Sicurezza dei diritti, non diritto alla sicurezza
“La sicurezza è la ricaduta
benefica che c’è solo se io riesco a garantire maggior tutela dei diritti di
tutti, soprattutto dei più deboli”
Intervista al criminologo Massimo Pavarini, a cura della redazione
Massimo Pavarini, docente di Diritto penitenziario
all’Università di Bologna, lo si sta ad ascoltare sempre con piacere, perché è
brillante, caustico, pessimista quanto basta, mai scontato. A Belluno, durante
il Seminario di studi “Quale sicurezza ci rende sicuri?”, lo abbiamo invitato a
parlare di sicurezza, e lui ha scardinato tutte le banalità che imperversano
sui mass media a proposito di questo tema diventato ormai così squisitamente
“elettorale”.
Oggi la sicurezza è
diventata una delle ossessioni di tutte le campagne elettorali, dei mass media,
delle discussioni da bar. Ma viviamo davvero in un mondo più insicuro?
In realtà ritengo che stiamo soffrendo una singolare
contraddizione: dal punto di vista dei livelli di sicurezza oggettiva, noi, che
viviamo nel cosiddetto Primo Mondo, godiamo di livelli di sicurezza mai goduti
nel passato, eppure oggi ci sentiamo o diciamo di sentirci sempre più insicuri.
Le generazioni che ci hanno preceduto erano molto più insicure di noi: ad
esempio i nostri nonni avevano aspettative di vita più ridotte. Solo un secolo
fa, spostarsi da una città all’altra voleva dire affrontare seri pericoli. Se
vogliamo anche restringere il tema della sicurezza a quello determinato dal
delitto, il rischio di essere vittima di un attentato alla persona era più alto
una volta: solo tre generazioni fa, chi usciva di notte ed era ricco, di regola
era armato (poi, certo, per chi era povero e non possedeva nulla, il rischio di
essere vittima di un delitto era abbastanza improbabile allora come lo è oggi).
Noi oggi viviamo quindi un paradosso: stiamo in una società più sicura, più
capace di calcolare i rischi e proprio perché siamo capaci di calcolare i
rischi alla fine siamo sempre meno disposti a correre dei pericoli.
C’è stato o no un aumento della criminalità nel periodo
più recente?
Sì, non c’è dubbio: come in quasi tutti i paesi
occidentali un certo tipo di criminalità – quella contro la proprietà in
particolare – è aumentato molto, moltissimo. Si potrebbe dire, in parole
semplici, che la criminalità predatoria è aumentata in ragione diretta
dell’aumento della ricchezza materiale della società. Insomma: siamo diventati
più ricchi e in termini proporzionali sono aumentati i furti.
È, se volete, il prezzo che si deve pagare al benessere
economico raggiunto; nei paesi poveri, poverissimi i delitti contro la
proprietà sono pochi, pochissimi, salvo poi scoprire che proporzionalmente sono
società in cui il rischio di subire un delitto contro la persona è più elevato
di quanto lo sia nelle società ricche. Anche l’Italia, quindi, dalla metà del
secolo scorso ha sofferto un trend crescente di delittuosità contro la proprietà;
ma bisogna anche dire che l’Italia è il paese che ha registrato nell’ultimo
secolo - secolo e mezzo - una drastica riduzione dei reati contro la persona.
Da questo ultimo punto di vista l’Italia dell’ottocento era uno dei paesi
europei più insicuri. Non so se qualcuno di voi sa cosa raccontano i diari dei
nobili e ricchi borghesi del nord Europa che venivano nel giardino d’Europa a
visitare le bellezze naturali ed artistiche del nostro paese: l’Italia d’allora
era ai loro occhi un paese sanguinario, che terrorizzava qualsiasi visitatore
straniero. Dagli assalti dei briganti agli omicidi, al duello, che era diffuso
sia nelle classi aristocratiche sia nelle classi popolari, l’Italia
dell’ottocento era un paese selvaggio, primitivo e pericolosissimo. E non
sempre quelle paure erano infondate: abbiamo indici statistici di omicidi
commessi in Italia a partire dall’unificazione.
