Intervista
a Margherita Forestan, Garante dei detenuti del Comune di Verona
Un
carcere non può essere un “non luogo”
“Il
lavoro è un passo fondamentale per riannodare il filo di una vita interrotta
nella sua quotidianità, ma io cerco anche di promuovere cultura dentro al
carcere”
Intervista a cura di Andrea B.
Margherita
Forestan è una Garante dei diritti delle persone private della libertà
anomala: arriva dalla Mondadori, di cui è stata per anni una dirigente,
ricoprendo anche il ruolo di direttore responsabile del settore libri per
ragazzi, al carcere si è avvicinata quando, in collaborazione con il CTP
Carducci di Verona, ha sviluppato quattro edizioni del concorso “Evasioni
poetiche”, e da lì ha proseguito collaborando con la rivista del carcere di
Verona “Microcosmo”. Una garante, quindi, abituata a confrontarsi ogni
giorno nel suo lavoro con problemi di buona organizzazione, di efficienza, di
servizi che devono funzionare, e che di conseguenza la sua combattività e la
sua concretezza le ha portate anche nella battaglia per far rispettare i diritti
dei detenuti.
Ci
traccia un primo bilancio della sua attività di Garante dei diritti delle
persone private della libertà personale?
Ho
iniziato la mia attività esattamente il 22 dicembre 2009.
La
figura del Garante a Verona è stata istituita grazie all’impegno
dell’assessorato alle Politiche sociali su sollecitazione delle associazioni
di volontariato operanti in carcere. L’intero Consiglio comunale ha poi scelto
il/la garante sulla base delle caratteristiche indicate nel bando. Non avendo
tracce da seguire - la figura era nuova per Verona, non del tutto consolidata in
altre realtà mentre manca sempre un garante nazionale – sicuramente ho
commesso qualche ingenuità, ma nel complesso credo di potermi dare almeno una
sufficienza.
Cos’è
riuscita a fare finora, come Garante, per migliorare la vivibilità
dell’istituto di pena di Verona?
Forse
questo è il campo dove più visibili sono i risultati: una maggior igiene
grazie alla tinteggiatura delle parti comuni dell’istituto, il cambio di
materassi e guanciali, un nuovo impianto idrico che significa acqua calda e
fredda per tutti, nuovi freezer, una palestra tutta nuova. Per queste opere, e
altre meno vistose, il mio compito è stato quello di reperire fondi, e nel
farlo rendere noto alla città, alle istituzioni private e pubbliche che un
carcere non può essere un non luogo, ma deve avere almeno i servizi essenziali
e da lì partire.
Quali
progetti, attività, iniziative, ha sostenuto e promosso?
Sto
promuovendo la conoscenza del mondo carcerario, sto andando dovunque per
raccontarlo, con i numeri e le storie che si possono raccontare. Poi c’è il
lavoro, passo fondamentale, secondo il mio modo di vedere per riannodare il filo
di una vita interrotta nella sua quotidianità. Cerco di promuovere cultura
dentro al carcere, il bello ci può aiutare a diventare migliori – abbiamo
avuto un’estate ricca di incontri, di musica – altre cose faremo nei
prossimi mesi. Mi sto impegnando sul fronte cibo: come funziona ora non va. C’è
poi la parte medica. Con l’Ulss 20 stiamo collaborando al meglio e Verona in
questo campo può anche rappresentare un modello organizzativo.
Verificato
che uno dei problemi dell’infermeria era la mancanza di una persona di
segreteria che si occupasse della gestione della preparazione degli elenchi
in relazione alle richieste di visite
specialistiche
interne - dentista, dermatologo. psichiatra, oculista, ginecologa - e
di quelle esterne in ospedale - tutte le altre - mi sono offerta di
trovare una persona competente che con la
dottoressa
Vesentini - responsabile dell’area medica del carcere per la Ulss -
potesse collaborare al miglioramento di questo servizio. Devo dire che la
dottoressa Vesentini ha un ottimo rapporto con me e si dà un gran
pensiero per migliorare il servizio. Da qualche settimana ogni detenuto ha
il suo medico Ulss, come succede a noi cittadini liberi, e ora si sta
pensando anche ad innovare il sistema della distribuzione delle medicine.
Nessuno
resta senza una visita specialistica e i medici che ci sono ora in carcere
sono veramente un team che lavora bene. Anche il gruppo infermieri è di
qualità. La cosa straordinaria è che a questa efficienza corrisponde una
diminuzione dei costi pro detenuto.
