo come pena perpetua (da abolire) È
trasparente il denominatore comune tra i due segmenti normativi del ddl A.S. n.
2567 fin qui criticamente esaminati: garantire quanto più possibile
l’effettiva espiazione della pena all’ergastolo. La scelta di politica
criminale è riconducibile, in ambo i casi, ad un giudizio di disvalore circa la
possibilità di concedere ai reclusi a vita riduzioni di pena o modalità
espiatorie alternative, nella convinzione che tutto ciò assicuri ordine e
sicurezza. Parola di capogruppo: «Abbiamo (…) introdotto, con questa
normativa, dei principi che garantiscono che i reati puniti con l’ergastolo
non avranno riduzioni e per i delitti più efferati non ci saranno più benefici
penitenziari. Quindi gli italiani hanno oggi una legge, approvata dal Senato,
che garantisce di più la gente onesta nei confronti di chi ha commesso reati
che destano grave allarme sociale». Questo
messaggio mediatico, prima ancora che semplificato, è inattendibile e
primitivo. È
un messaggio inattendibile, perché inganna l’opinione pubblica accreditando
l’idea che, oggi, l’irrogazione della pena dell’ergastolo non sia più
possibile. Perché occulta il dato di esperienza secondo cui la gravità della
pena, oltre un certo limite, vede diminuire la sua efficacia preventiva, è un
messaggio primitivo, perché evita di fare i conti con i limiti costituzionali
che la novella travalica con eccessiva disinvoltura. Perché risponde al
convincimento dell’impossibile risocializzazione di soggetti che hanno
commesso reati gravi ed efferati quando, in realtà, non esistono “mostri”,
semmai persone che a volte fanno “cose mostruose” (ma pur sempre persone).
Perché anche le ragioni delle vittime e dei loro familiari, se filtrate dalla
razionalità (e non da un’interessata retorica compassionevole), sono
maggiormente garantite da un giudizio abbreviato che accorcia i tempi
processuali e realizza la legittima aspettativa ad avere giustizia (e non
vendetta) grazie ad una condanna celere, certa, efficace (peraltro, in caso di
ergastolo, mitigata in minima parte). Alla
radice di tutto si ritrova il nodo irrisolto di una pena, l’ergastolo, che
crea sempre e comunque problemi in ragione della sua natura perpetua: un fine
pena che non smette mai di finire. Problemi con i quali anche il ddl. A.S. n.
2567 si scontra, perché non esiste l’algoritmo capace di determinare
matematicamente lo sconto di pena per l’ergastolano che acceda al giudizio
abbreviato né la soglia temporale per l’ergastolano che aspiri ad ottenere un
beneficio penitenziario. Si
arriva così al punto essenziale e ineludibile. O la pena dell’ergastolo è
perpetua (ma ciò la condanna ad incostituzionalità certa). O non può esistere
una pena come l’ergastolo. In un sussulto di coerenza politica e razionalità
costituzionale, è tempo che l’Italia, da anni impegnata nella leadership
della campagna internazionale per la moratoria della pena di morte (in vista
della sua definitiva abolizione), torni a porsi il problema dell’abrogazione
dell’ergastolo. Che, della pena capitale, è l’ambiguo luogotenente. Murati
vivi L’ergastolo
comune toglie ogni diritto, quello ostativo toglie la vita Avere
scritto nella propria condanna “fine pena mai” priva l’uomo di ogni
speranza per il futuro di
Santo Napoli Nelle
carceri c’è gente che si trova dentro da tantissimo tempo. Al proposito ho
letto di uno che sta in carcere dal lontano 1979, e che sta espiando la pena
dell’ergastolo, inflitto per un reato cosiddetto “ostativo”. Si chiamano
ostativi quei reati per i quali non si può accedere a nessun beneficio
penitenziario. Non permessi, né semilibertà, né affidamento in prova ai
servizi sociali, niente. Esempi
di reati ostativi sono: associazione mafiosa, terrorismo, associazione
finalizzata al traffico di stupefacenti, tratta di schiavi e altri ancora. Tutti
reati gravissimi che destano un grande allarme sociale e per i quali sono state
emesse leggi speciali. L’ergastolo ostativo è stato introdotto in Italia nel
1992 e secondo me è la legge più disumana ed antidemocratica che potessero
partorire i politici. Si, è vero che in quel periodo ci sono state le stragi di
Falcone e di Borsellino e prima ancora quella di Aldo Moro. Però non è che i
legislatori introducendo questa nuova normativa abbiano in qualche modo
migliorato la situazione, anzi, secondo me si sono messi su un piano simile a
quello di coloro che hanno commesso quegli omicidi o quelle stragi, perché non
è introducendo nel nostro sistema giuridico queste misure che si cambia una
persona o la si induce a redimersi. L’ergastolo
ostativo ti elimina letteralmente dalla faccia della terra e ti elimina anche
come uomo, perché ti toglie ogni diritto e specialmente la dignità di essere
un uomo e non una bestia, anche se le bestie oggigiorno sono trattate a volte
meglio degli esseri umani. Perché è di esseri umani che stiamo parlando. La
rieducazione di chi ha infranto la legge si potrebbe ottenere con più successo
se si mettessero in atto misure che aiutino a riflettere le persone sui loro
errori, piuttosto che con la repressione pura e semplice. I colpevoli devono
capire che gli errori fatti si devono giustamente pagare, ma c’è modo e modo
di pagare e la giustizia applicata come vendetta non serve né a rieducare, né
a risarcire le vittime. La vendetta genera altra cattiveria e così si finisce
in un vortice dal quale non si esce più. Io
sono un condannato all’ergastolo per reati comuni (non ostativi) e quindi
potrei con il tempo usufruire dei benefici, ma nonostante i nostri politici
propagandino che le pene non vengono scontate mai per intero ma solo in minima
parte, non è affatto così. Io sono in carcere da ormai 11 anni e tengo a
precisare che questo è il mio primo reato, prima che succedesse il fatto che mi
ha portato dentro non avevo mai avuto nessun genere di problemi con la
giustizia, neanche una semplice contravvenzione. Se si prendesse alla lettera
l’Ordinamento penitenziario io, in quanto non recidivo, dopo aver espiato
dieci anni “dovrei” poter accedere ai permessi premio. Ebbene,
poiché l’Ordinamento lo prevede, io ho provato a chiederli, ma la risposta è
stata che la pena da espiare è ancora troppo lunga, ciò dimostra che la norma
è solo teorica, perché in pratica non viene applicata quasi mai. Se i permessi
premio vengono concessi quando il percorso rieducativo lascia credere che il
condannato si stia avviando verso un sicuro reinserimento sociale, e il mio
percorso fino a oggi non dico che è stato ineccepibile ma quasi, non capisco il
senso del “fine pena ancora troppo lungo” visto che è la legge stessa a
prevedere quei termini. Voglio con questo smentire il credere comune che dal
carcere si esce con tanta facilità e i benefici vengono concessi a tutti e in
maniera automatica. L’esperienza dimostra che ciò che viene divulgato dai
giornali e dai media spesso si dimostra molto diverso dalla realtà. Se
è così complicato accedere a un beneficio per gli ergastolani condannati per
reati comuni, per i condannati all’ergastolo ostativo non c’è proprio
nessuna speranza. Il loro fine pena coincide con il loro fine vita. Ogni tanto
mi pongo una domanda: in Italia la pena di morte non era stata abolita perché
in contraddizione con la nostra Costituzione? Ed allora come fanno ad esistere
ancora oggi leggi che condannano l’uomo alla carcerazione perpetua, cioè
all’ergastolo comune o a quello ostativo che sia, e di conseguenza a morte?
perché pensiamo di essere uno Stato democraticamente avanzato se abbiamo ancora
regole e leggi così poco umane? Sulle
mie carte c’è scritto “fine pena mai” e come me ce ne sono tanti altri
con questa scritta su un documento, penso che già solo quando uno di noi vede
sui suoi documenti, che gli arrivano tramite l’ufficio matricola del carcere,
questa scritta, va in depressione perché questa è una bestialità, ma la
questione è diversa quando leggi sul tuo documento questa stessa scritta e non
ci fai più caso, vuol dire che ti sei rassegnato a morire in carcere e non hai
più obiettivi nella vita, nemmeno quello di vivere. Avere
scritto nella propria condanna “ergastolo” priva l’uomo di ogni speranza
per il futuro. Penso che sia io, che tanti altri come me non dovrebbero avere
scritto su un pezzo di carta “fine pena mai”, se no dove sarebbe il
significato dell’espressione “scontare una pena?”, io per come stanno le
cose oggi non devo scontare nessuna pena, ma solo morire!! È quella la
punizione che mi ha, o che ci ha dato lo Stato italiano, qualche volta penso che
avremmo preferito nascere bestie, probabilmente saremmo stati più presi in
considerazione dal cosiddetto genere umano, anche perché si vede chiaramente
che le bestie a volte hanno più diritti di una persona. Quando qualcuno vorrà
mi spiegherà cosa c’è di umanità sia nell’ergastolo comune che
nell’ergastolo ostativo, e specialmente in quest’ultimo. Sprigionare
gli affetti I
figli di detenuti devono sapere la verità ed essere aiutati a capire Padri
in carcere riflettono sulla difficoltà di spiegare ai figli la verità sulla
galera e sulla tentazione di cercare delle scorciatoie e nascondersi dietro
“pietose” bugie Sono
i figli la vera molla che può spingere una persona a cambiare, sono loro che
costringono anche i padri detenuti a misurarsi con la responsabilità, e quindi
a non mentire, a cercare di affrontare la realtà della carcerazione senza
mascherarla. È la cosa più difficile, dire a un figlio che “papà è in
galera”, e a volte le famiglie non sono preparate a farlo, e sono lasciate
sole in questi difficili momenti, sole magari a raccontare valanghe di bugie,
per paura che il bambino non regga il peso della verità. Una verità che invece
bisogna avere il coraggio di dire, perché i figli hanno il diritto di saperla,
e di non essere ingannati ma aiutati a capire. Non
posso più continuare a raccontare una mezza verità ai miei figli di
Germano V. Spiegare
ai propri figli perchè di colpo ti sei allontanato da loro e che il posto dove
ti trovi è un carcere non è affatto facile. Io ho due figli piccoli, fin dal
giorno del mio arresto con loro non ho fatto altro che sorvolare sulla verità.
