Intervista a Margherita Forestan, Garante dei detenuti del Comune di Verona

Un carcere non può essere un “non luogo”

“Il lavoro è un passo fondamentale per riannodare il filo di una vita interrotta nella sua quotidianità, ma io cerco anche di promuovere cultura dentro al carcere”

 

Intervista a cura di Andrea B.

 

Margherita Forestan è una Garante dei diritti delle persone private della libertà anomala: arriva dalla Mondadori, di cui è stata per anni una dirigente, ricoprendo anche il ruolo di direttore responsabile del settore libri per ragazzi, al carcere si è avvicinata quando, in collaborazione con il CTP Carducci di Verona, ha sviluppato quattro edizioni del concorso “Evasioni poetiche”, e da lì ha proseguito collaborando con la rivista del carcere di Verona “Microcosmo”. Una garante, quindi, abituata a confrontarsi ogni giorno nel suo lavoro con problemi di buona organizzazione, di efficienza, di servizi che devono funzionare, e che di conseguenza la sua combattività e la sua concretezza le ha portate anche nella battaglia per far rispettare i diritti dei detenuti.

 

Ci traccia un primo bilancio della sua attività di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale?

Ho iniziato la mia attività esattamente il 22 dicembre 2009.

La figura del Garante a Verona è stata istituita grazie all’impegno dell’assessorato alle Politiche sociali su sollecitazione delle associazioni di volontariato operanti in carcere. L’intero Consiglio comunale ha poi scelto il/la garante sulla base delle caratteristiche indicate nel bando. Non avendo tracce da seguire - la figura era nuova per Verona, non del tutto consolidata in altre realtà mentre manca sempre un garante nazionale – sicuramente ho commesso qualche ingenuità, ma nel complesso credo di potermi dare almeno una sufficienza.

 

Cos’è riuscita a fare finora, come Garante, per migliorare la vivibilità dell’istituto di pena di Verona?

Forse questo è il campo dove più visibili sono i risultati: una maggior igiene grazie alla tinteggiatura delle parti comuni dell’istituto, il cambio di materassi e guanciali, un nuovo impianto idrico che significa acqua calda e fredda per tutti, nuovi freezer, una palestra tutta nuova. Per queste opere, e altre meno vistose, il mio compito è stato quello di reperire fondi, e nel farlo rendere noto alla città, alle istituzioni private e pubbliche che un carcere non può essere un non luogo, ma deve avere almeno i servizi essenziali e da lì partire.

 

Quali progetti, attività, iniziative, ha sostenuto e promosso?

Sto promuovendo la conoscenza del mondo carcerario, sto andando dovunque per raccontarlo, con i numeri e le storie che si possono raccontare. Poi c’è il lavoro, passo fondamentale, secondo il mio modo di vedere per riannodare il filo di una vita interrotta nella sua quotidianità. Cerco di promuovere cultura dentro al carcere, il bello ci può aiutare a diventare migliori – abbiamo avuto un’estate ricca di incontri, di musica – altre cose faremo nei prossimi mesi. Mi sto impegnando sul fronte cibo: come funziona ora non va. C’è poi la parte medica. Con l’Ulss 20 stiamo collaborando al meglio e Verona in questo campo può anche rappresentare un modello organizzativo.

Verificato che uno dei problemi dell’infermeria era la mancanza di  una persona di segreteria che si occupasse della gestione della preparazione degli elenchi in relazione alle  richieste di visite 

specialistiche interne  - dentista, dermatologo. psichiatra, oculista, ginecologa - e di quelle esterne in ospedale - tutte le  altre - mi sono offerta di trovare una persona competente che con la 

dottoressa Vesentini - responsabile dell’area medica del carcere per la Ulss  - potesse collaborare al miglioramento di questo servizio. Devo dire  che la dottoressa Vesentini ha un ottimo rapporto con me e si dà un gran  pensiero per migliorare il servizio. Da qualche settimana ogni detenuto ha il suo medico Ulss, come succede a noi cittadini liberi, e ora si sta  pensando anche ad innovare il sistema della distribuzione delle  medicine.

Nessuno resta senza una visita specialistica e i medici che ci sono  ora in carcere sono veramente un team che lavora bene. Anche il  gruppo infermieri è di qualità. La cosa straordinaria è che a questa efficienza corrisponde una diminuzione dei costi pro detenuto.