Ebbene: l’Italia del 1860 conosceva indici di omicidi
dolosi superiori a quelli che oggi soffre la Colombia, che come non tutti forse
sanno è il paese che registra il più alto tasso mondiale di omicidi. Oggi
l’Italia, nonostante la presenza ancora diffusa della mafia e di altre
organizzazioni criminali che non si fanno certo scrupolo di uccidere, è un
paese a indice di omicidi consumati e tentati, ovviamente di tipo doloso, assai
contenuto, ad esempio quattro volte inferiore a quello degli Stati Uniti.
Allora: se gli omicidi nel tempo sono diminuiti di cinquanta volte e i furti
sono aumentati forse di 1000 volte, dobbiamo concludere che la criminalità è
aumentata o diminuita?
Il diffondersi oggi
dell’insicurezza determina anche una diversa considerazione sociale del
carcere?
Direi di sì, anche se il rapporto è più complesso di
quanto si possa pensare. Direi che bisogna partire da un dato di fondo: nelle
ultime due decadi nel mondo occidentale abbiamo assistito ad un progressivo ma
significativo passaggio da una cultura dell’inclusione sociale a una
dell’esclusione. Il modello inclusivo, che si è realizzato a fare corso dalla
metà del XX secolo e che si è tradotto nelle forme più o meno avanzate di stato
sociale di diritto, ha determinato anche una particolare cultura penale, quella
del trattamento rieducativo. Parlo di modello inclusivo, perché in buona
sostanza al fondo della retorica dello stato sociale c’è l’idea che la forma
migliore di governo dei conflitti sia quella volta ad includere politicamente e
socialmente i soggetti, anche e soprattutto quelli emarginati e deboli, come ad
esempio i detenuti. La crisi del welfare state e dello stato sociale di questi
ultimi anni ha fatto sì che anche l’ideologia della rieducazione entrasse in
crisi.
Che cosa ha messo la parola fine al modello sociale
inclusivo?
Ora, per dirla con una battuta, direi che ad un certo
punto qualcuno si è alzato in piedi e ha ordinato a tutti: “La ricreazione è
finita, adesso tutti seduti”. Il grave è che questo comando è stato
progressivamente condiviso da sempre più persone. Tutto sembra sia iniziato nei
primi anni settanta del secolo scorso negli Stati Uniti d’America, quando un
mediocre attore è stato eletto presidente; poi questa idea che bisognasse
ridurre lo stato sociale che era diventato il paradiso dei fannulloni e degli
scrocconi, ha attraversato l’oceano ed è approdata in Europa. Insomma, fuori di
battuta: l’ideologia neoliberista ha avuto il sopravvento su quella solidarista
dello stato sociale.
Bene, il tema della sicurezza nasce con questo
cambiamento: la sicurezza dalla criminalità è la parola nuova che diventa
moneta corrente nel passaggio dallo stato sociale verso modelli neo liberisti.
È all’interno di questo contesto che nasce il tema della sicurezza: dai miei
genitori, che hanno vissuto l’ultima parte della loro vita nello stato sociale
di diritto garantito, alla mia famiglia che vive oggi nel post welfare, dal
punto di vista dei pericoli oggettivi di essere vittima di un qualche reato, è
cambiato ben poco. Certo sono aumentati alcuni reati predatori, ma in sostanza
io godo della stessa sicurezza dei miei genitori quando esco la sera o attraverso
la mia città di notte. La questione è ben altra: è che la sicurezza da bene
pubblico si è progressivamente trasformata in bene privato.
In che senso la sicurezza è ormai un bene privato?