Ho evitato di nominare anche solo la parola carcere, convinto che l’unico modo
per proteggerli oramai era quello di non fargli sapere dov’ero, mentre prima
di fronte alla convinzione di poter guadagnare qualcosa facilmente non ero stato
capace di pensare quali potessero essere le conseguenze di una mia scelta
sbagliata. Ma
attraverso le varie visite che mi hanno fatto in carcere, quindi vedendo la
polizia penitenziaria e le perquisizioni, ed anche tramite la televisione e la
scuola i miei figli hanno capito dove mi trovo, si sono limitati però solo a
pronunciare timidamente la parola carcere, e senza mai chiedermi perché mi
trovassi in questa situazione. In
maniera molto superficiale, invece che spiegargli chiaramente come stanno le
cose e che mi trovo in questa condizione per aver sbagliato, ho preferito dire
loro che ero sì in carcere, ma per lavorare. Avendo
passato parte di questa carcerazione agli arresti domiciliari avrei avuto il
modo di approfondire con loro il discorso, ma anche in quell’occasione ho
preferito non farlo. Riconosco
che specialmente in quella situazione era doveroso e da parte mia più
responsabile dare a loro delle spiegazioni, visto che mi hanno posto domande sul
perché non potevo uscire di casa e perché venivano i carabinieri a fare i
controlli. Vivendo certe realtà è stato impossibile non coinvolgere la mia
famiglia, e di conseguenza sono tante le situazioni che i miei figli non
dovrebbero trovarsi ad affrontare ed anche quelle che possono sembrare le più
banali sono difficili da gestire con loro. A
distanza di tempo ho capito che dovrò spiegare a loro come stanno le cose senza
continuare a fingere o raccontare una mezza verità, convinto che ci sia sempre
il tempo poi per rimediare. Devo farlo per evitare che loro credano che tutto
questo sia normale, che sia giusto mentire. Devo impegnarmi a fargli capire che
se ci sono delle regole è giusto rispettarle, che la scelta che ha fatto il
padre non è il modo con cui si affronta la vita. Vorrei
avere con loro un rapporto onesto, che li faccia sentire liberi di poter parlare
con me apertamente di ogni cosa, e per far sì che ci siano le giuste basi devo
io per primo essere corretto e dar loro il buon esempio. di
Luigi Guida Il
problema di essere finito in carcere, con le mie figlie, l’ho affrontato nella
speranza di proteggerle il più a lungo possibile, raccontando bugie del tipo
che stavo lavorando sulle navi e, quindi, non avevo tempo di stare a casa con
loro. A
distanza di tempo però le domande che loro mi facevano, specialmente la più
grande, ponevano grossi dubbi rispetto a quanto avevo raccontato loro, ed io per
rimediare continuavo a mentire fino all’inverosimile. Alcune
settimane fa durante un incontro con gli studenti abbiamo affrontato proprio il
tema delle bugie in generale e anche rispetto ai propri famigliari. È emerso
come spesso alla base dei comportamenti a rischio ci sia un atteggiamento
superficiale nei confronti della menzogna, e si sottovaluti che con il tempo si
può arrivare a perdere il contatto con la realtà e a convincersi che quella
bugia raccontata sia diventata addirittura la verità. Dopo
questo lungo confronto sull’argomento ho capito che mentendo non ho protetto
affatto le mie figlie, ma ho corso e sto correndo tuttora il rischio che loro
vengano a conoscenza della verità, probabilmente anche molto distorta, da parte
di altre persone, con la conseguenza di farle sentire tradite proprio da me che
sono il padre. Sono
arrivato perciò a capire che è giunto il momento di affrontare seriamente con
loro questo argomento senza più tenere nascosta la verità. Sto superando in
tal modo il timore di condizionare la loro serenità di bimbe, la paura di porle
di fronte a delle problematiche tali che potessero costringerle a maturare
troppo presto. Cercherò di farlo spiegando loro che il papà ha commesso degli
errori nella vita, credendo di poter raggiungere un “obiettivo”, far soldi
nel minor tempo possibile e senza dover faticare troppo per rispettare le
regole. Questo tipo di atteggiamento ha comportato di dover passare tutti questi
anni lontano da loro, causando tanta sofferenza per tutti. Con
il tempo però, con loro ho maturato la consapevolezza che il mio modo di
affrontare la vita non è stato un buon esempio e ha prodotto una sofferenza che
è stata inutile, vorrei riuscire a trasmetter loro che questo tipo di
comportamento non porta al raggiungimento di nessun obiettivo prefissato, questi
sono solo dei falsi obiettivi. Tra
i ragazzi delle scuole mi sembra sempre di vedere mio figlio di
Alain Canzian Pensavo
di essere molto più spigliato con le parole da dire in pubblico, avendo avuto
in passato delle occasioni di parlare di fronte ad altre persone in un percorso
in comunità tra il ’92 e il ’95. Lì le chiamano verifiche ed era
all’ordine di ogni giorno mettersi in discussione con gli altri compagni,
parlando della tua vita passata e incominciando proprio dall’infanzia, per
cercare di arrivare a capire il perché uno come me aveva incominciato a fare
uso di droghe. Mi
ricordo che all’inizio si faceva un po’ fatica a parlare di quelle cose che
fanno veramente molto male, però li c’era un gruppo che più o meno aveva i
tuoi stessi problemi ed era facile farsi aiutare, perché quando uno si sente
protetto gli aumenta quel senso di fiducia che lo porta a parlare di se stesso,
e poi si sente molto meglio. Io
ho avuto una vita molto difficile incominciando proprio dalla tenera età, con
la mancanza di una figura familiare che fosse un punto di riferimento, e questo
mi ha spinto già da molto giovane a cercare di diventare padre e di farmi una
famiglia mia. Le
cose non sono andate come dovevano andare, però allora non mi perdevo d’animo
ed affrontavo qualsiasi problema che mi capitava, e all’inizio non c’erano
le droghe che mi davano una mano. Quelle purtroppo sono arrivate, molto più
avanti, forse perché anche i problemi erano diventati più grandi e magari io
avevo perso un po’ di quello spirito da combattente che avevo avuto prima, e
col passare degli anni la forza mi era venuta a mancare. Quello
che sto cercando di far capire è che io avrei con tutto il cuore la voglia di
raccontare la mia esperienza, in queste nostre discussioni in redazione e magari
davanti ai ragazzi delle scuole, ma ogni volta che li vedo mi viene un tuffo al
cuore, mi sembra sempre di vedere mio figlio, il più piccolo, che ha 16 anni e
che purtroppo non incontro da più di due anni. Che
bello un giorno vederlo in mezzo agli altri ragazzi della sua classe nella sala
di Ristretti, è un sogno ricorrente. Sono
nel gruppo di Ristretti da poco, e ancora fatico a trovare quel calore con cui
uno si mette a proprio agio e gli viene facilmente la voglia di parlare. Io
provo ogni volta con tutta la mia forza, ma quando viene il momento mi blocco,
non è timidezza, non sono mai stato timido, ma è una cosa che devo risolvere
io. Spero tanto, con il tempo, di farmi coraggio a parlare di me davanti a tutti
come quando lo faccio scrivendo, già mi viene più facile scrivere e di questo
sono contento, e ringrazio quelle persone che mi hanno aiutato a iniziare a
raccontare la mia storia con la scrittura, e ancora adesso lo stanno facendo. Di
Mohamed Tlili Pronto
papà, quando torni? Questa è la domanda più frequente che i figli fanno al
proprio genitore lontano da casa. La risposta è sempre la stessa, una bugia:
“Papà sta lavorando all’estero e tornerà presto”. Sembra
facile, ma nella risposta c’è tanto malessere, questa domanda fa male e ti fa
sentire impotente, hai voglia di abbracciarli e di fargli percepire l’amore
che provi, ma non puoi farlo perché sei detenuto in un paese straniero e
lontano. Nei
loro confronti mi sento obbligato a mentire, ma sono consapevole che è proprio
vero che le bugie hanno le gambe corte. Finché sono piccoli forse può andare
bene, ma nel mio caso la condanna è lunga e purtroppo dovrò stare lontano da
loro per tanto tempo, quindi mi sentirò fare la stessa domanda anche quando
saranno diventati grandi e allora la mia risposta non basterà più. Crescendo
cominceranno a chiedersi perché il loro padre non torna ancora a casa e cosa
c’è di così importante che glielo impedisce. Cominceranno a sentire parlare
della mia situazione da altre persone, magari a scuola, e si domanderanno se è
vero o no. Ho
sempre cercato anche nei confronti di tutti i miei famigliari di trasmettere
ottimismo, di confortarli, purtroppo mentendo, dicendogli che tra poco sarei
tornato a casa e di avere un po’ di pazienza, con la speranza che capiscano
che ho mentito solo perché gli voglio bene. Ai
miei figli invece dovrò spiegare che mi trovo in questa situazione per aver
commesso degli sbagli, ma come posso parlargli di queste cose al telefono,
quando mi è consentito fare una sola telefonata a settimana che non può
superare i dieci minuti, come posso parlar loro di queste cose senza poterli
stringere forte tra le braccia per fargli sentire il calore dell’amore del
loro papà? Per questo finora ho preferito mentire. I
miei figli sono in Tunisia ed io non effettuo con loro i colloqui, questo in un
certo senso mi rende più facile nascondere la verità, ma il fatto di non poter
avere con loro nemmeno un minimo contatto e non vederli crescere malgrado la
carcerazione mi fa stare male. Purtroppo
per me è doloroso non poter essere presente durante la crescita e i momenti
importanti della vita dei miei figli, ma la speranza è quella di rivederli al
più presto, anche perché c’è tanto da recuperare. Ecco
perché devo raccontare la verità ai miei genitori In
una sala colloqui non si può spiegare ai propri cari il disastro della propria
vita, solo trovandoci faccia a faccia e senza nessun altro attorno sarò in
grado di affrontare un confronto così duro di
Bardhyl Ismaili Da
quasi 14 anni mi trovo in galera per un reato molto grave, un omicidio, che non
avrei mai pensato di commettere. Ad avvisare i miei familiari che io ero in
carcere è stato mio fratello maggiore. Per loro era una cosa incredibile, non
potevano pensare che io fossi l’autore di un simile reato. Loro tuttora si
pongono tante domande e non trovano una giustificazione, si sentono coinvolti
pensando a cosa può non aver funzionato nel rapporto tra genitori e figlio. Quando
hanno appreso la notizia, il dolore è stato così forte, che mio padre si è
sentito male e mia madre ha dovuto ricorrere ad un ricovero ospedaliero. Subito
dopo hanno sentito la necessità di cambiare casa e trasferirsi in una zona
distante dal paese dove erano conosciuti e stimati e dove avevano vissuto per
oltre 50 anni. La vergogna per quello che ho compiuto non gli dava più la forza
di uscire e credo che questa situazione li faccia soffrire moltissimo, e non
passa giorno che io non pensi a ciò che è successo, non avrei mai immaginato
di poter procurare un simile dispiacere ai mie genitori. ma anche a tutti i
parenti e amici che mi sono vicini ancora nonostante la situazione nella quale
mi trovo. Proprio questa loro vicinanza mi aiuta in questo lungo percorso di
detenzione e mi fa andare avanti con maggior forza e sopportare le condizioni di
autentica invivibilità del carcere sovraffollato. In
tutti questi anni a ogni colloquio che faccio con i miei cerco di trovare la
forza di parlare con loro della mia situazione e dei problemi che sono sorti in
seguito al mio reato, anche se loro non me lo hanno mai chiesto però me lo
fanno capire, loro devono sapere ciò che mi è realmente successo e cosa è
scattato in me per agire in quella maniera. Io sino ad ora non sono riuscito a
raccontare ciò che è successo, non riesco a trasmettere ai miei con parole
giuste il perché ho reagito in questa maniera e mi vergogno a parlarne ai
colloqui, a raccontare i particolari. Ho
riflettuto più volte su come metterli al corrente di qual era la situazione mia
personale di quei momenti e come ho agito in modo imprevedibile, distruggendo
una vita e rovinandone altre, quelle die miei famigliari che si sentono anche
loro macchiati di un reato che non hanno commesso ma che è stato di fatto
determinato dal figlio. Sono
consapevole che ho provocato una grossa ferita, rovinando due famiglie e me
stesso e che non potrò mai ripagare il danno causato, indietro non si può
tornare. Ma ho il dovere di cercare di dare delle spiegazioni ai miei genitori,
ho provato anche a scrivere una lettera, mai partita, perché non ho ancora
trovato né la forza né le giuste parole per essere chiaro, ma credo che
riuscirò ad affrontare la questione quando avrò l’opportunità di
incontrarli fuori in occasione di un permesso. Un momento nel quale non avrò
attorno altre persone come avviene nelle sale colloquio, dove il trambusto, la
confusione, il vociare di tanta gente tutta assieme e la limitazione del tempo
che ci viene concesso rendono difficile anche solo parlarsi di cose normali,
immaginarsi poi di una questione così dolorosa. Sino ad ora sono riuscito a
parlare prima con il mio avvocato e poi con il magistrato di Sorveglianza,
raccontando pienamente e in tutti i particolari il reato compiuto. Già
al mio avvocato avevo detto che la mia intenzione era quella di raccontare la
verità e non lasciare ombre, dubbi, ma di dare la mia disponibilità a
rispondere a qualsiasi domanda per concludere le indagini sul fatto commesso. Ma
è più difficile porsi nello stesso modo con i propri genitori. Ci sono
ostacoli dovuti all’emozione, alla paura che entrare nei particolari possa
procurare non solo dispiaceri ulteriori, ma anche emozioni troppo forti che
possono avere un effetto negativo sulla loro salute fisica. Ci
si scontra quindi con la volontà di non ferire le persone più care, la
delusione l’hanno già avuta e magari non ne mostrano tutta la pesantezza,
almeno questo è quello che penso ogni volta che incontro i loro sguardi. Anche
loro senz’altro attuano la stessa difesa nei miei confronti e senz’altro non
mi raccontano le cose negative che li riguardano, non solo gli acciacchi o i
malanni fisici, ma come si comportano nel loro vivere quotidiano, come si
confrontano con le persone che solitamente incontrano al loro paese. La mia
situazione li ha certamente fatti sentire anche loro un po’ prigionieri e
magari allontanati da una società, che prima li accoglieva in maniera serena e
cordiale. È per questo che sento un forte dovere, in quanto loro figlio, di
essere sincero e ripagarli delle cose che loro mi hanno insegnato e che io
purtroppo ho tradito compiendo un reato tra i più gravi. Devo riuscirci ma non
da dentro il carcere e non con una lettera, mi serve il tempo ed il luogo
giusto, perché solo trovandoci faccia a faccia e senza nessun altro attorno sarò
in grado di affrontare un confronto così duro. Tendiamo
tutti a nascondere come stanno realmente le cose Quando
un figlio lontano da casa finisce in carcere, raccontare la verità ai propri
cari è troppo difficile di
Mohamed Tlili Quando
si finisce in carcere non è facile mantenere i rapporti con i propri
famigliari. Io sono un detenuto straniero e questa non è la mia prima
esperienza con il carcere. Le volte precedenti ho dovuto scontare pene brevi
sempre legate alla droga. Sapendo che presto tornavo in libertà, mi convincevo
che era meglio dire ai miei genitori, rimasti in Tunisia, che ero stato
arrestato perché senza documenti. La mia famiglia di fronte a questo problema
non aveva reagito male, loro sapevano che ero in Italia per lavorare e che,
essendo senza documenti, avrei potuto trovare delle difficoltà. L’unica cosa
di cui si raccomandavano era quella di sistemarmi trovando un datore di lavoro
disposto a mettermi in regola. Sentire la mia famiglia dispiaciuta ma comunque
non delusa mi faceva sentire sollevato. Questa
volta invece sto scontando una condanna di 10 anni. Fin da subito ho pensato di
non poter mentire ai miei famigliari. Ho deciso dopo un mese dall’arresto di
scrivergli una lettera spiegandogli come stavano le cose, anche se loro erano già
stati messi al corrente da altri miei connazionali. Dopo
circa quattro mesi ho potuto telefonare per la prima volta a casa. L’impatto
non è stato facile, specialmente con mia madre che appena mi ha sentito ha
reagito piangendo. Con
mio padre invece è stato subito diverso, lui era convinto che anche in Italia
io continuassi a lavorare onestamente così come ho sempre fatto in Tunisia, era
convinto che i soldi che gli mandavo erano frutto del mio lavoro. Oggi è deluso
dalle mie scelte, anche perché è molto religioso e inoltre ha paura che io
possa essere di cattivo esempio per i miei fratelli più piccoli. Ancora
oggi, dopo quasi quattro anni, a volte capita che preferisce non venire al
telefono fingendo di dormire o al massimo si limita in pochi secondi a
domandarmi come sto, ripassando subito la cornetta a mia madre. Se chiedo
spiegazioni a mia madre lei mi dice che dovrei conoscere il carattere di mio
padre, ma che lui mi vuole sempre bene. Con
mia madre il rapporto è migliore, lei vorrebbe addirittura venirmi a trovare,
ma sono io a dirle di no perché conosco le difficoltà, anche quelle che ci
sono per ottenere un visto. Nonostante
tra noi ci sia ancora un rapporto, quello che ci diciamo per telefono non è mai
la verità, se lei mi chiede come sto io rispondo bene e se io lo chiedo a lei,
mi risponde lo stesso. Ma io sono consapevole che data l’età, e conoscendo il
loro stato di salute, i miei genitori non possono stare sempre bene, e loro
hanno la stessa consapevolezza che anch’io, visto il posto in cui mi trovo,
non possa stare sempre bene. Tendiamo
entrambi a nascondere come stanno realmente le cose per non far preoccupare
l’altro, e quello che si è venuto a creare non è un rapporto del tutto
sincero. Sono
stato sempre consapevole che con i miei comportamenti avrei potuto causare delle
conseguenze pesanti, ma nonostante ciò ho preferito continuare a vivere in un
certo modo e mi rendo conto che oggi la mia famiglia sta pagando per delle mie
scelte sbagliate. Prego
Dio di avere almeno un’altra volta la possibilità di vedere i miei genitori
fuori dal carcere e di poterli finalmente riabbracciare. Come
raccontare ai miei una verità così angosciante? Dir
loro che dovrò rimanere rinchiuso in carcere per 22 anni è stato terribile di
Qamar A. Subito
dopo aver commesso il reato per cui sto scontando una lunga pena, sono stato
fermato e trasferito in carcere dove, dopo tre giorni, è stato confermato il
mio arresto. La prima persona a farmi visita è stato un avvocato che senza
tanti preliminari e alcun atto mi ha sbattuto in faccia che avrei rischiato 22
anni di detenzione per il grave reato del quale ero coimputato. Il colpo è
stato forte, anche perché ero del tutto impreparato. Pochi giorni prima vivevo
con l’ansia di dovermi trovare di fronte a persone che ci ostacolavano in
tutto, tanto che dopo molteplici scontri verbali ed intimidazioni, avevamo
dovuto fare ripetute segnalazioni e denunce ai carabinieri. Certo non ho mai
lontanamente pensato di poter uccidere per dovermi difendere, assieme ad altri
miei parenti, da quella che è stata l’ultima delle tante aggressioni subite
da parte di connazionali residenti nei paesi vicini. E
ora come raccontare ai miei che avrei dovuto rimanere rinchiuso in carcere per
22 anni? Come convivere con quel grandissimo dolore, la delusione, la
valutazione della gravità che ricadeva si addosso a me, ma anche a tutto il mio
gruppo familiare? La comunicazione dell’avvocato mi ha veramente distrutto.
