A
lezione da Luigi Ferrarella
Uno
dei migliori cronisti di giudiziaria ci insegna a far diventare i nostri
giornali, realizzati da dilettanti, fonte credibile per i giornalisti, quelli
“veri”, i professionisti dell’informazione
a
cura della Redazione
Luigi
Ferrarella, giornalista del Corriere della Sera, è uno dei migliori cronisti di
giudiziaria in circolazione. Ha partecipato, nella nostra redazione, a un
incontro dei giornali realizzati in carcere. Quelli che seguono sono i suoi
suggerimenti, la sua esperienza di professionista messa al servizio della
“nostra” informazione fatta da dilettanti, che però la galera la conoscono
davvero.
“Io
intanto vi ringrazio moltissimo e devo dire che sono qui perché sono un vostro
lettore, attraverso soprattutto il sito.
Voi
ai vostri seminari invitate prima di tutto giornalisti della cronaca nera e
giudiziaria. Di solito i colleghi che fanno la cronaca nera sono quelli che si
occupano di tutta la prima parte, cioè quando succede il fatto e i primissimi
giorni dopo l’evento, la maggior parte dei problemi insorge però quando si
raccontano le indagini, i processi, le sentenze.
I
colleghi della cronaca nera normalmente hanno più rapporti con le varie forze
di polizia, che sono destinatarie delle indagini all’inizio, mentre quelli che
fanno la giudiziaria di solito li hanno con gli avvocati e i magistrati,
ovviamente questo se non è bilanciato da un filtro provoca delle conseguenze,
perché il rapporto con la fonte è un rapporto in cui tu giornalista sei quello
che ha bisogno, che senza questo rapporto non riesci ad avere nessuna notizia.
Tenete
conto che, per come funziona il sistema dell’informazione giudiziaria in
Italia, teoricamente quando noi scriviamo qualcosa il 99 per cento di quello che
scriviamo non sarebbe “scrivibile”, perché sarebbe coperto dai vari segreti
nelle diverse fasi del procedimento.
Quindi
il rapporto con la fonte è quello che ti permette di acquisire le notizie sulla
cui base tu poi scrivi, ma è anche quello che ti permette di scrivere le cose
giuste e di evitare di scrivere delle stupidaggini, e però è, nello stesso
tempo, proprio il rapporto con la fonte che, se non viene filtrato, ti fa
scrivere queste stupidaggini.
Ecco
perché secondo me quello che voi avete cominciato a fare con il seminario di
formazione per giornalisti è una cosa importante, cioè è un bene che voi
riuscite a fare a questi colleghi, perché riuscite a dargli, in un lasso di
tempo ovviamente più concentrato, quello che loro forse riuscirebbero un po’
a capire e imparare accumulando esperienza, così come nel nostro piccolo da
praticoni abbiamo fatto noi lavorando con altri colleghi. E qualcuno ci spiegava
qualcosa, qualcuno no, incontravamo magari delle fonti un po’ più
attendibili, un po’ più sensibili, magistrati e avvocati un po’ più
disponibili, purtroppo facendo anche errori e quindi imparando dagli errori, che
però in questo campo sono errori piuttosto sensibili, perché fanno male alle
persone, voi da questa parte, le famiglie delle vittime dall’altra.
Perciò
tutto quello che voi state facendo con questo modello di seminario è uno
strumento formidabile. Ma cos’è che un giornalista vuole da voi? vuole che
voi diventiate una fonte, vuole che voi diventiate una di quelle fonti di cui il
giornalista ha bisogno, perché ci sono diversi tipi di fonte, a seconda dei
diversi tipi di giornalista. E ci sono giornalisti che si accontentano di una
fonte sola, prevalentemente quella ufficiale che gli garantisce un minimo di
routine standard, e pochi guai. Poi che non sia proprio il massimo dal punto di
vista dell’informazione, e chi se ne frega, dirà qualcuno. Ma attenzione,
anche voi potete diventare questo tipo di fonte, perché nella routine io
immagino che anche voi che fate il nostro stesso lavoro in un altro modo
possiate avere questa tentazione ogni tanto, o perché le cose diventano
scontate, per voi sono scontate, o perché per esempio cominciate a non tenere
più in considerazione chi è il vostro lettore, che è un’altra cosa che per
un giornalista è fondamentale.
Quando il lettore è “maldisposto”
Non
basta infatti che voi diciate, scriviate, facciate sapere le cose giuste, se poi
tanto questa “giustezza” non arriva al lettore, e al lettore a volte non gli
arriva perché il giornalista non considera che magari il lettore è maldisposto
nei confronti di quel tipo di comunicazione. Allora a noi succede per esempio
quando ci tocca spiegare processi, sentenze, questioni che hanno una qualche
complicazione giuridica, e quindi ci sono quelli che le ipersemplificano, fino a
trasmettere un messaggio che alla fine è sbagliato, ed escono alcuni di questi
obbrobri di cui parlate voi. L’altro versante invece è quello di scriverla
benissimo, precisissima, ma in una maniera talmente ostica che è come non
spiegarla, perché tanto poi il lettore alla terza riga cambia articolo e il
risultato è uguale, cioè non gli è arrivato lo stesso il messaggio giusto.
Allora
per prima cosa chiediamoci chi è il nostro/vostro lettore di questo argomento,
qui ormai lo sappiamo, purtroppo il lettore al 90 per cento è un lettore su
queste cose maldisposto per una serie di ragioni, quando va bene è maldisposto
per ignoranza, come tutti noi all’inizio, perché conosce poco di questa
materia. Quindi è più esposto a quelli che gli raccontano delle bestialità,
che però passano in maniera più semplice, specialmente in certi contenitori
televisivi, perché già il giornale purtroppo in Italia ha un target medio-alto,
si vendono sempre 5-6 milioni di copie come 30 anni fa e dentro sono compresi i
tre quotidiani sportivi, poi alla fine i giornali veri arrivano a una parte
della popolazione che è ancora minoranza, la maggioranza si nutre di notizie
guardando la televisione.
Poi
c’è anche un lettore maldisposto, scientificamente maldisposto per esempio
per ragioni ideologiche, ho sentito citare alcune trasmissioni “epocali” da
questo punto di vista, lì vi dovete confrontare con il fatto che voi glielo
potete spiegare quanto volete, ma loro scientificamente continueranno a fare il
contrario, perché hanno una ideologia che ritengono di perseguire attraverso lo
strumento informativo, cioè attraverso la trasmissione o l’articolo di
giornale.
Questo
è un tipo di pressione cattiva che subiamo, poi c’è un tipo di pressione
altrettanto forte con cui fare i conti, diciamo che io la chiamo più buona, però
sempre pressione, è il fatto che ovviamente il giornale è portato a
considerare di più le ragioni delle vittime, le famiglie delle vittime, anche
questa è una cosa che non si può far finta che non esista, bisogna tenerne
conto.
Fra
tutte le cose che voi fate, ho visto che ci sono delle iniziative e dei percorsi
che mettono proprio in contatto gli autori di reato con le vittime, e questa è
un’altra cosa che è fortissima dal punto di vista del moltiplicarsi della
potenzialità informativa, perché mette assieme due fronti rispetto ai quali
altrimenti il lettore è portato a fare inevitabilmente una scelta di base
preconcetta, che lo rende meno disposto ad ascoltare quello che arriva
dall’altra parte.
Poi
c’è un altro tipo di pressione, che è la pressione e l’aria che tira dal
punto di vista politico in questi anni, l’esempio della legge che è stata
modificata dopo lo stupro di capodanno è significativo, se voi fate
correttamente una valutazione su questo tipo di legislazione vedete che ha in
comune questo: sono leggi che cercano di ampliare tutti gli automatismi, cercano
di ridurre tutti gli spazi di discrezionalità che il giudice ha di volta in
volta per decidere se qualcuno deve essere messo o no in carcere nel corso del
processo, per decidere il tipo di pena tra il bilanciamento delle aggravanti e
delle attenuanti, per decidere se dare o no i benefici penitenziari.
Serve una credibilità “moltiplicata per
mille”
Questo
sono le caratteristiche che voi vedete, che sono ovviamente molto congeniali
alla politica che vuole vendere emergenza, perché sono la risposta perfetta:
c’è emergenza, c’è il pericolo, la risposta che ti tranquillizza è
automaticamente che ci sarà meno discrezionalità in quel singolo settore, un
restringimento delle possibilità di dare un beneficio.
Dobbiamo
quindi commisurare l’informazione a questa serie di blocchi che abbiamo
davanti, poi c’è anche un blocco che la gente ha, rispetto a questi
argomenti, anche qui si tratta di una pressione non buona, ma che viene da gente
buona. Quando adesso per esempio diciamo che il governo vuol costruire nuove
carceri, al di là del fatto, se sia questa la soluzione al sovraffollamento o
no, se voi andate per strada la gente dice: 600 milioni per fare delle nuove
carceri, dei nuovi padiglioni per i detenuti? ma li mettano negli ospizi, nelle
caserme, li lascino stretti, io sono in lista per la casa popolare e non riesco
ad averla…
Questi
sono comunque cittadini ai quali dovete cercare di arrivare. Allora come
arrivare? secondo me impugnando l’unica arma, che qualunque giornalista in
qualunque settore di cui si occupi ha, che è la credibilità, attraverso dati,
circostanze nuove, elementi di fatto che lui può opporre a tutti coloro che di
volta in volta hanno invece interesse a mistificare una certa situazione.
L’esempio
che ho sentito fare da voi, della liberazione condizionale, è calzantissimo:
quando si parla di qualche caso noto di autori di reato, spesso i media fanno i
conti di quanto presto usciranno dal carcere, e calcolano anche automaticamente
la liberazione condizionale, poi andiamo a vedere e scopriamo che solo il 3 per
cento delle richieste di liberazione condizionale viene accolto. Per quanto
troverete lettori impregnati di opposizione ideologica, per quanto troverete
lettori che per scarsa dimestichezza non conoscono queste questioni, lettori
maldisposti, però alla ventesima volta che gli dite questo dato e glielo
dimostrate, qualcosa entra anche nella loro testa.
Questo
però richiede un lavoro formidabile, perché presuppone il fatto che voi siate
inattaccabili, rispetto alle circostanze e ai dati e numeri che fornite, perché
già nel lavoro dei quotidiani fuori è forte la sproporzione tra il giornalista
e la controparte di potere, che può essere un piccolo o un grande potere. La
mia controparte può essere un magistrato che non ha interesse che io scriva la
cosa giusta, che lui invece ritiene nociva per la sua indagine. Può essere
l’avvocato che si lamenta perché io scrivo una cosa che lui ritiene che non
vada bene per il suo processo, può essere il politico di turno che dice una
cosa e tu gli fai vedere che non è vera, per cui lui ha uno smacco per questo.
In
qualunque di questi rapporti se io sbaglio la circostanza, oppure anche se do un
dato giusto, ma lo “condisco” in un modo che mi rende attaccabile, finisce
che svaluto quel dato, svaluto l’unica forza che ho, svaluto l’unico piccolo
patrimonio che ha il giornalista, che è la sua credibilità.
Questo
per voi che fate informazione dal carcere è moltiplicato per mille, perché voi
ovviamente partite da una condizione nella quale, come diceva qualcuno delle
persone detenute, “al seminario con i giornalisti abbiamo invitato un avvocato
e un magistrato perché dicessero alcune cose, perché abbiamo paura che se le
diciamo noi la gente non ci crede”. Questo problema che già abbiamo noi in
generale voi ce l’avete ancora di più. Quindi ancora più di noi dovete
essere scientifici proprio nel momento in cui date un numero, un dato, una
circostanza, però poi con quel numero, dato e circostanza dovete essere
implacabili.
Provare a “smontare” una notizia
Dovreste
provare a fare un lavoro di controinformazione che passi attraverso lo
smontaggio di una notizia, una al mese di cui voi percepite la mistificazione
sui giornali. Ma la dovete smontare pezzo per pezzo dalla catena di montaggio
attraverso la quale è stata costruita, per poi far vedere come quell’errore,
quella mistificazione è stata costruita ed è arrivata sui giornali o in
televisione, perché attraverso questo lavoro di smontaggio, alla prima,
seconda, terza, quarta volta, anche quei lettori inizialmente ostili dovranno
fare i conti con queste iniezioni di verità, perché è questo che noi possiamo
fare, piccole iniezioni di verità.
Certo
si tratta di questioni complicate rispetto alle quali nei giornali non lavorano
sempre persone che sono specializzate, se voi andate a vedere sia nella cronaca
nera sia nel settore della giudiziaria, ci sono spessissimo giornali che mandano
su quei fatti cronisti che conoscono di quelle vicende quello che io conosco
delle centrali atomiche, cioè niente. Però si trovano a scrivere e a fare
informazione, e magari ad essere inconsapevoli tramiti di quelle notizie errate,
perché in quel momento sono loro l’interfaccia tra il fatto, di cui magari
chi è qui in carcere è stato protagonista, e i lettori che lo leggono.
Per
smontare invece le notizie e fare vedere come sono costruite le mistificazioni,
in realtà secondo me a regime forse la cosa dovrebbe funzionare cosi: se non il
giorno dopo, due giorni dopo o quello che è, dopo aver smontato la notizia,
tradurre quello smontaggio, visto che adesso tutti i giornali hanno dei siti
internet, in una lettera da mandare al giornale, a chi ha scritto l’articolo,
al direttore, se riuscite ad individuare anche il capo di quella redazione, dove
gli si dice solo: guarda su questa cosa ti diamo noi un servizio, questa cosa
che hai scritto è sbagliata tecnicamente per questa ragione, e dà questa
rappresentazione poco rispondente alla realtà. Secondo me la prima volta, la
seconda volta, la terza volta la ignorano, alla decima volta non la buttano via
la lettera, all’undicesima volta forse vanno a guardare il sito vostro dove,
già solo consultando molti dei materiali che avete dentro, tanti giornalisti
eviterebbero di fare una serie di errori che fanno.
Allora,
riassumiamo le idee: il seminario di formazione per i giornalisti, da realizzare
in carcere, sui temi dell’esecuzione della pena è un modello fondamentale,
bellissimo; la controinformazione attraverso lo smontaggio delle notizie e,
terza e ultima cosa, far “esplodere le contraddizioni” che ci sono, sia
nella politica, sia nell’informazione rispetto a questi temi.
Come
farle esplodere? non tanto sull’appello ai rispetto dei diritti, che è una
cosa che purtroppo fa breccia solo in una seconda fase. Prima devi agganciarlo,
il tuo lettore, quando lo hai agganciato puoi fare forse anche un discorso di
questo genere, ma come prima volta lui non ti segue, anche se è cinico dirlo
secondo me lo devi agganciare sull’interesse. Gli devi far vedere che quello
che voi dite, quello che voi motivate con i numeri e con la scientificità del
vostro lavoro, non è qualcosa che spinge a un generico buonismo, ma è qualcosa
che a lui conviene. Se oggi vogliono costruire 500 milioni di euro di nuovi
padiglioni nelle carceri, se voi dite che è sbagliato lo dite voi e non vale
niente per chi legge. Voi gli dovete dire che: A) è una cosa inutile, perché
al ritmo di affluenza che c’è con quel tipo di stanziamento che loro hanno
messo ci stanno circa 6.000 posti, 6.000 posti che sono 8-10 mesi di autonomia
rispetto al riempimento attuale; B) ci sono 30.000 ingressi all’anno di
persone che stanno dentro meno di una settimana, cioè si investirebbero
valanghe di soldi per costruire carceri, quando 30.000 detenuti ci stanno pochi
giorni, anche questo è un dato interessante per smontare certe notizie.
