Quello che agli uomini manca

Ad un uomo carcerato non è la libertà ciò che più manca, ma il toccare, abbracciare, baciare il corpo di una donna

 

di Elton Kalica

 

Ricordo che, nei miei anni di più tenera età, quando mi rifiutavo di dare ascolto agli ordini di mia madre, lei sollevava minacciosamente un sopraciglio e prometteva che, in caso non obbedissi subito, allora sarebbe andata via – insieme al papà e al mio fratellino, ubbidiente – ad abitare in un’altra casa, lasciandomi solo, e che non li avrei più rivisti. Questo strumento di disciplina funzionava sempre. L’idea di rimanere da solo, senza di loro, mi spaventava a tal punto che diventavo subito mansueto, e terrorizzato mi mettevo in un angolo e non parlavo per giorni.

Poi diventai uomo e il ricordo delle sue minacce mi faceva sorridere. All’età di diciannove anni, emigrai in un altro paese, distante da casa, lontano dai miei cari. Sentivo molto la loro mancanza, ma cercavo di rimediare alla mia nostalgia con delle prolungate telefonate. Spendevo tanto denaro in schede telefoniche, e in sigarette. Gli telefonavo ogni pomeriggio e ogni sera, l’unico modo per sentirli vicini, finché, un giorno, finii in carcere, dove continuo a stare tuttora: ormai sono passati dieci anni dal giorno in cui sono emigrato in questo Paese, distante da casa, lontano dai miei cari.

“Cosa dire a degli studenti per far capire loro che le leggi vanno rispettate?”: ecco, un giorno mi sono trovato a dover rispondere a questa domanda, insieme ad altri detenuti e volontari. Con l’intento di “sfruttare” le nostre esperienze e la nostra condizione per affrontare con i più giovani il problema della devianza dalla legalità, incappammo in un grande punto interrogativo: una dozzina di uomini – duri e “senza paura”, dato che abbiamo infranto la legge – che ci guardavamo negli occhi non sapendo come fare per riuscire a convincere dei ragazzini che la galera non è uno scherzo.

Fu in quell’occasione che mi rammentai delle minacce di mia madre, e le trovai ideali per uno scopo educativo. La galera è brutta e spaventa, ma quello che realmente terrorizza è in particolar modo il fatto che il regime carcerario, in Italia, cancella, oltre alla libertà, ogni altro rapporto affettivo. Ti lascia solo. Ti isola lontano da tutti. E credo che basterebbe dire questo ai giovani per spaventarli a morte, basterebbe saper raccontare che, se si finisce in galera, invece della propria stanza con il poster del cantante preferito e il tavolino con l’abatjour, si ha una piccola cella da dividere con degli sconosciuti, per anni, dove l’unica attrazione è un televisore a 14 pollici, perennemente acceso. In galera si potranno vedere i propri cari soltanto una volta a settimana, per un’ora, chiusi in una stanza con un’altra ventina di persone che piangono, urlano o ridono. Si potrà anche chiedere al direttore di vedere la propria fidanzata, se si desidera, ma si deve resistere alla tentazione di toccarla o baciarla sulle labbra perché è proibito dal regolamento, e se lo si fa, si è soggetti a rapporto disciplinare, ed eventuali punizioni.

 

Perdere la libertà significa non soltanto non essere più liberi, ma anche non avere più nulla di tutto ciò cui siamo tanto affezionati

 

Se si ha voglia di telefonare a casa, si dovrà richiedere la telefonata con tre giorni d’anticipo e si può farlo soltanto una volta a settimana per la durata di dieci minuti. E certo l’idea che si telefoni soltanto a casa, e non ad amici e conoscenti, può sconvolgere dei ragazzi che sono abituati a mandare centinaia di messaggini ogni giorno. Naturalmente c’è anche il campetto da calcio che potrebbe essere una cosa rassicurante in quanto assomiglia a quello dell’oratorio parrocchiale, ma se si mette in calcolo che ci si può andare una volta a settimana, insieme a tutta una sezione di cento persone, che devono giocare a turno, per un paio d’ore, probabilmente si rinuncia a rincorrere quel pallone, anche se ti farebbe sentire a casa, libero.