Molto probabilmente lui si è accorto che non riuscivo più a seguire altri suoi
discorsi in merito al processo e forse per cercare di ravvivare la mia
attenzione ed il morale, mi ha anche detto che il giorno dopo avrei potuto
incontrare i miei genitori perché il giudice aveva già autorizzato il
colloquio. Una notizia buona, ma anche che mi caricava di tensione. Sì
è certo che vedere i miei genitori era senz’altro positivo, ma come
affrontare e spiegare a loro che il loro figlio era stato coinvolto in un
omicidio? Era
sabato 9 agosto del 2008 quando ho fatto il primo colloquio con mia mamma; lei,
appena mi ha visto, è scoppiata a piangere e mi ha abbracciato dicendomi:
“Che terremoto che è arrivato nella nostra vita!”, ed io pure ero
abbattuto, ma non volendo far percepire la mia disperazione le ho risposto
cercando di renderle meno pesante la realtà: “Mamma non piangere, non è che
abbiamo cercato noi lo scontro, noi non volevamo arrivare poi a quello che è
accaduto”. Per
cercare di tranquillizzarla un po’ non le ho raccontato tutto quello che mi
aveva detto l’avvocato ma solo che sarei uscito presto, che sarebbe andato
tutto bene. Immediata la sua richiesta di precisazioni: “Ma presto quando?”.
Alla mia indicazione di 5 o 6 mesi lei si è calmata un po’. La
sua curiosità ed apprensione si sono spostate sul sapere come stavo in carcere
e poi ancora su tante altre domande e, prima di uscire dalla sala colloqui, per
farmi capire che mi erano vicini e non mi avrebbero abbandonato, ha ritenuto
necessario confermarmi che ci saremmo rivisti prestissimo, il lunedì
successivo. Ho
atteso quel lunedì con molta preoccupazione per come avrei dovuto dire ai miei
la verità, come affrontare nel modo giusto tutta la situazione. Il lunedì
mattina è arrivato e assieme a mia mamma c’era, per la prima volta, anche mio
papà. Lui si è subito interessato a come era andato il mio interrogatorio per
capire se avevo detto la verità, se avevo risposto a tutte le domande, come
stavano veramente le cose. Continuava
a chiedermi: “Qual è la verità?”, “Come è successo il fatto?”. Non mi
veniva nessuna risposta, e allora ho cercato di cambiare discorso parlando
dell’avvocato e del fatto che non volevo più alcun contatto con quel
difensore assegnato d’ufficio. Mia madre intanto non staccava mai i suoi occhi
che penetravano i miei per leggere dentro di me e capire a fondo quello che
dicevo e se i miei atteggiamenti potevano far pensare che non gliela raccontavo
giusta. Quanto
dolore ho seminato e quanti perché si incrociavano nella mia mente, e
certamente anche i miei genitori e tutta la mia famiglia stavano vivendo con
disperazione questa tremenda situazione. E
quante domande da parte loro: Perché i carabinieri non avevano posto in atto
controlli e divieti di ingresso nel paese dove io risiedevo a quelle persone che
avevano cercato in tanti modi di ostacolare il nostro lavoro, pretendere soldi,
intercettando i nostri movimenti, seguirci sino a casa, raggiungerci nei locali
pubblici e cercare sempre scontri? Se
fossi tornato in Pakistan da mia moglie, alcuni giorni prima, certamente ora non
sarei in carcere. Ma
la realtà ora è completamente diversa, dovrò affrontare la mia lunga assenza
da casa con il peso di un atto terribile, un peso che viene condiviso anche dai
miei cari. Chissà quante persone, vedendoli, li indicherà come i genitori di
chi ha ucciso, anche se per difesa. Si sentiranno allontanati e loro stessi
avranno timore a mostrarsi in un paese nel quale sono arrivati tanti anni fa e
si erano inseriti bene, con una propria attività. La cosa forse sarebbe meno
difficile se si trovassero in una grande città. Ma in un luogo così piccolo,
tutto è compromesso. L’unica
cosa buona è che loro cercheranno di starmi vicino e di aiutarmi in questa
lunga detenzione. Quella
verità che fa tanto male alle nostre famiglie Genitori
anziani, verità faticose da accettare: è difficile trovare la strada giusta
perché l’esperienza del carcere non distrugga del tutto i legami famigliari di
Ulderico Galassini La
scelta di non comunicare ai miei genitori la verità sulla mia detenzione deve
essere stata presa dai miei parenti valutando principalmente le reazioni ad un
impatto troppo forte e duro, soprattutto se lo si deve dire a due genitori
anziani ed in condizioni di salute non solide. Mio
padre, che aveva 87 anni, era cieco e sempre collegato ad una bombola di
ossigeno, una madre di 86 anni con problemi cardiovascolari. Cosa poteva
succedere se a loro avessero detto realmente i fatti così come erano successi,
imprevedibili ed impensabili anche per quella che era stata sino a quel 26
maggio la mia vita con la mia famiglia, impostata su basi di rispetto reciproco
e con principi educativi forti e condivisi in 35 anni con mia moglie e 15 con
mio figlio? Io
non ero nelle condizioni di poter prendere alcuna decisione e quindi la
difficoltà di riferire una cosa diversa, ma comunque grave, è stata
necessariamente demandata a mia sorella, mio cognato e i miei nipoti,
altrettanto sconvolti per l’accaduto. Ai
miei cari genitori è stato riferito di un grave incidente automobilistico che
aveva coinvolto tutta la mia famiglia e nella quale Alessandra, mia moglie, era
la vittima principale e mio figlio ed io eravamo rimasti feriti e nella necessità
di cure ospedaliere. Nel mio caso queste cure facevano prevedere una lunga
degenza con la necessità di un continuo monitoraggio che non mi ha mai
consentito di ritornare a casa e poter riabbracciare i miei genitori. Mio padre
è venuto a mancare nell’agosto 2008 e mia madre l’ha raggiunto nel marzo
2011. L’unico
contatto possibile era una telefonata ogni 15 giorni, intervallata con la
telefonata a mio figlio, e pensare di portarli ai colloqui era impossibile.
Prima di tutto perché avrebbero capito il luogo nel quale veramente mi trovo a
scontare la mia pena, e poi perché per le loro condizioni fisiche dovevano
utilizzare anche la sedia a rotelle, non agevole per il loro spostamento:
sarebbe stata un’ulteriore tortura, con il rischio di aggravare le loro
condizioni. Quante
volte nelle nostre brevi telefonate mi veniva ripetutamente chiesto: “Ma
quando ti lasceranno tornare a casa, diglielo che ti lascino uscire
dall’ospedale!”. “Perché non posso venire anch’io a trovarti? Se
sapessi la strada verrei lì da te anche a piedi!”. Seguivano tante altre
domande tese a capire la situazione, visto il perdurare della mia assenza, e
quindi la loro continua curiosità o forse l’aver percepito che la situazione
poteva essere un’altra. Si chiedevano naturalmente perché mia sorella, mio
cognato, ed altri parenti potevano farmi visita e loro no. Gli
è stato creato un cordone difensivo tutto attorno, coinvolgendo in questa
enorme bugia anche chi viveva attorno a loro, e ogni volta che chiamavo al
telefono c’era sempre mia sorella che si recava a casa loro per prendere lei
la cornetta e non far sentire che era il centralino del carcere a chiamare e
mettermi in comunicazione con i miei cari. Quelle poche volte che mancava mia
sorella l’impegno veniva demandato alla badante che da anni conviveva, giorno
e notte, con loro, perché mia madre da sola non poteva gestire mio padre. Alla
morte di papà era stata autorizzata la mia presenza al funerale, ma poi l’ho
rifiutata perché non era stata accettata una seconda condizione da me richiesta
per incontrare anche mia madre, che per motivi di salute non poteva seguire il
rito religioso e la sepoltura. Ho però fortunatamente potuto parlare ancora con
mia madre, sempre e solo telefonicamente. Il
giorno 2 di marzo ci siamo sentiti alle 16,30, era serena ma con voce un po’
stanca e mi chiedeva cosa facevo durante il giorno, quali erano i miei impegni,
se stavo bene alla gola, e immancabilmente: “Quando ti mandano a casa? ho
voglia di vederti!”, e la mia risposta: “Mamma devi avere tanta pazienza,
prima o poi succederà”. Come ogni volta le ho chiesto se aveva sentito o
avuto visite di Andrea, mio figlio, e la telefonata è terminata con: “Mamma
non preoccuparti, ti richiamo tra quindici giorni, ma se dovessi non riuscirci,
perché siamo in tanti a dover telefonare, non preoccuparti, ti richiamo il
giorno dopo!”. Ma lei è mancata poche ore dopo il nostro ultimo contatto. Non
devo più raccontare bugie ai miei genitori, ora stanno nuovamente insieme. Mi
è stato autorizzata la partecipazione ai suoi funerali e anche di poterla
vedere prima del rito funebre, ma poi chi doveva provvedere al mio trasporto non
ha potuto farlo, mancava il furgone e il personale, che era impegnato in altri
trasferimenti. Alcuni giorni dopo mi hanno scortato, con il massimo rispetto,
sulla tomba dei miei genitori, accompagnato da mia sorella e mio cognato. Devo
ringraziare anche per avermi concesso di soffermarmi, al ritorno, sulla tomba di
mia moglie. È importante anche evidenziare il tatto e la sensibilità
dimostrata dai cinque agenti che mi hanno scortato e consentito di rivolgere
qualche parola a chi si è avvicinato a me mentre salutavo i miei genitori e poi
mia moglie Alessandra, pregando per lei e ripensando che con un gesto
inqualificabile e imprevedibile ho chiuso un’unione che ci aveva visti assieme
per 35 anni. Ci
sono altre persone che fanno parte del mio nucleo famigliare, che sono in
qualche modo vittime del mio atto, alle quali non ho nascosto nulla e con cui
forse avrò modo di approfondire quello che è successo, ma solo quando lo
riterranno opportuno. La mia disponibilità è e sarà totale. Si
può ricostruire un rapporto con i figli, quando il reato è avvenuto in
famiglia? È
difficile impedire che quei figli che hai cresciuto così amorevolmente arrivino
ad odiarti o non si facciano più vedere, e se ti trasferiscono in un carcere
lontano da casa diventa quasi impossibile di
Santo Napoli Quando
in una famiglia ci sono dei problemi, ci vanno di mezzo sempre e solo i bambini,
immaginarsi se c’è un omicidio di mezzo. Io con i miei figli ho sempre avuto
un rapporto bellissimo quando ero libero, ho sempre vissuto per la famiglia, a
19 anni ero già papà anche se ancora non avevo ben metabolizzato il concetto
di essere padre, perché ero poco più che un ragazzino. Così come oggi
considero dei ragazzini i miei figli, e faccio notare che i miei figli hanno uno
24 anni ed uno 18, perciò ora capisco mio padre quando mi diceva che ero un
ragazzino e che ero troppo giovane per poter capire questo concetto, avrei
capito più avanti nel tempo, ed è stato proprio così. Comunque
nonostante fossi così giovane ho cercato di far sentire ai miei figli la figura
del padre, anche se ho sempre giocato con loro come fossi un amico e non solo un
padre, ho vissuto per loro e con loro, dividendo bei momenti e momenti di
sofferenza specialmente quando si ammalavano, soffrivano loro ed io pure perché
un padre questo fa per i figli. E
pensare che quando ero un uomo libero con mio figlio grande avevo un rapporto
quasi idilliaco, uscivamo insieme, giocavamo a pallone insieme, lo portavo con
me quando mi allenavo ed ero io che quando non lavoravo prendevo il piccolo e
andavo ad aiutare il mio allenatore che allenava anche le squadre minori, perciò
passavo il più possibile del mio tempo libero con loro. Ma dal momento del mio
reato sono stato separato bruscamente da loro, prima dalla giustizia perché
sono finito in carcere, per aver ucciso mia moglie e poi me li hanno strappati
dal cuore (nel senso che per un anno non li ho visti). Anche se quello che avevo
fatto era gravissimo, non riuscivo ad accettare che un padre che si è cresciuto
i suoi figli per tanti anni ed è molto legato a loro, così come loro erano
legati a me, da un momento all’altro si dovesse vedere togliere i figli ed i
figli il padre e non poter avere più rapporti con loro. Capivo quanto era
tragica la situazione, ma mi sembrava che le nostre istituzioni dovessero
valutare che forse questi bambini avevano bisogno del padre e tenessero in
considerazione proprio le esigenze dei bambini, e non giudicassero soltanto
quello che in quel dato momento avevo commesso. Io che ero legatissimo ai miei
figli ed ancora oggi lo sono e li amo più della mia vita stessa, per un anno
non ho potuto vederli perché le istituzioni li hanno affidati a mio suocero,
non prendendo nemmeno in considerazione i miei genitori, e lui per un anno non
mi ha fatto vedere il piccolo e mi ha messo contro il grande. È così nessuno
ha trovato il modo giusto per spiegare loro quello che è successo, non
giustificare certo, perché non si può giustificare un’azione del genere. Io
non credo sia giusto che i figli di chi ha commesso un reato come il mio siano
affidati alla famiglia alla quale tu hai fatto del male togliendo loro una
figlia o un figlio, perche è ovvio che in quel momento il loro rancore ed il
loro odio sono così forti che te la devono far pagare nell’unico modo che
possono e che lo Stato permette loro, in questo caso la fanno pagare alle
persone più deboli (che sono i bambini) non facendoteli più vedere, o
mettendoteli contro, in base a ciò che gli possono raccontare, facendo in modo
che quei figli che hai cresciuto così amorevolmente arrivino ad odiarti o non
si facciano più vedere, né sentire dalla persona che li ama più della sua
vita e che prima di quel fatidico giorno anche loro hanno amato. Poi
ci sono anche i casi nei quali sono proprio i figli che non vogliono più
vederti, perche se tu a un figlio gli togli la mamma perché in quel momento non
ragioni o perché sei un egoista che pensa soltanto a se stesso, allora capisco
il rancore che porta un figlio, perché mi immedesimo in lui e penso a come
l’avrei presa e come mi sarei comportato, se mio padre avesse ucciso mia
madre. Sta di fatto però che ad un certo punto avrei voluto capire il perché
di tutto quello che stavo passando per colpa di mio padre, e sarei andato a
trovare la persona in carcere per avere dei chiarimenti e vivere meglio con me
stesso, e anche se poi dopo questi chiarimenti forse non avrei più voluto
vedere quella persona, almeno sarei stato consapevole di averci provato. Certo
vedendo come sto io senza di loro riesco a capire come stanno loro senza di me e
senza la madre, e per un bambino che è sempre cresciuto con i genitori ed amato
da loro deve essere davvero insopportabile ritrovarsi senza e non sapere che
fine abbiano fatto, e avere vicino a loro persone che invece di prepararli a
capire quello che è successo, perché alcuni bambini magari si possono fare dei
complessi pensando che i genitori se ne siano andati per colpa loro, li
preparano ad odiare. Questo succede perché quelle persone che hanno perso una
figlia o un figlio, in quel preciso momento hanno anche loro bisogno di un aiuto
morale e psicologico, perché senza un sostegno non sono i più adeguati a
prendersi cura di quei bambini che sono rimasti orfani di madre, e in un certo
senso anche di padre, e a riuscire a non far mancare loro quell’affetto e
quell’amore di cui in quel periodo hanno bisogno, e a non fargli pesare
l’idea dell’abbandono che già sentono pesantissima, dato che gli sono
venute a mancare tutte e due contemporaneamente queste figure. Con
mio figlio piccolo facevo i colloqui regolarmente, ora invece sto tribolando
perché sono lontano da casa ed è un anno e mezzo che non lo vedo, perciò da
un certo punto di vista capisco gli stranieri lontani dalle famiglie e condivido
la loro solitudine. Certo lo sento per telefono, ma non è la stessa cosa che
poterlo abbracciare e baciare, invece con il grande non faccio colloqui e non lo
sento da tanto e la cosa mi fa stare male, dentro di me so che mi manca un pezzo
di cuore, ma so anche che prima o poi avrò l’occasione di vederlo, perche è
da un po’ di tempo che i miei genitori stanno cercando di farlo venire a
colloquio, poi da lì si vedrà. Comunque io aspetto con ansia quel giorno, non
so adesso cosa gli dirò né se si farà abbracciare, ma il fatto che venga a
trovarmi anche solo per chiedermi delle cose è già tanto, il fatto di
confrontarmi con lui mi spaventa e mi mette in agitazione, ma prima o poi so che
dovrò affrontare questa mia paura e cercare di recuperare l’amore di mio
figlio o anche solo la fiducia per cominciare, poi si vedrà. Io
penso che lo Stato non ti possa fare pagare la pena più del necessario, va bene
che hai commesso un reato ed è giusto che lo paghi, ma poi ci sono le pene
accessorie: la mancanza della famiglia, la mancanza dei tuoi figli e se non
basta questo c’è anche la lontananza da casa, che rende tutto più difficile.
