“Sangue
mio”
Il
carcere e le tante contraddizioni che lo contraddistinguono, visto attraverso
gli occhi di un padre ladro e assassino, che scopre l’amore per una figlia
cresciuta senza neppure conoscerlo. A raccontare questa storia, Davide Ferrario,
un regista, che il carcere l’ha “studiato” da vicino
recensione
di Sandro Calderoni
Quando
mi è stato proposto di leggere questo libro che parla di carcere, e mi hanno
spiegato che l’autore è un regista di cinema, e non certo uno che il carcere
l’ha conosciuto sulla sua pelle, la mia prima idea è stata quella di trovarci
le solite cose come in tanti altri libri che parlano di carcere e di tutto
quello che ci gira intorno, intrise di luoghi comuni e forzature hollywoodiane
come certi film di cassetta.
Quando
però ho iniziato a leggere “Sangue mio”, così si chiama il romanzo di
Ferrario, ho sentito che i toni, i dialoghi e il ritmo erano intensi e mi hanno
appassionato da subito.
Il
libro è scritto con un linguaggio semplice, diretto, a volte violento nelle
parole, perché spesso il raccontarsi realmente, tra di noi che abbiamo
conosciuto il carcere, non dà spazio a linguaggi ricercati, i fatti sono quelli
che sono e a raccontarli nella loro realtà cruda spesso sembrano assumere
contorni da film, anzi a volte la nostra realtà è molto più assurda di un
film.
Questo
è un libro che racconta la precarietà della vita di chi come me ha scelto
l’illegalità, e quanto attraverso le proprie scelte si coinvolga
inevitabilmente anche altre persone e si condizioni la loro vita. E questo viene
fuori anche dalla storia di Ulisse Bernardini, vecchio “bandito” che ormai
quasi alla fine dei diciotto anni di pena da scontare, attraverso una lettera
scopre di avere una figlia, Gretel, ormai ventenne, la quale vuole incontrarlo
per proporgli un viaggio con lei quando tra breve uscirà dalla prigione.
Un
viaggio, in cui si incontrano due vite che non si conoscono, entrambe disilluse
e con poche prospettive davanti a loro, una, Gretel, perché affetta da una
malattia degenerativa, l’altro, Ulisse, perché il carcere e una vita
sregolata l’hanno lasciato svuotato, tanto che il suo pensiero iniziale è
quello di rendersi, una volta fuori, una persona anonima, invisibile. Un viaggio
che li porta ad incontrarsi, a riconoscersi e ad accettarsi; inizialmente con
diffidenza e rancore l’uno verso l’altra, e poi man mano che il viaggio va
avanti con sempre più apertura, quasi come gli animali che inizialmente si
annusano circospetti, attenti e pronti ed aggredire, e successivamente,
riconoscendosi, si rilassano e si scoprono, e scoprendosi rivelano il loro lato
più umano. Quello di Ulisse, che attraverso il suo racconto ti porta a spaccati
di vita fuori dalla legge e di vita in carcere, e quello di Gretel, che dietro
la sua maschera di persona forte, è anche una donna disperata e indifesa.
Più
che un romanzo è un diario scritto a quattro mani, dove attraverso gli episodi
raccontati dall’uno o dall’altra si sviluppano i pensieri le riflessioni e
le interpretazioni che ognuno di loro sviluppa, a seconda di quella che è stata
la sua vita e dei suoi condizionamenti, ed attraverso questi passaggi il lettore
è portato a scoprire le contraddizioni della vita di chi finisce in carcere, le
tante piccole assurdità che non lasciano, spesso, via di scampo: o ti rassegni
ad essere irreggimentato, atomizzato o sei tagliato fuori.
Quello
che mi colpisce in particolare sono le descrizioni della vita in carcere e la
delicatezza, o meglio dire quel senso di pudore nei comportamenti che Ulisse ha
nei confronti della figlia, dovuto soprattutto alla lunga detenzione. Perché in
carcere ti è quasi impossibile dimostrare amore spontaneo verso l’altro
sesso, questo sentimento in queste strutture e anche nelle misure alternative
viene quasi osteggiato, paragonato ad un reato. Come dice Ulisse “…amare e
farsi scoprire è quasi più grave che evadere …”.
Il
fatto è che tutto il libro parla d’amore, anche quando i dialoghi sono forti
e crudi, perché l’amore negato dalla galera, amore di un padre per una
figlia, amore di una figlia per un padre, come è raccontato in questo libro, è
un sentimento comprensibile sia per chi queste situazioni di privazione di ogni
libertà le vive o le ha vissute, sia per chi non le conosce. Perché “Sangue
mio” offre e dice in modo semplice come stanno le cose in carcere e come il
rapporto con le persone care si svolge e quanto il sistema, pur avendo la
capacità e gli strumenti per ridurre questa compressione dei sentimenti, si
fossilizza nella sua morale bigotta e arcaica.
