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Soluzioni per le celle sovraffollate: pene diverse da galera a incensurati Facciamo in modo che chi è al primo reato si fermi in tempo Il sovraffollamento è sempre più intollerabile, servono idee nuove, in particolare ci vorrebbero pene alternative alla galera per le persone che non hanno una carriera criminale alle spalle
Non riusciamo a non parlare di carceri sovraffollate, ma questa volta vogliamo puntare l’attenzione su chi è al primo reato, perché è da lì che bisogna partire per ragionare su possibili soluzioni. Cominciamo allora a pensare che forse chi è entrato per la prima volta in carcere ci dovrebbe essere tenuto il minimo possibile, perché sono queste le persone sulle quali si può puntare per un percorso serio di reinserimento, sono loro che in qualche modo devono essere “preservate dal contagio” della vita carceraria. Ne parlano anche le testimonianze dei detenuti, che per primi si rendono conto che ci vogliono pene diverse per chi non ha una carriera criminale alle spalle, ma un solo reato, che potrebbe davvero restare l’unico nella sua vita, se si riuscisse a intervenire in modo intelligente. Dare ai giovani una vera speranza
di Jovica Labus
Il dato che i costi del sistema penitenziario ogni anno si misurano intorno ai 3 miliardi di euro con risultati solo in casi limitati positivi sulla rieducazione, e che la diminuzione di un solo punto percentuale della recidiva corrisponde ad un risparmio per la collettività di circa 51 milioni di euro, impone una domanda: ma quei soldi pubblici non possono essere utilizzati in un altro modo per far risparmiare la società e nel frattempo restituirle persone intenzionate a vivere finalmente nel rispetto della legalità? La soluzione possibile al sovraffollamento, ma anche quella che darebbe un senso alle pene credo sia semplicemente l’applicazione di quella legge che prevede di far scontare una parte della pena fuori dal carcere con le misure alternative. Quando i giudici ci hanno dato anni di galera senza andarci giù tanto leggeri, ci hanno detto che è stata rispettata la legge, però quando bisogna dare la possibilità di ricominciare sembra difficile fare la stessa cosa, cioè rispettare e applicare la legge. Ai detenuti stranieri dovrebbero invece concedere in fretta le espulsioni e permettere a tutti, indipendentemente dai reati, di usufruire di questa possibilità di essere espulsi negli ultimi due anni della pena oppure, come opzione, fare le espulsioni a due terzi della pena come in Germania per certi reati. Io personalmente firmerei subito per andare via da qui e se poi tornassi so benissimo che dovrei accettare di fare tutta la pena rimasta senza lamentarmi, con in più uno o due anni aggiuntivi per la nuova violazione della legge. E poi servirebbe un’attenzione particolare per chi è in carcere per la prima volta, ci sono tanti ragazzi giovani, immigrati ma anche italiani, che avrebbero bisogno di essere aiutati a uscire in tempo da certi giri, io personalmente non capisco che senso abbia che un uomo al primo reato debba farsi tutta la galera: dategli la possibilità, negli ultimi anni della pena, di ricostruirsi una vita, aiutatelo ad andare avanti, se c’è lavoro lasciatelo mettersi alla prova! Purtroppo la verità è che non si fa sempre quello che sarebbe oggettivamente sensato, ma si insegue spesso quello che fa soggettivamente comodo, e oggi la politica trova più conveniente dire che la sicurezza si ottiene cacciando la gente in galera per più tempo possibile. Occorre prevedere soluzioni alternative
di Marco Libietti