E di questa lontananza, che rende i colloqui e i rapporti, già difficili, con
la famiglia ancora più complicati, è responsabile lo Stato. Si parla sempre di
rieducazione e di recupero delle persone detenute, ma come e quando avverrà
tutto questo? Nonostante
tutto però io sono certo che, anche se con una enorme tristezza, mio padre mi
sarà sempre vicino, caricandosi questo ulteriore fardello che sono stato io a
dargli di
Pjerin Kola Vi
racconto come é stato difficile dire il mio reato ai miei genitori, soprattutto
a mio padre, che è una persona ligia e onestissima, sempre pronto a
rimproverare chi non era rispettoso delle regole e delle persone, quando è
venuto dall’Albania a trovarmi in carcere. Fino a quel momento, nonostante mi
chiedesse il motivo per cui ero finito in carcere, avevo sempre cercato, quando
gli scrivevo, di essere vago, non riuscivo a dirgli quanto era realmente
successo, e dirgli con uno scritto quale è stato il motivo del mio reato non
era per niente facile, mi sentivo come una persona che aveva tradito le sue
aspettative, specialmente con il reato che avevo commesso, un reato di sangue,
un omicidio. Però
a mio padre dovevo dirgli la verità, glielo dovevo proprio, dovevo spiegargli
il motivo e come sono andate veramente le cose. Quando è venuto a colloquio gli
ho detto tutta la verità. Però non subito, la prima ora è stata tranquilla,
ci siamo chiesti altre cose della vita, anche perché ogni volta che cercava di
portarmi a parlare del mio reato, io cambiavo discorso, una volta, due, poi ho
pensato dentro di me: lui è venuto dall’Albania per trovare me ed io perché
non dovrei dirgli come sono andate le cose? Ho
cominciato a raccontarglielo e lui mi ha fermato e mi ha detto “Guarda, se non
te la senti di raccontarmelo questa volta, me lo dirai la prossima volta, però
voglio sapere la verità”. Quelle parole mi hanno commosso e allora ho
cominciato a raccontare, però non riuscivo a guardarlo in faccia, è stato
molto difficile e mi vergognavo tantissimo. Alla fine, mio padre ha detto che
ormai è successo, che non si può tornare indietro nel tempo, magari si potesse
fare. Quando
ho finito di raccontare ho pensato: “Adesso mi odierà”, e gli ho detto:
“Questa è la verità, adesso tocca a te giudicarmi”. Lui non ha pronunciato
neanche una parola, ha fatto solo un movimento con la testa per dire: “Che ti
devo dire, mica hai fatto una cosa giusta?!”. Si
è alzato e ci siamo abbracciati, commossi, senza dire una parola, ma nonostante
tutto io ero certo che, anche se con una enorme tristezza, mio padre mi sarebbe
stato vicino, caricandosi questo ulteriore fardello che ero stato io a dargli. Questa
immagine e tutti gli attimi di quel colloquio mi sono impressi nella mente come
macigni, e ogni volta sento la difficoltà e la sofferenza che può provare un
padre come il mio, che sicuramente immaginava per me una vita totalmente diversa
da quella che sto affrontando ora. Spazio
libero La
vita si sviluppa dall’interno E
la vita di Elton dall’interno del carcere si è fortificata, stratificata in
esperienze, discussioni, riflessioni e scritture e ha levato la sua voce sempre
più forte per farsi sentire e smontare i luoghi comuni che la gente si ripete
rispetto al carcere per pensarci il meno possibile, per rimuoverlo dalla sua
vista e dalla sua testa di
Adriana Lorenzi, Docente a contratto presso l’Università degli Studi di
Bergamo di Tecniche di scrittura, conduce laboratori di scrittura autobiografica
nelle carceri, e non solo Il
testo che Adriana Lorenzi, scrittrice e docente di Tecniche di scrittura, ci ha
mandato riguarda Elton Kalica, ma riguarda soprattutto il modo in cui i suoi
articoli, le sue testimonianze sono diventati materia di riflessione, di
discussione, di confronto nelle scuole. Ci
vuole un’anima per muovere un corpo. Ci
vuole un uomo dotato di un grande spirito Per
guidare le masse… anche a stalle più pulite. Occorre
un ideale per rimuovere anche di un capello,
la grigia polvere della quotidianità. …
la vita si sviluppa dall’interno. Queste
sono le parole che una “donna di carta” dell’Ottocento, Aurora Leigh,
rivolge al cugino che vorrebbe sposarla, ma lei lo rifiuta, sia perché non lo
ama sia, soprattutto, perché ha per sé altri progetti: lei ha aspirazioni e
vuole creare qualcosa. Mi
sono venuti in mente questi versi, pensando a cosa scrivere di Elton Kalica, una
delle firme più autorevoli di Ristretti Orizzonti, una di quelle a me più
care. La nostra conoscenza risale ormai a sette anni fa. Per me Elton è
l’incarnazione di quella vita che si è andata sviluppando nel suo interno,
murata in una detenzione durata quindici anni, passati in diverse galere
italiane prima di approdare alla Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova e
quindi alla redazione di Ristretti Orizzonti. La sua vita si è fortificata,
stratificata in esperienze, discussioni, riflessioni e scritture e ha levato la
sua voce sempre più forte per farsi sentire e smontare i luoghi comuni che la
gente si ripete rispetto al carcere per pensarci il meno possibile, per
rimuoverlo dalla sua vista e dalla sua testa, convincendosi della necessità di
buttare la chiave dopo avere chiuso un delinquente in cella. Per chi ha abitato
il carcere come detenuto, per chi lo ha frequentato come operatore, volontario,
professionista, docente questo pensiero è intollerabile, perché sa bene che è
proprio in carcere che l’umanità va salvaguardata e che gli uomini e le donne
devono poter compiere gesti capaci di conservare e testimoniare la loro umanità.
Lo dice l’articolo 27 della Costituzione. Lo scrivono tutti i giornali e
giornalini delle diverse prigioni. Non smette di ribadirlo Elton Kalica che ha
accettato di raccontare le ombre della sua esistenza che è finita in galera,
senza perdere di vista le sue luci, quelle che si possono accendere anche dentro
il carcere affinché poi, a fine pena, continuino a brillare, magari anche di più.
Elton
è stata la prima persona che ho incontrato nella Redazione interna al carcere
di Padova di Ristretti Orizzonti e lo ricordo bene, perché io varcavo
emozionata e piena di attesa la porta di quel luogo che per me, lettrice
appassionata della rivista, era un laboratorio di pensiero, di idee che finivano
sempre per scuotermi e lui era uno dei protagonisti, perché i suoi articoli mi
piacevano infinitamente. Quella
mia prima volta, era il 2004, Elton mi aveva accolto con un bel sorriso di
labbra e di occhi azzurri e una stretta di mano forte, mentre si presentava e mi
dava il benvenuto. Da allora a ogni mio ingresso in redazione, non mi è mai
mancata quella sua gioia nello stringermi la mano, nel chiedermi del mio lavoro
nel carcere di Bergamo, insieme ai suoi rimproveri, quando lasciavo passare
troppo tempo tra un appuntamento e l’altro con lui e tutti gli altri. Chi sta
fuori non misura il tempo tra un incontro e l’altro, chi sta dentro non fa
altro. In carcere, tutto dipende dal tempo dell’attesa. Elton
mi concedeva pochi minuti, perché doveva mettersi al computer a lavorare, a
leggere un comunicato, a scrivere, a correggere, a risolvere qualche problema.
Non aveva tempo da perdere nelle ore in Redazione, ma lo impiegava con scrupolo
e passione: tante le cose da fare prima di tornare in cella. Non mancava di
allungarmi qualche articolo da leggere, il nuovo numero della Rivista. Fin
dall’inizio sono stata attratta dal progetto che cominciava proprio allora,
impegnando la Redazione nell’incontro con le scuole. Preparati dai loro
insegnanti, gli studenti incontravano i detenuti sia a scuola sia in carcere,
avviando un confronto sui temi della delinquenza, della legalità, evitando
dissertazioni filosofiche, antropologiche, ma passando attraverso le storie
intense e tragiche delle persone che avevano compiuto qualcosa capace di aprire
i cancelli del carcere. Nessuno
studente si prefigura di poter avere, prima o poi, per via diretta o indiretta,
a che fare con il carcere. La nostra sfida - quella di chi lavora, oppure abita
il carcere e scrive del carcere dal carcere - consiste nel mostrare il possibile
scivolamento dentro il pozzo del carcere. Parlo di scivolamento, perché
l’operazione è lenta e inesorabile per tanti fattori - le cattive compagnie,
l’uso di sostanze stupefacenti, abuso di alcool, ma anche crisi esistenziali,
difficoltà lavorative - e, senza accorgimento, si scivola lungo il piano
inclinato che all’inizio offre qualche appiglio e poi non più. Allora si
precipita e ho imparato in galera che al fondo del pozzo si spalanca un altro
fondo e poi un altro ancora. Si può anche non smettere di scendere sempre più
in basso. È
stato Elton a procurarmi l’ultima copia del numero della rivista che parlava
del progetto e me l’ha allungata, dicendomi che era un regalo prezioso, perché
non aveva altre copie a disposizione. Quando si riceve un regalo simile
accompagnato da queste parole, ci si sente chiamati ad esserne degni e così è
stato per me che da allora ho cercato di realizzare nella mia città un progetto
simile a quello che è diventato un impegno enorme per Ristretti Orizzonti:
l’incontro con gli studenti sia a scuola sia in carcere per avvicinarli a una
realtà che avvertono lontana, oppure minacciosa, comunque sempre da cancellare
dal loro orizzonte percettivo. Quando
entro in classe per il progetto “Il carcere entra a scuola, la scuola entra in
carcere”, faccio leggere agli studenti liceali le testimonianze prese da
Ristretti Orizzonti e per l’anno scolastico 2010-2011 in particolare soltanto
gli scritti di Elton. Nel
brano Un carattere porta-guai Elton racconta di come abbia cominciato a scuola a
non tirarsi indietro, quando un amico gli chiedeva aiuto per vendicarsi di un
affronto, di uno sgarbo reagendo con la vendetta. Troppa la paura di essere
accusato di mancanza di solidarietà, di essere un cacasotto per permettersi di
tirarsi indietro: prima da ragazzino lungo i corridoi scolastici, poi da giovane
immigrato sulle strade italiane e, infine, da detenuto nei reparti penitenziari.
La regola invariata era quella di spalleggiare un amico piuttosto che voltargli
le spalle, anche se sapeva sbagliata la necessità di farsi giustizia da soli.