La sicurezza è diventata una risorsa privata, un bene
privato che si può comprare sul mercato. Quando oggi si parla del problema
della sicurezza non si fa riferimento alla sicurezza come era intesa nello
stato sociale, che intendeva la sicurezza come bene sociale per tutti. La
sicurezza sociale nello stato sociale era lo scopo e l’effetto del buon
governo: più un’amministrazione è corretta, attenta, capace di supplire alle
inefficienze del mercato, capace di prevenire le situazioni critiche, capace di
risolvere i problemi, più i cittadini godono di sicurezza sociale. Invece oggi
la sicurezza è diventata un nuovo bene, un bene però non garantito a tutti
indistintamente, ma come la proprietà è un bene privato. Questo è il vero punto
in cui oggi ci troviamo: quando qualcheduno invoca e pretende maggiore
sicurezza, la rivendica con la pretesa di avere una fetta di sicurezza
aggiuntiva in più, per sé, non per tutti. Allora cominciamo a capire che la
sicurezza è un bene privato, che pone un problema irrisolvibile riguardo alla
distribuzione delle risorse.
Cosa succederà allora con le scarse risorse disponibili
per la sicurezza dei cittadini?
Facciamo un esempio: io abito in un quartiere, voglio più
sicurezza nel mio quartiere. Ma oggi chiedere maggior sicurezza nel mio
quartiere comporta la minor sicurezza del territorio limitrofo. Quando io dico:
voglio più polizia, voglio più videosorveglianza, voglio più controllo, è
chiaro che se certi quartieri debbono essere più sicuri, inevitabilmente altri,
più poveri, soffriranno di una quota aggiuntiva di disagio sociale nel proprio
territorio. Si apre così un conflitto perenne. Questo conflitto come lo
risolvi? Se ti muovi in una dimensione privata della sicurezza, non c’è dubbio
che gli attori più forti si accaparrano quote maggiori di sicurezza a scapito
dei più deboli. Già adesso si vendono gli immobili con il valore aggiunto della
sicurezza: questa abitazione in questo quartiere vale il 20% di più, non perché
c’è più verde, ma perché è più sicura. È ovvio che ci saranno case che varranno
poco, sempre meno, perché sono in quartieri definiti poco sicuri.
Un paese impreparato a confrontarsi con le diversità,
perennemente in bilico tra ostilità, xenofobia e razzismo
Ma il conflitto nasce anche in un altro senso, ad esempio
tra la mia sicurezza e la tua nella fruizione dei diritti fondamentali. Il
desiderio di non avere membri della comunità Rom tra le scatole può mai
coincidere con la sicurezza dei Rom di veder rispettata la loro etnia?
Il
conflitto c’è ed è irrisolvibile. Oggi non si parla più della sicurezza come
sicurezza dei diritti, ma di diritto alla sicurezza, e pertanto di un bene
scarso. E in quanto bene scarso esso determina competizione sociale e politica.
I partiti politici cercheranno allora di guadagnare consenso vendendo promesse
di rassicurazione e si porteranno a casa nuovi voti. Anche questo è mercato. Ed
è ciò che già oggi avviene e che apre un conflitto permanente sul piano
dell’esercizio dei diritti. Pertanto io parlo della sicurezza come sicurezza
dei diritti di tutti: un bene pubblico che lo Stato può produrre se riesce a
garantire maggiore tutela dei diritti, soprattutto dei più deboli.
Ma che attenzione si deve prestare ai bisogni di sicurezza
della gente?
Quando si dice che si deve prestare la massima attenzione
alle paure della gente, si dice una cosa giustissima. Ciò però non vuol dire
che la paura della gente debba essere assunta cosi com’è: così com’è, essa
provoca esclusione sociale, e pertanto bisogna essere cauti. Ad esempio: oramai
sappiamo dell’esistenza di un corto circuito tra sentimenti socialmente
costruiti di insicurezza e imprenditorialità nelle campagne morali sulla
sicurezza. Cosa s’intende per imprenditorialità morale? C’è chi ha fatto di
questi sentimenti un business, un grande business: è diventato imprenditore dei
sentimenti, li ha costruiti, manipolati, orientati verso obiettivi che rendono.
E questo tema dell’imprenditorialità morale sulla questione appunto dei
sentimenti di insicurezza è quello che poi ha trasformato la politica nel senso
più ampio.