Poi
io giro per le sezioni e se un detenuto si lamenta, vado a vedere la sua
situazione medica e con la Vesentini mi batto perché si vada a fondo.
Dico sempre che è meglio una visita inutile che una persona ammalata
seriamente. In ogni caso alla fine si tranquillizzano tutti sapendo con
certezza che se c’è bisogno si corre.
In
segreteria poi c’e il problema di tenere sotto controllo le scadenze
rispetto all’uscita: ascolto, analisi, sintesi, permessi ecc per
arrivare all’uscita con qualche possibilità di non vedere più la
persona in carcere. Siamo partiti tenendo in considerazione gli 8 mesi pre
uscita. Ogni detenuto in questa situazione viene monitorizzato e non più
rincorso atto dopo atto. Così ora gli educatori hanno una persona che
fornisce loro settimanalmente una programmazione di quanto in quella
settimana va previsto per ogni persona detenuta che gli è stata affidata.
La “volontaria” è un drago
informatico,
va ogni settimana in carcere, si collega, aggiorna e tiene
registrate le variabili. Gli educatori vanno sul loro computer e si trovano
un’agenda ordinata sulla base della quale lavorare.
Quali
sono le difficoltà maggiori, i punti deboli, con i quali si trova a fare i
conti nel suo lavoro?
Le
difficoltà sono legate alla complessità delle regole a cui la gestione del
carcere è legata. Burocrazia, tecnologia inesistente, mancanza di personale e
di mezzi economici. La Magistratura di Sorveglianza, l’UEPE hanno problemi di
organico, così tutto è rallentato e avviene in stato di totale emergenza. Non
è pensabile continuare così.
Come
risponde la società, e come rispondono gli enti locali, alle sue richieste?
Davanti
a motivate richieste di solito trovo risposte pronte e positive. Con
l’assessorato alle Pari opportunità per esempio sta partendo un progetto di
mediazione culturale all’interno dell’istituto, ma già in precedenza
abbiamo fatto insieme il mese della donna, una serie di conferenze su temi
specificatamente femminili.
Tornando
al lavoro, stiamo cercando di trovare delle modalità di collaborazione con
l’Associazione industriali. Con le partecipate e controllate del Comune devo
dire che quando busso aprono e si fanno in quattro. Mi muovo sempre in nome e
per conto delle persone private della libertà che non possono farlo in proprio.
Nelle
sue attività, riesce a coinvolgere la magistratura di Sorveglianza?
Tengo
informata la magistratura di Sorveglianza di quello che faccio, almeno a grandi
linee. Vorrei fare meglio e di più in questo campo, ma sono andata per priorità
e in questi mesi ho dovuto imparare molte cose. Per essere credibile non posso
essere impreparata.
E
quali sono le reazioni della magistratura di Sorveglianza rispetto alle sue
richieste?
Ho
cercato di stendere un documento condiviso sui criteri che regolano la
concessione di un permesso. Sul sovraffollamento, più che denunciarlo non
possiamo fare. Ci sono altri temi che conto di affrontare e sono certa che dal
confronto trarrò vantaggio per le persone detenute.
Quanto
alla concessione dei benefici penitenziari, penso che tali benefici siano
indispensabili, e possono essere concessi se c’è un territorio, una
disponibilità, una volontà comune che ciò avvenga. Su un terreno fertile la
magistratura di Sorveglianza, ne sono certa, può muoversi con più
determinazione. Se le porte del mondo del lavoro, del mondo abitativo non si
aprono, se mancano le comunità, se non c’è la famiglia né i mezzi, le
misure alternative restano un miraggio. Misure comunque ne vengono concesse, ma
se ci fossero i presupposti giusti potrebbero essere molte, molte di più.
Quanto
può influire sul sovraffollamento carcerario la legge ex-Cirielli, che
inasprisce la pena e allo stesso tempo limita i benefici penitenziari per i
recidivi?
Sembra
assurdo, ma noi puniamo chi torna a sbagliare quando noi, preposti al recupero,
abbiamo mostrato tutte le nostre incapacità. Io la metto giù semplice per
capire. Direi che cancellare una cattiva legge è obbligatorio, la ex Cirielli
va buttata.
L’amministrazione
penitenziaria, invece, come si pone nei suoi confronti?