Invariabilmente al termine della lettura di questo brano, ho le espressioni
stupite e anche un po’ irritate degli studenti che mi incalzano per sapere se
Elton ha imparato o meno la lezione, perché nelle righe del suo scritto, lui
pare alludere all’impossibilità di negarsi a una nuova richiesta di aiuto da
parte di un amico per un regolamento di conti. Elton non precisa cosa ha deciso
di fare e quindi gli studenti vogliono sapere il non scritto. Sono disposti a
schierarsi dalla sua parte, ma vogliono essere sicuri che lui abbia ben appreso,
altrimenti sono pronti a condannarlo. Ho assistito a infinite discussioni dopo
la lettura di questo brano, proprio perché il tema della solidarietà tra
compagni è qualcosa che li tocca da vicino: possono anche non andare troppo
d’accordo tra loro, ma si compattano quando si tratta di difendere un compagno
dai professori. Leggo nei loro occhi inquieti e sulle labbra serrate quello che
non osano dire ad alta voce: si merita di finire in carcere chi continua a farsi
giustizia da solo. Quasi tutti, però, sperano Elton abbia detto di no
all’amico. Nel
brano Ma è proprio bella la “bella vita”?, Elton cerca di spiegare il
fascino che ha assunto per lui - e per tanti altri - la vita facile, quella che
gli veniva proposta dalla televisione, quando, ancora adolescente, viveva in
Albania insieme ai suoi che lavoravano senza potersi permettere granché. Ha
lasciato l’Albania per avere una prospettiva di futuro migliore e forse non
poteva rassegnarsi alla fatica che, invece, la nuova realtà gli imponeva,
rendendo la situazione così simile a quella appena lasciata. Quando il denaro
assume una posizione centrale nella vita che ci circonda tanto che pare
impossibile occuparsi d’altro, si finisce per compiere quei gesti che
dovrebbero aiutare a guadagnare denaro velocemente, evitando di spezzarsi la
schiena da mattina a sera come in realtà fa la stragrande maggioranza delle
persone, quelle che non finiscono in televisione, perché la loro vita non
abbaglia, ma scalda come un plaid di lana nelle serate d’inverno. Dopo
aver letto questo brano di Elton, alcuni studenti hanno scritto: “L’articolo
fa riflettere sulla realtà di oggi: le persone considerano “bella vita” la
vita comoda, senza problemi e piena di soldi. Questa idea viene trasmessa
soprattutto dalla televisione. E una frase che ci ha colpito è questa: Il mito
della bella vita… ha come propulsore la necessità di denaro. Questo significa
che anche i furti, le rapine e gli omicidi continueranno a far parte della
nostra vita. Vale per gli immigrati che sono stregati dal mito della bella vita
e finiscono per usare metodi alternativi perché non vogliono rinunciare al loro
sogno… ma vale anche per noi che, nel nostro piccolo, veniamo illusi dalla
televisione”. Nel
terzo brano La galera raccontata attraverso un dente Elton parla del suo dente
che ha cominciato a fargli male in Albania e poi ha ripreso a dolergli in
galera, in Italia, dove la sua cura era molto, ma molto più complicata. Tanti i
passaggi compiuti per provare a risolvere il suo mal di dente con tanto di
infiammazione alla gengiva, ascesso e interventi del dentista per scavare il
dente e devitalizzarlo, prima che Elton si decidesse ad affidarsi a un dentista
privato. Non si può, né si deve uscire dal carcere in condizioni peggiori di
quelle nelle quali si è entrati. Mi
sono accorta di quanto gli studenti non comprendessero la drammaticità della
questione e la sua simbologia: quando il dente duole, loro vanno dal dentista,
quello di famiglia, che usa gli strumenti più moderni per diminuire il fastidio
di tenere la bocca aperta e l’accumulo di saliva, mentre cura il loro dente.
Qualcuno però prova a mettere a fuoco il problema: come occuparsi al meglio
della propria salute dentro un carcere? Come mantenersi in forma se si è in
spazi ristretti? Niente telefono per chiamare un dottore, prendere un
appuntamento, nessuna possibilità di accedere a una farmacia dove c’è tutto
per risolvere qualsiasi problema sanitario… Uno
studente mi ha scritto: “Prima di leggere i testi di Elton pensavo che la pena
dovesse puntare all’afflizione, magari non troppo violenta, poi mi sono
ritrovato a pensare che i detenuti sono persone comuni, come tutti noi, che però
ora sono private della libertà che diamo per scontata. Perché pensavo così?
Credevo nella Legge del Taglione, cioè che i carcerati dovessero pagare in
egual modo in base al reato commesso vivendo (se così si può dire) un periodo
della propria vita in reclusione. Ora penso che comunque questa sorta di legge,
è simbolo di un pensiero poco maturo e una concezione del perdono praticamente
inesistente, infatti è con il perdonare che si ricostruiscono e si saldano i
legami tra le persone. Prima pensavo che il carcerato, in quanto tale, si fosse
meritato quel “titolo” e poiché aveva deciso di affibbiarsi
quell’attributo, avrebbe dovuto subire la pena inferta da altri uomini.
Adesso, invece, penso che spesso un carcerato non vada a cercarsi quel titolo.
Ora come ora penso che sia sbagliato far soffrire le persone per cause umane,
perché i carcerati seppur tali, sono sempre dei cittadini, degli uomini e poiché
posseggono questo diritto universale e inalienabile hanno il diritto di non
essere privati della libertà di vivere in salute fisica e mentale. Hanno il
diritto di essere seguiti e aiutati, perché non sono uomini pericolosi, ma
soltanto delle persone che sono state deboli e non sono state in grado di
rispettare delle regole”. Questi
stessi studenti, che hanno letto i testi di Elton, hanno voluto venire a Padova
al convegno di maggio per continuare a capire il mondo che aveva cominciato a
occupare i loro pensieri, sbriciolando la loro indifferenza e incrinando le loro
sicurezze. Alla
Casa di Reclusione Due Palazzi sono stati gli studenti a pregarmi di presentare
loro Elton e così ho fatto. Ho visto le guance di Elton tingersi di rosso per
timidezza e imbarazzo di fronte a un gruppo di studentesse che lo squadravano
con occhi curiosi e attenti; ho visto Valentina allungargli la mano e stringerla
felice di dare un volto alla firma di quegli articoli che aveva così
apprezzato. Gli ha detto “Grazie” mentre Elton le rispondeva “Grazie a te
di essere venuta”. Ho pensato in quell’istante che la fatica di Elton non
era stata sprecata. Per Valentina niente sarebbe più stato come prima e confido
in lei e in quello che farà nei suoi giorni a venire. Mi
sono ritornate in mente le parole di un bellissimo articolo Oggi non vado al
campo sportivo nel quale Elton ha raccontato l’impossibilità di preferire il
passeggio alla redazione ogni martedì pomeriggio. Sa che dovrebbe tenersi in
forma, sa che dovrebbe stare anche all’aria aperta e una partita di calcetto
potrebbe essere l’occasione giusta, eppure alla fine non riesce ad
accondiscendere a questa idea, perché infinitamente più importante gli sembra
il compito che si è assunto dal suo ingresso in Redazione, insieme a Ornella
Favero e agli altri della Redazione, ossia quello di raccontare la galera agli
studenti, perché sappiano come è e chi la abita. Abbiamo
bisogno di buoni esempi per poterci fidare e per imparare davvero che la
competenza non consiste nel fare soldi, ma nell’offrire un servizio alla
comunità nella quale siamo chiamati a vivere. Per contrastare la capacità
persuasiva di vetrine, centri commerciali e televisione ci vogliono quelli che
Goffredo Fofi chiama esempi di radicalità che nascono dalle persone capaci di
raccontare i conflitti che hanno vissuto, i modi attuati per affrontarli e, per
quanto e come possibile, superarli. Elton
con la sua scrittura e la sua fedeltà alla Redazione di Ristretti Orizzonti
offre questo esempio di radicalità che ci aiuta a ben sperare negli uomini e
nel mondo. Per dirla ancora con Aurora Leigh, lui è un’anima che muove un
corpo e guida le masse a stalle più pulite, grazie a quell’ideale che rimuove
la grigia polvere della quotidianità. Quella carceraria. E
non posso pensare che il suo impegno in tal senso si concluda con la fine della
sua detenzione. Abbiamo bisogno delle sue parole, delle sue riflessioni, del suo
esempio perché lui sa e non dimentica, piuttosto insegna. Dopo
21 anni, la prima “libera uscita” Chi
vive la vita libera probabilmente non si accorge dei cambiamenti che succedono
giorno per giorno perché essi avvengono per gradi. Ma chi passa
all’improvviso da una realtà a un’altra la differenza la nota eccome di
Antonio Floris Dopo
ben 21 anni di pena espiata, ho avuto finalmente il primo permesso della vita.
Non un permesso per andare a casa ma un’uscita di qualche ora (dalle 9 alle
18) in gita scolastica. Gita organizzata dai professori per visitare a Padova
una serie di posti interessanti dal punto di vista culturale, a partire dalla
Banca Etica, all’Università, al Monte di Pietà, alla Basilica del Santo. Fare
gite scolastiche è sempre stato un fatto comune per tutti gli studenti di ogni
epoca, ma così comune non è se gli studenti sono dei detenuti. In pratica quel
giorno in quattro detenuti eravamo in giro per la città confusi tra la gente
senza che nessuno se ne sia reso conto. Meglio così, se no tanti di quelli che
vogliono che la pena sia scontata fino alla fine senza uscire mai, avrebbero
probabilmente trovato motivi per contestare. Fortunatamente nessuno sapeva chi
eravamo e quindi nessuno ha fatto minimamente caso a questo gruppetto di turisti
che si confondevano tra la moltitudine della folla. Turisti per altro molto
educati e rispettosi, visto che nessuno di noi ha fatto niente di illecito o di
scorretto, fosse anche il buttare una carta da caramelle per terra. Così è
trascorsa la giornata e alla sera siamo rientrati puntualmente in carcere senza
che sia successo niente di spaventoso e senza che nessuno degli abitanti della
città si sia allarmato. Detto
questo, l’impressione che ho avuto nel mettere piede fuori dopo tanto tempo è
stata quella di passare all’improvviso da un mondo a un altro, dimenticando
fin dai primi istanti che ero ancora un detenuto. Il vedere lo spazio aperto, la
gente che ti cammina a fianco, le macchine, le biciclette, fa dimenticare
immediatamente il carcere. Come non ci fosse stato mai. Come se il periodo
trascorso in carcere fosse stato un sogno. Un brutto sogno che finisce quando
uno si sveglia e non si ricorda quel che ha sognato. Essere
uscito fuori del perimetro del carcere e entrare tra la gente e tra le macchine
è la stessa cosa che andare in una città, in un mondo dove non si è mai
stati. Una città assai diversa però da come erano le città 21anni fa. Chi
vive la vita libera probabilmente non si accorge dei cambiamenti che succedono
giorno per giorno perché essi avvengono per gradi. Ma chi passa
all’improvviso da una realtà a un’altra la differenza la nota eccome. Basta
guardare le macchine così diverse da quelle che circolavano vent’anni fa. Le
cabine telefoniche non sono più a gettoni come le ricordavo io. Chiedo e mi
dicono che i gettoni non si trovano più da tanti anni, tanti che le generazioni
dei giovanissimi non li hanno mai visti. Per poter telefonare mi son dovuto far
spiegare come funziona la scheda, come tagliarla, come introdurla. Un’altra
cosa per me del tutto nuova è stata quella di prendere in mano gli euro.
L’euro ha iniziato a circolare nel 2002 che io ero in carcere e quindi fino al
giorno della mia uscita sia le monete che le banconote le avevo viste solo
ritratte sui giornali. Anche gli abiti della gente sono di foggia diversa dagli
abiti in uso venti anni fa. Il
giorno del permesso forse ero troppo confuso da questa ubriacatura di libertà
per capire il cambiamento che questa breve uscita avrebbe portato nella mia
vita. Prima di allora io ero convinto che, dati i miei “precedenti”,
permessi non ne avrei presi mai, e non prendendo permessi tanto meno avrei
potuto prendere altre misure alternative, tipo semilibertà o affidamento in
prova ai servizi sociali. Di conseguenza vivevo con la rassegnazione che dal
carcere sarei potuto uscire solo dopo aver espiato tutta quanta la pena, e
questo era fonte di non poche preoccupazioni. Il
trovarsi all’improvviso fuori dal carcere a fine pena, e non per gradi, mette
in difficoltà chiunque, perché si devono affrontare di colpo tutti i problemi
che inevitabilmente si presentano, a partire da quelli di elementare
sopravvivenza giornaliera, al lavoro, al reinserimento in famiglia, e la cosa è
tanto più difficile quanto più sono stati gli anni che uno è rimasto dietro
le sbarre. Ora
invece anche per me la visione del futuro è diversa. Gli anni rimasti da
scontare sono sempre gli stessi, ma con la differenza che posso in qualche modo
programmare il futuro. Dopo questo permesso spero di averne ancora, poi la
semilibertà e infine l’affidamento in prova, riuscendo così a reinserirmi
nella società in modo graduale, senza “traumi di adattamento”. Dopo
questa prima esperienza di permesso posso dire, senza paura di sbagliare, che il
permettere a qualcuno di gustare, anche se solo per poche ore, la libertà serve
a dargli una carica di coraggio e di speranza. Tanti ragazzi che si sono
suicidati o hanno compiuto atti di autolesionismo, forse non lo avrebbero fatto
se avessero avuto questa opportunità. Forse non sarebbero neanche scappati e
neanche avrebbero commesso niente di illecito. Il
messaggio da lanciare a coloro che sono per la linea del far scontare la pena
senza concedere mai nessun beneficio è che così le persone non migliorano
affatto, anzi si incattiviscono ancora di più. Il dare invece fiducia è il
modo migliore per la riabilitazione di chi ha sbagliato. I
magistrati sanno bene che è così, sanno che coloro che passano attraverso
l’esperienza delle misure alternative sono soggetti a delinquere molto, molto
di meno, di coloro che invece escono dal carcere solo a fine pena e si trovano
all’improvviso sulla strada senza soldi, senza lavoro, senza risorse. Lo
sanno, ma purtroppo devono scontrarsi con l’ostilità di coloro, e sono in
tanti, che ancora non si vogliono rendere conto che è così. Storie Dai
primi timidi assaggi, si arriva a un punto che non se ne può più fare a meno di
Fabio Montagnino Io
sono Fabio, ho 36 anni e mi trovo in carcere con una condanna all’ergastolo
per aver travolto con la macchina un poliziotto mentre ero in fuga dopo una
rapina. Devo precisare che questa è la seconda volta che entro in carcere. La
prima volta ero entrato con l’accusa di spaccio di stupefacenti (la causa non
è ancora definita). Per spiegare come mai sono arrivato a commettere questi
reati, voglio partire dal fatto che ero uguale a tantissimi altri ragazzi in
tutto e per tutto prima di arrivare a fare queste cose. A 15 anni ho concluso la
scuola media e poi, siccome la mia famiglia non aveva i mezzi per farmi
continuare gli studi, ho dovuto cominciare a lavorare. Già a 16 anni facevo il
commesso di abbigliamento in un magazzino all’ingrosso e così ho svolto
questo lavoro fino all’età di 26 anni. Poi mi sono licenziato e con i soldi
risparmiati in dieci anni abbiamo aperto (in società con un’altra persona) un
distributore di benzina con autolavaggio. Poi a 27 anni sono stato arrestato e
da allora fino a oggi non sono uscito più. La
mia “caduta” in carcere non è stata improvvisa, nel senso che io non sono
passato da un giorno all’altro dalla condizione di onesto e bravo lavoratore a
quella di spacciatore e poi rapinatore. Prima di compiere i 18 anni io non solo
non avevo mai commesso niente di illegale, ma addirittura disprezzavo quelli che
rubavano o spacciavano, il cambiamento è arrivato dopo i 18 anni. Con il
raggiungimento della maggiore età, appena ho preso la patente ho anche
acquistato la macchina. Con questa macchina (e tra l’altro ero uno dei pochi
della mia età ad averla) tutti i sabati sera andavamo in discoteca a Riccione.