L’imprenditorialità morale sul tema dell’insicurezza può
essere benzina sul fuoco, ad esempio, rispetto alle politiche di integrazione
degli immigranti e rispetto ai processi immigratori più in generale, in un
paese come il nostro impreparato a confrontarsi con le diversità, perennemente
in bilico tra ostilità, xenofobia e razzismo. Ma di più: se i processi
migratori sono sempre stati sofferenza per chi li ha vissuti, è pur vero che in
altri momenti storici essi si sono sviluppati all’interno di modelli economici
e culturali di tipo inclusivo. Non dico che i nostri italiani emigrati tra Otto
e Novecento negli Stati Uniti d’America siano stati accolti con le fanfare, ma
va riconosciuto a quel grande paese di allora di essere stato capace di
esprimere una cultura dell’inclusione sociale dello straniero.
E nel nostro paese come si affronta la questione
immigrazione-sicurezza?
La nostra logica invece è quella che assume in partenza la
prospettiva dell’esclusione: l’immigrato che delinque, è comunque alla fine
espulso, o attraverso una misura di prevenzione, o una misura di sicurezza, o
una pena sostitutiva o una accessoria. Meglio: si vorrebbe espellerlo, perché
ben sappiamo quanto poi sia difficile nei fatti dare esecuzione sempre e comunque
a questa volontà. Ma non importa: dal punto di vista culturale, l’Italia oggi
esprime una cultura dell’esclusione nei confronti degli stranieri e non certo
una dell’inclusione. Diciamolo con sincerità: non c’è una chiara volontà di
integrazione dello straniero. Certo ci fa comodo che gli immigrati facciano
alcuni lavori ingrati a cinque euro lordi all’ora; che facciano le badanti sì,
anche questo va bene, ma poi non li vogliamo integrati. Deve essere però a
tutti chiaro che così facendo non si limita il flusso di stranieri nel nostro
paese. Questa strategia è quindi destinata a fallire: ma se le risorse sono
poche e il nostro sistema economico non prevede per il futuro, neppure per la
seconda generazione, un vero modello di inclusione degli immigrati e dei loro
figli, allora è facile essere profeti di sventura. Per chi lavora nel sociale,
oggi giorno sono ancora “rose e fiori”: l’emergenza sicuritaria scoppierà
quando i figli degli immigrati, nati in Italia, entreranno nella fase
dell’adolescenza e della gioventù. Sul punto la letteratura è concorde: il vero
problema della devianza è la seconda generazione, che parlerà con l’accento
dialettale delle nostre comunità, ma che avrà comunque la pelle nera e che, se
non integrata, si sentirà – e a ragione – di serie B.
È questo il momento in cui scatta il conflitto di valori e
si determina quanto è già successo in Francia e in Inghilterra. E in Italia fra
5 o 6 anni questi giovani nati da genitori immigrati entreranno nella fase più
pericolosa, sia per loro che per noi. Quindi bisogna prepararci e sinceramente
non capisco perché non ci si prepari a un evento annunciato e sicuro. Del tema
sicurezza bisogna quindi farsi carico ma senza legittimarlo nei termini con cui
è stato finora costruito. In qualche modo il nodo è ineludibile: bisogna
arrivare al più presto a definire un nuovo patto di cittadinanza rispetto al
quale fondare i nuovi criteri dell’inclusione sociale.
Nello stato sociale il
criterio su cui si fondava l’inclusione era il lavoro. Una volta si diceva che
tra l’inclusione e l’esclusione dal mondo del lavoro si giocava il diritto di
cittadinanza, vi ricordate? Per cui chi lavorava era incluso, chi non lavorava
no. Ma oggi non possiamo più richiamarci a questo criterio. Se lo sviluppo
economico che avanza non prevede lavoro per tutti, ma lavoro per sempre meno
persone, perché questo sistema economico ha allocato diversamente le risorse e
accetta come inevitabili tassi elevatissimi di disoccupazione, che facciamo:
escludiamo dai diritti di cittadinanza chiunque non si inserisce nel mondo del
lavoro? O cerchiamo altri criteri su cui fondare il nuovo patto di
cittadinanza?