Sicuramente
abbiamo dovuto superare le normali diffidenze iniziali, io volevo capire loro e
loro volevano capire me. Poi devo dire che sui problemi veri non c’è una
diversa visione, forse un diverso modo di risolverli ma le diverse culture di
provenienza ci arricchiscono e rendono più stabile il risultato. Per me non
esistono solo le persone detenute, esiste il mondo della detenzione e non posso
immaginare che un pezzo funzioni e un pezzo resti fermo: o gira tutto, pur con
tanta fatica, o non gira nulla e allora è la paralisi. Tengo a sottolineare che
trovo molta disponibilità.
Incontra
le persone detenute?
Sì,
sono in carcere una o due volte la settimana per l’intera giornata. Vedo molte
persone, mi sono organizzata per sezioni. In 10 mesi ne ho incontrate
personalmente oltre 500. Molte persone mi rivolgono richieste specifiche –
educatore, cure mediche, lavoro, lavoro, lavoro - altre hanno bisogno di aiuto,
altre che non vedono nessuno hanno solo bisogno di essere ascoltate. A tutti
cerco di dare una risposta, o con una nota scritta o personalmente.
I
media e la creazione del “mostro”
Oggi
chi informa spesso si pone come unico ed indiscusso “giudice“
di
Ulderico Galassini
Voglio
partire da quello che abbiamo vissuto io ed il mio nucleo familiare quando nel
maggio 2007, per un atto gravissimo compiuto da me, e del quale, dopo il
risveglio dalla sala rianimazione, ho trascritto su un foglio di carta tutta la
desolazione, “ho distrutto la mia famiglia” (non ero ancora in grado di
parlare, perché ancora collegato a tubi per respirare). Non ho potuto leggere
le prime notizie sul fatto, ma mi sono state riferite. Notizie che in parte sono
state ripubblicate prima e dopo le fasi processuali e, volendo confrontare i
vari quotidiani locali, ho notato che le ricostruzioni dei fatti e i tentativi
di dare un motivo al mio gesto tragico, erano così superficiali e lontani dalla
realtà. I primi giorni hanno cercato di intervistare anche i miei parenti e
addirittura telefonare a casa dei miei genitori quasi novantenni ed in
condizioni fisiche pessime, mio padre cieco e bisognoso di ossigeno e collegato
ad apposite bombole 24 ore su 24. Genitori che sono stati tenuti all’oscuro di
quanto effettivamente successo.
Dov’è
la sensibilità verso la persona che ha la sola colpa di essere parente di chi
ha commesso il reato?
E
poi perché riportare nuovamente alla ribalta i miei dati in un articolo in cui
si parlava di problemi e difficoltà degli agenti penitenziari che si trovavano
a gestire una casa di reclusione strapiena di detenuti di diversa etnia, con
pochi italiani, sottolineando che tra di loro c’era anche “Ulderico
Galassini ex direttore di banca che ha ucciso la moglie e ferito il figlio”.
Un
figlio che non ha bisogno di ripercorrere quel tragico evento e leggere a
caratteri cubitali sulle locandine esposte fuori dall’edicola il titolo di
richiamo, che all’editore serve per vendere.
Lui
sa già cosa è successo e per il suo equilibrio non ha bisogno dei messaggi
della stampa o della TV, ha bisogno di tranquillità e di proseguire la sua
vita, ben conscio che purtroppo non ha più sua madre ed ha un padre in carcere.
Da
oltre tre anni vivo in questo carcere e ho avuto modo di leggere vari articoli
dove chi informa si pone come unico ed indiscusso “giudice“ del fatto.
Sarebbe necessario trovare una informazione più trasparente, che aiuti a non
perdere il senso della realtà, a rimanere in un ambito di informazione civile e
matura, mentre spetta ad altri il compito di giudicare prima e di
“recuperare” poi la parte malata della società, rieducandola seriamente,
mettendo a disposizione mezzi e personale per raggiungere lo scopo di riportare
nella società persone utili a se stesse, ai loro famigliari e alla società
intera. Cosa che oggi, con le condizioni di un sovraffollamento, in ulteriore
crescita, non possono essere messe in pratica. Garantire questo è compito della
società intera ed in primis dello Stato. Molto probabilmente se si mettesse
mano a certe leggi, che oggi portano in galera tossicodipendenti, emarginati,
persone con disagio psichiatrico, avremmo meno presenze nelle carceri, e non ci
sarebbe bisogno di leggi “svuota carcere”, ma questa forse è utopia.
Oggi
si continua insistentemente e solo a parlare di casi simili al mio e a
“coltivare” quella morbosità dell’informazione, che alla fine non mi pare
porti a fermare i fatti negativi che purtroppo accadono, e nemmeno a farli
capire.