Nell’ambiente delle discoteche si sa che gira un po’ di tutto, hashish,
marijuana, cocaina, ecstasy, e anche se uno parte con l’idea che lui non vorrà
mai neanche provare, prima o poi è facile che ci caschi. Posso dire che fra
tutti quelli che andavamo lì non ce n’era neanche uno che non ne faceva uso,
fra cui anche tantissime donne. Io
personalmente ho cominciato le prime volte con le canne, in gruppo, passandoci
la canna dall’uno all’altro. Le sensazioni che provavo erano di
spensieratezza e rilassamento, ma non solo questo, quello che contava di più
era il fatto di sentirmi uguale al gruppo. Dalle canne poi siamo passati
all’ecstasy, che è la droga classica delle discoteche in quanto ha come
effetto di non far sentire la stanchezza, di sentire la musica molto più
accentuata e far perdere le inibizioni. Dall’ecstasy siamo arrivati alla
cocaina, che si usa ugualmente per non far sentire la stanchezza, eccitare i
sensi, far venire coraggio. Così, succede poi che, dai primi timidi assaggi, si
arriva a un punto che non se ne può più fare a meno, o meglio non se ne vuole
fare a meno. Si arriva a un punto che, se manca la sostanza, qualunque essa sia,
la festa non è più festa. Siccome per avere queste sostanze ci vogliono soldi,
molti soldi, e i soldi guadagnati con il lavoro non bastano, si inizia prima a
spacciare e poi a fare altre cose anche più gravi. In questo contesto qui, i
miei primi reati sono stati qualche furto, poi lo spaccio di hashish e infine la
rapina per la quale mi trovo in carcere attualmente. Tutto
quello che ho raccontato è per dimostrare come si può SCIVOLARE in maniera
superficiale, quasi senza rendersene conto, da un modo di vivere legale e onesto
a commettere prima leggere trasgressioni come il fumare qualche canna, poi
trasgressioni più gravi come far uso di ecstasy, o cocaina, e infine reati come
furti, piccolo spaccio, poi rapine, a me è capitato di non riuscire più a
fermarmi e finire con un omicidio. Leggere
e scrivere in carcere Il
laboratorio di lettura e scrittura di Ristretti Rispetto
della Costituzione è anche non far restare senza parola la persona Un
gruppo di lettura e scrittura dove si vuole prendere di petto, per le corna,
direttamente questa nostra vita segnata e darle delle parole per capirla, per
dirla, quasi che attraverso le parole diventi qualche cosa di governabile, di
afferrabile di
Angelo Ferrarini, Conduce il
laboratorio di scrittura di Ristretti Le
regole del giornalismo (o del testo finalizzato, ma anche di un racconto)
insegnano che prima di scrivere un articolo devi aver ben chiaro il tuo
destinatario. Nel caso di una rivista sembra inutile: chi scrive su una rivista
di solito penserà di rivolgersi ai lettori di quella rivista. Allora perché lo
dico? Lo dico perché in realtà mi voglio rivolgere, come primi destinatari, ai
redattori stessi della Rivista e prima ancora a quelli che girano nelle stanze
di «Ristretti», i loro amici, i ragazzi del Corso di scrittura, che stanno
“scivolando” nelle attività e nell’area di «Ristretti». (quegli amici
sanno perché ho messo “scivolare” tra virgolette; gli altri penseranno a
qualcosa di strano – e in effetti lo è, come la vita è uno scivolare, via). Quelli
di «Ristretti» sono i nostri ospitanti, visto che il corso nel primo anno
(2009-10) si è tenuto nella grande bi-stanza di «Ristretti», piena di tavoli
e computer, di fascicoli e scaffali, di fermenti e voci e via vai di persone che
scrivono, si scambiano informazioni, si aggiornano velocemente (uno spazio
costruito nel tempo grazie agli sforzi delle stesse persone e della diffusione
di questo ricco e prezioso strumento di informazione). Il corso in effetti
gravita attorno a questa attività multipla, situata in quell’area del carcere
che si chiama “Centro di Documentazione Due Palazzi”. Lo
spazio dunque: questo potrebbe essere già il primo argomento di un corso di
scrittura e, a proposito di carcere, è un argomento essenziale, vitale (di
vita, della vita, da vivere). Bisogna imparare a condividere ogni spazio
(dividere con) e poi a guadagnarselo, utilizzando la grande arma pacifica tipica
di altri luoghi di concentrazione maschile: chi scrive è stato 13 anni in un
seminario cattolico e quindi gli vengono in mente collegi, conventi e monasteri,
ma ha fatto anche il militare in una caserma di Milano. Sempre in compagnia di
uomini, spesso violenti, impazienti, comunque attenti a non farsi rubare il poco
spazio condiviso e volentieri invece pronti a occupartelo, lo spazio, ma anche
l’aria o il corpo. Dunque luoghi dove ci si abitua ad attendere, dove si
esercita la pazienza e quella pazienza passiva che è il silenzio. Mi
capita durante i laboratori di citare spesso il mio seminario e i luoghi del
silenzio religioso (silenzio di solito lì accettato per libera scelta).
“Anche voi siete dei monaci”, suggerisco, “forzàti”, aggiungo. “Tutto
vi è imposto, castità, obbedienza. Forse povertà no, perché mezzi ne avete.
Ma una povertà più sostanziale sì: di chi non ha niente perché gli manca
tutto, la libertà. E questo lo avete detto voi in molti racconti, interventi,
con rassegnazione, poiché siete visitati dalla “grande nostra signora
infermiera”, l’Abitudine (ricordo ai poco esperti che i religiosi cattolici
fanno voti espliciti di povertà dai beni materiali, castità dai rapporti
sessuali, obbedienza ai superiori)”. Come
spesso abbiamo visto, cioè letto e pensato, in Italia i diritti (i
riconoscimenti dei diritti) sono legati al tempo. Se va bene, con il passar del
tempo la gente prende atto che ci sei, che esisti, che hai un ruolo e che meriti
dunque spazio adeguato. Un gruppo di scrittura ha bisogno di spazio protetto,
parola che in carcere è equivoca (i protetti, in galera, sono gli autori di
reati sessuali e i collaboratori di giustizia, chiusi in sezioni particolari per
“proteggerli” dai detenuti comuni), ma che qui (in questo articolo) uso come
spazio chiuso, silenzioso, non da condividere in contemporanea con altri. Lo
spazio per un gruppo di scrittura è essenziale. Tutti gli esperti di
autobiografia attiva, di scrittura clinica, di lavoro in gruppo insistono sulla
funzione spaziale come dimensione esterna ma eloquente, attiva, viva. Il
secondo anno di vita del gruppo ha visto un nuovo spazio, la cosiddetta “aula
computer”. Prima quasi come eccezione e poi, a poco a poco, è diventata
nostra. Necessità fa virtù, si dice: è un proverbio antico dove necessità
indica le leggi delle cose, quello che ci capita e non scegliamo. E virtù
indica non le buone abitudini ma le possibilità (potenzialità) nascoste nelle
cose che ci capitano addosso. E in effetti l’aula computer, piena di tavoli in
apparenza, ci ha dato uno spazio adatto. E dalla necessità del poco spazio è
nata l’idea di non usarli per niente i tavoli, ma di stare e di metterci in
cerchio. E così da allora siamo sempre in tondo, cavalieri della tavola
rotonda, “pari”, ma senza tavola e senza re (anche se non senza regole), ma
in gruppo circolare. E per i nostri discorsi, parole, letture il cerchio va
molto bene. A volte si dice “far circolare il discorso”. Da noi circola e
circola bene. E non solo il discorso, ma anche solo piccole parole, cenni,
sguardi. E quindi il gruppo funziona. E per aiutare a scrivere va molto bene che
funzioni. A scrivere, ma anche a comunicare, a dirci le impressioni dopo una
lettura, dopo un intervento. Gruppo?
in un certo senso sì, ma mobile. Non solo perché si sposta, ma perché si
gonfia o si riduce, respira, è un gruppo vivo, contratto o dilatato dalle
necessità, circostanze, incombenze. Non è una classe. Ci stiamo abituando a
controllare, scoprire, guardare le parole. Tutti sappiamo la parola classe, ma
non l’abbiamo mai usata. Troppo scolastica, anche in senso corretto: noi non
siamo una classe, una formazione compatta e ordinata in un’aula deputata,
destinata. Siamo presenze che vanno e vengono, ci siamo oggi, la prossima
settimana non siamo sicuri di esserci. Spesso
succede di portare testi da leggere al gruppo di persone che non ci sono. E
allora si rinvia tutto. Ci si riprogramma. Il gruppo è un tipo di classe, di
scuola, dove non si deve mai esser certi di quello che si farà la volta
prossima. Il gruppo è una scuola speciale, una classe speciale, cioè con una
sua specialità: non si sa con sicurezza cosa si farà la volta seguente. Lo si
può dire in generale: leggeremo, scriveremo, anche magari l’argomento: il
viaggio, la lontananza. Ma bisogna tener conto della vita attorno, che è vita
carceraria, reclusa e con altre “probabilità e imprevisti” (come dice
Maurizio Maggiani della giornata-Monòpoli di un suo personaggio – che abbiamo
letto recentemente). Ci possono essere delle priorità: visite, controlli,
scadenze: colloqui, visite mediche magari specialistiche, sportelli (sportello
giuridico per esempio). Per cui una persona su cui contavi per un intervento,
non c’è. È stata chiamata. E non è detto che il gruppo sappia dov’è
finita. Di solito un compagno di sezione lo sa e lo dice. Gruppo
di amici? Non ancora o non necessariamente. L’amicizia non si può
programmare. Può certo nascere nel gruppo, ma non è l’obiettivo di un
“gruppo di lettura e scrittura”. La frequentazione fa nascere dei buoni
rapporti, una confidenza, una disponibilità, che col tempo cresce. Abbiamo
sempre parlato di mettere in comune, di con-dividere. Questo sì, ma senza
forzature, senza obblighi. Come
non c’è obbligo di scrivere. L’unico obbligo, se partecipi, sia quello di
ascoltare: ascoltare gli altri, le parole, il senso delle esperienze lette e
comunicate. Da questo silenzio-ascolto nascerà la capacità di fare domande, di
capire. La scrittura nasce dal silenzio e dall’ascolto, cominciando da vedere
come si fa, come si può scrivere e che cosa c’è da comunicare. Da qui
nascono i perché e quindi il senso del nostro stare qui. Ogni
tanto qualcuno lo chiede. Qualche nuovo iscritto al gruppo, giunto da poco si
chiede e poi mi chiede: che cosa si fa, che cosa si impara qui? È interessante
questo, perché si capisce che in un ambiente così stretto e frequentato come
il carcere nascono e nascano delle informazioni e dei suggerimenti. Ci si
influenza e si creano delle mode. Si va in palestra, si fanno attività di
lavoro, si può andare a un gruppo dove si legge e si scrive. No, non è una
scuola di italiano. Oppure sì, in un certo senso. Il
nostro è un gruppo di lettura e scrittura. Ve ne sono altri in carcere, cioè
qui da noi: c’è un gruppo di lettura (guidato da alcune insegnanti) legato
alle attività della Biblioteca: lettura di racconti, romanzi, libri, ascoltati,
commentati, discussi e poi dati in lettura privata, in cella. C’è un gruppo
di scrittura con un attore e scrittore (De Vita) che ripercorre i classici
italiani e poi invita a scrivere riflessioni, temi, elaborati su quanto visto. La
nostra attività, arrivata al suo terzo anno, si è definita nel tempo come
“scrittura narrativa” – nome più vicino alla realtà, a cui con il tempo
abbiamo aggiunto un altro, “lettura”. Dunque gruppo di lettura e scrittura.
Lettura come punto di partenza e scrittura come conseguenza. Lettura, quindi
ascolto, da cui nasce la scrittura come risposta. Scrivere diventa quasi un
rileggere, andare a fondo in quello che si è letto assieme e ascoltato. Prima
si ascolta, poi si reagisce e poi si scrive. La scrittura diventa un modo di
pensare e soprattutto di ricordare. Da parola nasce parola, da testo nasce
testo, da cose dette cose da dire (da cosa nasce cosa, una parola tira
l’altra…). Ogni
tanto questo tragitto lo chiamiamo viaggio e ci siamo accorti che le sedie
davano al gruppo la forma di larga barca. Facile pensare a un mare e a un
viaggio. Questa sensazione diventa anche certezza. Ogni volta che ci troviamo
(il mercoledì mattina dalle 9 alle 11) sentiamo che stiamo iniziando un nuovo
percorso. Visto che non siamo sicuri di esserci, si ricomincia sempre con chi
c’è. Però la volta dopo distribuiamo a chi non c’era i materiali
(fotocopie) distribuiti la volta prima. In modo che tutti abbiamo sempre tutto. Non
leggiamo infatti nulla se non in copia scritta per tutti. Ogni
volta siamo all’inizio di un viaggio, come se stessimo seduti su una barca,
attraccata al piccolo porto, ferma, fermi a parlare di mare e di pesce. La barca
è un’altra bella metafora (questa parola la usiamo spesso), adatta a molte
situazioni. Il gruppo fa dunque esperienza di parità, di uguaglianza: la barca,
il viaggio, la sorte ci parificano, e la lettura, l’ascolto e la condivisione. Il
gruppo si trova a parlare, ascoltare e di nuovo a parlare, in tre momenti in
successione che scadenzano il suo lento muoversi e divenire. Questa lentezza è
adatta a mettere in comune parole, esperienze, pensieri, nel rispetto di tutti,
cominciando dalle parole che fluiscono e che hanno bisogno di caduta e di
lentezza per essere assorbite, comprese (prese con). Spesso ritorniamo sulle
parole per spiegarle, per dilatare il significato, come un panno, un telo da
aprire per non lasciare le cose nascoste, occulte, oscure, confuse. C’è
anche il senso di dovere e di obbligo: il nostro è un impegno preso, quello di
venire al gruppo, a stare con una persona di cui si ha fiducia e con altre che
si conoscono poco o appena, con cui si ha voglia di condividere qualche cosa. L’oggetto
della condivisione viene definito volta per volta e nella successione degli
incontri diventa sempre più chiaro. Se ne parla in modo esplicito quasi sempre.