Bisogna
nel contempo fargli vedere che, non con 500-600 milioni di euro, ma con una
frazione, un segmento di quella somma, l’investimento su altre voci della vita
penitenziaria, per esempio su tutto quel lavoro che c’è prima del momento in
cui il giudice decide se dare o no una misura alternativa, bisogna far vedere
che quell’investimento renderebbe di più, a lui cittadino, a lui elettore,
alla società, in termini di sicurezza, fargli vedere che è molto più sicuro
con un investimento sulle misure alternative che sulla costruzione di nuove
carceri”.
Ristretti
Orizzonti: La questione che hai
sollevato sulla scelta di non partire subito dalla tutela dei diritti dei
detenuti per noi è importante, noi siamo d’accordo con te, che il tema della
tutela dei diritti così com’è deve essere mediato in modo diverso.
Altrimenti incontri subito l’obiezione che uno, commettendo un reato, i
diritti se li è persi, e bisogna lavorare su questo, perché il tema
semplicemente della tutela dei diritti anche secondo noi non arriva ai lettori.
“I
diritti sono un tema fondamentale, però il problema di nuovo è che, se siamo
giornalisti, dobbiamo tener conto del lettore che abbiamo, non possiamo scrivere
per qualcuno che non esiste, quello che ci legge è fatto in un certo modo per
una serie di ragioni, sulle quali hanno un gran peso televisione e politica, e
ti ci devi confrontare, se no quello che fai diventa inutile. E tu devi fargli
capire che il suo interesse non è risparmiare 20 euro adesso di presunte tasse,
non investendo sulle misure alternative, il suo interesse è non essere scippato
da quel 70 per cento di detenuti che esce dal carcere dopo essersi scontato
tutta la pena e poi ritorna a delinquere: in questo senso, anche se mi rendo
conto che è un discorso non molto popolare, vi dovete agganciare sul piano
della convenienza, dovete far vedere che voi state facendo delle cose che
convengono.
Carcere? chiedi a noi
Il
fatto che dobbiamo sapere a chi parliamo, per voi che fate informazione dal
carcere significa anche sapere chi è il vostro lettore giornalista, che poi
deve comunicare al lettore “comune”. Quando avete fatto l’esempio dello
“stupro di capodanno” e di quel quotidiano che aveva chiesto ai suoi lettori
se erano d’accordo che chi ha subito una violenza si faccia giustizia da solo,
non è che queste cose nascono su Marte o perché chi le fa è cattivo. I
giornali accusano una gravissima crisi, ormai sono sempre meno i giornalisti
assunti a tempo indeterminato, sostanzialmente lavorano con contratti, quando va
bene, a tempo, quando non va bene con collaborazioni che vengono pagate una
miseria. Ma voi pensate che quel collega lì sia d’accordo o gli piaccia il
titolo che gli hanno messo sul suo pezzo? certo che no, ma il problema è che se
faccio fatica io in un giornale normale a spiegare che un dato titolo è
sbagliato, se facciamo fatica noi in queste situazioni, figuratevi che margine
di manovra ha un ragazzo, che ha una doppia fregatura, non ha nessun potere
contrattuale e il suo interesse per vivere è scrivere più pezzi di quel
genere.
Allora
torniamo al discorso di prima sui diritti, anche se è brutale, non è bello ma
bisogna sapere che è cosi, per questo io continuo a dire che la nostra arma
sono i dati, i numeri, i fatti agganciati alla convenienza, non perché
sminuisco il discorso dei diritti, ma perché il discorso dei diritti lo puoi
fare una frazione di secondo dopo che hai agganciato il tuo lettore, ma non lo
agganci su questo, lo agganci sulla sua convenienza, oppure, se sei molto bravo,
sulla sua convenienza rispetto ad un discorso che subito introduce la questione
dei diritti.
Un
esempio: c’è stato un convegno nel quale, se non ricordo male, un assessore
della regione Toscana aveva quantificato che, mentre un detenuto costava 54.000
euro all’anno, l’affidamento di un detenuto tossicodipendente in comunità
costava 18.000 euro.
Certo
che a noi interessa di più l’effetto buono del fatto che sappiamo che
quell’affidamento è molto più efficace dal punto di vista del risultato, però
la gente in prima battuta probabilmente la agganci di più, dicendole: guarda
che costa un terzo non tenere il tossicodipendente in carcere, poi gli dite
anche che il risultato è fantastico, ma intanto gli dite che gli costa un
terzo, e sarà quello il titolo che ovviamente il giornale farà. Non farà il
titolo su quanto è giusto far uscire in affidamento, invece che tenere in
carcere la persona che ha problemi di tossicodipendenza, il titolo sarà che
costa un terzo in meno. Credo che sia un compromesso accettabile rispetto alla
idea che abbiamo nella nostra testa del mondo fantastico in cui tuteleremmo
prima i diritti e poi il resto.
E
potrebbe essere un’idea implementare sul vostro sito uno spazio che potrebbe
essere intitolato “Carcere? Chiedi a noi”, con questa finalità: caro
collega chiedi a me, nel senso che se devi scrivere un articolo che comporta una
qualche conoscenza di un istituto, di una regola di una modalità di vita del
carcere, mi mandi la domanda e io ti rispondo subito. Lo strumento del seminario
per i giornalisti i suoi frutti li produce un po’ di tempo dopo, questo del
sito invece potrebbe essere uno strumento per tamponare un po’ la marea di
sciocchezze che possono circolare su questi argomenti.
Lavorare per diventare fonte dei
giornalisti “non falsari”
Tenete
presente che il vero “conflitto di classe” nelle redazioni è tra i falsari
e i non falsari, tra gli inventori e i non inventori. Nelle redazioni c’è una
guerra furibonda tra queste due categorie, furibonda, questo voi lo dovete
sapere perché diventa anche un fattore competitivo per voi. Lavorate sui “non
falsari”, aiutateli a diventare più forti diventando la loro fonte, sulla
base ovviamente della maggiore affidabilità e precisione delle notizie che in
questo campo avete, fate leva su questa guerra che c’è nei giornali.
Diventare fonti per gli altri tenendo presente che noi abbiamo come problema il
fatto che su queste materie noi giornalisti siamo normalmente “ciechi”
all’ottanta per cento, proprio perché quasi tutto nella fase delle indagini,
specialmente fino al processo, sarebbe coperto dal segreto. Quindi molte delle
imprecisioni o falsità di cui voi avete parlato sono frutto di malafede, altre
sono frutto di una ignoranza, ma molte sono frutto di una contingenza, cioè di
una indisponibilità di informazioni nel momento in cui il giornalista avrebbe
bisogno di averle.
Perché
questo? perché se succede per esempio un arresto, io da dove le vado a prendere
le notizie per scriverle poi il giorno dopo? se fossi nel mondo ideale quello
che io vorrei, lo penso e lo dico sempre anche se poi capisco di essere
minoritario perfino nella mia categoria, è andare a prenderle legittimamente
alla luce del sole, proprio in quanto giornalista, nello stesso posto e nella
stessa misura che in quel momento è disponibile alla persona che rappresenta
chi è stato arrestato o indagato, che è il suo avvocato. Cioè secondo me
tutto quello che è già noto alla persona oggetto dell’indagine e al suo
difensore, dovrebbe essere come patrimonio dato ufficialmente al giornalista, ma
non è cosi che vanno le cose, quindi vi racconto quello che succede nella realtà.
Ipotesi
uno: il giornalista va dalla sua fonte di riferimento, che non è sempre la
polizia, che non è sempre il magistrato, che a volte è per esempio
l’avvocato, perché tra le tante strumentalizzazioni a cui siamo
presumibilmente sottoposti, non è che c’è solo quella dei rappresentanti di
una parte, c’è anche quella dei rappresentanti dell’altra parte, perché
nessuno ti dice niente gratis, anzi se qualcuno mi dice qualcosa spontaneamente,
io mi preoccupo perché comincio a pensare che me lo sta dicendo per una qualche
ragione che a me sfugge.
Allora
la mia difesa, però è un discorso di autodifesa, è di fare l’accattone, cioè
io di lavoro faccio il “nobile accattone”, cerco di svincolarmi da tutte le
possibili strumentalizzazioni che ciascuna singola fonte, polizia, carabinieri,
finanza, magistrato, cancellieri, avvocati, indagati, famigliari tutti, vorrebbe
fare di me dandomi solo il pezzetto di notizia che a loro interessa, cerco di
staccarmi da questa dipendenza nell’unico modo che posso, che è recuperare il
documento che è all’origine di quella iniziativa giudiziaria. Ma se non
riesco a sapere il contenuto di quella carta, dovrei prendere un pezzetto da
ciascuno mettendo assieme il mosaico finale di tutto. È chiaro che in questa
operazione voi come lettori siete garantiti solo dal mio scrupolo, ammesso che
questo scrupolo ci sia, perché se invece io sono sciatto, pigro o “venduto
mentalmente”, diciamo, a qualcuna delle parti in gioco, mi accontento di quel
segmento che prendo da quella parte e finisce cosi. E a voi arriverà unicamente
quel segmento di notizia. Solo se io voglio fare un po’ più fatica e mi
sbatto un po’ di più, forse alla fine della giornata ottengo questo cento per
cento di notizia, e a quel punto sono responsabile poi io di come la scrivo.
Però
bisogna considerare anche le condizioni pratiche di lavoro, questo lavoro a
volte si deve fare in poche ore, quindi con tutta la buona volontà, a volte
persino un collega che condivida questo modo di operare che vi ho descritto, può
non riuscire a metterlo in atto, per questo a chi critica quello che io
propongo, che gli atti che sono alla base dei provvedimenti eseguiti e ormai
stranoti alla persona indagata potrebbero essere tranquillamente, liberamente
attinti dal giornalista, io dico: guarda che è un tuo interesse, di te come
lettore nonché di te parte in causa, che io abbia tutte le notizie, perché
faccio molti meno errori di quanti invece normalmente vengono fatti, se mancano
le notizie nel momento in cui le si debbono scrivere.
Lo
“smontaggio” della notizia sbagliata attraverso poi la lettera al giornale
che ne smentisce i contenuti può un po’ riaggiustare a volte le cose,
evitando che quella notizia continui a fare danni, e anche questo secondo me
potrebbe essere un valore, evitare che certe notizie continuino a galleggiare
nel tempo. Perché per esempio molte di quelle informazioni non rispondenti al
vero su questi temi, pochi sanno che sono sbagliate, e nella testa della gente
sono rimaste, perché poi quei giornali, quelle televisioni non le hanno
corrette con la stessa evidenza con la quale le avevano date.
Però
di nuovo, lo ripeto, la correzione deve passare attraverso numeri, dati,
circostanze non impugnabili e che siano scevri di qualsiasi tipo di giudizio.
Una anagrafe pubblica del mondo dei
penitenziari
Una
ultimissima cosa che invece prendo da una idea di fondo che i radicali sono anni
che vanno proponendo, è quella di una anagrafe pubblica del mondo dei
penitenziari, io non so se sia possibile, ma sul vostro sito, visto che il
Ministero si guarda bene dal farlo, potrebbe essere interessante per esempio
avere un’idea di ciascun carcere, anche di ciascun giornale del carcere, di
tutto quello che dentro si muove, una idea esatta, in tempo reale. Allora a
Padova, quanti detenuti ci sono oggi, la settimana prossima quanti detenuti ci
sono, quanti educatori, qual è il bilancio del vostro carcere, ci sono lavori
in corso, che imprese li stanno facendo, quanti detenuti hanno misure
alternative in corso, tutto quello che da un lato crea più trasparenza, quindi
diventa anche una forma di autodifesa, e tutto quello che porta una persona
estranea a questa realtà a entrare anche nelle dinamiche pratiche, proprio
terra terra, della vita di un carcere.
Secondo
me avreste tantissime difficoltà a fare un lavoro di questo genere, perché
tutto quello che è notizia in più, tutto quello che porta trasparenza spesso
viene osteggiato dalle istituzioni, non sempre per malafede, piuttosto per un
riflesso condizionato di ogni burocrazia, tanto più per l’istituzione chiusa
che per definizione è un carcere. Però potrebbe essere forse anche un altro
strumento di informazione importante.
Portare i giornalisti in carcere “a
studiare”
Un seminario di formazione per giornalisti
che nasce per offrire degli spunti di riflessione sulle questioni riguardanti
pene e carcere, per poi aprire un dialogo e dare degli strumenti in più a chi
deve lavorare in questo ambito
di
Gianluca Amadori, Presidente
dell’Ordine dei giornalisti del Veneto
Innanzitutto
ringrazio Ristretti Orizzonti: la collaborazione con l’Ordine dei giornalisti
del Veneto è iniziata da un paio di anni ed è stata un’esperienza, una
scoperta molto positiva anche per me. L’idea di portare i giornalisti in
carcere costituisce un’occasione molto importante per offrire una prospettiva
diversa di visione delle cose. Chi si occupa di nera e di giudiziaria, è solito
vedere e affrontare i problemi della giustizia dal di fuori: la possibilità di
entrare nel carcere e di confrontarsi con chi le esperienze le vive “da
dentro”, ci dà l’opportunità di avere un quadro più completo. Esattamente
ciò che dovremmo cercare di fare tutti i giorni.
Questa
iniziativa nasce, dunque, per offrire spunti di riflessione sulle questioni
riguardanti pene e carcere, con l’obiettivo di avviare un dialogo su questi
temi e mettere a disposizione degli strumenti in più a chi deve lavorare in
questo ambito.
Noi
giornalisti dobbiamo cercare di fare sempre meglio la professione. Oggi sono
frequenti, purtroppo, esempi d’informazione che a me, e credo anche a molti
altri, non piacciono: notizie che si trasformano in spettacolo, che privilegiano
il pettegolezzo all’approfondimento e all’inchiesta, che esasperano
inutilmente i toni.
Io
credo che lo sforzo da fare, partendo anche da iniziative come questo seminario,
sia quello di valorizzare un modo di fare informazione che punti sulla
correttezza; un giornalismo pacato, capace di approfondire le cose, pur nella
necessaria semplificazione, che ci viene imposta dal poco spazio a disposizione
nei giornali o in servizi radio-televisivi. In quel poco spazio si possono
affrontare le questioni in maniera diversa, cercando di spiegare alla gente che
cosa succede davvero, più che urlare e suscitare inutili paure e ansie.
Per
farlo spesso basta poco. Alle conferenze stampa, ad esempio, ci raccontano:
“Abbiamo arrestato il rapinatore, il mostro, lo stupratore…”. Premesso che
fortunatamente in uno stato di diritto si è colpevoli solo dopo essere stati
condannati in via definitiva, l’approccio corretto per un giornalista non deve
essere quello di “sposare” acriticamente le tesi di parte. Dunque va
precisato con chiarezza che quella è la versione che viene data dalle forze
dell’ordine (o dalla procura), non la verità. E, quando possibile, va fornita
anche la versione dell’altra parte. Cosa che non sempre avviene. Si continua a
scrivere: “Ecco il rapinatore”, mentre si dovrebbe spiegare che sono i
carabinieri, la polizia, il magistrato ad indicare quella persona come il
rapinatore. L’informazione così sarebbe più corretta e completa: quante
volte è accaduto, tra l’altro, che pochi giorni più tardi si è scoperto che
quella persona non era il rapinatore o lo stupratore? Che il riconoscimento
effettuato dai testimoni non era sicuro e non vi erano prove?