Sovraffollamento, carenza di educatori, mancanza di attività culturali e lavorative nelle quali impegnare le persone detenute. Tutto questo influisce pesantemente sul sistema carcerario, ma in particolar modo e con modalità a mio parere devastanti su chi entra al primo reato e alla prima condanna, abbandonato a se stesso in balia di un mondo sconosciuto. Se poi la condanna non supera qualche anno, allora proprio la persona rischia di venire dimenticata, quando invece dovrebbe essere la beneficiaria degli sforzi massimi congiunti della struttura penitenziaria e di chi ne fa parte. Questa situazione è ancora più paradossale se si guardano i dati di chi è rientrato dall’indulto: fra chi era dentro per il primo reato, solo uno su dieci è tornato a delinquere. Tutto questo dovrebbe portarci a una riflessione sull’utilità del carcere come unico strumento di pena e rieducazione: siamo proprio sicuri che a quei 9 su 10 che non sono tornati a commettere reati servisse il carcere? Non è forse pericoloso togliere dalla società chi è al primo reato e rischiare che entri in un cortocircuito di devianza criminale stando in contatto con plurirecidivi e in condizioni di abbandono? Inoltre, dato che la prima carcerazione riguarda comprensibilmente in maggioranza giovani, non varrebbe la pena concentrare sforzi sul recupero, sul reinserimento di chi ha ancora tutto davanti ed è ben lontano dall’essere un delinquente patologico? Penso che sarebbe il momento di iniziare seriamente a prevedere per loro soluzioni alternative al carcere, percorsi diversi dal resto della popolazione detenuta. Ne trarrebbero beneficio tutti: il reo, la sua famiglia, la società, il sistema carcere stesso, in quanto seri percorsi di riabilitazione (anche sotto l’aspetto psicologico, aiutando queste persone a una presa di coscienza e un’assunzione di responsabilità) sarebbero il migliore e più duraturo metodo per abbattere la recidiva e per affrontare in modo costruttivo il problema del sovraffollamento, che altrimenti non potrà che diventare sempre più ingestibile, creando solo più costi e insicurezza per la società. Meno galera per il primo reato
di Maurizio Bertani
Vivere in una cella di circa 13 metri quadrati in tre, come succede a noi qui al quinto piano del Due palazzi, lascia un segno pesante nella vita delle persone, sia a livello psicologico che fisico. Se poi in questi 13 metri quadrati calcoliamo il posto occupato dalle brande, dal tavolino, dagli armadietti, dal lavandino, dal water, ci accorgiamo che lo spazio realmente si riduce a meno di 7 metri quadrati calpestabili, riservati a 3 persone. Infine calcoliamo anche che tutta la struttura era destinata ad ospitare 350 detenuti, quindi gli spazi interni per le attività, i passeggi, gli ambienti lavorativi sono fisiologicamente e strettamente disposti per 350 detenuti. Ora qui per lo meno hanno capito il problema, e così nell’arco della giornata tra il lavoro e le attività, con quelle ore di apertura in più delle celle che state sono concesse, si riesce a sopperire almeno momentaneamente al disagio di dover stare tutto il giorno in una cella in queste condizioni. Ovviamente ci chiediamo cosa si potrebbe fare per risolvere questa situazione di costante aumento della popolazione detenuta, dovuto alle tante leggi emergenziali che prevedono più galera e basta. Bisognerebbe invece armarsi di buona volontà e prendere in mano la riforma del Codice penale, avendo una particolare attenzione a quella fascia di persone incensurate che cadono nella devianza per la prima volta, e lo dico proprio da persona più volte recidiva, che forse avrebbe potuto essere fermata all’inizio, con politiche diverse verso chi è al primo reato. E progettare per loro una più ampia condizione di “messa alla prova” fuori dal carcere con l’impegno di occupare una parte di tempo in attività sociali, e se necessario di seguire un programma di cura, o di riabilitazione, di responsabilizzazione rispetto al reato. Forse in questo modo si riuscirebbe a fare una scelta più corretta per le persone incensurate, che sicuramente meritano un approccio alla possibilità di reinserimento migliore che un recidivo. Prendiamo esempio dalla Germania
di Paola Marchetti