L’informazione
spesso crea spettacolo nel dramma
L’informazione
l’ho sempre intesa come mezzo democratico di mettere a conoscenza dei
cittadini quello che succede nel mondo, e di farlo nel rispetto dell’etica
professionale, ma per la forte competizione tra i media, il loro obiettivo di
conquistare il mercato, la notizia non è più solo tale e chi la dà ha
occupato gli spazi di lavoro di altri: ora sono tutti psicologi, criminologi,
studiano anche i movimenti del corpo e la postura delle persone sottoposte ad
“inquisizione” mediatica, quando invece, nei casi di gravi reati, tutto
dovrebbe essere lasciato ai Tribunali, ai Giudici.
L’informazione
spesso crea spettacolo nel dramma di chi ha compiuto il reato e di chi lo ha
subito. Ci sono giornalisti che si attaccano morbosamente al fatto accaduto,
rivisitandolo e ripercorrendo meticolosamente ogni attimo della giornata, ci
vengono scodellate immagini crude e disumane mentre ci stiamo vestendo, stiamo
mangiando, siamo al lavoro. Sono come le ventose dei polipi, ti si attaccano
alla pelle e non ti mollano più.
È
ovvio che i reati, e soprattutto gli omicidi, sono da condannare, ma questo è
compito di altre istituzioni. È poi così utile riportare sulla stampa e
soprattutto in televisione certe immagini crude che colpiscono non solo gli
adulti, ma anche i nostri figli?
Io
non ritengo che un certo modo di raccontare e mostrare certe notizie sia motivo
di educazione o prevenzione, anzi in certi casi può stimolare, nei soggetti più
deboli, una forma di emulazione, se si pensa che già i ragazzi, con i loro
giochi elettronici, si “addestrano” alla eliminazione di persone, alla
distruzione di ogni cosa pur di vincere, un corpo a corpo che non ritengo
educativo né positivo, ma il mercato lo mette a disposizione e lo pubblicizza.
Certe
notizie creano così giorno per giorno un’abitudine, una assuefazione alla
negatività, una ripetizione infernale di come è accaduto il fatto, con che
mezzo si è arrivati a commetterlo, si creano castelli di congetture sulle
motivazioni, si entra nei minimi particolari, ma la storia vera a volte non la
sa neppure chi quel gesto terribile l’ha fatto, e però l’importante pare
sia parlarne.
L’informazione
non mi sembra che attui quelle funzioni che le dovrebbero essere proprie, ma
pare spinta solo dalla ricerca assidua di catturare il lettore giustificando il
suo operato con la dichiarazione: diamo al pubblico ciò che desidera.
È
un’attività che è basata su un consistente affare finanziario, con un
vortice di notizie che travolge tutto e tutti. Bisogna arrivare per primi,
sbattere in prima pagina i titoli che attirano e sviluppare poi gli articoli
dove il più delle volte i dati sono “conditi” con tanta fantasia. E si
arriva così a distruggere moralmente sia i parenti delle vittime che i parenti
di chi ha commesso azioni negative, mettendo in bocca, nelle interviste, con
ostinazione la risposta che il giornalista vuol sentire e poi diffondere.
Ci
sono giornalisti che effettuano piantonamenti nei luoghi delle disgrazie
soffocando le persone, con tanta falsa moralità e dichiarata volontà di
mostrare tutto il male che effettivamente succede, e con l’apparente
intenzione di limitare o evitare il ripetersi di tanti crimini.
Forse
l’azione migliore sarebbe invece quella di valutare in altre sedi tali
situazioni, confrontare i fatti, le motivazioni che hanno portato a compierli e
trarne risultati significativi e tali da circoscrivere il male.
Da
anni viviamo in una società dove si ragiona soprattutto in termini di risultati
economici, che sono esclusivamente di pochi, e che sponsorizza un modo di vivere
che non è quello della famiglia normale, ma che ti impone di avere per forza
quello che il tuo vicino o amico ha in più perché altrimenti ti senti diverso,
inferiore. E allora in famiglia entrambi i genitori devono lavorare a tempo
pieno, e abbandonare i figli a se stessi.
C’è
uno strano virus che distrugge tutto, compreso il futuro, che mette in
competizione, e che determina anche, per chi non sa gestire tali nuovi modelli
di vita, stress continui, e dagli stress, se non capisci di esserne stato
colpito, puoi arrivare a causare anche quel male, che di certo nessuno vorrebbe
mai causare.