Poi io giro per le sezioni e se un detenuto si lamenta, vado a vedere la sua situazione medica e con la Vesentini mi batto  perché si vada a fondo. Dico sempre che è meglio una visita inutile  che una persona ammalata seriamente. In ogni caso alla fine si  tranquillizzano tutti sapendo con certezza che se c’è bisogno si corre.

In segreteria poi c’e il problema di tenere sotto controllo le  scadenze rispetto all’uscita: ascolto, analisi, sintesi, permessi ecc  per arrivare all’uscita con qualche possibilità di non vedere più la  persona in carcere. Siamo partiti tenendo in considerazione gli 8  mesi pre uscita. Ogni detenuto in questa situazione viene  monitorizzato e non più rincorso atto dopo atto.  Così ora gli educatori hanno una persona che fornisce loro settimanalmente  una programmazione di quanto in quella settimana va previsto per ogni  persona detenuta che gli è stata affidata. La “volontaria” è un drago 

informatico, va ogni settimana  in carcere,  si collega, aggiorna e tiene registrate le variabili. Gli educatori vanno sul loro computer e si trovano un’agenda ordinata sulla base della quale lavorare.

 

Quali sono le difficoltà maggiori, i punti deboli, con i quali si trova a fare i conti nel suo lavoro?

Le difficoltà sono legate alla complessità delle regole a cui la gestione del carcere è legata. Burocrazia, tecnologia inesistente, mancanza di personale e di mezzi economici. La Magistratura di Sorveglianza, l’UEPE hanno problemi di organico, così tutto è rallentato e avviene in stato di totale emergenza. Non è pensabile continuare così.

 

Come risponde la società, e come rispondono gli enti locali, alle sue richieste?

Davanti a motivate richieste di solito trovo risposte pronte e positive. Con l’assessorato alle Pari opportunità per esempio sta partendo un progetto di mediazione culturale all’interno dell’istituto, ma già in precedenza abbiamo fatto insieme il mese della donna, una serie di conferenze su temi specificatamente femminili.

Tornando al lavoro, stiamo cercando di trovare delle modalità di collaborazione con l’Associazione industriali. Con le partecipate e controllate del Comune devo dire che quando busso aprono e si fanno in quattro. Mi muovo sempre in nome e per conto delle persone private della libertà che non possono farlo in proprio.

 

Nelle sue attività, riesce a coinvolgere la magistratura di Sorveglianza?

Tengo informata la magistratura di Sorveglianza di quello che faccio, almeno a grandi linee. Vorrei fare meglio e di più in questo campo, ma sono andata per priorità e in questi mesi ho dovuto imparare molte cose. Per essere credibile non posso essere impreparata.

 

E quali sono le reazioni della magistratura di Sorveglianza rispetto alle sue richieste?

Ho cercato di stendere un documento condiviso sui criteri che regolano la concessione di un permesso. Sul sovraffollamento, più che denunciarlo non possiamo fare. Ci sono altri temi che conto di affrontare e sono certa che dal confronto trarrò vantaggio per le persone detenute.

Quanto alla concessione dei benefici penitenziari, penso che tali benefici siano indispensabili, e possono essere concessi se c’è un territorio, una disponibilità, una volontà comune che ciò avvenga. Su un terreno fertile la magistratura di Sorveglianza, ne sono certa, può muoversi con più determinazione. Se le porte del mondo del lavoro, del mondo abitativo non si aprono, se mancano le comunità, se non c’è la famiglia né i mezzi, le misure alternative restano un miraggio. Misure comunque ne vengono concesse, ma se ci fossero i presupposti giusti potrebbero essere molte, molte di più.

 

Quanto può influire sul sovraffollamento carcerario la legge ex-Cirielli, che inasprisce la pena e allo stesso tempo limita i benefici penitenziari per i recidivi?

Sembra assurdo, ma noi puniamo chi torna a sbagliare quando noi, preposti al recupero, abbiamo mostrato tutte le nostre incapacità. Io la metto giù semplice per capire. Direi che cancellare una cattiva legge è obbligatorio, la ex Cirielli va buttata.

 

L’amministrazione penitenziaria, invece, come si pone nei suoi confronti?