Dopo 2 anni e mezzo di pena scontata in Germania, sono arrivata in carcere alla Giudecca dove, come è previsto sempre, mi hanno fatto transitare per l’infermeria che in quel momento era semivuota. Ho pregato allora il medico di non farmi scendere subito in sezione perché non sapevo come avrei fatto, dopo tutto il tempo trascorso in cella singola, a stare in celle dove si era minimo 7-8 persone. Avevo paura di iniziare la mia nuova vita da carcerata in Italia, per cui ho dilatato il tempo di permanenza nell’infermeria fino a quando è stato possibile! Da quel momento ho iniziato a raffinare la capacità di isolarmi anche in mezzo alla gente, usando i tappi di cera nelle orecchie per non sentire il respiro di altre 8, 9, 10 persone che dormono con te, per non sentire la televisione che già mi ossessionava tutto il giorno, per illudersi di dormire sonni tranquilli. Alla Giudecca, che è comunque una delle poche “isole felici” – se felice può essere un aggettivo appropriato parlando di galera – per le opportunità di lavoro per tutte le detenute, gli spazi di solitudine sono inesistenti, bisogna saperseli inventare. A un certo punto abbiamo raggiunto anche lì il “pienone”, e nella mia cella eravamo in 12 donne di provenienze, culture, abitudini diverse. Che in continuazione dovevano ri-adattarsi a qualcuno che subentrava a qualcun altro, con un turn-over notevolissimo. Un esperimento vorrei che i lettori facessero: provate a chiudere, solo per 24 ore, nella stessa stanza, 12 persone della vostra famiglia, 12 persone che si conoscono da sempre e che hanno, grossomodo, le stesse abitudini: quanto tempo passerebbe prima che ci fosse un litigio? Tante delle donne che ho visto passare dalla mia cella erano al primo reato, o comunque avevano pene brevi o brevissime, io credo che avrebbero potuto scontarle in misure alternative alla detenzione, lasciando così spazio e tranquillità a quelle di noi che avevano pene lunghe e che ogni volta dovevano fare violenza su se stesse per riadattarsi ai cambiamenti. Un’ultima considerazione: in Baviera il carcere è severo, ma c’è un rispetto diverso per la dignità del condannato: gli stranieri in carcere sono ben più numerosi dei tedeschi da ormai molti anni – ai tedeschi però non è proprio mai venuto in mente di chiedere l’intervento dell’Unione Europea – ma soprattutto hanno un sistema che prevede che il condannato al primo reato, per QUALSIASI reato che non sia di tipo mafioso o di terrorismo, a metà della pena inflittagli possa essere scarcerato completamente libero. Sicurezza vuol dire risanare il territorio Le misure alternative non significano “indulgenza” “Meno custodia cautelare e più misure alternative alla detenzione sono le uniche soluzioni al sovraffollamento delle carceri e al recupero delle persone detenute”. La “ricetta” di Oreste Dominioni, avvocato, presidente dell’Unione Camere Penali Italiane, per far uscire le carceri dal disastro
intervista di Marino Occhipinti e Paola Marchetti
Oreste Dominioni è professore ordinario di Diritto processuale penale all’Università di Milano, è stato presidente della Camera penale di Milano ed è attualmente presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane. Lo abbiamo intervistato sui temi “caldi” della giustizia, i pacchetti sicurezza, le misure alternative, la voglia che serpeggia in tanti settori della politica di ridurle ulteriormente fino a distruggere di fatto la legge Gozzini.
Professor Dominioni, la nostra naturalmente può sembrare una visione di parte, siamo detenuti, ma non crede che gli organi di informazione si concentrino esasperatamente sulla sicurezza, creando dei contesti allarmanti anche quando non è realmente così? Direi che è un fenomeno generale, che è riscontrato ovunque, non solo in Italia: la percezione del problema sicurezza è amplificata rispetto alla sua dimensione reale. Questo per molti fattori, primo dei quali il comportamento della stampa, la reiterazione di notizie di un medesimo fatto, l’accentuazione di episodi che magari sono singoli e che vengono rappresentati come espressione di una realtà più vasta. È chiaro che poi i cittadini percepiscono questo fenomeno, che pure ha elementi di viva preoccupazione, in termini amplificati rispetto al reale. L’amplificazione esagerata da parte dei media è un dato che è registrato costantemente dalle ricerche condotte sul campo.
C’è quindi una “responsabilità” dei mass media su come viene poi percepita l’insicurezza? C’è una responsabilità nel senso che c’è uno scarso controllo sul tipo di informazione che viene data in ordine a singoli determinati episodi e per come vengono presentati. Appunto come ho detto, posti come se fossero indicatori di una realtà generale quando invece sono episodi molto gravi, ma con una cadenza che non è quella che viene fatta percepire.