Diritto
ad essere dimenticati
Non
vogliamo mettere in discussione il diritto di cronaca, ma ci deve essere anche
un diritto ad essere dimenticati, quando ormai sono passati talmente tanti anni,
che la notizia di cronaca nera forse non fa più una informazione utile alla
società
a
cura della Redazione
Tutto
è cominciato dalla lettera di un detenuto al Corriere della Sera e al Garante
della privacy:
Al
direttore del Corriere della Sera
Egregio
direttore,
sono
un detenuto, in carcere da circa tredici anni perché, quando avevo 21 anni, ho
sequestrato una persona. Il sequestro si è concluso in due giorni, senza altre
forme di violenza perché per fortuna non avevamo armi.
Adesso
ho 34 anni e qui a Padova ho dedicato tutto il mio tempo a impegnarmi per
diventare un’altra persona. Ho ripreso a studiare, una dura impresa, perché
in carcere non è facile, ma io ho voluto con tutte le mie forze riuscirci. Tre
anni fa mi sono laureato in Scienze politiche con 110 e lode e ho da poco
completato il ciclo di studi con la laurea specialistica.
In
questi anni di carcerazione non ho mai messo piede fuori, e non ho potuto avere
nemmeno un permesso per la laurea, poiché i condannati per sequestro non
possono avere nessuna misura alternativa al carcere, e nemmeno un giorno di
permesso premio. Ciò avviene nonostante tutta l’equipe trattamentale del
carcere (composta da Direttore, Comandante degli agenti, educatori, psicologi,
assistenti sociali) si sia finora espressa favorevolmente ad ogni mia richiesta.
Tuttavia,
non trascuro nemmeno per un attimo le mie responsabilità, anche se considero il
mio passato come un capitolo drammatico della mia vita che ormai è stato chiuso
definitivamente, ma che ancora mi provoca vergogna. Adesso la mia famiglia ha
instaurato un rapporto di vicinanza e reciproca stima con la vittima del
sequestro di cui sono stato responsabile, e con i suoi famigliari, ma questo non
mi alleggerisce assolutamente il rimorso e la consapevolezza di essermi lasciato
trasportare in una follia così assurda.
Egregio
direttore, Le scrivo questa lettera perché i miei interessi per la scrittura e
lo studio mi hanno permesso di farmi molti amici tra docenti, studenti,
volontari e giornalisti con i quali condivido un progetto di crescita culturale
importante per la mia vita. Però so che, quando si digita il mio nome in
qualche motore di ricerca internet, tra le varie pagine web che mi riguardano,
appaiono sempre anche tre articoli collocati nell’archivio storico del
“Corriere della sera” che mi descrivono come un feroce criminale.
A
prescindere dal fatto che questi articoli contengono termini che non
corrispondono a quanto descritto dai giudici nei motivi della sentenza – che
pure certamente non hanno usato la mano leggera con me – Le scrivo per dirLe
che sto cercando con tutte le mie forze di chiudere con un passato in cui non mi
riconosco più, e ricostruirmi una vita nel rispetto delle regole della società
civile. Ma che mi fa male vedere come il mio nome, anche a distanza di
moltissimi anni, continui ad essere legato al mio reato.
Non
intendo mettere in discussione il diritto di cronaca, ma credo che ci debba
essere anche un diritto all’oblio quando ormai sono passati talmente tanti
anni, che la notizia di cronaca forse non fa più una informazione utile alla
società; certamente fa male a me e alle persone che mi stanno vicino, dato che
mi cuce addosso quell’etichetta che forse mi sono meritato all’età di
vent’anni, ma di cui vorrei liberarmi ora che sono un’altra persona.
Per
questa ragione, Le chiedo se è possibile modificare gli articoli che riguardano
la mia faccenda processuale sostituendo il mio nome e cognome con le mie
iniziali. Credo che questa soluzione concilierebbe il diritto dei cittadini di
essere informati e il mio bisogno vitale di provare a ricominciare una vita
nuova.
Fiducioso
nella sua comprensione, le porgo cordiali saluti.
L’intervento
dell’Ufficio del Garante della privacy
L’Ufficio
del Garante ha risposto rapidamente, spiegando dove e come era possibile agire,
e invitando il Corriere a farlo: quelle che seguono sono le osservazioni di
Mauro Paissan, dell’Ufficio del Garante della privacy, sulla base delle quali
il Corriere della Sera è stato esortato a intervenire.
