Ristrettamente utile

 

Giustizia: notizie che servono

 

di Marino Occhipinti

 

La concessione dell’indultino è diventata “discrezionale”

Sentenza della Corte Costituzionale nr. 255/06

 

La Corte Costituzionale ha parzialmente bocciato l’indultino (legge 207/2003), affermando in sostanza che il Magistrato di Sorveglianza può concedere la sospensione condizionata della pena soltanto nei casi in cui sussistano effettive condizioni di rieducazione. Prima della dichiarazione di illegittimità il giudice aveva invece l’obbligo di disporre la sospensione della parte finale della pena, sempre se vi erano le condizioni oggettive e soggettive quali: la pena inferiore ai due anni (definitiva al 24 agosto 2003) di cui almeno la metà già scontata e derivante dalla commissione di reati “lievi”, che il richiedente avesse un domicilio idoneo, che non fosse recidivo.

Adesso invece, e già dal mese di luglio, il Magistrato di Sorveglianza, oltre a tutto il resto, deve valutare anche il buon comportamento in carcere, l’adesione alle attività trattamentali e tutti quei requisiti generalmente necessari all’ottenimento delle misure alternative alla detenzione. Infatti, secondo la Consulta, il “vecchio” automatismo non teneva conto della meritevolezza e perciò era in contrasto con la Costituzione, perché non consentiva al giudice alcuna valutazione di merito, necessaria invece nel caso dell’indultino che, a tutti gli effetti, deve considerarsi una misura alternativa alla detenzione e non un atto di clemenza, per la cui approvazione sarebbe stata necessaria la maggioranza dei due terzi del Parlamento, come poi è avvenuto nel caso dell’indulto.

 

Aumentano le garanzie per il detenuto lavoratore

Sentenza della Corte Costituzionale nr. 341/06

 

La Corte Costituzionale ha bocciato l’Ordinamento penitenziario (legge 354 del 1975) nella parte in cui all’articolo 69, sesto comma, prevede la competenza del Magistrato di Sorveglianza sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti l’osservanza delle norme riguardanti l’attribuzione della qualifica lavorativa, la remunerazione, lo svolgimento della attività di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali. La sentenza numero 341 precisa che “lo svolgimento di attività lavorative da parte dei detenuti contribuisce a rendere le modalità di espiazione della pena conformi al principio espresso nell’articolo 27, che assegna alla pena stessa la finalità di rieducazione del condannato”.

È certo poi, sottolinea la Consulta, che il detenuto ha diritto a far valere in giudizio le pretese nascenti dalla prestazione di attività lavorative. Come pure il detenuto e la sua controparte devono avere diritto a un procedimento giurisdizionale basato sul contraddittorio. Sulla base di queste ed altre osservazioni i giudici costituzionali hanno fatto rilevare che la norma in questione, con la procedura camerale prevista, non assicura al detenuto una difesa equivalente a quella offerta a tutti i lavoratori; inoltre all’amministrazione penitenziaria è consentita solo la presentazione di memorie.

 

Semilibertà più ampia

Sentenza della Corte di Cassazione nr. 10102/06

 

La gravità dei reati non è determinante: non bastano le modalità particolarmente crudeli con le quali un delitto è stato eseguito per negare all’autore la semilibertà. A queste conclusioni è arrivata la prima sezione della Corte di Cassazione, e la pronuncia è intervenuta sul caso di un detenuto del quale il Tribunale di Sorveglianza aveva rigettato l’istanza di semilibertà anche sulla base della gravità dei reati di cui si era reso responsabile.

La Suprema Corte ha precisato che l’ammissione al regime di semilibertà è disposta in rapporto ai progressi compiuti dal condannato nel corso del trattamento penitenziario, e tocca al Giudice di Sorveglianza verificare l’esistenza delle condizioni per un graduale reinserimento nella società.

L’attenzione maggiore deve così essere dedicata alla valutazione di elementi specifici riferibili al condannato per fondare un convincimento sull’evoluzione positiva della personalità, che giustifichi un suo graduale reingresso nella vita sociale. Informazioni che possono essere acquisite attraverso gli operatori penitenziari, il servizio sociale e gli organi di polizia. Per quanto riguarda la gravità dei reati, la Cassazione sottolinea come questa costituisce solo il punto di partenza per l’osservazione della personalità, “che non può prescindere dalla valutazione dei progressi compiuti dal condannato nel corso della detenzione”. Nel caso in esame, la condotta carceraria era infatti stata caratterizzata da una gestione positiva dei permessi ricevuti, dalla continuativa ammissione al lavoro all’esterno e dalla costante partecipazione all’opera di rieducazione.

Si possono dare permessi premio agli ergastolani

Sentenza della Corte di Cassazione nr. 28662/06

 

Anche gli ergastolani possono beneficiare di permessi premio. A stabilirlo è stata la Corte di Cassazione, che ha accolto il ricorso di un detenuto contro un’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Caltanissetta, con cui era stata dichiarata inammissibile la domanda di concessione di un permesso premio, osservando che “le pene in esecuzione si riferivano a reati ostativi ai sensi del primo comma dell’articolo 4-bis Ordinamento penitenziario, e che, comunque, la pericolosità sociale del condannato e il pericolo di fuga connesso con l’entità della pena (ergastolo) non consentivano la concessione del beneficio premiale”.

Per la prima sezione penale della Suprema Corte il Tribunale aveva considerato ancora socialmente pericoloso il condannato, “facendo riferimento esclusivo ai reati commessi e ravvisando il pericolo di fuga, agganciandolo semplicemente all’entità della pena in corso di esecuzione, mentre, prima di pronunciarsi, avrebbe dovuto chiaramente svolgere gli accertamenti e le indagini del caso”. I giudici della Suprema Corte dunque, annullando con rinvio l’ordinanza del Tribunale, ribadiscono che “in sede di giudizio per l’ammissione del condannato ai benefici penitenziari, si deve avere esclusivo riguardo ai risultati del trattamento individualizzato di rieducazione e recupero del condannato, senza fare riferimento né alla gravità dei reati commessi, né alla pericolosità ritenuta dal giudice della cognizione, elementi ai quali può farsi ricorso solo come supporti sussidiari ai fini dello studio della personalità del condannato in relazione alla possibilità del suo reinserimento sociale”.

 

 

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