Cosa ne pensa del recente pacchetto sicurezza? Il parere è in generale negativo in quanto il fulcro dell’intervento su questo problema della sicurezza sembra ancora una volta essere posto sull’intervento penale, che esperienze ampiamente e lungamente fatte hanno dimostrato che non ha un’efficacia particolare. Laddove invece il problema sicurezza va affrontato riapprezzando e risanando il territorio, rendendo il territorio sicuro con interventi logistici di bonifica ambientale e quant’altro
E quindi lo stesso discorso vale anche per quanto riguarda l’inasprimento delle pene? Le pene più severe, e se ne ha la riprova ormai storica, non servono. E così anche la previsione di nuove figure di reato. Quando poi si interviene per limitare il potere in concreto dei giudici di valutare i singoli episodi nella loro dimensione reale, in effetti la legge fa un intervento che poi priva il giudice di una sua efficace attività nel dosaggio nell’esercizio della funzione penale.
Infatti ci si vuole ispirare all’esempio anglosassone, ma nella legislazione anglosassone il giudice ha un’ampia discrezionalità, mentre da noi si sta andando nella direzione contraria… La discrezionalità del giudice anglosassone è molto più ampia. Egli ha un’ampia opportunità di manovra per dosare l’intervento penale rispetto alla situazione particolare del caso. C’è qui un tentativo invece di “generalizzare” come se l’emanazione di leggi severe potesse in qualche modo contenere un fenomeno, e invece si ottiene l’effetto contrario.
E rispetto ai benefici penitenziari, che si vogliono limitare in tutti i modi? È un tipo di intervento del tutto sorprendente! Le statistiche dicono che le persone a cui sono state applicate le misure della legge Gozzini fanno registrare una recidiva quasi irrilevante, e questo vuol dire che le misure della Gozzini hanno una efficacia rieducativa e di recupero delle persone molto significativa. E questo è importante sia per i singoli che per la collettività. Si disincentivano parte delle cause criminogene.
Perciò cosa bisognerebbe rispondere a chi osteggia e critica la legge Gozzini e le misure alternative alla detenzione che, come diceva lei, tutte le statistiche indicano come il miglior antidoto alla recidiva, ben più alta in coloro che invece scontano tutta la pena in carcere? Si deve rispondere che non bisogna eliminarle ma piuttosto si deve migliorarle nella loro operatività, innanzitutto destinando maggiori risorse alla loro attuazione con maggiore personale, con personale sempre più qualificato. Certo che, se la legge Gozzini viene abbandonata a se stessa senza troppi sostegni organizzativi e operativi, c’è il rischio che venga poi percepita come indulgenza anziché come misure a forte caratura rieducativa.
Il sovraffollamento delle nostre carceri consente alla pena di essere ancora rieducativa? Assolutamente no, perché il sovraffollamento penitenziario vuol dire che i detenuti sono contenuti in condizioni di vita che non favoriscono il recupero ma semmai, al contrario, li spingono di nuovo all’interno di un circuito delinquenziale.
Un suo parere sul nuovo piano-carceri… L’idea che il sovraffollamento possa essere contenuto con nuove carceri mi sembra una prospettiva non da praticare. Non è immaginabile che ci si avvii a carcerarizzare il paese. Bisogna invece eliminare le cause del sovraffollamento del carcere, e si fa in fretta ad elencarle perché sono state via via elencate da noi Unione Camere Penali, e dalle varie associazioni che si occupano di queste questioni: una forte riduzione della custodia cautelare prima e durante il processo che, come sappiamo, riguarda più del 50 per cento delle persone detenute, e poi si tratta di non prevedere il carcere per reati per i quali non è necessario – e qui si ritorna alle misure alternative che devono avere, oltre che una carica di rieducazione e di recupero, anche una carica punitiva, perché la persona deve avvertire la stigmatizzazione, da parte della società e da parte dello Stato, del suo comportamento, ma al tempo stesso innanzitutto devono essere rieducative. Questa è la strada che deve essere battuta.