Non
lo dico per criminalizzare i giornalisti, che in gran parte dei casi fanno bene
il loro mestiere: ma un po’ di autocritica è giusta per cercare di migliorare
ancora; per valorizzare le molte cose buone, le professionalità dei tanti
giornalisti che fanno ancora dei servizi eccezionali con grandi approfondimenti
e che rischiano la vita per informare l’opinione pubblica.
Un
altro aspetto da valorizzare è il rispetto della dignità delle persone: quando
scriviamo ci occupiamo sempre di persone che meritano di essere rispettate,
qualsiasi cosa abbiano commesso. Anche se hanno ucciso, anche se hanno commesso
i reati più atroci. Non bisogna mai offendere, non bisogna mai schernire perché
ci sono sempre sensibilità da rispettare: quelle delle vittime, innanzitutto,
ma anche quelle dei familiari degli autori dei crimini, dei loro figli, che
quasi sempre non hanno alcuna colpa.
Le
semplificazioni estreme che non fanno bene all’informazione
Un
ultimo tema che vorrei porre all’attenzione è quello relativo alla
semplificazione utilizzata spesso nei media quando si parla di scarcerazioni, di
arresti domiciliari, di benefici carcerari: “È GIÀ FUORI”, riportano i
titoli.
I
giornalisti hanno le loro responsabilità per un’informazione a volte non
precisa. Ma vi sono anche altre pesanti responsabilità: quelle di una politica
che privilegia posizioni populiste e demagogiche.
Tutto
si fa sull’onda dell’emotività: bastano due incidenti provocati da un
automobilista ubriaco per reclamare pene esemplari per tutti gli omicidi
colposi.
In
un quadro di questo tipo assume importanza ancora maggiore un’informazione
corretta, in grado di spiegare alla gente come funziona il sistema: per spiegare
che il carcere è previsto soltanto dopo che una sentenza è passata in
giudicato, e che le altre forme di limitazione della libertà personale, di
detenzione (la custodia cautelare) sono delle eccezioni. In custodia cautelare
cioè si va (o si dovrebbe andare) soltanto se ricorrono delle esigenze
particolari che sono quelle del pericolo di fuga, del pericolo d’inquinamento
probatorio oppure quella della reiterazione del reato. Si finisce in carcere in
custodia cautelare solo se c’è la previsione che la pena che ipoteticamente
potrebbe essere inflitta per quel reato sia superiore ad una certa entità.
Queste sono tutte cose che chi scrive dovrebbe sapere e cercare di spiegare alla
gente. Altrimenti si alimenta confusione. Una persona arrestata per un furto,
per un borseggio sul bus, finisce davanti a un giudice e, dopo aver patteggiato,
viene scarcerata. Ma non è che va fuori perché il giudice è buono o perché
nessuno finisce in galera in Italia: viene rimessa in libertà perché, con una
pena di quel genere comminata a una persona incensurata e con la sospensione
condizionale, non si sta in carcere. Così dice la legge. Ovviamente si può
fare una campagna per cambiare la legge, se ritenuta ingiusta, ma non è
corretto contribuire a creare il convincimento nella gente che tutti sono fuori
nonostante abbiano fatto qualcosa di male. Perché ciò non corrisponde al vero.
Noi
giornalisti dovremmo avere una maggiore consapevolezza, una maggiore
preparazione, in modo da poter illustrare al meglio i meccanismi della
giustizia, in modo da poterli spiegare e farli capire. Anche i casi di
malagiustizia, gli errori per colpa dei quali vengono scarcerate persone
pericolose, che meriterebbero di essere detenute. Casi eccezionali che però
accadono.
Sono
questi alcuni degli spunti di riflessione che voglio offrire alla discussione,
perché credo che oggi più che mai ci sia la necessità da parte dei
giornalisti di aggiornarsi, di studiare e di essere più consapevoli dei
problemi per poter fare al meglio questa professione non sempre facile.
Ritengo
che questo seminario sia un’iniziativa che va nella direzione giusta e
l’auspicio è che sia utile a tutti per offrire la possibilità di riflettere
su alcuni temi di grande importanza.
Grazie
a quanti hanno voluto partecipare: il solo fatto di essere qui testimonia il
vostro interesse, la vostra sensibilità.
Il
magistrato di Sorveglianza, tra concessione dei benefici e tutela dei diritti
di
Marcello Bortolato, Magistrato
di Sorveglianza a Padova
Ringrazio
i giornalisti per essere venuti e ringrazio chi mi ha invitato, perché il
problema di come l’informazione tratta la materia della pena e del carcere è
importantissimo.
Io
sono sia un lettore di giornali sia un tecnico, perché faccio il magistrato di
Sorveglianza, e quindi spesso mi accorgo di quanti problemi ci siano nel
descrivere la complessità dell’esecuzione penale e del carcere.
La
complessità della vita si riflette nella complessità del carcere, dove la vita
continua anche se in forme diverse e con tutte le contraddizioni e le difficoltà
che ci possono essere in una struttura in cui viene limitata la libertà
personale: e descrivere e rappresentare questa complessità in termini corretti
non è facile.
Vorrei
però subito dire una cosa, io sono il magistrato di Sorveglianza, colui che
sovrintende all’esecuzione penale sotto due aspetti. Il primo riguarda la
concessione dei benefici penitenziari: il magistrato da solo, o insieme ad altri
componendo il Tribunale di Sorveglianza, quindi in un collegio formato da
quattro magistrati, di cui due sono esperti, giudici onorari, cioè cittadini
che svolgono le professioni di psichiatra, medico, criminologo o anche
assistente sociale, delibera se concedere o meno i benefici ai detenuti.
L’altro aspetto che riguarda i compiti della magistratura di Sorveglianza è
la tutela dei diritti dei detenuti, in quanto la compressione della libertà
personale, che è il bene che viene limitato dalla pena, non deve e non può
comportare la compressione degli altri diritti che un detenuto porta con sé
durante tutta l’esecuzione della pena e che devono essere tutelati e garantiti
al pari che per i cittadini liberi.
In
questa duplice veste il magistrato di Sorveglianza si occupa sia dei detenuti
definitivi, cioè quelli che entrano in carcere per scontare una pena
definitiva, sia di coloro che sono in custodia cautelare, ma riguardo a questi
solo ed esclusivamente sotto il profilo della violazione di eventuali diritti
nel corso dell’esecuzione della misura cautelare.
Leggevo
nell’opuscolo preparato dalla Redazione di Ristretti Orizzonti che l’unico
automatismo esistente nel sistema penitenziario italiano è la scarcerazione a
fine pena, e questo è verissimo perché in carcere l’unica cosa certa e
automatica è che la pena prima o poi finirà: non c’è nulla di scontato,
nonostante quello che si dice e che si legge riguardo agli automatismi nella
concessione dei benefici; io che sono il magistrato di Sorveglianza e che quei
benefici posso concedere, vi dico che non c’è nulla di automatico poiché
tutto dipende da una valutazione che, pur avendo un tasso di discrezionalità
elevato, è comunque guidata dal principio finalistico della rieducazione della
pena. E questo è il primo punto.
La
certezza della pena viene confusa con la certezza del carcere
Il
secondo punto è che in questo Paese la certezza della pena viene confusa con la
certezza del carcere. Quindi lo slogan abusatissimo della certezza della pena,
di cui anche autorevoli intellettuali si riempiono la bocca, non vuol dire
assolutamente certezza del carcere, che è invece il frutto di una
“ignoranza” del nostro sistema penitenziario, nel senso letterale del
termine, nel senso cioè di ciò che non si conosce.
Cosa
può voler significare allora che la nostra Costituzione abbia assegnato alla
pena una finalizzazione rieducativa?
Chi
ha fatto studi giuridici sa che nel corso dei secoli, nel corso della storia
delle civiltà, alla pena sono state attribuite sempre varie funzioni, tre in
particolare.
La
prima, quella retributiva, consiste nel ripagare un male con un altro male: hai
ucciso, uccidiamo l’assassino; hai rubato, tagliamo la mano al ladro e così
via. Da Beccaria in poi si è invece pensato di limitare questa retribuzione
alla privazione della libertà personale, riparando la “ferita” inferta alla
società con un’altra ferita, che è quella di isolare il responsabile del
reato dal contesto sociale e chiuderlo in un luogo dove non possa avere contatti
con l’esterno. Chi ha tradito il patto sociale va isolato e dunque recluso.
Poi
c’è una funzione della pena che si dice special-preventiva: la pena deve
servire ad impedire a quel soggetto, che un giudice ha riconosciuto responsabile
del reato, di delinquere ancora; quindi non mi interessa retribuire il male con
un altro male, ma voglio soltanto impedire a quella singola persona di fare del
male. Questa opzione presuppone il giudizio di pericolosità sociale (che nel
nostro ordinamento è alla base delle misure di sicurezza) e pertanto fintantoché
non verrà meno quella specifica pericolosità, il condannato va tenuto separato
dalla società.
Infine
c’è la funzione general-preventiva, cioè di deterrenza per l’intera
collettività. La pena serve a “spaventare” la società dicendo a ciascuno
di noi: se compi quella violazione della regola sociale ti sottopongo ad una
limitazione della libertà, quindi la pena ha una funzione deterrente
finalizzata ad impedire la commissione dei reati da parte di chi ancora non li
ha compiuti.
L’articolo
27 della Costituzione, che è il faro che deve illuminare tutta la materia
dell’esecuzione penale, e non solo di questa posto che anche il giudice che
applica la pena lo deve tenere in alta considerazione, dice che c’è
un’unica funzione che riassorbe e condensa in sé tutte le altre; cioè la
Costituzione non prende posizione se la pena debba essere retributiva,
special-preventiva o general-preventiva, poiché sarà il legislatore, e la
legge (che è in un gradino più basso della Costituzione) può essere cambiata
dalle maggioranze parlamentari che di volta in volta si formano, a dire che cosa
privilegiare, ma comunque c’è una funzione assegnata dalla legge fondamentale
della Repubblica che le deve assorbire tutte e che è la finalità rieducativa.
Del resto i costituenti sono stati in carcere, erano veri e propri “avanzi di
galera”, l’Assemblea costituente del 1946 era composta da gente che era
stata in carcere, era stata al confino, era stata torturata; eppure sono usciti
ed hanno voluto che il carcere fosse messo in Costituzione perché l’avevano
conosciuto, ma vi hanno assegnato una tensione rieducativa, lo sforzo cioè di
reinseire nella società chi ha violato quel patto; inoltre hanno stabilito,
proprio perché lo avevano provato sulla loro pelle, che la pena non può mai
consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e dunque deve rispettare
la dignità delle persone, che è un altro aspetto importante ed oggi purtroppo
di estrema attualità.
Ed
è in quest’ottica che si inseriscono i benefici.
Non
c’è solo il carcere, ci sono altre forme di esecuzione della pena
Se
la pena deve essere rieducativa, non necessariamente deve rimanere stabile dal
punto di vista quantitativo e qualitativo: nel caso ad esempio della condanna a
cinque anni per rapina, la pena che dovrà essere applicata deve tendere a
rieducare il condannato, quindi deve cercare di fare in modo che alla fine di
questa carcerazione il condannato non compia nuovamente una rapina.
Studi
scientifici e giuridici approfonditi ci hanno detto che, se una persona sta in
carcere fino all’ultimo giorno non vedendo nessuno, non potendo stare con i
propri familiari, non potendo mai mettere il naso fuori dal carcere e venendo a
contatto magari con persone molto più delinquenti di lui, imparando cose più
gravi, inserendosi nel circuito della criminalità proprio attraverso la
promiscuità della detenzione, quando uscirà dal carcere è molto probabile che
ricominci a delinquere. Chi invece espierà la pena in forme diverse e magari
parzialmente fuori dal carcere in misura alternative, avrà meno possibilità di
ricominciare a delinquere (in questi casi si valuta le recidiva in una
percentuale del 19 % a fronte di una recidiva, per chi espia la pena fino
all’ultimo giorno, invece del 69 %) e sono dati del Dipartimento
dell’Amministrazione Penitenziaria.
Spesso
non si capisce che non c’è solo il carcere, ci sono altre forme di esecuzione
della pena, diverse ma con un grado di afflittività comunque apprezzabile, come
ad esempio la detenzione domiciliare.
La
detenzione domiciliare significa stare chiusi in casa per lungo tempo (anche
anni); significa che i Carabinieri vengono alle due di notte a vedere se sei a
dormire e ti suonano ripetutamente il campanello; se sgarri anche di pochi
minuti ritorni dentro, puoi essere denunciato per evasione ed arrestato in
flagranza.
Quindi
la detenzione domiciliare non è libertà, così come non lo sono gli arresti
domiciliari, significa che invece di stare chiuso in una cella stai chiuso in
casa ma nel contempo puoi stare con la tua famiglia che ha bisogno della tua
presenza e tu della loro; ti può aiutare a riflettere su quello che hai fatto
forse meglio del compagno di cella, su che senso dare alla tua vita futura, puoi
provare a recuperare l’affetto dei tuoi familiari stando con loro, anche se
avere un detenuto domiciliare in casa non è una cosa semplice per dei bambini
che vanno a scuola, e che magari chiedono al papà che li accompagni e non
riescono a capire perché tu debba rimanere in casa. Per una famiglia a volte è
più dolorosa e difficile una misura domiciliare che il carcere, pensateci.
Un’altra
misura alternativa è l’affidamento in prova, il beneficio più ampio che i
giudici di Sorveglianza possono concedere ai detenuti che hanno meno di tre anni
di pena residua da espiare, nel caso in cui ci sia un giudizio prognostico
favorevole, che emerga da un’osservazione prolungata in carcere.
Quindi
noi non diamo i benefici così a pioggia perché ci piace o non ci piace un
detenuto, ma perché in carcere ci sono delle persone che vedono i detenuti
giorno per giorno, anche se purtroppo sempre meno perché i reclusi sono tanti e
gli educatori pochi, però diciamo che quantomeno li vedono più di noi. Li
osservano, li studiano in base alle loro competenze specifiche (ci sono anche
degli psicologi), sentono le loro esigenze, si fanno da tramite verso di noi e
alla fine ci forniscono un parere. Affidamento in prova significa che il
condannato è “affidato” ai servizi sociali, che lo accompagnano nel suo
cammino di recupero, significa che devi lavorare e se non hai un lavoro hai
l’obbligo di cercartelo, hai l’obbligo di risarcire il danno alle persone
offese o di svolger in cambio attività riparatorie (opere di volontariato le più
varie); devi startene in casa per alcune ore di notte e non puoi girare
indisturbato per il paese. Guardate che paradossalmente c’è gente che
rinuncia all’affidamento e preferisce stare in carcere, magari perché gli
mancano 4/6 mesi, perché non vuole questi obblighi che noi giudici di
Sorveglianza imponiamo nell’affidamento, perché la legge li prevede. La pena
è un progetto anche per chi la subisce e chi non partecipa rimane fuori dai
benefici. Puoi meritare l’affidamento solo se ti impegni a risarcire il danno
e se non hai la possibilità di pagare devi fare delle attività riparatorie,
che significa anche lavori socialmente utili e attività di volontariato. Noi
abbiamo moltissimi affidati che fanno lavori di volontariato e spesso vengono a
contatto con altri settori del disagio sociale che mai avrebbero conosciuto. La
maggior parte delle persone che sono in carcere appartiene ad un’area immensa
del disagio sociale che la società non riesce a risolvere in altri modi, anche
se ovviamente c’è una responsabilità personale, c’è un reato che viene
commesso con piena libertà di determinazione (è questo il presupposto di ogni
condanna): non tutte le persone infatti che si trovano in una situazione di
disagio decidono di commettere dei reati, ma certo il disagio li favorisce.