Spesso ci si interroga sulla questione di fondo: sul nostro essere lì, senso,
modalità, scopo. Perché siamo qui, a che cosa serve, perché scrivere e ancora
prima perché parlare, dire, far uscire le cose. E così parliamo di “prima
della scrittura”. Perché l’uomo ha inventato la parola, perché è passato
dal grugno, dal ghigno, dal muso, dal gesto, dal suono indistinto e vago e
equivoco alla parola. E
allora escono motivazioni vere: si viene per imparare, per ascoltare argomenti
utili, per parlare di argomenti diversi da quelli quotidiani di cella, per stare
lontani dal clima asfittico, noioso, a volte rancoroso della vita ristretta, per
trovare un clima umano, dignitoso, rispettoso, per sentire parole nuove, la
lingua italiana nella sua ricchezza e varietà, per imparare a scrivere meglio.
“Per fare una cosa che non ho mai fatta”, dichiara Alain, “scrivere. Non
ho mai scritto in vita mia e invece qui mi capita e così ho scritto tanti
capitoli della mia vita”. E
si parla naturalmente della causa materiale che ci fa essere lì, il carcere, le
sue condizioni, costrizioni, caratteristiche, con le idee che ti fa nascere, il
desiderio di volo e di libertà, magari ispirato dai gabbiani che affollano il
muro di cinta – che ci fanno i gabbiani qui? (il mare è a 50 km). Non
è sempre stato così. Il primo anno pensavo di organizzare un vero e proprio
corso di scrittura, come “fuori” (ne conduco anche a Padova presso un
circolo Arci, la “Lanterna Magica”: si chiama “Piccola Scuola di
Scrittura”, avviata nel 1993 da Giulio Mozzi e Roberto De Gaspari). La gente
che sceglie un gruppo di scrittura, fuori dal carcere, ha delle motivazioni
abbastanza vicine alla scrittura narrativa, di racconti cioè: vuole imparare a
scrivere un racconto, vuole migliorare, migliorarsi nella direzione della lingua
italiana scritta finalizzata al racconto (o anche al romanzo – molti hanno il
libro nel cassetto, anche se subito non te lo dicono). Alcuni vengono per
scrivere meglio i racconti ai propri bambini, il bancario perché è tanti anni
che scrive solo “scritture funzionali”, pratiche, bancarie; la maestra perché
vorrebbe pubblicare una raccolta di racconti autobiografici, lo studente
universitario perché vuole partecipare a un concorso, il giornalista, il
redattore di una casa editrice, il pubblicitario, la ragazza disoccupata ma
forte lettrice, la casalinga che vuole uscire di casa (“perché avevo libera
solo questa sera”). In
carcere è diverso e nel carcere padovano “Due Palazzi” sarà diverso
ancora: qui c’è un fattore fisico, spaziale e concreto, fatto di sette
ambienti, il “Centro di Documentazione” appunto, dove tutti i giorni si
parla di leggi e di diritti, di problemi e di mala informazione, si incontrano
esperti e scuole, si racconta la colpa e la pena. Il racconto precede il corso.
I detenuti si raccontano da anni, prima tra loro, nel gruppo che hanno
costituito come Redazione, poi alle classi delle scuole che arrivano. È
facile quindi pensare a un gruppo di scrittura. E così vengo alle mie
motivazioni, visto che ho proposto un giorno, alla ex collega di scuola Ornella
Favero e direttrice (io la chiamo “la mia preside”), di venire al carcere.
Seguirono mesi di silenzio (mio) in cui ho pensato alla forma del laboratorio. E
a poco a poco mi sembrava chiaro, molto vicino appunto alle tante scuole di
scrittura. Ma più si avvicinava la data e più temevo di non essere
all’altezza dell’incarico (in realtà dell’ambiente). E così rinviavo
sempre. Comunque
ho cominciato. E dico subito, con il piede sbagliato. Cioè ho proposto tale e
quale un corso di scrittura, partendo subito con sintetici elementi teorici,
cos’è un racconto, struttura, caratteri e possibilità. E poi il personaggio,
e poi il dialogo… ma qualcosa non funzionava per fortuna da subito e così ho
dovuto aggiornare il mio programma mentale. Le persone avevano altre esigenze e
io ho dovuto adattarmi. Innanzitutto
sui tempi del lavoro. Non era possibile, non è possibile, determinare un tempo
breve, limitato, con un programma definito: 7 incontri non dico su “Il
personaggio”, ma anche su “Il racconto breve”. Perché in carcere le
persone che partecipano alle attività libere cambiano, vanno e vengono di
settimana in settimana diverse, non ci puoi contare, non ci sono o arrivano
persone nuove e devi ricominciare (ritornello già detto sopra). La
seconda cosa è il livello culturale, di preparazione, di scuola, di formazione
di provenienza, di lavoro, delle persone. C’è troppa disparità per partire
subito con un corso specifico. Allora cosa si fa? Corso di grammatica, di
cultura generale? No. Si parte con calma, a piccoli passi, con brevi testi, con
la richiesta di brevissime scritture. E poi chi dà di più impara a donare, chi
è timido si sente rispettato ma capisce che deve smuoversi ecc. Il fatto è che
si finisce sempre per parlare di sé, perché il proprio “implicito” (cito
la nostra prof padovana Paola Milani, Pedagogia generale) è la vita che abbiamo
davanti con tutti i suoi limiti e condizionamenti: siamo in carcere, di cosa
vuoi che parliamo? Se non è del carcere (“basta parlare del carcere”,
diceva Antonio, uno dei primi corsisti di due anni fa) sarà di tutto quello che
mi ha portato qui. Scrittura
autobiografica dunque? Certamente. A che pensa un carcerato? Cosa fareste voi
che state leggendo e non siete costretti-ristretti? Chi ha sbagliato nella vita
ed è stato trovato e scoperto nel suo crimine, si deve sentire fossilizzato in
quel ruolo, è una situazione dantesca: lui è il suo crimine, piccolo o grande,
lui è quello che nella e della sua vita ha fatto quella cosa lì, quella serie
di azioni, comportamenti criminosi e criminali - definiti, dettagliati,
descritti, fotografati, condannati, espiati (in via di). È quasi costretto
dalla sua situazione – che gli ricorda sempre il motivo del suo stare (sempre
più) ristretto – a meditare o solo pensare (pensare c’entra con peso) alla
sua vita. Non
è narcisismo (ecco un altro personaggio delle storie che ci raccontiamo,
Narciso appunto), ma sostanza. Se si decide di frequentare un gruppo questo
nostro abito sostanziale, divisa mentale, ecc., diventa qualche cosa d’altro,
almeno nella intenzione: la si vuole prendere di petto, per le corna,
direttamente questa nostra vita segnata e darle delle parole per capirla, per
dirla, quasi che attraverso le parole diventi qualche cosa di governabile, di
afferrabile. Il “chi sono io?” può ricorrere a delle parole, a dei
personaggi, a delle storie di altri, che mi daranno sensazioni simili, parole
simili, possibilità dunque di capire meglio e di esprimermi. Questi
ragionamenti escono ogni due volte ci troviamo nel piccolo gruppo della
scrittura. Sempre
leggendo e scrivendo, nel gruppo e fuori, ci imbattiamo nella nostra vita: è lì
“bella” davanti - e tante cose, racconti, nomi, parole, trame arrivano a
ricordarcela, ma ascoltando e leggendo le storie antiche (Gilgamesh, Ulisse…)
o i racconti moderni (Calvino, Buzzati…) , anche le fiabe (Cappuccetto Rosso),
impariamo a definire le cose, a dare nomi nuovi e sfumati alle situazioni. Così
lavoriamo sui nomi e sul loro significato. Nomi propri o nomi comuni, con tutta
la loro storia (o etimologia). Ogni
tanto porto dei fogli pieni di nomi simili, di sinonimi, su un argomento vicino
alla vita del carcere: sono partito dal nome stesso “carcere” e ho trovato
due pagine di sinonimi, con tutte le situazioni possibili legate al concetto di
base: abbiamo così scoperto che la reclusione è legata all’esclusione: le
parole girano attorno a questa vita altrove, ma tagliata fuori e non per scelta
nostra, ma imposta dalla società che non ci vuole vedere per un po’ di tempo
o per sempre. Si
scopre, cominciando a scrivere, che le parole sono davvero fondamentali e
utilissime e sfumate. Si comincia ad apprezzare il vocabolario, non quello dei
significati, ma dei sinonimi e dei contrari. Mettendo in fila dei nomi salta
fuori il pensiero, la realtà ma anche quello che possiamo pensare. Il
vocabolario mi dà delle idee: datemi dunque una parola e mi metterò a
scrivere. Datemi delle parole. Avere
delle parole a disposizione comincia a diventare un diritto e chi ne ha di più
ha il dovere di portarle. Dare la parola non è solo un diritto democratico, in
una riunione, ma di base, ormai per la natura stessa dell’essere umano.
Diritti e rispetto della Costituzione è anche non far restare senza parola la
persona. Da
queste premesse si capisce che l’avventura continua e da quest’anno vogliamo
prendere più coscienza che il gruppo-corso di scrittura sta diventando sempre
più nettamente di taglio autobiografico. Per questo e con questo è arrivata
una collaboratrice che saluto da qui, la dott. Donatella Erlati, già ben
accolta, e che si occuperà di quell’aspetto che potremmo chiamare
“Scrittura clinica”. Ma
questa è ancora tutta un’altra storia, da scrivere. Al
prossimo contributo quindi, probabilmente a quattro mani. La
vera continuazione di questo articolo, cioè il prossimo nel prossimo numero,
saranno i testi dei protagonisti. Grazie a loro sono qui. Donne
Dentro Lei
mi aveva completamente sotto controllo “Lei”
è l’eroina, e a raccontare una dipendenza già feroce nonostante la giovane
età è Vanessa, che risponde dal carcere a tante domande degli studenti di
Vanessa Vanessa
ha solo ventidue anni, sembra, o meglio è poco più di una ragazzina, con un
sorriso solare e però la tristezza della galera stampata in faccia. Non si
può stare in galera a vent’anni, verrebbe da dire, ma la droga non risparmia
nessuno e, con l’attuale legge, le porte del carcere si aprono anche per
ragazzi giovani. Noi i ragazzi giovani cerchiamo invece di portarli dentro in
modo diverso, per confrontarsi con le persone detenute, per sentire le loro
testimonianze, per allenarsi, sentendo le loro storie, a fermarsi in tempo, a
“pensarci prima” di scivolare in comportamenti che espongono al rischio
della galera. Vanessa ha provato a rispondere alle domande, preparate dagli
studenti delle scuole superiori. Qual
è stata la prima sensazione che hai avuto appena entrata in carcere? La
prima sensazione è stata il senso di smarrimento, come camminare su
un’autostrada con gli occhi bendati, non sapevo cosa fare, come comportarmi,
cosa mi aspettasse. In
carcere hai avuto paura? Proprio
in questo periodo vivo le mie giornate accompagnata da un gran senso di paura.
Sono finalmente nei termini per poter usufruire dei permessi premio, ma davanti
mi è stato messo un ostacolo. Parlando con l’educatrice e l’assistente
sociale, mi è stato detto che per colpa del mio passato di tossicodipendenza e
la rinuncia alla comunità, mi sarà negato questo beneficio. Sentirsi mancare
il pavimento da sotto i piedi è una sensazione bruttissima, ho visto le
immagini della mia famiglia, delle persone che amo e della vita stessa
abbandonarmi svanendo nel buio più totale. Senza
dei progetti realizzabili, senza aspettative, senza speranza nulla ha più
senso. Arrivata a questo punto però una lucina si è accesa improvvisamente da
quel buio profondo. Ornella mi ha proposto un’idea: tentare di chiedere un
permesso riguardante un progetto nelle scuole. L’unica cosa che può
combattere la paura è la speranza. Cosa
si prova a stare isolati da tutto? Io
personalmente provo tristezza e impotenza. Ti
manca qualcosa o qualcuno della vita passata prima del carcere? Mi
mancano tante cose, direi quasi tutto. In particolare il mare, mi sono sempre
chiesta come non riuscivo ad apprezzarlo abbastanza. Il silenzio totale che
c’era sulla riva all’alba, che veniva interrotto solo dal fruscio delle
onde, i riflessi del sole sulla superficie dell’acqua, un effetto come
migliaia e migliaia di cristalli che si lasciano coccolare dalle onde. E la
sabbia? Così fastidiosa quando entra nelle scarpe o si attacca al corpo quando
è bagnato, beh… cosa darei per poter provare ancora quella fastidiosa
sensazione! L’odore stesso del mare e il suo modo profondo di essere. Dire
che sento la mancanza della mia famiglia è scontato, la loro lontananza è il
vuoto più grande che ho dentro. Non
ti sei mai chiesta come vieni vista dalle altre persone? No!