Sicuramente abbiamo dovuto superare le normali diffidenze iniziali, io volevo capire loro e loro volevano capire me. Poi devo dire che sui problemi veri non c’è una diversa visione, forse un diverso modo di risolverli ma le diverse culture di provenienza ci arricchiscono e rendono più stabile il risultato. Per me non esistono solo le persone detenute, esiste il mondo della detenzione e non posso immaginare che un pezzo funzioni e un pezzo resti fermo: o gira tutto, pur con tanta fatica, o non gira nulla e allora è la paralisi. Tengo a sottolineare che trovo molta disponibilità.

 

Incontra le persone detenute?

Sì, sono in carcere una o due volte la settimana per l’intera giornata. Vedo molte persone, mi sono organizzata per sezioni. In 10 mesi ne ho incontrate personalmente oltre 500. Molte persone mi rivolgono richieste specifiche – educatore, cure mediche, lavoro, lavoro, lavoro - altre hanno bisogno di aiuto, altre che non vedono nessuno hanno solo bisogno di essere ascoltate. A tutti cerco di dare una risposta, o con una nota scritta o personalmente.

 

 

I media e la creazione del “mostro”

Oggi chi informa spesso si pone come unico ed indiscusso “giudice“

 

di Ulderico Galassini

 

Voglio partire da quello che abbiamo vissuto io ed il mio nucleo familiare quando nel maggio 2007, per un atto gravissimo compiuto da me, e del quale, dopo il risveglio dalla sala rianimazione, ho trascritto su un foglio di carta tutta la desolazione, “ho distrutto la mia famiglia” (non ero ancora in grado di parlare, perché ancora collegato a tubi per respirare). Non ho potuto leggere le prime notizie sul fatto, ma mi sono state riferite. Notizie che in parte sono state ripubblicate prima e dopo le fasi processuali e, volendo confrontare i vari quotidiani locali, ho notato che le ricostruzioni dei fatti e i tentativi di dare un motivo al mio gesto tragico, erano così superficiali e lontani dalla realtà. I primi giorni hanno cercato di intervistare anche i miei parenti e addirittura telefonare a casa dei miei genitori quasi novantenni ed in condizioni fisiche pessime, mio padre cieco e bisognoso di ossigeno e collegato ad apposite bombole 24 ore su 24. Genitori che sono stati tenuti all’oscuro di quanto effettivamente successo.

Dov’è la sensibilità verso la persona che ha la sola colpa di essere parente di chi ha commesso il reato?

E poi perché riportare nuovamente alla ribalta i miei dati in un articolo in cui si parlava di problemi e difficoltà degli agenti penitenziari che si trovavano a gestire una casa di reclusione strapiena di detenuti di diversa etnia, con pochi italiani, sottolineando che tra di loro c’era anche “Ulderico Galassini ex direttore di banca che ha ucciso la moglie e ferito il figlio”.

Un figlio che non ha bisogno di ripercorrere quel tragico evento e leggere a caratteri cubitali sulle locandine esposte fuori dall’edicola il titolo di richiamo, che all’editore serve per vendere.

Lui sa già cosa è successo e per il suo equilibrio non ha bisogno dei messaggi della stampa o della TV, ha bisogno di tranquillità e di proseguire la sua vita, ben conscio che purtroppo non ha più sua madre ed ha un padre in carcere.

Da oltre tre anni vivo in questo carcere e ho avuto modo di leggere vari articoli dove chi informa si pone come unico ed indiscusso “giudice“ del fatto. Sarebbe necessario trovare una informazione più trasparente, che aiuti a non perdere il senso della realtà, a rimanere in un ambito di informazione civile e matura, mentre spetta ad altri il compito di giudicare prima e di “recuperare” poi la parte malata della società, rieducandola seriamente, mettendo a disposizione mezzi e personale per raggiungere lo scopo di riportare nella società persone utili a se stesse, ai loro famigliari e alla società intera. Cosa che oggi, con le condizioni di un sovraffollamento, in ulteriore crescita, non possono essere messe in pratica. Garantire questo è compito della società intera ed in primis dello Stato. Molto probabilmente se si mettesse mano a certe leggi, che oggi portano in galera tossicodipendenti, emarginati, persone con disagio psichiatrico, avremmo meno presenze nelle carceri, e non ci sarebbe bisogno di leggi “svuota carcere”, ma questa forse è utopia.

Oggi si continua insistentemente e solo a parlare di casi simili al mio e a “coltivare” quella morbosità dell’informazione, che alla fine non mi pare porti a fermare i fatti negativi che purtroppo accadono, e nemmeno a farli capire.