Ma
chi sono davvero i recidivi?
Si
parla spesso della troppa discrezionalità che avrebbero i magistrati di
Sorveglianza, tant’è che quando si concede un beneficio a un detenuto che poi
uscendo dal carcere compie un reato, si dice subito che il potere lasciato a
questi giudici è immenso e va dunque limitato. Da qui tutta una serie di
normative degli ultimi dieci anni che hanno cercato di limitare questa
discrezionalità, una per tutte la legge ex Cirielli che ci ha legato le mani,
ci ha impedito di far uscire i detenuti se recidivi. Ma il carcere è pieno di
recidivi, è ovvio: chi commette un reato una volta sola, voi sapete che non va
quasi mai in carcere, se non per reati gravi, perché gli viene concessa quasi
automaticamente la sospensione condizionale della pena. Non si tratta di
beneficio carcerario; è una sospensione dell’esecuzione della pena inflitta a
chi ha commesso la prima volta un reato non grave (contenuto nei 2 anni di
pena): il giudice (della cognizione) che applica la pena contemporaneamente la
sospende per cinque anni per vedere se per caso venga compiuta un’altra
violazione, nel qual caso anche quella pena viene fatta eseguire.
Quindi
coloro che compiono un reato la prima volta non vanno di solito in carcere, va
in carcere chi i reati li compie più volte e cioè proprio il recidivo. Allora
impedire al recidivo, come ha fatto la legge ex Cirielli, di avere un beneficio
contenitivo come la detenzione domiciliare, implica che molte persone detenute
non possono accedere alle misure alternative anche se ne ricorrono tutte le
condizioni di merito.
Ma
chi sono questi recidivi? Se andiamo a vedere, oggi su 68.700 detenuti il 30% è
tossicodipendente, quindi ha compiuto un reato per procacciarsi la droga, rapina
e ruba perché deve drogarsi. E lo reitera più volte perché ha sempre più
bisogno di drogarsi.
In
questo Paese il problema della droga, che è complesso e, per carità, nessuno
ha la bacchetta magica, viene risolto, semplificando, con il carcere e quindi i
tossicodipendenti sono i primi ad andare in carcere, che è il posto più
sbagliato dove dovrebbero andare.
Di
questi 68.700 detenuti circa il 52 per cento sono definitivi, quindi in Italia
quasi la metà dei detenuti sono in carcere perché in custodia cautelare,
dunque presunti innocenti in attesa di giudizio o in attesa di sentenza
definitiva. Solo il 52 per cento dei detenuti quindi può usufruire dei
benefici, perché questi non possono essere chiaramente dati a chi è in
custodia cautelare e deve ancora essere condannato.
Tra
i benefici penitenziari, oltre alla detenzione domiciliare e l’affidamento in
prova, vi ricordo la semilibertà. Spesso si dice che il detenuto in semilibertà
è “libero”; mi viene in mente il caso di Pietro Maso e i titoli sui
giornali “Maso è libero”: no, è semilibero e c’è una bella differenza,
se le parole hanno ancora un senso in questo Paese.
Ma
che cos’è la semilibertà? La semilibertà è il beneficio secondo il quale
un detenuto, se ha un lavoro all’esterno, può uscire dal carcere solo per
svolgere questo lavoro; ma deve prima trovarsi un lavoro, che di questi tempi
non è affatto facile. Se lo trova, gli si consente di uscire per svolgerlo ma
deve rientrare in carcere per dormire, quindi non è libero; perciò quando
sentite, mi rivolgo proprio direttamente a voi giornalisti, la parola
“semilibertà” dovete pensare che si tratta di una persona che è in carcere
ed è detenuta a tutti gli effetti, parificata a tutti gli altri detenuti sotto
il profilo del trattamento, salvo per una cosa, che esce la mattina, va a
lavorare per poi ritornare alla sera in carcere. Ovviamente può essere
controllato durante il tragitto, se sgarra il beneficio può essere revocato, se
non lo trovano al lavoro glielo revocano immediatamente; certo, è una piccola
apertura della porta e un rischio c’è chiaramente, come c’è nel permesso
premio, ma sempre inferiore al rischio di mettere fuori una persona dopo che ha
scontato tutta la pena in carcere e che a quel punto deve cominciare a trovarsi
un lavoro e magari seguirà la scorciatoia del crimine perché più rapida.
Il
permesso premio è la possibilità che viene concessa dal magistrato di
Sorveglianza di uscire dal carcere per coltivare gli affetti, gli interessi
culturali o di studio; il permesso premio è la prima occasione che il detenuto
ha di “mettere il naso fuori”. Quindi lo si concede dopo che si è
conosciuta la persona in carcere e che la si è osservata: certamente è una
“scommessa” su di lui.
I
magistrati di Sorveglianza lavorano sul futuro
Del
resto i magistrati di Sorveglianza lavorano sul futuro mentre il giudice della
cognizione, quello che applica la pena, lavora sul passato, deve giudicare un
fatto, sente i testimoni e accerta la verità di una certa vicenda processuale
dopodiché applica la pena. La sua è una diagnosi sul passato e solo
parzialmente sul futuro. Il magistrato di Sorveglianza deve invece fare una
prognosi vera e propria, quindi lavora sul futuro, e qualche errore può
compierlo ed è quello che poi trova spazio sui giornali con titoli come
“Ergastolano evade”, “Detenuto va a fare una rapina durante un permesso
premio”.
Certo
ci può essere qualche caso, ma andiamo a vedere le percentuali di cui ho
parlato prima, torna a delinquere molto di più chi ha trascorso tutta la pena
in carcere, di chi ha scontato in misura alternativa parte della sua condanna.
Vorrei
fare un’ultima annotazione sull’ergastolo.
Qui
a Padova ci sono molti ergastolani, sapete quanti sono gli ergastolani in
Italia? Sono 1.434 e io quando l’ho letto sono rimasto sorpreso perché non
pensavo fossero così tanti; quindi anche quando si dice che in Italia non si dà
più un ergastolo, che i grandi criminali sono tutti fuori, si deve ricordare
che vi sono più di 1.400 ergastolani su 68.700 detenuti e 600 detenuti
sottoposti al regime dell’art. 41 bis: non sono pochi.
Allora
come si concilia l’ergastolo, che è una pena definitiva con fine pena mai,
con la finalità rieducativa? Il problema c’è, tant’è che la Corte
costituzionale si è occupata della questione e ha detto una cosa
importantissima: che l’ergastolo, la cui previsione astrattamente potrebbe
contrastare con il principio rieducativo dell’articolo 27 della Costituzione
(perché non si può dare rieducazione a chi mai uscirà dalla galera) è
costituzionalmente legittimo solo in quanto c’è un beneficio che si può dare
anche agli ergastolani, e cioè la liberazione condizionale.
La
liberazione condizionale non è una misura alternativa, è un beneficio che
esisteva prima delle misure alternative (introdotte nel 1975), è prevista dal
Codice penale - e stiamo parlando del Codice Rocco quindi un Codice fascista –
e consiste nella possibilità di uscire anticipatamente, anche gli ergastolani,
se dopo aver espiato una parte assai considerevole di pena (che per
l’ergastolo è di 26 anni) ci si è pienamente ravveduti, si è risarcito il
danno oppure si è dimostrato di essere nell’assoluta impossibilità di
risarcirlo. Per cinque anni il liberato viene sottoposto ad una misura che si
chiama “libertà vigilata” e quindi deve firmare tutti i giorni dai
carabinieri, deve stare a casa di notte, non può guidare, non può muoversi dal
Comune di residenza; dopo questi 5 anni, se si è comportato bene, la pena
residua non si eseguirà più, anche quella perpetua.
L’ultima
annotazione riguarda l’articolo 21, un beneficio che non viene dato dal
magistrato di Sorveglianza ma dal Direttore del carcere e che a mio parere
dovrebbe essere incrementato: consiste nel lavorare fuori dal carcere per alcune
ore in situazioni assolutamente protette e poi rientrare in carcere; è simile
alla semilibertà ma è più restrittivo. Anche questo beneficio favorisce la
rieducazione attraverso lo svolgimento dell’attività lavorativa, principale
motore, assieme allo studio, di ogni recupero.
L’informazione
si interessa degli elementi obiettivi della commissione del reato
Quello
che però è importante sia per i minori sia per gli adulti è che c’è anche
un’altra dimensione, obbligatoria peraltro da considerare nel caso dei minori,
che dice che “bisogna valutare la personalità”
di
Mauro Grimoldi, Presidente
dell’Ordine degli psicologi della Lombardia,
autore
del libro “Adolescenze estreme”
Il
tema che voglio trattare, quello dei reati dei minori, si incrocia in maniera
molto chiara con quello della bontà e della cattiveria, del chiedersi cioè
“ma l’autore di un reato è buono o cattivo?”.
Io
non sono in grado di fare una valutazione di questo tipo, non lo so e non credo
che sia scritto nel fatto che una persona commette un reato, il principio che
intrinsecamente questa persona debba essere o buona o cattiva o che ci possa
essere più bontà o più cattiveria in chi commette un reato rispetto a chi non
lo commette.
Quello
che però è certo è che la commissione di un reato, sia da parte di un minore
che di un adulto, in qualche modo segnala la violazione di un patto sociale e
questo è un patto che, secondo Freud nel “Disagio della civiltà”, quindi
secondo un autorevolissimo psicologo padre della psicoanalisi, per noi
rappresenta qualcosa di molto importante e di molto profondo.
In
fondo una persona per stare in una comunità, che è fatta anche di altre
persone, rinuncia ad una certa parte del proprio godimento. Quindi decide di non
realizzare sempre e comunque in via diretta le cose che vuole e desidera, perché
stare insieme agli altri è meglio che starsene da solo, perché riesce a
procacciarsi meglio le cose di cui ha bisogno e perché alla fine diventa un
processo, appunto, conveniente.
Il
patto sociale è una cosa che in linea di massima funziona, nel senso che
funziona per la stragrande maggioranza delle persone, tranne per coloro i quali
ad un certo momento della loro vita commettono un reato.
Il
punto è un po’ la chiave anche di tutta la questione attorno alla quale ruota
il problema della sicurezza sociale, e sapere perché alcune persone rispettano
il patto sociale e quindi si trovano all’interno di una cornice di convenienza
e perché invece alcuni, per realizzare dei bisogni, che si possono situare su
di un versante pulsionale, non lo rispettano, diventa importante.
Proprio
in questi giorni si discute se lo zio di Sara Scazzi sia l’autore del
gravissimo reato di cui è accusato perché rifiutato rispetto ad una realizzazione
di un suo desiderio di tipo libidico, oppure viceversa se di fatto lei lo stesse
accusando di mettere in luce e di rendere pubbliche le sue attenzioni. Io credo
che possa essere assolutamente importante capire il perché per diverse ragioni,
nel caso dei minori perché innanzitutto queste ragioni in una stragrande
maggioranza dei casi e direi quasi nella totalità non sono note.
In
uno scorso evento che abbiamo vissuto qui insieme, e sono sempre momenti
meravigliosi devo dire, avevo sottolineato quella che è stata la frase di un
ragazzino accusato di un reato sessuale, che vedendo all’interno del nostro
ufficio diverse illustrazioni e ritagli di giornali ed articoli, mi chiedeva “
Ma voi conoscete gente cattiva, frequentate persone cattive?”.
Cioè
come dire “Che coraggio avete nell’incontrare queste persone e chissà
quante ve ne capitano!”; questo ragazzo era accusato di un reato ex articolo
609 che aveva poi effettivamente commesso, quindi di fatto non simulava neppure
di non aver commesso il fatto. Però si attendeva qualcosa di diverso per sé,
non vedeva, specchiandosi, l’emblema di una sostanziale cattiveria, ma vedeva
qualche cosa che segnava la cifra di una domanda, di un enigma, lui si domandava
il perché.
Il
perché lui si era trovato lì, il perché di fatto si era trovato a commettere
quel reato, ed effettivamente il quesito esiste e la risposta a questo quesito
può essere usata per fare non più di due cose. Una cosa è fare il profiling,
cioè fare quell’attività che viene messa al servizio della’attività
investigativa e che consente di dire, e in un caso come quello di Sara Scazzi
sarebbe abbastanza semplice, quale dei vari scenari che vengono proposti e che
sembrano tutti plausibili è più plausibile di altri, in base ad una serie di
dati statistici che abbiamo ampiamente a disposizione, in base all’esperienza
e all’elemento soggettivo che riguarda la commissione di questo reato.
Ma
poi ci interessa poco, ci interessa invece il secondo utilizzo, quindi non
quello che viene messo al servizio dell’attività investigativa, ma quel
servizio che viene reso dalla valutazione della persona che commette un reato,
rispetto alla probabilità di reiterazione, rispetto alla pericolosità sociale.
È
importante comprendere il significato che ha avuto, all’interno della vita di
una persona, il fatto di essersi trovato lì e di essere uscito da quel
contratto sociale che dovrebbe funzionare per tutti, ma che non funziona per
tutti.
Allora
io ho anche delle ottime possibilità di sapere in che tempi si può realizzare
quell’elemento sia prognostico, sia anche quell’elemento qualitativo che mi
permette di dire di quali esperienze ha bisogno quella persona per riuscire a
pensare che possa non ripetere il reato.
Questa
è una questione che è importante per i minori, anzi diciamo che per i minori
è essenziale perché per i minori è inscritto all’interno di una legge che
è la 448/88 e che è una legge importantissima che ci mette all’avanguardia
sul piano della legislazione e dell’esecuzione penale per i minori che
commettono reati, questa legge potrebbe avere un senso e un’utilità anche
rispetto ai discorsi che riguardano gli adulti. Per cui trovo che sia
assolutamente importante, direi essenziale non limitarsi alla commissione di un
reato per dare un giudizio spesso semplificato della persona in base a quello
che è accaduto.
Io
l’ho visto succedere molte volte occupandomi di reati gravi, di solito reati
contro la persona commessi da minori tra i 14 e i 18 anni, di vedere come
l’informazione si interessi degli aspetti e dei dettagli che riguardano gli
elementi obiettivi della commissione del reato, tipo quante coltellate, in che
modo è stata brandita l’arma, il perché e il per come sono avvenute le
singole e più cruente fasi dell’episodio delittuoso. Badate non ne faccio una
colpa ai giornalisti, io per altro sono giornalista, per cui sono iscritto
anch’io all’albo dei giornalisti della mia regione, quindi ho la massima
simpatia per quelli che un po’ impropriamente posso definire miei colleghi.
Però
la questione è quella che ci sono anche altri dettagli, e questi altri dettagli
sono importanti e a mio parere non privi di un certo interesse, e sono quelli
che riguardano non solo l’azione criminosa, o quella che si suppone sia stata
l’azione criminosa, visto che spesso le notizie gustose per il giornalista
sono quelle che addirittura precedono il momento in cui un giudice per le
indagini preliminari è in grado di dire quello che è avvenuto. Prima si ha la
notizia e meglio è, se poi è una supposizione poco importa, l’importante è
in quel momento dire una cosa che può essere di qualche interesse, ma lo dico
senza che per me questo rappresenti un elemento di colpa.