Forse non me lo sono mai chiesta, perché mi interessa veramente poco, detesto i
pregiudizi con cui siamo costretti a vivere per colpa di persone ignoranti,
prima di giudicare una persona bisogna conoscerla. Eri
cosciente del fatto che, dal momento dell’ingresso in cella, la tua vita
sarebbe cambiata? Che non potevi essere libera? Ero
cosciente del fatto che sarei stata privata della mia libertà, ma è con il
tempo che ho cominciato a capire il vero senso della parola e tutto ciò che è
legato ad essa. All’inizio pensavo solo che l’unica costrizione sarebbe
stata non poter uscire dalle quattro mura, ma poi mi sono resa conto che è
molto più di questo, cioè dover informare sempre le agenti di dove sono e cosa
faccio, chiedere il permesso per fare qualsiasi cosa, rispettare le varie regole
(anche quelle più assurde) per non rischiare un rapporto. Un’altra cosa
pesante è la convivenza che a volte è davvero forzata. Anche questa è una
forma di privazione della libertà, perché se potessi decidere, invece di
vivere assieme a certe persone, le terrei alla larga. Ti
senti diversa? Sentirsi
diversa? è dire poco, secondo me vivere in un luogo circondato da sofferenza
aiuta a fare un viaggio interiore. Se prima guardavo chi aveva di più e ne
soffrivo, ora avendo ascoltato e visto alcune storie posso solo ritenermi
fortunata. Sono due anni che non faccio uso di sostanze e davanti a me è
apparso un mondo molto diverso, fatto di ostacoli e responsabilità, questo non
mi spaventa perché è la prova che devo affrontare se voglio migliorarmi. Ora
riesco anche a controllare la rabbia, cosa a cui prima davo libero sfogo senza
guardare chi avevo davanti o se stavo facendo la cosa giusta. Un’altra cosa
(per me più importante) è che ho cominciato ad avere paura dell’eroina, mi
spiego meglio... non ho paura della droga in sé, ma delle conseguenze. Lei mi
aveva completamente sotto controllo (e non mi vergogno ad ammetterlo). Per
averla ero pronta a fare qualsiasi cosa e ad andare contro a tutto e tutti, non
avevo più rispetto di me stessa e non curavo più la mia persona, ero bugiarda
da far paura ed ero in grado di mentire alle persone che proprio non se lo
meritavano. Il peggio era che mentivo a me stessa, mi dicevo: “Io lo faccio
perché mi piace, non perché ne ho bisogno, un giorno quando avrò un figlio
smetterò, non ci vuole niente, no! Io non farò la fine degli altri tossici!
Perché io sono diversa!”. Guardavo mia madre in lacrime che continuava a
chiedersi che cosa avesse sbagliato e cosa avesse fatto di male per essersi
meritata tutto questo, e cosa facevo io? Raccontavo bugie… “Mamma scusami,
ti prometto che smetto”, ma non ho mai mantenuto la parola data. Insomma ho
paura, perché non voglio costruirmi giorno dopo giorno un destino di tristezza,
autodistruzione e solitudine, per poi magari rendermi conto di non essere
servita a niente. Quindi si, mi sento diversa, perché ho capito dov’è il
potere di impedire che il passato torni a prendermi, ce l’ho io quel potere. Quando
uscirai dal carcere quale sarà la prima cosa che farai? La
prima cosa che farò sarà passare del tempo con mia madre e la mia famiglia,
abbiamo tanto tempo da recuperare e tanti bei ricordi da far nascere. Poi, ho
una cosa in sospeso, per colpa delle tante bugie, la volta che ho detto la verità
non sono stata creduta e ho perso la persona che amavo. Mi sono messa l’anima
in pace perché questa è una di quelle volte che non si può tornare indietro,
è una di quelle volte che persa la fiducia non la si recupera più, però
voglio ancora tanto bene a questa persona che ora è in comunità e vorrei
raggiungerla per poterla vedere, sapere come sta, scusarmi per il male che le ho
fatto e poterle dire di persona che sarà per sempre parte del mio cuore. Le
visite di familiari/amici/persone legate affettivamente, provocano dolore? Le
visite dei familiari provocano dolore, ma è un dolore “buono”, perché
riportano la mente al pensiero che loro ci sono lì ad aspettare il tuo ritorno,
e questo fa sia male che bene. Come
ti fa sentire lo stare insieme alle persone che magari hanno commesso il tuo
stesso errore? Mi
fa sentire capita, cosa che non capita spesso in questo posto, poi è anche un
aiuto perché è più semplice capire i propri errori guardandoli da una
prospettiva diversa. Sei
pentita di ciò che hai fatto, che ti ha portato in carcere? Se si, quanto tempo
è passato prima di pentirtene? E cosa è successo, perché è avvenuto il
pentimento? Mi
ci è voluto parecchio tempo per pentirmi, esattamente un anno, è successo dal
momento che ho preso consapevolezza di tutti i sacrifici che la mia famiglia ha
fatto, sta facendo e continua a fare per me. Invece di pensare a loro stessi
stanno dedicando la loro vita a me e il minimo che io possa fare è dedicare la
mia a loro, prima non capivo che non ero sola e le conseguenze delle mie azioni
non le avrei dovute affrontare solo io. Ho 22 anni e sto passando la mia gioventù
tra quattro mura, quando avrei potuto avere il mondo tra le mani, imparare, e
imparare a fare tante cose, viaggiare potendo vedere posti paradisiaci invece di
accontentarmi di vendere droga per farmi. Quanto
senti il “tempo che passa”, o quanto, invece, “che non passa”? È
semplice… quando la mente è impegnata, “il tempo passa” tra la scuola, il
lavoro e i vari corsi, ai colloqui non ne parliamo, il tempo non passa, vola! Invece
i momenti più brutti, dove il tempo non passa mai, sono la mattina quando mi
sveglio dopo una notte fatta di sogni, l’unico momento in cui “a volte” mi
sento libera, ho scritto “a volte” perché spesso anche nei sogni mi ritrovo
in carcere. Un altro momento pesante è la sera prima di addormentarmi, penso e
riaffiorano i ricordi del passato, le persone che conosco o che ho incontrato
nel mio cammino, penso a come avrei potuto fare per evitare di finire qui, e a
cosa farò quando uscirò. Cosa
vorresti migliorare del sistema carcerario? Sarebbero
tante le cose da cambiare del sistema carcerario. Per me una delle più
importanti è perché ci sono delle carceri dove ci tengono chiusi 22 ore su 24,
dove non ci sono corsi, possibilità di lavoro e tante altre cose, quindi negano
la possibilità ai detenuti di sfruttare il loro tempo per qualcosa di
costruttivo, di farli crescere interiormente e di fare in modo che si accorgano
che hanno delle qualità da poter utilizzare un giorno fuori, per dare un senso
alla loro vita evitando così il rischio di ricommettere gli stessi errori.
Se
dovessi uscire domani, avresti paura di ciò che ti aspetta fuori? No,
anzi, non vedo l’ora di affrontare il mondo esterno, se sono riuscita a
sopravvivere anni in questo posto, potrò farlo sicuramente anche fuori. Ci
sono screzi o conflitti all’interno del carcere? Sono più frequenti quelli
fra detenuti o quelli fra agenti e detenuti? Come li vivete? Eccome
se ce ne sono!!! I conflitti sono più frequenti tra detenute, perché con le
agenti spesso si preferisce mandare giù il rospo per evitare discussioni e
guai. La convivenza non è facile per le diverse abitudini e modi di pensare, e
a volte c’è proprio l’incompatibilità di carattere. Essendo i conflitti
una cosa all’ordine del giorno, mi ci sono abituata e non mi fanno né caldo né
freddo, se capitasse a me, anche se non è assolutamente facile, cercherei di
controllare la rabbia, per nessuno e per nessun motivo vale la pena perdere 45
giorni di sconto di pena in un semestre. Come
ti sei sentita al momento dell’arresto? Al
momento dell’arresto mi sono sentita in trappola, piena di così tante strane
sensazioni di cui non conosco neanche il nome che si annullavano l’un
l’altra facendomi sentire di conseguenza vuota. Hai presente quando vedi un
fantasma o la sensazione che hai quando ti succede qualcosa che non comprendi?
Beh, è stato così, ho sentito tanti brividi di freddo percorrere tutto il
corpo dalla testa ai piedi. Qual
è il tuo pensiero costante nelle tue giornate? Il
pensiero costante nelle mie giornate è tenermi impegnata per non pensare e
cercare di avere sempre il sorriso per mettere di buon umore chi ho vicino. Hai
fiducia in te stessa? Questa
domanda è molto difficile… proverò a cominciare così. Da quel che ricordo
avevo pochissima fiducia in me stessa, poi nel periodo del “mondo
immaginario” della droga mi sentivo a posto con me stessa e fiduciosa. Quando
sono stata arrestata e stavo riprendendo coscienza della realtà, della fiducia
in me stessa non era rimasta traccia, da un po’ di tempo a questa parte ci sto
lavorando e comincio a vederne i risultati, ma la strada è molto lunga e il
lavoro è molto impegnativo. Se
ti sei sentita in colpa, sei riuscita a perdonare te stessa? Si,
ho perdonato me stessa su alcune cose su altre no, riguardo la mia famiglia potrò
perdonarmi solo quando mi si presenterà davanti la tentazione di farmi, e sarò
stata capace di rinunciarci definitivamente. Per aver tradito la fiducia della
persona che amavo non so se riuscirò a perdonarmi, in ogni caso non l’ho
ancora fatto. Ma certo i sensi di colpa restano, per aver dato sofferenze alla
mia famiglia invece di renderli fieri e orgogliosi di me. Per non essere stata
corretta, seria e sincera con chi credeva in me, verso me stessa anche, che mi
sono sottovalutata e non mi sono mai messa alla prova per potermi dimostrare chi
sono veramente. Ti
fa più paura il passato o il futuro? Il
passato è passato, ma ho la paura che il futuro possa diventare come il passato
semplicemente commettendo gli stessi errori. Vedi
il carcere come una condanna, o come una opportunità per cambiare vita? Lo
vedo come condanna “un po’ esagerata” per ciò che ho fatto e come
opportunità di cambiare vita, perché per fortuna sono riuscita a mettermi dei
freni, ho molto tempo per pensare e capire tante cose. In
passato avevi mai pensato di poter essere rinchiusa? No…
ero totalmente incosciente, continuavo a pensare: non mi prenderanno mai!, non
sanno neanche chi sono, io sono più furba. Invece c’è sempre qualcuno più
furbo. Hai
paura che la tua famiglia si vergogni di vederti in prigione? Si,
ne ho il dispiacere più che la paura, lo vedo chiaramente che i miei genitori
se ne vergognano, ma sono sicura che lo supereremo insieme. Il
reato per cui sei qui, si poteva evitare di commetterlo, ragionandoci meglio? Si
poteva evitare, ma nelle condizioni in cui ero era impossibile ragionarci. Che
rapporto hai con le altre detenute? Con
alcune non ci parlo neanche a parte il saluto, con altre ci passo del tempo, ma
non hanno un valore affettivo, con una in particolare invece sono molto legata,
c’è un rapporto di rispetto reciproco, c’è complicità, è più grande di
me di 30 anni e la sento come una mamma un po’ severa e pignola, ma tanto
dolce. Poi ci sono due ragazze che reputo “amiche”, con una tutto ok,
l’altra ha la capacità di farmi arrivare il sangue al cervello… ha un
caratterino! però le voglio bene e non riesco a farne a meno. In
carcere hai ancora alcune libertà? L’unica
vera libertà che si ha in carcere è solo quella di pensiero, che mai niente e
nessuno potrà incatenare. In
questa situazione che stai vivendo, lontana dagli affetti, dal mondo esterno,
cosa tiene viva la speranza? Tiene
viva la speranza sapere di non essere sola, sapere che posso fare tanto per le
persone che mi amano e non mi hanno mai abbandonata e la tanta voglia di vivere. La
scrittura per testimoniare il sovraffollamento Lettera
aperta ai detenuti che vivono in carceri sempre più sovraffollate Nel
vedere in questi ultimi anni spostare fantasiosamente i numeri della “capienza
tollerabile” da 61.000, a 64.000, a 69.000 “posti letto”, la sensazione è
che il sovraffollamento scompaia e ricompaia in un triste gioco sulla pelle di
chi, in questi anni, sta in galera, ammassato in condizioni spesso disumane. La
redazione di Ristretti Orizzonti ha allora pensato di lanciare un invito ai
detenuti, a TESTIMONIARE IL SOVRAFFOLLAMENTO con i loro racconti, perché la
scrittura resta, e forse così resterà anche la memoria di questi tempi bui, e
di un sovraffollamento che esiste eccome, al di là dei giochi di prestigio con
le capienze. L’unico
modo che abbiamo per raccontare la nostra non-vita è la scrittura Quando
si sta stretti, il vero problema non sono i metri quadrati della cella che si
riducono, ma il regime di vita che tiene le persone stese in branda per più di
venti ore al giorno, la monotonia della quotidianità che abbrutisce le persone
e la mancanza di attività. E nessun esperto – psicologo, assistente sociale,
giornalista, giudice – sarà mai in grado di spiegare i sentimenti e la
sofferenza di chi vive tali esperienze. Ecco
perché il racconto scritto diventa uno strumento ideale per informare i
cittadini su ciò che sta succedendo oggi nelle carceri: le nostre storie
descrivono i problemi con cui deve fare i conti una persona qualsiasi che
dovesse entrare oggi in un carcere italiano. Scrivere
di sovraffollamento significa anche raccontare la morte – i suicidi, tentati e
riusciti, ma anche le malattie curate male – che continua a portare via
qualcuno di noi. Soltanto che le morti che ci ritroviamo a raccontare non sono
causate da un sovraffollamento misurato sulla superfice di cella che spetta ad
ognuno: a uccidere è il malessere delle persone, che non trova rimedio, che non
trova ascolto. E allora la scrittura ci viene in aiuto per raccontare al mondo
come un uomo è morto dopo aver inutilmente cercato di convincere il medico che
aveva un dolore preoccupante, sintomo di un infarto che alla fine lo ha
stroncato nel sonno. Oppure del ragazzo che sniffa il gas della bomboletta per
evadere da una realtà che lo schiaccia, un male da galera che non sopporta più.
Buona
parte della società oggi è convinta che va bene così, anzi c’è chi pensa
addirittura che le carceri siano troppo “generose” con noi detenuti. Solo
che le cose non sono così semplici. Dal carcere prima o poi si esce, e scrivere
delle condizioni in cui vivono le persone che escono significa raccontare anche
come l’equazione “carcere duro uguale più sicurezza” non solo non ha mai
funzionato, ma rischia davvero di produrre l’effetto opposto. Perché il
carcere sovraffollato certamente non insegna alle persone detenute come
osservare la legge e assumersi la responsabilità dei propri reati. Gentian
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Gianluca Cappuzzo,
Marco Cavallini, Mohamed El Ins, Said El
Magharpil, Filippo Filippi, Antonio Floris, Stefano Frignani,
Ulderico Galassini, Luigi Guida, Dritan Iberisha,
Bardhyl Ismaili, Pierin Kola, Davor Kovač, Miroslav
Lazarov, Marco Libietti, Enos Malin, Fabio Montagnino,
Michele Montagnoli, Bruno Monzoni, Santo
Napoli, Halid Omerovic, Elvin Pupi, Qamar Abbas
Aslam, Salem Rachid, Oddone Semolin, Walter Sponga,
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