Cosa vuol dire ai nostri lettori? Ai vostri lettori dico che bisogna coltivare la cultura della legalità, la cultura della solidarietà sociale dentro la quale c’è la cultura della rieducazione per chi ha commesso reati, perché questa è la cultura vera che poi produce misure effettivamente di tutela anche della collettività. Sicurezza e informazione Il carcere troppo spesso è diseducativo Rita Guma, presidente dell’Osservatorio sulla legalità e sui diritti onlus, parla di come il carcere funga spesso da scuola negativa per chi abbia commesso reati minori e sarebbe facilmente recuperabile, o induce alla disperazione altri che potrebbero cambiare strada
intervista di Marino Occhipinti
L’Osservatorio sulla legalità e sui diritti onlus è una associazione di volontariato senza scopo di lucro per la tutela dei diritti civili che si prefigge fra l’altro di informare e sensibilizzare i cittadini sui diritti, la giustizia, la legalità e la libera informazione in Italia e nel mondo e denunciare la lesione di tali principi anche presso le istituzioni europee ed internazionali. Ne è presidente Rita Guma, che abbiamo intervistato.
I timori dei cittadini riguardo alla sicurezza sono davvero fondati o sono anche il frutto dell’allarme quasi quotidiano lanciato dai media? Va fatta una distinzione fra le grandi aree metropolitane dove, per fattori che toccano anche molte altre metropoli occidentali, il cittadino “vede” la criminalità di strada e talora quella organizzata, quindi si allarma anche se non è direttamente vittima, e le aree del Paese dove non c’è un rischio effettivo, ma dove comunque si registra fra i cittadini un timore, che è di fatto infondato. Non dico che non vi siano fenomeni criminosi in aumento, ma ve ne sono pure in diminuzione proprio in alcuni settori per i quali il cittadino è più allarmato, e per verificarlo basta leggere i dati ufficiali. Oggi gli omicidi esterni all’ambiente domestico e quelli complessivi sono in diminuzione, mentre, secondo dati diffusi dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza, gli episodi di violenze sessuali nel 2008 sono diminuite dell’8,4 per cento.
Ritiene perciò che gli organi di informazione contribuiscano ad amplificare l’allarme sociale? Ritengo che alcuni media e politici abbiano una responsabilità significativa nell’amplificare l’allarme sociale, spesso sfruttando i pregiudizi già diffusi. In questi ultimi anni la cronaca nera è passata in prima pagina, mentre prima era relegata nelle pagine interne. Parlare di un delitto al giorno in tv provoca allarme nonostante i dati in declino. Ricordo all’epoca del ministero Pisanu, quando, grazie a pochi casi efferati sbattuti in prima pagina ed in prima serata, “nacque” mediaticamente il fenomeno delle rapine in villa, in realtà in decrescita rispetto agli anni precedenti.
L’informazione tratta tutti allo stesso modo? No, basti pensare che sono stati coniati titoli allarmanti o che sottolineano quando il presunto autore del reato è uno straniero, riportando nel testo le generalità del sospettato mentre l’italiano è spesso indicato in modo anonimo. Va tenuto conto che l’identificazione dell’immigrato con il crimine porta a vivere come una minaccia l’immigrazione tutta, e quindi al suo aumento corrisponde anche una maggiore percezione di insicurezza.
Qual è il suo parere sull’ultimo “pacchetto sicurezza”? Sotto il profilo meramente organizzativo è un aggravio per la giustizia: più processi e maggior sovraffollamento delle strutture carcerarie e dei Centri di identificazione temporanea. Sotto il profilo dei diritti e delle garanzie individuali, reputo negativi – fra l’altro – le ronde, la criminalizzazione dello status di clandestino, il clima da “caccia alle streghe” che ne viene determinato ed i conseguenti rischi per l’incolumità personale del malato clandestino, che se teme una denuncia metterà più facilmente a rischio la sua salute. Anche le misure che incidono sulla disposizione dei domiciliari si prestano a critiche sul piano delle garanzie. Va detto però che chi difende i diritti (quindi anche quelli delle vittime) apprezza il valore “simbolico” di alcuni inasprimenti della pena introdotti per sanzionare ad esempio i reati societari.