Quello
che però mi sembra assolutamente interessante e importante sia per i minori sia
per gli adulti è che c’è anche un’altra dimensione, obbligatoria peraltro
da considerare nel caso dei minori, come stabilito dall’art. 9 della legge
448/88, che dice cioè che “bisogna valutare la personalità” .
La messa alla prova è uno strumento
straordinariamente potente
E
perché bisogna valutare la personalità?
Perché
se io mi metto nell’ottica di attribuire a ciò che faccio, alla pena ma anche
a ciò che la precede, quindi anche all’atto di eseguire un’indagine e di
fare una valutazione, una funzione rieducativa, se io do a tutto l’atto una
funzione rieducativa allora io ho bisogno di fare questo, di sapere chi mi trovo
davanti e cercare di capire perché quella persona abbia realizzato quel reato,
visto che c’è un patto sociale che dovrebbe aver trovato conveniente e che
invece, in un certo momento della sua vita, non ha più trovato conveniente, ha
trovato più conveniente commettere un reato.
Dobbiamo
allora cercare di capire che cosa è avvenuto, affiancare agli elementi che
riguardano tutto ciò che è la parte obiettiva della commissione del reato,
anche quelli che costituiscono la parte soggettiva. Quindi ci si inizia ad
immaginare i perché, che cosa sta nella mente, nell’affettività, nelle
emotività di una persona che si ritrova a commettere un reato.
Io
credo che si faccia un’operazione che a lungo termine diventa un’operazione
intrinsecamente di sicurezza sociale.
Per
i minori lo è in modo chiaro, perché c’è l’articolo 28 sempre della
stessa legge 448/88, che prevede la messa alla prova, un istituto che permette
alla stragrande maggioranza dei circa 40.000 minori che commettono reati ogni
anno in Italia di non finire in prigione.
La
carcerazione per i minori è una punizione decisamente residuale, tant’è vero
che in tutta l’area della Lombardia esiste un unico carcere che è
l’istituto minorile Beccaria che contiene circa 50/60 ragazzi. Quindi sono
tutti quelli che all’interno di una regione così grande come la Lombardia
finiscono in prigione, gli altri in linea di massima e in grande misura sono
sottoposti a ciò che prevede l’articolo 28 della 448/88, e cioè sono
sottoposti alla messa alla prova.
Questo
vuol dire che per un certo periodo gli si fanno fare delle cose, ma la vera
domanda e la vera questione è se noi vogliamo pensare che queste cose che
fanno, facciano sicurezza sociale, ovvero diminuiscano la probabilità che
quello stesso minore domani commetta un altro reato.
Allora
vuol dire che io devo scommettere sul fatto che io ho compreso le ragioni
profonde per cui è stato commesso il reato per il quale loro sono giudicati, e
che sto facendo azioni mirate in quel senso, in quella direzione.
La
messa alla prova è uno strumento straordinariamente potente, e a una possibile
applicazione di strumenti analoghi anche per gli adulti certo che dico sì, ma
il problema non è quello dell’efficacia dello strumento della messa alla
prova, ma è nel fatto che la messa alla prova è anche uno strumento
straordinariamente complesso.
Cioè
non esiste messa alla prova se la messa alla prova significa che io vado e
faccio un po’ di attività socialmente utile andando a lavorare alla mattina e
torno a casa alla sera, non è questo il problema.
Guardiamo
ad esempio i minori che commettono reati nell’area dei reati sessuali. I reati
sessuali intrafamigliari, per esempio, vengono tradizionalmente commessi da
minori che passano molto tempo in casa, che sono bravi studenti, che non danno
problemi a livello di sicurezza sociale, che hanno famiglie tendenzialmente
piuttosto adeguate e piuttosto accudenti nei loro confronti.
Che
senso ha che un minore che ha queste caratteristiche pensi di fare un’attività
che previene la reiterazione del reato andando ad aiutare gli anziani in un
istituto piuttosto che dando una mano agli handicappati? Questa diventa
un’attività retributiva mascherata che non ci interessa, perché non ha più
la funzione di limitare la reiterazione del reato, mentre noi siamo oggi
assolutamente in grado di risolvere.., lo dico in potenza ma lo dico anche in
atto, perché in alcune zone come quella in cui ho la fortuna di lavorare io,
che è la corte d’appello di Brescia, lo facciamo, siamo assolutamente in
grado di risolvere il problema della stragrande maggioranza dei minori che
commettono reati.
In
pratica io sono in grado di dire che possiamo restituire alla società civile al
termine della messa alla prova, un’elevatissima percentuale di minori che non
sono più pericolosi e che quindi non costituiranno più un costo sociale.
Il
problema qual è?
Il
problema è che non posso risparmiare su tutta quella parte che chiamo
prevenzione terziaria, che è ciò che avviene dal momento in cui io arresto un
minore, al momento in cui io lo restituisco alla società civile.
Quello
che succede lì in mezzo non ha sconti possibili, quello che succede lì in
mezzo richiede competenze elevatissime, io non posso pensare che ci sia un
assistente sociale o uno psicologo o un educatore che si mette a costruire un
progetto riabilitativo senza saper rispondere alla domanda sul perché quel
minore ha commesso quel reato.
Quello
è un elemento essenziale, perché il fallire una messa alla prova è come per
una persona che vada fuori in un permesso premio e si ritrovi a commettere un
reato, questo crea un danno a tutti gli altri. Una messa alla prova che non
funziona fa pensare che sia l’istituto della messa alla prova a non
funzionare, ma non è così, è il fatto che la messa alla prova prevede
un’attività diagnostica precisa e un’attività prognostica altrettanto
precisa.
Non
può essere che uno psicologo o un educatore si presentino di fronte ad un
magistrato e non sappiano prevedere ragionevolmente la probabilità che quel
minore, ma penso che possa applicarsi anche agli adulti, possa reiterare quello
o altre tipologie di reato e che sappia addirittura anche prevedere quali reati
quel minore rischia di ripetere.
Questo
è assolutamente essenziale, gli sconti sulla qualità, gli sconti sulla
prevenzione sono come gli sconti sulla cultura, non fanno bene a nessuno e
creano solo un danno sul piano della sicurezza sociale.
Carcere,
custodia cautelare e trattamenti degradanti. L’intervento della Corte
Costituzionale
e
della Corte Europea dei diritti dell’Uomo
di Monica Gazzola, Membro delle Commissioni Human Rights, Criminal Law e Access to Justice del CCBE
(Consiglio degli ordini forensi europei); membro della Scuola Superiore dell’Avvocatura, Gruppo Diritti dell’Uomo;
già presidente della Commissione sul patrocinio a spese dello Stato,
difese
d’ufficio e problematiche carcerarie dell’Unione dei Consigli degli Ordini
del Triveneto.
Attualmente
ci sono 69.000 persone in carcere in Italia, contro una capienza di 44.000
posti. Di questi, 26.000 sono stranieri, 29.000 sono in attesa di giudizio.
Altri
numeri, i morti in carcere. Solo quest’anno (2010), siamo già a 54 suicidi,
su un totale di 135 morti in carcere. Di questi 135, per alcuni in realtà vi è
tutt’ora l’ombra di un suicidio e non di una morte “accidentale”. In
ogni caso, anche per una persona che muore in carcere per una malattia… io
credo vi sia da riflettere, non è classificabile facilmente come una morte
“naturale”.
I
due terzi delle persone che si sono suicidate, avevano meno di quarant’anni.
Dal 2000 nelle carceri italiane si sono suicidate 612 persone. Il numero
complessivo dei morti in carcere, nello stesso periodo, è di 1695.
In
America vige la pena di morte. Tutti noi siamo contro la pena di morte, lo Stato
italiano è stato uno dei primi a impegnarsi a fondo per l’abolizione della
pena di morte e di questo andiamo orgogliosi. Però voglio ricordare che in
America nel 2010 ci sono state 41 esecuzioni capitali. Cosa significa? Vuol dire
che nello stesso periodo, ci sono stati più morti in carcere in Italia per
suicidio, che non in America per esecuzione di pena capitale.
Io
do questi dati, non do giudizi. Sono numeri, la maggior parte di voi siete
giornalisti e quindi sapete che molte volte i numeri dicono molto di più di
tante parole, di tante chiacchiere.
Ed
allora partendo da questi dati, da giurista, il punto di vista che vi offro è
quello di due sentenze che, debbo dire, non hanno avuto grande risalto sulla
stampa nazionale, e che secondo me sono invece due sentenze fondamentali e
forse, per certi versi, rivoluzionarie in questo contesto politico e sociale.
La
prima è la sentenza della Corte Costituzionale del 21/07/2010, che è
intervenuta in tema di custodia cautelare in carcere. Ed è intervenuta
dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 275 del Codice di
procedura penale (per i non addetti ai lavori, è l’articolo che disciplina,
che dà le coordinate in base alle quali il giudice può o deve applicare la
custodia cautelare in carcere) nella parte che era stata modificata con la
famosa legge del 24/04/2009 (quella che ha introdotto il reato di stalking, gli
atti persecutori – art.612 bis del Codice penale). La stessa legge aveva anche
introdotto la presunzione assoluta di idoneità della sola custodia cautelare in
carcere per i reati di violenza sessuale, di pornografia con minori e atti
sessuali con minori, prevedendo che nel caso in cui il giudice avesse valutato
l’esistenza di gravi indizi a carico del sospettato (stiamo parlando sempre di
persone sospettate di un reato, di persone ancora “giudicabili”, non di un
giudizio definitivo e inappellabile), doveva applicare la custodia cautelare in
carcere.
Quindi
una presunzione assoluta sul fatto che l’unica misura cautelare possibile è
quella della custodia cautelare in carcere.
Una sentenza che riafferma che la misura
cautelare non è un “anticipo” di pena
La
Corte Costituzionale con la sentenza del 21/07/2010 (che io credo dovrebbe
essere una sentenza da far studiare non solo nelle scuole di diritto, ma da far
studiare anche ai nostri politici e da divulgare) anzitutto si richiama ad un
concetto “cardine” del nostro ordinamento, non solo giuridico, ma fondante
il nostro stesso ordinamento sociale e costituzionale, che è quello espresso
dell’art. 27 della Costituzione, ossia la presunzione d’innocenza.
Io
aggiungo: non solo l’art. 27 della Costituzione, ma anche l’art. 6 della
Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo, che a tutti gli effetti è diritto
vincolante, sancisce che nessuno può essere giudicato colpevole fino alla
sentenza passata in giudicato.
Ricorda
la Corte Costituzionale come la misura cautelare non è un “anticipo” di
pena, non ha la finalità di espiazione della pena. Le sole finalità sono la
tutela della collettività nel caso in cui ci siano degli elementi concreti, dai
quali si desuma che il soggetto possa commettere altri reati gravi della stessa
specie, ovvero tutelare il fatto che si possa celebrare il processo ed
eventualmente irrogare la pena nel caso in cui si tema che il soggetto possa
darsi alla fuga (ma sempre con elementi saldi, fattuali) e, infine, tutelare le
prove, nel caso in cui si abbia un fondato motivo di ritenere che il soggetto
indagato possa inquinarle.
Questi
sono i casi. Ciò posto, afferma la Corte che quindi il Giudice ha un
potere/dovere di valutazione nell’applicazione delle misure cautelari, con una
modalità che la stessa Corte Costituzionale chiama una “discrezionalità
tecnica”, ossia egli è si libero nella valutazione, ma entro dei parametri
che sono sanciti dalla Costituzione e dagli art. 275 e seguenti del Codice di
procedura penale. Questi parametri sono: in primo luogo, il principio di
personalizzazione della misura cautelare (bisogna guardare il fatto concreto e
la persona); poi, il principio di “adeguatezza” (la misura cautelare va
scelta, va applicata, in relazione all’idoneità a tutelare l’esigenza
cautelare).
Il
terzo principio fondamentale è quello del minor sacrificio del bene
costituzionalmente garantito della libertà personale. Questa è la chiave di
volta del sistema delle misure cautelari, la custodia cautelare in carcere è
l’estrema ratio. Perché un principio sacrosanto, sancito dalla Costituzione,
sancito dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, sancito dal Patto dei
Diritti Universali, è il diritto inviolabile alla libertà di ogni individuo.
Diritto che può essere vulnerato solo nei casi espressamente previsti dalla
legge, con tutte le garanzie di cui abbiamo accennato. E questo è il quadro che
fa la Corte Costituzionale.
E
allora, andando al caso concreto, la Corte Costituzionale che cosa dice? Dice
che l’art.275 co.3 C.p.p. così come modificato dalla L.23/472009 è
illegittimo per violazione dell’art. 27 e dell’art. 3 della Costituzione
(quell’art. 3 che afferma l’eguaglianza di tutti i cittadini e non
cittadini, di tutti) e che non è in relazione al reato di cui una persona è
sospettata che può mutare il sistema costituzionalmente garantito in tema di
libertà personale.
Quindi
la Corte afferma che, nel caso in cui ci siano gravi indizi di colpevolezza, per
questi reati di violenza sessuale, si applica la custodia in carcere salvo il
caso in cui vi siano elementi dai quali risulti che sono sufficienti misure meno
afflittive. Io credo che questa sentenza rappresenti un faro, soprattutto
nell’attuale contesto di giustizialismo.
A
questa sentenza voglio contrapporre l’intervento di un esponente del Governo,
il Ministro delle pari opportunità. Io riporto qui, comunque con il rispetto
che si deve ad un rappresentante delle istituzioni, il suo commento, perché
credo sia sintomatico del clima attuale di giustizialismo frettoloso, che
secondo me sta facendo scempio del nostro stato di diritto. Il giorno dopo la
pubblicazione di questa sentenza, il Ministro Carfagna è uscito con un
comunicato stampa nel quale diceva: “per noi chi violenta una donna o peggio
un bambino, deve filare dritto in carcere senza scusanti da subito…”. Quindi
dando già per scontato che chi è accusato di un reato di violenza sessuale, è
sicuramente colui che ha stuprato, che ha violentato. E prosegue
“L’intervento della Corte Costituzionale è giustificazionista, lontano dal
sentire dei cittadini e purtroppo ci allontana dalla strada verso il rigore e la
tolleranza zero contro i crimini”.
Io
credo che un Ministro che dice queste cose in relazione ad una sentenza della
Corte Costituzionale, dovrebbe dimettersi.
Quanto
a questo riferimento che ho fatto alla sentenza della Corte Costituzionale,
giusto per allontanare dubbi, vorrei aggiungere che mi occupo di violenza sulle
donne e sono la prima ad applaudire la riforma del 2009 in tema di introduzione
del reato di stalking. Ma sono due cose diverse: un conto è affermare che
esiste il dovere dello Stato di tutelare le donne, di intervenire laddove vi
siano casi di violenza, un conto è dire che questo deve portare ad un
giustizialismo sommario.
Il sovraffollamento e la “sentenza
Sulejmanovic”
Passando
alla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo - anche questa accolta
dall’indifferenza generale -, voglio prima ricordare che l’Italia ha un
triste primato di condanne da parte delle Istituzioni europee per le condizioni
delle nostre carceri.
Lo
scorso settembre ho partecipato ad un convegno sui diritti umani in Europa. Uno
dei relatori era un membro della Commissione Europea contro la tortura e i
trattamenti inumani e degradanti, una commissione che dipende dal Consiglio
d’Europa ed è composta da un rappresentante per ognuno dei 47 stati membri
del Consiglio d’Europa. La Commissione visita, come sua attività
istituzionale, tutte le carceri e le stazioni di polizia dell’Europa, fa delle
ispezioni a sorpresa e redige dei rapporti. Sulla base di quei rapporti, il
Consiglio d’Europa può irrogare sanzioni e l’Italia credo che abbia uno dei
primati in tema di sanzioni.