 

L’informazione spesso crea spettacolo nel dramma

 

L’informazione l’ho sempre intesa come mezzo democratico di mettere a conoscenza dei cittadini quello che succede nel mondo, e di farlo nel rispetto dell’etica professionale, ma per la forte competizione tra i media, il loro obiettivo di conquistare il mercato, la notizia non è più solo tale e chi la dà ha occupato gli spazi di lavoro di altri: ora sono tutti psicologi, criminologi, studiano anche i movimenti del corpo e la postura delle persone sottoposte ad “inquisizione” mediatica, quando invece, nei casi di gravi reati, tutto dovrebbe essere lasciato ai Tribunali, ai Giudici.

L’informazione spesso crea spettacolo nel dramma di chi ha compiuto il reato e di chi lo ha subito. Ci sono giornalisti che si attaccano morbosamente al fatto accaduto, rivisitandolo e ripercorrendo meticolosamente ogni attimo della giornata, ci vengono scodellate immagini crude e disumane mentre ci stiamo vestendo, stiamo mangiando, siamo al lavoro. Sono come le ventose dei polipi, ti si attaccano alla pelle e non ti mollano più.

È ovvio che i reati, e soprattutto gli omicidi, sono da condannare, ma questo è compito di altre istituzioni. È poi così utile riportare sulla stampa e soprattutto in televisione certe immagini crude che colpiscono non solo gli adulti, ma anche i nostri figli?

Io non ritengo che un certo modo di raccontare e mostrare certe notizie sia motivo di educazione o prevenzione, anzi in certi casi può stimolare, nei soggetti più deboli, una forma di emulazione, se si pensa che già i ragazzi, con i loro giochi elettronici, si “addestrano” alla eliminazione di persone, alla distruzione di ogni cosa pur di vincere, un corpo a corpo che non ritengo educativo né positivo, ma il mercato lo mette a disposizione e lo pubblicizza.

Certe notizie creano così giorno per giorno un’abitudine, una assuefazione alla negatività, una ripetizione infernale di come è accaduto il fatto, con che mezzo si è arrivati a commetterlo, si creano castelli di congetture sulle motivazioni, si entra nei minimi particolari, ma la storia vera a volte non la sa neppure chi quel gesto terribile l’ha fatto, e però l’importante pare sia parlarne.

L’informazione non mi sembra che attui quelle funzioni che le dovrebbero essere proprie, ma pare spinta solo dalla ricerca assidua di catturare il lettore giustificando il suo operato con la dichiarazione: diamo al pubblico ciò che desidera.

È un’attività che è basata su un consistente affare finanziario, con un vortice di notizie che travolge tutto e tutti. Bisogna arrivare per primi, sbattere in prima pagina i titoli che attirano e sviluppare poi gli articoli dove il più delle volte i dati sono “conditi” con tanta fantasia. E si arriva così a distruggere moralmente sia i parenti delle vittime che i parenti di chi ha commesso azioni negative, mettendo in bocca, nelle interviste, con ostinazione la risposta che il giornalista vuol sentire e poi diffondere.

Ci sono giornalisti che effettuano piantonamenti nei luoghi delle disgrazie soffocando le persone, con tanta falsa moralità e dichiarata volontà di mostrare tutto il male che effettivamente succede, e con l’apparente intenzione di limitare o evitare il ripetersi di tanti crimini.

Forse l’azione migliore sarebbe invece quella di valutare in altre sedi tali situazioni, confrontare i fatti, le motivazioni che hanno portato a compierli e trarne risultati significativi e tali da circoscrivere il male.

Da anni viviamo in una società dove si ragiona soprattutto in termini di risultati economici, che sono esclusivamente di pochi, e che sponsorizza un modo di vivere che non è quello della famiglia normale, ma che ti impone di avere per forza quello che il tuo vicino o amico ha in più perché altrimenti ti senti diverso, inferiore. E allora in famiglia entrambi i genitori devono lavorare a tempo pieno, e abbandonare i figli a se stessi.

C’è uno strano virus che distrugge tutto, compreso il futuro, che mette in competizione, e che determina anche, per chi non sa gestire tali nuovi modelli di vita, stress continui, e dagli stress, se non capisci di esserne stato colpito, puoi arrivare a causare anche quel male, che di certo nessuno vorrebbe mai causare.