I
punti suggeriti da Paissan sono i seguenti:
1)
Non è proponibile modificare il dato storico-documentale proprio degli
archivi
2)
Con la comparsa degli archivi storici dei quotidiani in Internet, il
danno più consistente alle persone è causato dai motori di ricerca generalisti
tipo Google. Finché il vecchio articolo è reperibile solo entrando nel sito
della testata che l’ha pubblicato, la lesione è ridotta.
3)
Quando si pone un problema di diritto all’oblio (per il tempo trascorso
e per le caratteristiche delle persone in questione, non trattandosi di
personaggi pubblici), l’intervento proponibile è quello di non rendere
accessibile ai motori di ricerca generalisti i dati personali contenuti in
determinati articoli.
4)
Le maggiori testate sono abbastanza disponibili a valutare le richieste
in questo senso, soprattutto se sostenute dal Garante. A quel punto si tratta di
utilizzare uno strumento informatico per “nascondere” a Google i dati in
questione. In molti casi la cosa ha funzionato.
Per
una volta, un “delinquente” ha avuto restituita un po’ della sua dignità:
il
Corriere della Sera ha infatti accettato di rendere un po’ meno visibili gli
articoli di cronaca nera di quattordici anni fa.
Ecco
la lettera con cui l’editore del Corriere ha accolto la richiesta:
Riscontriamo,
con la presente, la comunicazione del Garante per la Protezione dei Dati
Personali del 20 ottobre 2010, con la quale ci è stato chiesto di indicare
elementi utili alla valutazione del caso sottoposto all’attenzione dello
Spett. Garante medesimo da parte del Sig.***, nonché di specificare se la
nostra società intenda assicurare che i motori di ricerca esterni
all’archivio on line del Corriere della Sera non indicizzino più gli articoli
oggetto di controversia.
La
nostra società ha, in data odierna, indicato a tutti i motori di ricerca la
propria volontà che gli articoli in parola vengano rimossi definitivamente dai
siti esterni al proprio, attraverso la compilazione del file “robots. Txt”;
ciò in conformità a numerose pronunce di questa Spett. Autorità emesse
proprio nei confronti della nostra società in casi analoghi al presente.
Cordiali
saluti.
RCS
Quotidiani S.p.A.
Direzione
Affari legali
I
compiti del Garante della privacy
Il
Garante interviene in tutti i settori, pubblici e privati, nei quali occorre
assicurare il corretto trattamento dei dati e il rispetto dei diritti
fondamentali delle persone.
Il
Garante si occupa, tra l’altro, di:
controllare
che i trattamenti di dati personali siano conformi a leggi e regolamenti e,
eventualmente, segnalare ai titolari o ai responsabili dei trattamenti le
modifiche da adottare per rispettare la conformità;
esaminare
le segnalazioni e i reclami avanzati dagli interessati, nonché valutare i
ricorsi presentati ai sensi dell’art. 145 del Codice in materia di protezione
dei dati personali;
vietare
in tutto od in parte il trattamento ovvero disporre il blocco del trattamento di
dati personali che per la loro natura, per le modalità o per gli effetti del
loro trattamento possano rappresentare un rilevante pregiudizio per
l’interessato;
adottare
i provvedimenti previsti dalla normativa in materia di dati personali, tra cui,
in particolare, le autorizzazioni generali per il trattamento dei dati
sensibili;
promuovere
la sottoscrizione dei codici di deontologia e di buona condotta in vari ambiti
(credito al consumo, attività giornalistica, ecc.);
segnalare,
quando ritenuto opportuno, al Governo la necessità di adottare provvedimenti
normativi di settore;
formulare
pareri richiesti dal Presidente del Consiglio o da ciascun ministro in ordine a
regolamenti ed atti amministrativi in materia di protezione dei dati personali;
predisporre
una relazione annuale sull’attività svolta e sullo stato di attuazione della
normativa sulla privacy da trasmettere al Parlamento e al Governo;
partecipare
alle attività comunitarie ed internazionali di settore, anche quale componente
delle Autorità comuni di controllo previste da convenzioni internazionali (Europol,
Schengen, Sistema informativo doganale);
curare
la tenuta del registro dei trattamenti formato sulla base delle notificazioni di
cui all’art. 37 del Codice in materia di protezione dei dati personali;
curare l’informazione e la sensibilizzazione dei cittadini in materia di trattamento dei dati personali, nonchè sulle misure di sicurezza dei dati.