Ad
un certo punto, questo relatore ha detto: “…attualmente abbiamo tre Paesi
che sono sotto il costante controllo della nostra Commissione per i continui
abusi, le continue violazioni del divieto di tortura e trattamenti disumani, e
sono la Cecenia, la Romania e l’Italia”.
La
sentenza che voglio ricordare è stata pronunciata il 16/07/2009, ed è la
numero 22635/03 ricorrente Sulejmanovic.
Come
sapete, la Corte Europea dei diritti dell’uomo si interessa di tutti i casi in
cui vi sia una violazione di uno degli articoli della Convenzione Europea dei
diritti dell’uomo. Il ricorrente aveva lamentato la violazione dell’art. 3
della Convenzione (che stabilisce il divieto di tortura e di trattamenti inumani
e degradanti), dimostrando di essere stato rinchiuso con altre quattro persone
in una cella mi pare che fosse sui 16 metri quadri, quindi con uno spazio per
ciascuno di circa 2,70 mq.
La
Corte Europea di regola chiede degli accertamenti molto rigorosi, prima di
affermare che vi è stato trattamento inumano e degradante, prendendo in
considerazione altri fattori, quali le ore d’aria, le condizioni igieniche
ecc. Ma in questo caso ha statuito che allorquando ad un detenuto è consentito
uno spazio vitale autonomo inferiore ai tre metri quadri, automaticamente
sussiste la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea, senza necessità
di ulteriori accertamenti. Quindi l’Italia è stata condannata.
Se
adesso tutti i detenuti agissero avanti la Corte Europea per i diritti
dell’uomo rappresentando la condizione di sovraffollamento, ritengo che
l’Italia sarebbe sommersa da condanne.
La
giustizia riparativa per il mondo dell’informazione è un oggetto misterioso
“Molestie
alle compagne, quattro bocciati”, questa notizia è uscita qualche mese fa e
riguarda quattro ragazzi di appena quindici anni di una scuola di Monselice.
Anche la scuola la prima punizione che è riuscita a pensare è l’esclusione
dal contesto sociale in cui è avvenuto il fatto. L’idea dominante nella
nostra società è quella della pena intesa sempre come allontanamento dalla
società, e quindi, nel caso di studenti, dalla scuola. È stato questo un po’
il motivo per cui abbiamo deciso di invitare un mediatore penale, Carlo Riccardi,
a parlare di una giustizia diversa, che mette al centro la riparazione del
danno, e non la punizione che esclude.
A
cosa serve la pena per le vittime e per chi il reato lo ha commesso?
La
mediazione e la giustizia riparativa mettono al centro la responsabilizzazione,
responsabilizzarsi attraverso l’incontro, attraverso il vedere il viso del
male che tu hai compiuto
di Carlo Riccardi, criminologo,
mediatore
dell’Ufficio per la mediazione penale di Milano
Prendo
la parola non tanto da criminologo, quanto da mediatore, da colui che insieme ad
altri si occupa di questo nuovo paradigma della giustizia, che è la giustizia
riparativa.
In
particolare mi occuperò, sulla base delle esperienze che ho avuto, di quelli
che sono i reati che nascono, come mi piace ripetere, “negli interstizi” del
quotidiano.
Esistono
sì i grandi reati, ma la maggior parte dei delitti nasce nelle vite quotidiane,
nasce nelle famiglie, nelle situazioni in cui è più forte la vicinanza tra le
persone ed in cui la relazione di vicinanza invece che proteggere, ferisce.
Volendo
fare un esempio, nelle nostre esperienze uno dei luoghi dove questi interstizi
del quotidiano sono più aperti alla possibilità che si creino delle situazioni
potenzialmente distruttive è il condominio. Nulla di diverso da quello che
tutti voi e noi viviamo quotidianamente.
In
quegli interstizi di cui parlavo non si vanno ad insinuare solo le condotte
“bagatellari” (nel linguaggio forense, i reati che, per la loro minima
lesività, hanno minore rilevanza sociale e possono quindi essere repressi con
sanzioni contravvenzionali o amministrative), ma anche vere e proprie tragedie
– cito il delitto di Erba che è un caso mediaticamente più importante, ma
Erba è soltanto uno dei tanti Erba che esistono potenzialmente in qualsiasi
città italiana.
Inizio
questa mia riflessione da una considerazione più elementare, qualcosa di cui
non si è ancora parlato oggi; stiamo parlando della pena e abbiamo visto finora
la pena dal punto di vista di colui che il reato lo commette. In ogni reato però
c’è, come ha scritto benissimo in un articolo uno dei membri della redazione
di Ristretti Orizzonti, chi nel reato sta dall’altra parte dell’arma, cioè
la vittima.
Il
magistrato ha parlato delle funzioni della pena considerandole dal punto di
vista della società e del vantaggio che la pena ha nei confronti della società,
esiste però un pensiero molto più elementare, e cioè che prima che nei
confronti della società, prima che nei confronti del mondo intero un reato è
commesso nei confronti di qualcuno. Questa è una questione elementare, ma da
cui bisogna partire e da cui prendere le mosse, c’è una vittima e parlare di
vittima significa sostanzialmente due cose. La prima è che parlare di vittima
non significa parlare contro il reo, non significa parlare contro chi il reato
lo ha commesso, significa solamente cercare di stabilire un equilibrio, un
equilibrio tra chi il fatto l’ha commesso e chi il fatto l’ha subito.
Abbiamo tanto parlato oggi dell’art. 27 della Costituzione e, forse come
utopia, un giorno mi piacerebbe che accanto a quella pena che rieduca il
condannato, da qualche parte nella Carta costituzionale ci possa essere scritto
che anche la vittima meriti una rieducazione.
Una
rieducazione, sì, perché la chiamo così?
Oggi
sembra che ad un certo punto della vittima non ci sia più bisogno; ci sono
tante vittime che se non hanno la possibilità materiale, di pagarsi per esempio
lo psicologo, di pagarsi dei percorsi di reinserimento attraverso delle terapie
lunghe e magari costose, non possono “rieducarsi” dalle conseguenze
dell’atto che hanno subito, quindi è per questo che parlo, forse
impropriamente, di rieducazione.
Il
concetto di vittima è semplice; se ci riflettiamo tutti noi lo sapremmo dire
chi è una vittima, una vittima, è colui o colei che ha subito un danno
derivante da un comportamento illecito altrui. Ma non solo; sono vittime anche i
famigliari di questa persona, quindi i famigliari della vittima di un omicidio
sono, per una dichiarazione delle Nazioni Unite, anch’essi delle vittime.
Più
complicato secondo me è il concetto di vittimizzazione, e cioè cercare di
pensare che cosa accade in un soggetto che subisce un reato. Anzitutto accade
che quando una persona subisce un reato è necessaria una risposta alla domanda
principale che le vittime si pongono in quel momento, domanda che non è
“quanto vale il mio risarcimento dell’offesa che ho subito”, ma la domanda
principale che si fanno è “perché io? perché è successo a me?”. Questo
risponde al fatto che, avendo subito il reato, è stato violato il patto
sociale, che Adolfo Ceretti chiama il patto di cittadinanza.
Un reato rompe il patto di cittadinanza
Il
patto di cittadinanza significa che oggi noi siamo usciti di casa sapendo due
cose; che siamo “invulnerabili” e che noi apparteniamo a una comunità
sicura. Sicura significa che non c’è un’imprevedibilità tale del
comportamento altrui che ci fa restare chiusi in casa per la probabilità di
subire un reato. Ognuno di noi oggi è qui ritenendo che uscendo e tornando a
casa non gli accadrà nulla.
Il
reato rompe il patto di cittadinanza, rompe questa relazione che si crea tra
tutti noi. Si dice sempre, per noi che ci occupiamo della mediazione, che esiste
una relazione tra il reo e la vittima. Ma perché esiste? Perché tutti noi
siamo legati dal patto di cittadinanza, per cui siamo consapevoli che le nostre
relazioni sono fondate sul rispetto dell’altro e che questo altro non violerà
la nostra identità.
Violando
questo patto di cittadinanza si crea un problema: la vittima inizia a mettere in
moto tutta una serie di meccanismi, per cui quel comportamento, quello che è
successo, potrà sicuramente riaccadere e, se riaccadrà, sarà qualcosa di più
grave. Il trauma da vittimizzazione opera verso il futuro.
Allora
nel caso di comportamenti che violano questo patto di cittadinanza, la domanda,
che non è tanto filosofica ma è molto concreta, è questa: qual è la risposta
che si può dare al male? La risposta che si può dare al male è la pena, è la
pena nel suo senso retributivo, ma in realtà non siamo sicuri che la pena
applicata, o la pena “minacciata” dai codici, abbia la funzione di impedire
a qualcun altro di commettere un delitto. Se una persona vuole commettere una
rapina, noi non siamo tanto sicuri che, se per quel reato c’è una certa
quantità di anni di carcere che si potrebbero fare, questo impedisca ad una
persona di commettere una rapina.
Se
la risposta al male è la pena, dobbiamo dire che questa pena così come la
concepiamo può essere forse utile per la società, ma io non sono così certo
che sia così utile per la vittima, e allora è proprio per questo che dobbiamo
cercare, nei ragionamenti sulla pena, di pensare che esiste l’altra faccia del
delitto, e cioè la vittima.
L’idea
della giustizia riparativa è questa; se la funzione retributiva, la funzione
risocializzativa e la funzione di deterrenza sono funzioni sacrosante che sono
un po’ il cardine di tutto il nostro sistema e che non verranno mai meno, oggi
forse dobbiamo fare un passo in avanti, e cioè un passo diverso, né migliore né
peggiore ma semplicemente diverso, che è quello di chiederci a cosa serve la
pena per le vittime e, similarmente, a chi il reato lo ha commesso.
Focalizzandoci
su quelle che sono le conseguenze di un reato, esse sono certamente le
privazioni patrimoniali, le offese al corpo, ma sono anche tutta una serie di
altre conseguenze che fanno sì che una vittima debba, così come il reo,
riappropriarsi della propria vita, perché un reato segna una linea di
demarcazione tra un prima e un dopo.
Se
c’è un prima e un dopo, all’interno di questo prima e di questo dopo ci
deve essere qualche cosa che deve lavorare sulle conseguenze del reato. Per
l’esperienza che ho, io non ho mai sentito nelle vittime così forte ed
esclusiva l’esigenza di essere risarcite: ho invece sentito sempre molto forte
l’esigenza delle vittime di essere riparate, riparate nella violazione che
hanno subito.
Certe
volte la violazione non è riparabile per la vittima stessa, perché la vittima
stessa al momento in cui è accaduto il fatto non esiste più perché magari è
stata uccisa, ma ci sono ancora oggi - e vi faccio l’esempio di tutti quei
programmi che si stanno attuando di mediazione all’interno dell’esecuzione
penale per grandissimi momenti della storia del nostro Paese, per esempio il
terrorismo - delle vittime o parenti delle vittime che attendono ancora la
famosa risposta alla domanda “perché io?”. Non solo, magari vi sono altre
domande: “che cosa significava per te che io fossi in quel momento un simbolo
da colpire? Io non sono un simbolo, io sono una persona che ha avuto queste
conseguenze dalla tua scelta di compiere un determinato atto”.
La mediazione non c’entra assolutamente
niente con l’idea del perdono
La
giustizia riparativa opera sul tentativo di riparare le conseguenze di questo
reato, la giustizia riparativa ha vari strumenti, ci sono i risarcimenti, ci
sono le restituzioni, la giustizia riparativa trova nella mediazione il suo
strumento fondamentale.
La
mediazione è il tentativo di far incontrare chi ha commesso un reato con le
proprie vittime, per far sì che innanzitutto ci sia la possibilità di
confrontarsi su quella famosa relazione che ci lega con gli altri.
Voglio
concludere con una questione che è veramente importante, perché anche qui
“massmediaticamente” c’è un concetto che normalmente viene, secondo me,
abusato, che è il perdono.
Quando
succede qualche cosa la prima domanda che viene fatta nell’intervista alle
vittime è “Ma lei ha perdonato?”: la mediazione non c’entra assolutamente
niente con l’idea di far fare la pace e con l’idea del perdono. Il perdono
è un concetto che entra nel circuito antropologico del dono, è il per-dono, è
il for-give in inglese, è il par-don in francese, è il dare qualche cosa senza
chiedere nulla in cambio, questo dare qualche cosa senza chiedere nulla in
cambio è il dono, e il dono non si può richiedere.
Il
dono è un percorso che ognuna delle persone può decidere di intraprendere o
meno, è un percorso che deve essere svolto “nel chiuso delle proprie
stanze” e non per essere stati costretti da qualsiasi tipo di percorso più o
meno strutturato.
Non
ci devono essere equivoci sul punto: i mediatori – e la mediazione – non
sono coloro che vogliono far fare la pace a nessuno.
Un
altro membro della redazione di Ristretti Orizzonti una volta disse in un
incontro che “certe volte è più faticoso incontrare qualcuno a cui hai fatto
del male, piuttosto che farti anni di galera”.
Questo
è il senso della responsabilizzazione che la mediazione e la giustizia
riparativa vogliono offrire, responsabilizzarsi attraverso l’incontro,
attraverso il vedere il viso del male che tu hai compiuto, così come per la
vittima la possibilità di dare la risposta a quella domanda da cui siamo
partiti: Perché proprio a me?
Dare
la notizia, non costruirla
Appiattirsi
sulla “pancia” della gente svilisce la professionalità dei giornalisti
di Lucia Castellano, Direttrice del carcere di Bollate,
autrice,
con la giornalista del Sole24ore Donatella
Stasio, del libro “Diritti e
castighi”
Il
carcere di Bollate è un carcere dove sono detenute 1100 persone di cui 53
donne. Sono tutti detenuti comuni, non ci sono detenuti di alta sicurezza e non
ci sono detenuti in regime di 41bis; ci sono anche una decina di ergastolani.
Sono rappresentati un po’ tutti i reati, compresi i reati di violenza sessuale
(sono 400 gli autori di reati sessuali). Credo sia l’unico esperimento in
Italia (peraltro non gradito agli ospiti): un istituto in cui i sex offenders
vivono assieme agli altri e non nelle sezioni “protette”.
Questo
per noi è un motivo d’orgoglio perché abbiamo vinto il pregiudizio
carcerario secondo il quale esistono i reati di serie A e quelli di serie B
(anche se, come dicevo, i primi a contrastare queste innovazioni sono stati
proprio i detenuti).
È
un carcere dove le stanze vengono aperte dalle 8.00 alle 20.00. I detenuti sono
liberi di muoversi all’interno dell’istituto, non naturalmente ovunque, ma
con un meccanismo che in gergo carcerario si chiama “sconsegna”; un permesso
con fotografia che consente loro di andare da soli a scuola, al lavoro, al
teatro, e alle altre attività che l’istituto propone. Si cerca, quindi, di
garantire il massimo della libertà compatibile con il muro di cinta.
È,
sostanzialmente, quello che impone la legge del ’75, una legge di 35 anni fa
ripresa nel dettaglio dal regolamento del 2000. Purtroppo Bollate è un
esperimento unico in Italia, o meglio unico sui grandi numeri; ci sono degli
istituti di questo tipo, cosiddetti a custodia attenuata per tossicodipendenti,
che hanno però 50/60 ospiti; quindi non fanno notizia, come direste voi.