Poi si deve senz’altro spiegare ai ragazzi che, quando si decide di leggere un libro, bisogna chiudersi in cella, con la porta blindata, per non permettere al chiasso di distogliere la concentrazione. E, avviliti da tutto e da tutti, si comincia a provare disprezzo per quelli che urlano, che cantano, che si lamentano, che litigano o che si tagliano le vene, si comincia a considerare bestie tutti gli stranieri, perennemente arrabbiati, che da anni non vedono i propri cari, non li sentono per telefono e si sono dimenticati di cos’è un abbraccio e un sorriso.

Infine, costretti a vivere tra queste restrizioni e condizionamenti, gli anni fuggono via uno dopo l’altro, e allora non si è più giovani ma si cerca lo stesso di trovare conforto nei propri ricordi, ai quali, nei momenti più difficili, ci si aggrappa con le unghie e con i denti, per non gridare, per non impazzire. Si chiudono gli occhi e, abbozzando un sorriso, si rivede lo sguardo minaccioso della madre che ordina di finire i compiti se non si vuole essere chiuso nello sgabuzzino, per punizione. Si rammenta il silenzio della propria camera dove si giocava per ore e ore ai videogiochi, indisturbati, e dove anche qualche volta ci si chiudeva con la propria ragazza, per un pomeriggio intero, mentre i genitori erano via, e in quel momento, ancora immersi nei ricordi, ci si accorge che ad un uomo carcerato non è la libertà ciò che più manca, ma il toccare, abbracciare, baciare il corpo di una donna, sentirne l’odore, ribadendo che l’affetto è un motivo valido per cui continuare a vivere, anche se soffrendo, anche se morendo.

Non è difficile convincere le persone che la galera è un inferno, e poche sono le cose talmente facili come lo spiegare che perdere la libertà significa non soltanto non essere più liberi, ma anche non avere più nulla di tutto ciò cui siamo tanto affezionati, cose e persone.

 

 

Liberante extracomunitario

Tutte le sofferenze che la detenzione ha portato con sé, per uno straniero offuscano la gioia della libertà ritrovata

 

di Mohamed Ali Madouri

 

Dopo il rispetto e l’amore che ti ho dato, mi hai tagliato fuori dalla tua vita. Malgrado il passare degli anni e malgrado io abbia riposto in te tutte le mie speranze e i miei sogni, tu mi hai deluso. Ma io non sono capace di dimenticarti. Io sento quello che senti tu e soffro delle tue sofferenze, e Dio sa quanto sono triste per la tua lontananza, e perché sei finito in carcere. Soprattutto perché tu sei una parte di me. Ho pregato Dio di far venir fuori la tua innocenza per farti così tornare qui, al tuo paese. Tu eri una persona buona e affettuosa, con il passare del tempo sei cambiato e io non so perché… Di certo, la ruota del tempo girerà, ogni inizio ha una fine. Io ti ho amato alla follia, cosicché il mio amore per te è l’unico reato che forse ho commesso e questo non lo potrò mai negare…

 

Questa è una delle tante lettere scritte da ragazze, fidanzate o mogli che abitano in terre strane e lontane. È una lettera che è stata scritta da una ragazza tunisina al suo fidanzato nel 1997, quando lui aveva già scontato tre anni di galera e ne aveva altri otto da fare. Lui non ha mai trovato il coraggio di rispondere, perché non aveva affatto le idee chiare. Era entrato in un tunnel buio e non riusciva a vedere la luce nel fondo. Pensava sì alla ragazza alla quale lo legava un amore puro, una delle poche belle cose che gli erano capitate nella vita, ma il carcere aveva bloccato la sua mente, in testa aveva tanta confusione che lo aveva portato nella condizione di non saper più reagire.