Cosa risponde a chi attacca la legge Gozzini e le misure alternative alla detenzione, che tutte le statistiche indicano come il miglior sistema antirecidiva? Rispondo appunto con le statistiche, con i numeri del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, altrimenti prevalgono gli slogan che fanno leva sulla paura e sul valore di “vendetta” attribuito da alcuni alla pena. È noto che la recidiva viene quasi del tutto eliminata nei giovanissimi cui vengano concesse pene e misure alternative. E ci sono altri dati confortanti anche per altre categorie di detenuti. Per non parlare dell’effetto che avrebbe sul sovraffollamento delle carceri la modifica della legge Gozzini proposta dal senatore Berselli. Peraltro, pochi anni fa una legge voluta dalla stessa parte politica di Berselli ha abbassato i limiti d’età per la concessione della detenzione domiciliare, che il senatore nella sua proposta di legge ha proposto di innalzare nuovamente. Andrebbe anche bene, se non fosse che questa breve “finestra” temporale in cui i termini sono cambiati ha consentito l’uscita dal carcere di un politico della maggioranza stessa…
Il sovraffollamento penitenziario, che sta raggiungendo livelli insostenibili, consente ancora alla pena di essere veramente rieducativa, come prevede la Costituzione? A mio avviso no. Tranne che per lodevoli eccezioni, progetti qualificati e qualificanti (cooperative agricole, teatro, biblioteche, apprendistato…) promossi da organizzazioni di volontariato o dall’amministrazione, ritengo che a volte la pena sia proprio diseducativa, perché il carcere funge da scuola negativa per chi abbia commesso reati minori e sarebbe facilmente recuperabile, o induce alla disperazione altri che potrebbero cambiare strada.
Cosa ne pensa del nuovo piano-carceri predisposto dal Capo del DAP, Franco Ionta? Mi fa venire in mente il film con Rowan Atkinson dove il personaggio interpretato da John Malkovich aveva in progetto di erigere carceri in tutta la Gran Bretagna, facendola divenire un enorme istituto di pena. Intendo dire che aumentare le strutture fisiche non risolve il problema, sia nell’immediato – visto che i tempi tecnici di costruzione non si possono ridurre oltre un certo limite – sia perché, mentre si costruiscono i penitenziari in progetto oggi, la popolazione carceraria sarà ulteriormente aumentata, soprattutto continuando a fare leggi che penalizzano i piccoli criminali, introducono nuovi reati, estendono la carcerazione preventiva e criminalizzano i clandestini, mentre i tempi lunghi dei processi mantengono costantemente in un “limbo” i detenuti in attesa di giudizio. Tuttavia a tal proposito noto nel piano-carceri il riferimento alle “carceri leggere” per i detenuti in attesa di giudizio, il che riconduce ad una delle proposte dell’Osservatorio sulla legalità e sui diritti onlus, cioè detenere in luoghi diversi dagli istituti di pena le persone ancora presunte innocenti davanti alla legge, ma per le quali viene disposta la custodia cautelare. Un aspetto da non sottovalutare è poi anche la questione del personale di polizia e specialistico da impiegare in tutte le nuove strutture, e non mi pare siano previste le risorse.
In conclusione cosa bisognerebbe fare, quali rimedi suggerisce? Fra l’altro, incentivare le pene e le misure alternative per i reati di “piccolo cabotaggio”. Questa opzione ci vede favorevoli non per buonismo, ma perché le pene alternative, anche in virtù del fatto che tengono i piccoli criminali lontano da quelli di grosso calibro, riducono il pericolo di recidiva. Mi pare che anche ai vertici dell’Amministrazione penitenziaria sia stata proposta questa soluzione. È ovvio che la scelta di ampliare il ricorso alle misure alternative confligge con una campagna informativa che vuole criminali pericolosi solo quelli di piccolo calibro e con una legislazione penale sempre di più “forte con i deboli e debole con i forti”. In tal senso, un’altra scelta da fare sarebbe rimodulare le pene, ad esempio riducendo le pene minori, perché – a seguito di varie leggi e leggine – non vi è più proporzione fra le sanzioni previste per reati commessi da “categorie” diverse (colletti bianchi e piccoli criminali).
Un messaggio per i nostri lettori… Un complimento al gruppo di lavoro di questo giornale e ai lettori che lo sostengono. Ritengo infatti che fare informazione sul carcere e dal carcere, così come le altre attività divulgative promosse da Ristretti, siano un valido modo per combattere i pregiudizi di cui abbiamo parlato. E, da parte dei redattori che operano dall’interno del carcere, è anche l’esempio di un modello di pena realmente rieducativa.
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