Invece
il nostro ne ha 1100 con i sex-offender che convivono con gli altri, con la
possibilità di muoversi liberamente; rappresenta un’eccezione nel panorama
nazionale. Tutto ciò non mi fa piacere e, come dirigente dello Stato, non è
neanche per me motivo d’orgoglio.
Più
che del carcere di Bollate, che potete conoscere anche dal sito internet, a me
interessa molto parlare del rapporto tra carcere e media.
Nel
nostro istituto abbiamo un ufficio stampa, quindi c’è un rapporto molto
frequente con i mass media. Io ho avuto un po’ di difficoltà in questi otto
anni a rapportarmi con loro; in particolare, mi sembra che spesso più che
“comunicare” una notizia si voglia “crearla”. Quando il giornalista mi
chiede “Dov’è la notizia?” io non so rispondere. Ad esempio, se dico una
cosa del tipo “Nel carcere di Bollate si apre la sartoria”, allora la
notizia è che si apre la sartoria: invece vedo che spesso il giornalista cerca
una notizia massmediaticamente rilevante, e questo è un meccanismo pericoloso,
perché così si va a saziare l’opinione pubblica, piuttosto che a comunicare
quello che succede all’interno del carcere.
Faccio
un esempio molto semplice: l’anno scorso è rimasta incinta una detenuta che
frequentava la scuola. La notizia dei giornali era “Carcere a luci rosse”:
perché? La risposta è chiara: sul titolo “carcere a luci rosse” l’occhio
del lettore cade più facilmente; se invece viene scritto “nell’ambito di un
progetto sperimentale, dove era stato consentito alle detenute e ai detenuti di
andare a scuola insieme....”, la cosa è diversa. Ma “ carcere a luci
rosse” non è una notizia corretta e veritiera.
La
direzione certo ha sbagliato, ma non a consentire che uomini e donne andassero a
scuola insieme, abbiamo sbagliato perché non abbiamo vigilato abbastanza ed è
rimasta incinta una detenuta. Questa è la notizia, e poi se ne può parlare, e
vi posso raccontare perché abbiamo sbagliato, ma un carcere a luci rosse è
un’altra cosa, e qui nasce la mia difficoltà riguardo alla creazione della
notizia da parte del giornalista. Per carità, non voglio comunque attaccare i
giornalisti, io ho creato un ufficio stampa proprio per cercare di essere più
trasparente possibile; noi siamo un’amministrazione per definizione poco
trasparente e sicuramente abbiamo anche noi le nostre pecche nella comunicazione
con l’esterno.
Il
secondo punto su cui mi piacerebbe sapere anche la vostra opinione, è che la
politica di questi anni è una politica di giustizialismo frettoloso. Sembra che
si vendano delle quote di rassicurazione alla società civile: penso all’ex
sindaco di Roma, (peraltro di sinistra) che, dopo che la signora Giovanna
Reggiani era stata aggredita e uccisa da un rom che viveva come un animale, non
ha trovato niente di meglio che dire “fuori i rom da Roma”.
Credo
che un po’ di responsabilità dell’amministrazione comunale per le
condizioni di vita bestiali dei rom di quel quartiere, per il degrado e il buio
delle strade, bisognava riconoscerla, almeno da parte del sindaco. Invece la
risposta frettolosa e giustizialista è sembrata quella mediaticamente vincente.
Se
noi, sulla base delle emozioni che ci suscitano i reati orribili, facciamo
politica in maniera emotiva e non in maniera razionale, voi giornalisti dovete
avere la consapevolezza di essere il braccio armato di questo processo. Cioè il
braccio armato di una politica che si basa sulla pancia della gente. Ma nel
descrivere qualcosa non bisogna sempre basarsi sulla pancia della gente. Nel
nostro campo, ad esempio, la pancia della gente ci dice che in galera si deve
stare male, perché se in galera non stai male e non soffri non è galera.
L’emergenza carceri non è come il
terremoto dell’Aquila
Se
si scrive per esempio un articolo su Bollate, la prima cosa che bisogna fare è
far capire al lettore che quello è il carcere immaginato dalla legge:
l’istituto non è “un’altra cosa” rispetto al carcere. Appiattirsi sulla
pancia della gente svilisce la professionalità dei giornalisti.
Però
ci sono dei giornalisti così come ci sono dei direttori penitenziari, che vanno
controcorrente rispetto a questo dramma della subalternità dell’editoria alla
politica. Conosco una giornalista del Sole 24Ore, Donatella Stasio, con cui ho
scritto un libro, che lavora a il Sole 24Ore. È una professionista che scrive
raccontando semplicemente i fatti. Non bisogna essere per forza rivoluzionari,
basta limitarsi a dare la notizia e non a costruirla. Conosco un altro
giornalista che lo fa al Corriere della Sera, Luigi Ferrarella. Sono pochi; se
si comincia ad andare un po’ controcorrente, però, la corrente piano piano
cambia, non so se rendo l’idea.
Altri
due piccoli spunti di riflessione. Il problema dell’emergenza carceri: diceva
bene a Bologna, al Convegno di Magistratura Democratica, Patrizio Gonnella:
l’emergenza carceri non è come il terremoto dell’Aquila, è il frutto di
leggi che in carcere mettono un sacco di persone. La ex Cirielli, la
Fini-Giovanardi, la Bossi-Fini.
Quindi
l’emergenza non è data da una calamità naturale, è data da qualcuno: la
volontà politica e il legislatore; allora il braccio destro del governo mette
la gente dentro e il braccio sinistro vorrebbe affrontare questa emergenza
costruendo nuove carceri.
Se
qualcuno spiegasse ai lettori: i detenuti aumentano ma i reati non sono
aumentati, quella che aumenta davvero è la criminalizzazione di alcune
condotte, allora probabilmente il lettore capirebbe esattamente che
l’emergenza carceri non è paragonabile al terremoto dell’Aquila.
L’urgenza l’abbiamo creata noi, non il padreterno.
Altro
spunto di riflessione riguarda il senso della responsabilità. Dicevano
benissimo prima di me gli altri relatori: non confondiamo la libertà con le
misure alternative alla detenzione. Io su 1100 detenuti ho 75 persone che alla
mattina escono e vanno a lavorare all’esterno per poi tornare alla sera.
Vi
posso assicurare che è una misura, quella del lavoro all’esterno,
l’articolo 21, molto complicata da gestire. I detenuti che sono qui dentro non
mi credono; finché una persona non esce “in articolo 21” sogna il lavoro
all’esterno, ma questa misura è molto complicata da gestire e molto
difficile. Si tratta di uscire dalla galera e di tornare ogni sera con le
proprie gambe e non portato da qualcuno; si tratta di sopportare le
perquisizioni, ritornare dentro e ripartire la mattina dopo.
Questa
è una misura che veramente ti dà il senso della capacità della persona di
affrontare la vita da libero, il carcere “chiuso” non te lo dà questo, è
un contenimento che può essere più o meno sgradevole ma resta un contenimento
puro. Quindi non confondiamo l’uscita con la libertà, perché molte volte le
uscite sono molto più difficili dello stare in galera.
Vorrei
concludere con un piccolo richiamo al senso di responsabilità e non soltanto ai
giornalisti, che appunto rischiano di essere il braccio armato della politica,
ma anche ai detenuti, ed è un argomento di cui discutiamo sempre con gli ospiti
dell’istituto. Come giornalista si ha la responsabilità di quello che si
scrive e se si comincia ad andare controcorrente forse tutti andranno
controcorrente, abbiamo detto. Allo stesso modo, il detenuto che esce, in un
momento storico di questo tipo, in permesso o in misura alternativa e fa una
rapina deve sentire su di sé la responsabilità del guaio che crea per tutti
gli altri. Ma questo non perché io vi voglio gravare di questa responsabilità:
semplicemente perché il contraltare della dignità della persona (che in
carcere va rispettata“ in toto”) è la responsabilità per le proprie
azioni.
Io
lo dico sempre ai detenuti che arrivano a Bollate: se fate qualunque fesseria,
fumo, cocaina, telefonini, dovete sentire la responsabilità di aver fallito su
una sperimentazione che questa amministrazione penitenziaria sta cercando di
portare avanti, con fatica, controcorrente, per cambiare le cose.
Allora
il mio spunto di riflessione in questo momento è che le cose si cambiano tutti
assieme, a partire dai detenuti.
Se non li fai star male non è vero
carcere
Volevo
poi collegarmi a quanto detto prima: in carcere si passa il tempo a sopravvivere
al carcere. Tutto ciò è il portato di quella afflittività aggiuntiva che non
ha niente a che fare con la pena, ma è una cappa di sofferenza che grava,
gratutitamente e “ contra legem” sulla testa di tutto il sistema carcere.
E’
il mandato inconscio che la società civile da’ al carcere: fare stare male le
persone. Se non fai soffrire i detenuti e ti limiti “solo” a privarli della
libertà non è vero carcere.
Se
invece ribaltassimo, con il vostro aiuto, questo concetto, il carcere potrebbe
smettere di essere il luogo dove il detenuto deve soltanto sopravvivere e
resistere fino alla fine della pena, per maturare semestri di liberazione
anticipata, evitando quindi di prendere rapporti disciplinari. Potrebbe
diventare una comunità in cui ci può essere un patto di cittadinanza tra le
persone, e questo anche se c’è il sovraffollamento; si elimina l’afflittività,
l’istituzione totale non incombe, si può costruire una convivenza pacifica.
Qui
il direttore diventa il sindaco di una città, piccola o grande che sia. Questo
tipo di carcere, nel modo forse utopistico in cui io lo vedo, potrebbe anche
diventare il setting, passatemi il termine, per un’opera di mediazione. Fin
quando sarà il luogo dove si soffre talmente tanto da diventare una vittima, il
rapporto di potere tra reo e vittima si ribalta: chi prima era il carnefice, una
volta dentro diventa la vittima ( e con lui i suoi familiari). Questo gioco non
funziona e non serve.
Il
carcere potrebbe invece diventare una città fortificata; non si può uscire, ma
comunque è una città, dove si possono attuare anche dei percorsi di
mediazione.
Io
non so se questo è possibile, però questo è il grande sforzo
dell’amministrazione penitenziaria su Bollate.
Un incontro che ha avvicinato il mondo dei
cattivi a quello dei buoni
di
Elton Kalica
Se
da un lato preparare incontri in redazione mi coinvolge sempre, dall’altro
lato questa passione, così come altri sentimenti di felicità, puntualmente mi
fa venire l’angoscia. Anche se non è delle angosce che voglio parlare, ma
Ornella mi aveva chiesto di intervenire anche nel corso di questo seminario e
l’idea mi terrorizzava; una vera “crisi da esame”, prodotta non tanto
dall’infantile paura di balbettare, quanto dalla consapevolezza di dover
parlare di fronte a decine di giornalisti di cronaca giudiziaria, raccontare
della nostra redazione a quelli che spesso la notizia la cercano tra i corridoi
delle questure e dei tribunali, dove io così tante volte sono passato in
catene; in fondo si sa che il giornalismo è un mondo complesso, e forse fare il
giornalista in carcere diventa complicato proprio per le contraddizioni che
stanno dietro certe scelte di cambiamento, in cui le vite, quella passata e
quella presente, continuano a intrecciarsi.
Insomma
anche quest’anno abbiamo ripreso l’esperienza dell’anno scorso con
l’Ordine dei giornalisti del Veneto, e abbiamo organizzato un’altra giornata
di studio. Ci siamo messi a ragionare in redazione, decine di riunioni e di
discussioni, finché abbiamo deciso l’ordine del giorno, gli argomenti da
trattare, i relatori, abbiamo redatto il programma e fatto il comunicato stampa.
Io dovevo intervenire alla fine e spiegare il nostro lavoro di mediazione.
Difficile riassumere il lavoro di tre anni, centinaia di riunioni, decine di
incontri e anche tre convegni nazionali, ma l’idea mi piaceva, nonostante
l’estrema complessità che l’argomento riveste.
La
mattina del seminario mi sveglio alle cinque. La preoccupazione comincia ad
assalirmi. Metto sul fuoco la moca del caffè e mi lavo gli occhi. Sento il
bisogno di ripassare il mio intervento che ho già ricostruito nella mia testa
da diversi giorni, già scritto nella mia immaginazione e ora lo vedo proiettato
nel vuoto. Comincio a sussurrare a occhi chiusi. Temo di essere sentito dal mio
compagno di stanza: se mi sentisse parlare da solo in bagno, penserebbe che io
sia affetto di chissà quale disturbo mentale provocato dalla lunga detenzione.
Alle
otto possiamo andare nella biblioteca del carcere dove è tutto pronto. Accendo
il computer e il proiettore. Sulla tenda bianca stesa sopra gli scaffali, il
getto di luce scrive il titolo “Giustizia, carcere ed esecuzione della
pena”, poi in basso, “21 ottobre 2010, Seminario alla Casa di reclusione Due
Palazzi di Padova”. La sala è vuota ma presto cominciano ad arrivare tutti e
verso le nove mi convinco che quello sia il luogo più sovraffollato di un
carcere sovraffollato. Da un lato ci sono i relatori e dall’altro loro, i
giornalisti, ai quali vorremmo tanto far vedere quello che succede “dentro”
senza che si fermassero ai luoghi comuni e alle semplificazioni. Mescolati tra i
giornalisti ci sono anche una quarantina di detenuti, silenziosamente coinvolti.
Dopo
una veloce presentazione del seminario, Ornella invita ad intervenire Gianluca
Amadori, Presidente dell’Ordine dei giornalisti del Veneto. Apprezzo da subito
il suo discorso. Con un tono pacato, ma deciso, invita i giornalisti ad una sana
autocritica. Il suo messaggio principale è “un giornalismo corretto, pacato e
capace di approfondire le cose”, e penso a quante discussioni di redazione e
quanto lavoro ci sono voluti per far ragionare i nostri lettori su questo
concetto, e penso a tre anni fa, quando abbiamo dedicato un convegno nazionale a
questo tema, invitando tutti i giornalisti presenti ad una informazione più
sobria e pulita.
Erano
i tempi della cosiddetta “emergenza microcriminalità” causata dai soliti
stranieri e dagli ex-detenuti appena indultati; erano i tempi in cui sicuramente
l’informazione della notizia urlata ebbe il suo ruolo nell’accorciare la
vita al governo Prodi spianando la strada a quello attuale; erano i tempi in cui
si prometteva la galera per chiunque avesse un comportamento fastidioso: i
graffitari e i bulli, le prostitute e i loro clienti, i clandestini e gli
homeless, e si prometteva fino a tre anni di reclusione per chi lasciava in giro
rifiuti ingombranti. Mentre ora, per via di quelle promesse diventate leggi, ci
ritroviamo con una giustizia paralizzata dai processi e che non sa più dove
mettere i detenuti.
Ma
questa è un’altra storia e mi accorgo che nel frattempo la parola è passata
al magistrato di Sorveglianza, Marcello Bortolato, che sta spiegando ai
giornalisti come non ci sia nulla di automatico nella concessione delle misure
alternative. Sono contento che stia spiegando questo concetto importante.
Tornando indietro nel tempo di un paio di anni, quando avevamo appena proposto
al Presidente Amadori di organizzare il primo seminario, avevamo in mente almeno
due modalità di scrittura giornalistica che ci indignavano particolarmente.