Lui aveva la certezza che alla notizia della condanna la sua fidanzata non l’avrebbe aspettato. Si era arreso senza combattere per il suo amore. Lei era stata una parte di lui, un cuore che gli apparteneva sin dall’infanzia; ma lui aveva smesso da subito di lottare per lei, e l’unica cosa che aveva saputo fare era stato conservare la lettera per il resto della sua prigionia, fino all’ultimo giorno. Le sue ultime ore di galera le abbiamo passate insieme, l’ultima socialità. Avevamo appena finito di cenare quando lui ha tirato fuori dalla tasca la lettera e mi ha raccontato l’unica storia che non ha mai raccontato a nessuno…

Lui ha 29 anni e ha appena espiato per intero una condanna a undici anni di carcere. Io ho condiviso con lui gli ultimi quattro anni finché, il 28 maggio 2005, ha finalmente riacquistato la libertà. La mattina del suo ultimo giorno di galera, alle otto e mezza, vedo questo mio “compagno di viaggio” spuntare davanti alla cella dandomi il buongiorno e nascondendo nel suo sorriso tante emozioni, come se gli dispiacesse essere arrivato alla sua fermata di fine corsa e dover scendere lasciandomi ancora per molto tempo sul treno della sofferenza. I suoi occhi sprigionano la felicità di chi, da lì a poco, assaggerà il sapore della libertà vera. Nel suo viso magro c’e l’entusiasmo di gridare al mondo ma soprattutto a sua madre e ai suoi famigliari: “Sono un uomo libero, ho pagato tutto il mio debito con la giustizia!!!”.

Conoscendolo lo immagino dopo un’ora di libertà con una birra in mano, ubriaco di gioia, in una cabina telefonica che versa lacrime su lacrime chiacchierando con i suoi cari. Dal suo viso serio e dai respiri profondi che faceva ho visto un uomo che vuole recuperare i lunghi anni svaniti nel nulla, sciupati in una cella; che vuole riprendere il rapporto con i suoi famigliari; che vuole recuperare gli affetti, il sesso, i legami amorosi, la privazione dei quali è la peggiore punizione che una persona detenuta subisce. Ma soprattutto vuole riavere l’amore della sua fidanzata che gli ha scritto questa lettera senza avere avuto mai una risposta. Vuole continuare la storia interrotta con l’unica ragazza che ama e ha sempre amato, anche se non glielo ha mai confessato per non distruggerle la vita, dopo che la sua è andata in rovina con undici anni passati in galera.

Dal suo viso turbato e impaurito, con l’angoscia e i pensieri di ogni “liberante extracomunitario”, ho capito che al momento dell’uscita c’erano mille domande che gli passavano per la testa, ma che ce n’era una unica e prima in classifica: “Adesso che ne sarà di me?”, e che da quella scendevano un’infinità di dubbi, di paure, di insicurezze: “Mi mollano o mi portano in questura?”, “Mi portano in un centro di accoglienza o mi mandano in patria?”, “Ritroverò le persone che mi hanno voluto bene?”. Con questa confusione credo che tutti gli stranieri affrontino oggi il giorno del ritorno in libertà.

 

 

Relazioni barbariche

Anni di carcerazione rendono incapaci di esprimere sentimenti “normali”. Si pensa prima di tutto a punire i detenuti, cercando di tarpare qualsiasi sentimento che possa dare loro piacere, e dimenticando i famigliari che subiscono di riflesso lo stesso trattamento

 

di Mauro Cester

 

Quando si parla di diritto all’affettività in carcere, si scatena subito una reazione, direi piuttosto bigotto, tipo: “Ci manca solo che possano scopare in galera”. Una volta dicevano così anche per i fornellini, poi per la televisione e per altre piccole “concessioni” fatte ai detenuti. L’affettività comunque penso non abbia molto a che vedere con un puro discorso di sesso, anche se, comunque, fare del sano sesso è senz’altro terapeutico e credo abbasserebbe di molto l’aggressività. Si tratta più che altro di permettere a persone che devono pagare per le loro scelte sbagliate di stare con la propria famiglia, la propria moglie, con i figli per qualche ora in un ambiente riservato, perché anche il solo parlare intimamente fa bene.