 

 

Diritto ad essere dimenticati

Non vogliamo mettere in discussione il diritto di cronaca, ma ci deve essere anche un diritto ad essere dimenticati, quando ormai sono passati talmente tanti anni, che la notizia di cronaca nera forse non fa più una informazione utile alla società

 

a cura della Redazione

 

Tutto è cominciato dalla lettera di un detenuto al Corriere della Sera e al Garante della privacy:

Al direttore del Corriere della Sera

Egregio direttore,

sono un detenuto, in carcere da circa tredici anni perché, quando avevo 21 anni, ho sequestrato una persona. Il sequestro si è concluso in due giorni, senza altre forme di violenza perché per fortuna non avevamo armi.

Adesso ho 34 anni e qui a Padova ho dedicato tutto il mio tempo a impegnarmi per diventare un’altra persona. Ho ripreso a studiare, una dura impresa, perché in carcere non è facile, ma io ho voluto con tutte le mie forze riuscirci. Tre anni fa mi sono laureato in Scienze politiche con 110 e lode e ho da poco completato il ciclo di studi con la laurea specialistica.

In questi anni di carcerazione non ho mai messo piede fuori, e non ho potuto avere nemmeno un permesso per la laurea, poiché i condannati per sequestro non possono avere nessuna misura alternativa al carcere, e nemmeno un giorno di permesso premio. Ciò avviene nonostante tutta l’equipe trattamentale del carcere (composta da Direttore, Comandante degli agenti, educatori, psicologi, assistenti sociali) si sia finora espressa favorevolmente ad ogni mia richiesta.

Tuttavia, non trascuro nemmeno per un attimo le mie responsabilità, anche se considero il mio passato come un capitolo drammatico della mia vita che ormai è stato chiuso definitivamente, ma che ancora mi provoca vergogna. Adesso la mia famiglia ha instaurato un rapporto di vicinanza e reciproca stima con la vittima del sequestro di cui sono stato responsabile, e con i suoi famigliari, ma questo non mi alleggerisce assolutamente il rimorso e la consapevolezza di essermi lasciato trasportare in una follia così assurda.

Egregio direttore, Le scrivo questa lettera perché i miei interessi per la scrittura e lo studio mi hanno permesso di farmi molti amici tra docenti, studenti, volontari e giornalisti con i quali condivido un progetto di crescita culturale importante per la mia vita. Però so che, quando si digita il mio nome in qualche motore di ricerca internet, tra le varie pagine web che mi riguardano, appaiono sempre anche tre articoli collocati nell’archivio storico del “Corriere della sera” che mi descrivono come un feroce criminale.

A prescindere dal fatto che questi articoli contengono termini che non corrispondono a quanto descritto dai giudici nei motivi della sentenza – che pure certamente non hanno usato la mano leggera con me – Le scrivo per dirLe che sto cercando con tutte le mie forze di chiudere con un passato in cui non mi riconosco più, e ricostruirmi una vita nel rispetto delle regole della società civile. Ma che mi fa male vedere come il mio nome, anche a distanza di moltissimi anni, continui ad essere legato al mio reato.

Non intendo mettere in discussione il diritto di cronaca, ma credo che ci debba essere anche un diritto all’oblio quando ormai sono passati talmente tanti anni, che la notizia di cronaca forse non fa più una informazione utile alla società; certamente fa male a me e alle persone che mi stanno vicino, dato che mi cuce addosso quell’etichetta che forse mi sono meritato all’età di vent’anni, ma di cui vorrei liberarmi ora che sono un’altra persona.

Per questa ragione, Le chiedo se è possibile modificare gli articoli che riguardano la mia faccenda processuale sostituendo il mio nome e cognome con le mie iniziali. Credo che questa soluzione concilierebbe il diritto dei cittadini di essere informati e il mio bisogno vitale di provare a ricominciare una vita nuova.

Fiducioso nella sua comprensione, le porgo cordiali saluti.

 

L’intervento dell’Ufficio del Garante della privacy

 

L’Ufficio del Garante ha risposto rapidamente, spiegando dove e come era possibile agire, e invitando il Corriere a farlo: quelle che seguono sono le osservazioni di Mauro Paissan, dell’Ufficio del Garante della privacy, sulla base delle quali il Corriere della Sera è stato esortato a intervenire.