Infine
Ulisse, un uomo egoista che ha messo sempre davanti a tutto e a tutti il suo
mondo e le sue idee, calpestando anche l’amore di chi aveva posto nelle sue
mani la sua vita, abbatte la sua diffidenza e sceglie l’altruismo,
dimenticando se stesso …
Una
discarica sociale dove non si fa nemmeno la raccolta differenziata
L’idea
del carcere
di
Davide Ferrario,
raccontata a Ristretti Orizzonti
Io
ho cominciato a frequentare il carcere nel 2000 prima a San Vittore e poi alle
Vallette di Torino, un po’ per caso. C’era a San Vittore un corso
professionale della Regione per videomontatori e operatori video, siccome io
faccio il regista da una vita, mi hanno chiesto di andare a fare un paio di
lezioni.
Non
avevo nessuna idea di carcere, cioè non ci avevo mai pensato, cosi la mia
conoscenza era quella del carcere che si legge sui giornali, quando mi sono
trovato dentro l’esperienza è stata abbastanza forte, e alla fine di queste
due lezioni, con un gruppo di detenuti del penale di San Vittore, ci siamo
guardati, e loro mi hanno chiesto “Cosa fai, torni a casa?”, e io gli ho
risposto “Se volete andiamo avanti”.
Andare
avanti ha significato chiedere un articolo 17 da volontario, e mettere in piedi
un piccolo laboratorio di creazione di documentari dentro il carcere, per cui
dentro abbiamo fatto dei piccoli lavori e anche una cosa più impegnativa, un
film che si chiama “Fine amore mai”, che dura 40 minuti ed è dedicato alla,
come dicono gli operatori, “affettività in carcere”. In realtà è il
problema di come si ci relaziona con il sesso.
Onestamente
devo dire che in tutta quell’esperienza una cosa che mi ha colpito della
galera, è che ovviamente è una esperienza limite, un’esperienza dura, però
in qualche maniera tira fuori anche una voglia di sopravvivenza e una ironia,
assolutamente imprevedibili, per chi da fuori si immagina il carcere nel modo
solo drammatico. Perché il carcere significa anche lottare per sopravvivere, e
avere la necessità di far ricorso a tutte le proprie energie e risorse per non
soccombere. E questa cosa qui crea anche la possibilità di raccontare il
carcere non in una maniera solo terribile e drammatica, però certo senza mai
dimenticare quello che ci sta dietro, che è spesso davvero terribile e
drammatico.
Il
carcere cosi com’è è chiaro che non serve a niente, lo dico come cittadino
che paga per mantenere tutta questa struttura, magari mi toglie dalla strada
forse un problema, perché se qualcuno è finito qui, a parte rari casi di
innocenza o di errore, un problema c’è. Però da lì, poi cosa succede? Io ho
una figlia di 13 anni, che da dieci anni mi vede andare in galera, e crescendo,
un paio di anni fa mi ha detto: ma perché tu hai la fissa del carcere? il fatto
è che a quell’età cosa gli insegni a un figlio? Gli insegni il bene e il
male, a comportarsi nel modo giusto, a non fare errori, a non rubare, e lei mi
ha chiesto esattamente questo: che senso ha che da una parte mi dici queste cose
qui, e dall’altra parte vai da quelli che hanno fatto il contrario?
Io
ho provato a spiegarglielo parlando della caldaia, che era il posto dove, quando
era piccola, sui quattro anni, la minacciavamo di mandarla, lei in realtà la
caldaia l’ha vista una volta per 15 secondi, ma le è rimasta impressa questa
cosa della caldaia: aveva combinato un casino di quelli imperdonabili, allora
l’ho chiusa in questa caldaia, ho chiuso la porta per 15 secondi, l’ho
riaperta ed era tutta in pianto.
Allora
le ho fatto questa domanda: ti ricordi la caldaia, perché ti chiudevo in
caldaia? Perché facevi delle cose sbagliate, allora dopo che ti avevo messo lì
dentro cosa avrei dovuto fare? Aveva senso che ti tenessi lì dentro a lungo, o
uscivi subito capendo che avevi sbagliato? E lei su quella cosa ha ragionato,
perché è un po’ il meccanismo del carcere, cioè io ti metto in carcere
perché tu hai sbagliato, ma quando esci o rifai la cosa che facevi prima, o sei
cambiato perché hai capito.
In
questo senso il carcere è peggio della caldaia, è una discarica sociale dove
stanno tutti sospesi, come dice il direttore del carcere nel film, si sta a
galla a fare il morto. Penso solo al fatto che il 35 per cento dei detenuti sono
tossicodipendenti che finiscono in carcere, eppure il loro problema non è
quello di essere dei ladri, ma quello di essere drogati.
Oggi
però l’idea dominante è che appunto il carcere serve a prendere tutti i guai
che ci sono fuori, e a metterli sotto il tappeto come per la polvere, che poi
non la vedi più, pensi che non ci sia, ma in realtà si accumula, e la galera
è uguale, prendi quello che c’è nella strada e lo metti qui. Una discarica
sociale, appunto, dove non si fa nemmeno la raccolta differenziata, il problema
non è il carcere, è la società che produce il carcere.
Davide Ferrario è anche il regista di una “commedia con musica”, girata nel carcere torinese Lorusso e Cotugno, dove la giovane regista di teatro d’avanguardia Irena deve mettere in scena una Passione con venti detenuti. L’allestimento incontra però un ostacolo: nessuno vuole interpretare Giuda, il traditore. Irena ripensa allora la storia di Gesù senza tradimento, morte, condanna e punizione.