E invece si pensa prima di tutto a punire i detenuti, cercando di tarpare qualsiasi sentimento che possa dare loro piacere, e dimenticando i famigliari che subiscono di riflesso lo stesso trattamento, che sono costretti a vedere il proprio caro al massimo per sei ore al mese, in un ambiente freddo e scomodo, sotto l’obiettivo delle telecamere e, peggio, sotto gli occhi scrutatori degli agenti, che, forse a malincuore, sono lì per controllare. Questi incontri avvengono a volte anche dopo lunghe attese, che causano ulteriori ansie, tanto che i famigliari, in alcuni casi, decidono proprio di rinunciare al colloquio per questioni di tempo o per limiti nella loro capacità di sopportazione.

L’affettività è mantenere vivo un rapporto malgrado tutto, e se non viene data questa possibilità credo che la condanna diventi doppiamente diseducativa e afflittiva. Non conosco i risvolti psicologici che può avere questa continua privazione, io posso solo portare la mia esperienza: dopo nove anni di carcere ho potuto toccare con mano la realtà esterna e misurarmi finalmente con il “fuori”. E ho scoperto che il contatto umano non solo mi spaventava, ma mi dava quasi fastidio, mi sentivo come se avessi subito una specie di imbarbarimento sentimentale. Il fatto è che non si è più abituati a relazionarsi con una persona, e non per questioni sessuali, perché per quello magari basta tirar fuori l’animalità, ma perché non si è più abituati ad avere un contatto fisico, ad essere accarezzati. Ed è difficile ritornare a sentirsi liberi e spontanei, perché le condizioni del carcere in qualche modo ti cambiano in modo irreversibile.

In molti altri Paesi spesso le possibilità di mantenere vivi gli affetti sono tante di più, magari anche minime, ma importanti. In Francia, per esempio, un detenuto può chiamare i famigliari, ma anche gli amici, in qualsiasi momento della giornata, come avviene fuori, mentre da noi bisogna inoltrare una richiesta scritta, tre giorni prima, con l’orario prestabilito. Se nessuno risponde, la telefonata slitta. Io faccio i colloqui tutte le settimane con la mia compagna, e di comune accordo abbiamo deciso di non telefonarci più perché è penoso parlare dei fatti propri, sapendo che, per motivi di sicurezza, le telefonate sono ascoltate. Ma questa, ripeto, è una scelta personale.

Anche in Italia però qualcosa di meglio c’è: ci sono carceri come quello di Bollate, dove la direttrice, Lucia Castellano, ha realizzato una “Stanza dell’affettività” in cui le coppie con figli si possono incontrare in un ambiente adatto, dove ci sono giochi per i bambini e una cucina per preparare e consumare il pranzo insieme, in assoluta tranquillità. Questo non significa che ci sia tutta quella intimità di cui ci sarebbe bisogno, ma almeno ci si può vedere lontani dal solito ferro e cemento e circondati da qualcosa di diverso dai soliti arredi da officina meccanica.

In tanti paesi l’incontro senza controlli visivi tra uomini e donne in carcere è assolutamente normale e non causa allarmismi o preoccupazioni tra il personale addetto alla vigilanza e la popolazione esterna, ma in Italia sembra che gli affetti siano una concessione. Qui a Padova, come in molte altre carceri, non si possono neanche effettuare i colloqui nelle aree verdi, e ad attendere i famigliari, al loro arrivo per i colloqui, ci sono sempre più spesso i cani antidroga.