I punti suggeriti da Paissan sono i seguenti:

1)         Non è proponibile modificare il dato storico-documentale proprio degli archivi

2)         Con la comparsa degli archivi storici dei quotidiani in Internet, il danno più consistente alle persone è causato dai motori di ricerca generalisti tipo Google. Finché il vecchio articolo è reperibile solo entrando nel sito della testata che l’ha pubblicato, la lesione è ridotta.

3)         Quando si pone un problema di diritto all’oblio (per il tempo trascorso e per le caratteristiche delle persone in questione, non trattandosi di personaggi pubblici), l’intervento proponibile è quello di non rendere accessibile ai motori di ricerca generalisti i dati personali contenuti in determinati articoli.

4)         Le maggiori testate sono abbastanza disponibili a valutare le richieste in questo senso, soprattutto se sostenute dal Garante. A quel punto si tratta di utilizzare uno strumento informatico per “nascondere” a Google i dati in questione. In molti casi la cosa ha funzionato.

   

Per una volta, un “delinquente” ha avuto restituita un po’ della sua dignità:

 

il Corriere della Sera ha infatti accettato di rendere un po’ meno visibili gli articoli di cronaca nera di quattordici anni fa.

Ecco la lettera con cui l’editore del Corriere ha accolto la richiesta:

 

Riscontriamo, con la presente, la comunicazione del Garante per la Protezione dei Dati Personali del 20 ottobre 2010, con la quale ci è stato chiesto di indicare elementi utili alla valutazione del caso sottoposto all’attenzione dello Spett. Garante medesimo da parte del Sig.***, nonché di specificare se la nostra società intenda assicurare che i motori di ricerca esterni all’archivio on line del Corriere della Sera non indicizzino più gli articoli oggetto di controversia.

La nostra società ha, in data odierna, indicato a tutti i motori di ricerca la propria volontà che gli articoli in parola vengano rimossi definitivamente dai siti esterni al proprio, attraverso la compilazione del file “robots. Txt”; ciò in conformità a numerose pronunce di questa Spett. Autorità emesse proprio nei confronti della nostra società in casi analoghi al presente.

 

Cordiali saluti.

RCS Quotidiani S.p.A.

Direzione Affari legali

 

I compiti del Garante della privacy

 

Il Garante interviene in tutti i settori, pubblici e privati, nei quali occorre assicurare il corretto trattamento dei dati e il rispetto dei diritti fondamentali delle persone.

Il Garante si occupa, tra l’altro, di:

controllare che i trattamenti di dati personali siano conformi a leggi e regolamenti e, eventualmente, segnalare ai titolari o ai responsabili dei trattamenti le modifiche da adottare per rispettare la conformità;

esaminare le segnalazioni e i reclami avanzati dagli interessati, nonché valutare i ricorsi presentati ai sensi dell’art. 145 del Codice in materia di protezione dei dati personali;

vietare in tutto od in parte il trattamento ovvero disporre il blocco del trattamento di dati personali che per la loro natura, per le modalità o per gli effetti del loro trattamento possano rappresentare un rilevante pregiudizio per l’interessato;

adottare i provvedimenti previsti dalla normativa in materia di dati personali, tra cui, in particolare, le autorizzazioni generali per il trattamento dei dati sensibili;

promuovere la sottoscrizione dei codici di deontologia e di buona condotta in vari ambiti (credito al consumo, attività giornalistica, ecc.);

segnalare, quando ritenuto opportuno, al Governo la necessità di adottare provvedimenti normativi di settore;

formulare pareri richiesti dal Presidente del Consiglio o da ciascun ministro in ordine a regolamenti ed atti amministrativi in materia di protezione dei dati personali;

predisporre una relazione annuale sull’attività svolta e sullo stato di attuazione della normativa sulla privacy da trasmettere al Parlamento e al Governo;

partecipare alle attività comunitarie ed internazionali di settore, anche quale componente delle Autorità comuni di controllo previste da convenzioni internazionali (Europol, Schengen, Sistema informativo doganale);

curare la tenuta del registro dei trattamenti formato sulla base delle notificazioni di cui all’art. 37 del Codice in materia di protezione dei dati personali;

curare l’informazione e la sensibilizzazione dei cittadini in materia di trattamento dei dati personali, nonchè sulle misure di sicurezza dei dati.