La
prima era il fare i calcoli della galera. Un modo usato ad esempio per trattare
il caso dei due condannati per la rapina di Gorgo al Monticano, accusati di aver
ucciso la coppia di custodi di una villa. Ricordo che c’era un articolo in
particolare in cui si diceva che, dopo otto anni, uno degli autori, condannato
all’ergastolo, avrebbe usufruito dei permessi e che la valutazione del giudice
sarebbe stata solo una mera presa di conoscenza del fatto che il detenuto si
fosse comportato bene. Nessuno meglio di me sa quanto una simile affermazione
sia sbagliata, dato che dopo tredici anni e mezzo di carcere e, benché sia a
solo un anno dal fine pena, non ho usufruito nemmeno di un giorno di permesso.
Altro che “i permessi non si potranno negare”.
La
seconda modalità di scrittura che ritenevamo scorretta era quella dei titoli
urlati come quello con cui un quotidiano aveva aperto la polemica sulla
semilibertà concessa a Pietro Maso, che, all’età di diciannove anni, ha
ucciso i genitori, un titolo che faceva “Maso già libero, dopo soli
diciassette anni di carcere” come se la semilibertà fosse una effettiva
libertà, e come se diciassette anni di galera fossero una cosa da nulla.
Pene e carceri pensate a misura del
proprio figlio
l
relatore successivo è Mauro Grimoldi, psicologo. Sta parlando dei reati
commessi dai minori, e racconta ai giornalisti la storia del ragazzino accusato
di stupro che, dopo essersi guardato intorno nell’ufficio dello psicologo, gli
aveva chiesto, “Ma voi conoscete gente cattiva, frequentate persone
cattive?”. Una storia importante perché quel ragazzo, che non si aspetta di
essere uno dei cattivi, rispecchia un po’ l’intera società di oggi, che di
fronte a certi fatti di cronaca di cui sono responsabili prevalentemente dei
giovani, come quelli a sfondo sessuale, non pensa mai che potrebbe capitare al
proprio figlio di commettere reati del genere. Un punto di vista, questo, che
ridurrebbe di molto il tasso di veleno che c’è oggi nella società, dal
momento che porterebbe l’opinione pubblica ad accettare pene e carceri pensate
a misura del proprio figlio.
Spero
tanto che i ragionamenti di Mauro Grimoldi vengano recepiti dai giornalisti. Ho
ancora vivi nella memoria i fatti di Guidonia e del parco di Caffarella di quasi
tre anni fa, che ci hanno mostrato come sia facile per i media fare una vera
istigazione a delinquere, dando voce ai commenti da bar, intervistando gente
indignata che invoca azioni di linciaggio e di vendetta. Un metodo che ha
portato a fare leggi che introducono il reato di clandestinità e aumentano le
pene di un terzo per i reati commessi da stranieri irregolari, e leggi che
impongono la custodia cautelare per tutti i sospettati di reati a sfondo
sessuale.
Mentre
guardo ansioso le facce del pubblico, sento che sta parlando Monica Gazzola,
avvocato impegnato nella tutela dei Diritti dell’Uomo, spiegando una recente
sentenza con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima proprio
quella legge, fatta dopo lo “stupro di Capodanno”, che prevedeva
l’obbligatorietà della custodia cautelare in carcere per tutti gli accusati
di reati a sfondo sessuale. Avevo appena pensato a quel caso e lei ora ne
approfondiva l’argomento. Una telepatia incredibile direi, se non conoscessi
le centinaia di discussioni fatte in redazione su questo tema, e non conoscessi
gli articoli scritti su Ristretti e sul Mattino di Padova in cui dicevamo che
quella legge era sbagliata.
Poi
l’avvocatessa cambia argomento e racconta la famosa sentenza della Corte
Europea dei Diritti dell’Uomo sul caso Sulejmanoviç. Mi vengono in mente i
mesi passati a leggere sentenze e tradurre i rapporti del Comitato europeo per
la prevenzione della tortura, mentre facevo la tesi di laurea specialistica
proprio su questo caso e sugli standard europei per le condizioni di detenzione.
Per un attimo mi perdo nei ricordi di quella importante e profonda esperienza
che è stata l’Università, fino a quando l’avvocatessa mi riporta al
presente annunciando che i tre Paesi più problematici per i continui abusi e i
trattamenti disumani sono la Cecenia, la Romania e l’Italia. Una cosa che
dovrebbe preoccupare i detenuti, penso, ma che potrebbe essere anche una notizia
per i giornalisti presenti, forse.
Il
microfono passa a Carlo Riccardi, criminologo e mediatore che parla di quelli
che costituiscono la maggioranza dei delitti, i reati in famiglia, nei
condomini, nelle situazioni di stretta vicinanza tra le persone. Il relatore
spiega come l’idea di giustizia riparativa vada oltre le normali funzioni
della pena, perché cerca di responsabilizzare le parti in causa attraverso
l’incontro. Discorsi complessi, ma che noi della redazione conosciamo bene
grazie alla lunga esperienza di rapporti con molte persone che hanno subito
reati. Ed è proprio su questo argomento che ho preparato il mio intervento, ma
non è ancora il mio turno.
Ecco
che tocca anche a Lucia Castellano, la famosa direttrice del carcere di Bollate,
che inizia subito a parlare del suo difficile rapporto con i media. Per spiegare
ciò porta un esempio che noi conosciamo molto bene. Il caso della detenuta
rimasta incinta mentre frequentava la scuola e i titoloni che urlavano
“Carcere a luci rosse”. Se il giornalista avesse scritto “nell’ambito di
un progetto sperimentale, dove era stato consentito alle detenute e ai detenuti
di andare a scuola insieme....”, i lettori non sarebbero stati attratti come
lo sono stati leggendo “Carcere a luci rosse”, ma qual è la notizia
corretta? Mentre la direttrice si pone questa domanda, io penso a come la società
civile sia convinta che il carcere debba far stare male le persone e si rifiuti
di accettare anche una cosa così semplice, che fanno tutti, quale è la
relazione affettiva e sessuale tra due persone: è come se il fatto che questo
avviene tra due condannati renda perfino la nascita di un bambino una cosa
condannabile.
La
direttrice racconta di aver istituito un ufficio stampa per migliorare il
rapporto con i media, e conferma la sua visione del carcere come una comunità
basata su un patto di cittadinanza tra le persone, per eliminare l’afflittività
inutile della detenzione e costruire una convivenza civile, in cui la pena sia
costituita solo dalle mura del carcere, dalla privazione della possibilità di
varcarle, e per il resto la persona detenuta inizi da subito un percorso per
rientrare nella società con delle risorse in più da spendere. Conosco le idee
di Lucia Castellano e sono contento che sia qui a parlare con i giornalisti.
Prove di una giustizia che al male non
risponda affatto con altrettanto male
Alla
fine la parola passa a me, che comincio a sudare come se stessi facendo un
combattimento con le idee che non obbediscono ai miei ordini, e le parole
cominciano ad uscire in modo disordinato.
Parto
raccontando come abbiamo iniziato, anni fa, a parlare di mediazione senza
nemmeno immaginare di intraprendere un percorso così denso di sofferenza, come
poi si è rivelato. Racconto di quella volta che, durante un incontro con degli
studenti, una ragazza, dopo aver ascoltato alcune storie di devianza e di reati,
si è alzata in piedi e ci ha raccontato con la voce tremante di aver appena
subito un furto in casa, ci ha descritto il trauma che questo atto aveva
prodotto nella sua vita, portandoci a capire che c’era un bisogno reciproco di
accorciare le distanze, affinché noi potessimo imparare a metterci nei pani
delle vittime, e loro uscire dalla condizione di odio e di sofferenza.
Poi
parlo dell’incontro con Olga D’Antona, che con coraggio ci ha raccontato la
sua sofferenza e come è stato proprio quell’incontro a convincerci a
organizzare un convegno sulle vittime. Una giornata di studi che ha portato in
carcere centinaia di persone ad ascoltare la voce delle vittime, i loro ricordi,
le loro angosce e i loro perché.
Ad
un certo punto mi si accorcia il respiro, comincio a balbettare, ma voglio far
capire ai presenti che questa necessità di dialogo proveniente dal carcere
dovrebbe far riflettere tutti sul fatto che qui dentro ci sono abbastanza
frammenti di umanità per costruire una vera fabbrica di idee, come la nostra
redazione.
Faccio
un respiro profondo e comincio ad elencare alcune delle persone con cui abbiamo
dialogato nell’ambito di questa specie di mediazione collettiva. Ricordo
quindi Manlio Milani e la sua grinta nell’assumersi il ruolo di testimone, per
“trasferire memoria” di una esperienza che non va dimenticata. E ricordo
come Andrea Casalegno, giornalista del Sole24ore, ci ha raccontato della sua
ferita rimasta aperta in un modo particolarmente doloroso; Giuseppe Soffiantini
che ha spiegato come l’odio sia un sentimento montante che fa solo male a chi
ce l’ha nell’animo, raccontandoci che per lui prendere le distanze
dall’odio non è stato un atto di generosità, ma una necessità.
Poi
ho ricordato l’incontro con Silvia Giralucci, con la quale è nata anche
un’amicizia personale, ma che in quel primo incontro ha voluto ribadire il suo
modo di vedere i “debiti” che non si possono saldare, i “debiti” di chi
ha deliberatamente ucciso un altro uomo.
Mi
sono dilungato troppo e avrei dovuto finire lì, ma ho accelerato le parole,
balbettando forse più del solito, per ricordare anche Benedetta Tobagi che, con
la sua storia, i suoi profondi ragionamenti e le sue lacrime ci ha fatto toccare
con mano la sofferenza di una vittima, insegnandoci che dentro una persona
adulta ci può essere un bambino ferito che ha bisogno di essere ascoltato ed
eventualmente di piangere, come ha imparato a piangere anche qualcuno dei
detenuti presenti.
Insomma,
ormai era tardi e io dovevo concludere, anche se nei miei occhi continuavano a
scorrere le immagini di tutte le persone che abbiamo incontrato in redazione e
nei convegni. Ma era impossibile elencare tutti. E poi non era questo il mio
compito: dovevo solo dare ai presenti un’idea della nostra attività di
giustizia riparativa, e alla fine credo di averlo fatto.
Sicuramente
ha fatto un lavoro anche migliore del mio il seminario intero, che ha raccontato
ai giornalisti la galera, le misure alternative, e ha smontato tanti stereotipi
sulla “certezza della pena”, sui minori che delinquono e sulla altre forme
di giustizia. Una conoscenza che forse servirà loro non solo per essere più
informati quando scriveranno i loro articoli, ma anche per avvicinare il mondo
dei cattivi, di quelli che creano insicurezza e che secondo tanta informazione
non si fanno mai la galera, con il mondo dei buoni, che però stanno diventando
sempre più cattivi, anzi si vantano di non tollerare la bontà perché al male
si deve rispondere con il male.
Automatismi
Sia
i permessi che le misure alternative non scattano affatto in maniera automatica,
solo che tanti giornalisti ancora non lo sanno…
di
Antonio Floris
Vorrei
portare la mia riflessione sui benefici penitenziari e sulle misure alternative,
cercando di spiegare un po’ come si fa a ottenerle.
Quando
succede qualche reato particolarmente grave e viene scoperto l’autore, i
giornali alle volte fanno i conti di quanta pena l’imputato espierà in
concreto.
Se
per quel reato ad esempio è inflitta una condanna di 30 anni, il giornalista
scrive che i 30 anni in realtà non sono 30, perché sottraendo i 6 anni di
liberazione anticipata “dovuti”, la condanna si riduce a 24. Facendo i
calcoli non più su 30 ma su 24, scrivono che a metà pena (cioè a 12) si esce
in semilibertà, mentre a ¼ di pena (cioè a 6) si può andare in permesso. In
buona sostanza quando uno è condannato a trenta anni dopo appena 6 anni è già
quasi “libero”, dando come per scontato che una volta raggiunti i termini, i
benefici si prendono in maniera automatica.
La
buona parte della gente leggendo i giornali crede che veramente sia così, e cioè
che ci sia una regola in base alla quale, appena si raggiungono i termini
automaticamente si esce, tant’è che quasi tutti dicono “quello, anche se
condannato a una grossa pena, fra qualche anno sarà di nuovo libero”.
In
realtà però non è così, perché sia i permessi che le misure alternative
(come l’affidamento in prova o la semilibertà) non scattano affatto in
maniera automatica.
Tanti
reati, come ad esempio i reati di mafia, terrorismo, eversione, tratta di
schiavi, sequestro di persona e altri ancora, sono esclusi da qualsiasi
beneficio.
Per
altri reati, tipo omicidio o rapina aggravata o estorsione per elencarne
qualcuno, è necessario, solo per andare in permesso, aver espiato una
determinata parte di pena, che può essere la metà della pena o i due terzi a
seconda se uno è recidivo o meno.
Per
poter accedere ai benefici è necessaria una lunghissima osservazione da parte
degli operatori del carcere, che sono educatori, psicologi, criminologi,
comandante e direttore, i quali devono fare le loro relazioni e solo quando
scrivono che “con certezza” un soggetto, secondo loro, non è più
socialmente pericoloso, allora costui può sperare di ottenere qualche
beneficio.
Il
problema è che con il sovraffollamento è difficilissimo fare colloqui con
educatori o altri operatori. Qui al carcere di Padova ad esempio, con una
popolazione di oltre 850 detenuti, operavano fino a pochi mesi fa solo tre
educatori effettivi, adesso diventati sette, sempre pochissimi per il numero
enorme di detenuti, ed è possibile fare colloquio con loro, ad andare bene, una
o due volte all’anno, e per la durata di appena dieci minuti per volta. In
appena dieci minuti naturalmente non si riesce a conoscere una persona e dare
una qualunque valutazione. Non solo, ma a volte succede che quando tornano per
il secondo colloquio non riescono a ricordarsi più di che cosa si era parlato
nel primo.
Facendo
pochi colloqui naturalmente non possono fare neanche le relazioni oppure le
devono fare incomplete. Succede così che, quando un detenuto presenta una
istanza di permesso, il magistrato di Sorveglianza glielo rigetta motivando che
manca la relazione di sintesi oppure che la relazione è incompleta ed è
necessario prolungare l’osservazione, perché se la relazione manca o è
incompleta il magistrato non è in grado di stabilire se il soggetto sia ancora
pericoloso o meno.
Per
capire quanto sia difficile ottenere i benefici, posso portare come esempio il
caso mio. Io ho espiato oltre 20 anni di carcere per reati che non sono
“ostativi”, e non ho mai preso in 20 anni una sola ora di permesso. Sono nei
termini abbondanti per chiedere qualsiasi beneficio, ma quando io presento
qualche istanza di permesso, la stessa mi viene rigettata con la motivazione che
la mia pericolosità non è ancora cessata. E questo non perché sia veramente
così, ma perché i componenti dell’equipe, educatori e altri, non sono
riusciti a scrivere niente al riguardo, né che la pericolosità sia cessata né
che non sia cessata. Il magistrato di conseguenza rigetta le mie richieste in
quanto non ha in mano elementi certi di cessata pericolosità.
Esempi
come il mio se ne possono fare quanti se ne vuole. Ci sono anche tantissime
persone che, pur essendo condannate a pene brevi, quindi relativamente poco
pericolose, scontano la pena fino all’ultimo giorno soltanto perché non c’è
stato tempo di fare per loro nessuna sintesi.
Come si vede, prendere i benefici è tutt’altro che facile, tutt’altro che scontato, tutt’altro che automatico.