Una difesa che difende sempre meno
Anche in carcere c’è chi pensa che è giusto sparare
ai ladri, se toccano la tua proprietà. In galera c’è anche gente che ha
ammazzato, e forse dovrebbe essere consapevole di quanto la vita umana conta,
rispetto al furto di un bene
discussione in redazione
Parlare di legittima difesa in carcere ha un senso
particolare, perché a discuterne sono persone che quando erano fuori “sono
state dall’altra parte”, che hanno a loro volta usato le armi, qualche volta
ucciso. Eppure, anche in carcere ci sono quelli che pensano che è giusto
sparare ai ladri, se ti toccano la tua proprietà. Allora ci è sembrato urgente
e interessante aprire un confronto serrato, per capire da dove nascono queste
posizioni, e per cercare di mettere a frutto le esperienze più dolorose per
elaborare un punto di vista meno rozzo, e soprattutto meno cinico.
Ornella Favero: Il disegno di legge sul diritto all’autotutela in un
privato domicilio, la cosiddetta “legittima difesa”, dice che per “contrastare
una violazione di domicilio finalizzata allo scopo di commettere altri reati,
si configura in ogni caso come legittima difesa la condotta di chi: a) vedendo
minacciata la propria o altrui incolumità, usa un’arma legalmente detenuta o
qualsiasi altro mezzo idoneo per dissuadere o rendere sicuramente inoffensivo
l’aggressore; b) vedendo minacciati i propri o altrui beni, e, constatata
l’inefficacia di ogni invito a desistere dall’azione criminosa, per bloccarla
usa qualsiasi mezzo idoneo o un’arma legittimamente detenuta, mirando alle
parti non vitali di chi persiste nella minaccia”. Ecco, la novità è che si
possa sparare vedendo minacciata la proprietà.
Marino Occhipinti: Il caso di Taormina, dove sono entrate in una villa otto
persone armate, e il proprietario aveva una pistola e l’ha usata, io lo
comprendo anche. Per chiunque si veda arrivare otto persone armate in casa
l’istinto più normale è quello di dire: va bene, rapinatemi pure, ma non voglio
rischiare la vita. Però questo era già permesso con la vecchia legge, anche se
poi i risultati sono quasi sempre che muore chi ha tentato di difendersi. Ma se
vi ricordate invece di quella signora che aveva preso la mazza da baseball e
mandato via i ladri da casa prendendoli a mazzate, il giorno dopo il colonnello
dei carabinieri disse: capisco la reazione della signora, però è bene non fare
queste cose perché trovi anche chi ti accoppa, e per che cosa? Questo non vuol
dire “Va bene fatevi rapinare”, però avere la consapevolezza che a volte queste
reazioni possono scatenare delle controreazioni ben più pericolose.
Sebastiano Todeschini (TG 2Palazzi): Io mi sbilancio e dico che sono a
favore di questa legge e continuo a credere che tutti debbano avere la
possibilità di difendersi.
Marino Occhipinti: Posso dirti una cosa? Se parli di difendersi sono
d’accordissimo, ma di difendere la propria vita, non di difendere il
portafoglio, su questo non sono d’accordo. Se invece colgo in una persona
l’intenzione di uccidermi, quella sì che si chiama legittima difesa, e mi va
bene, ed è già consentita. Il nuovo disegno di legge darebbe invece la
possibilità di uccidere per difendere la tua proprietà o anche quella altrui, e
questo mi sembra esagerato.
Sebastiano Todeschini: Io però ho sentito in un TG che facevano
riferimento al fatto che inseguire la persona e farsi giustizia è comunque
reato, dicevano che ci sono stati dei casi in cui il rapinato inseguiva il
rapinatore sparando all’impazzata per strada, e in quel caso chi si difende
viene punito, perché questa possibilità di sparare vale solo all’interno della
proprietà.
Ornella Favero: Per adesso, se Dio vuole, “sparare all’impazzata” è ancora
proibito. Io intanto però vorrei dire una cosa, che il primo ragionamento che
mi pare vada fatto non è neanche tanto il discorso della legittima difesa, i
beni tuoi, la tua vita, la vita del tuo vicino, è che la legittima difesa
intesa come difesa della proprietà significa un allargamento enorme del numero
di persone che possiedono armi, e questa idea di possedere un’arma parte,
secondo me, da un’illusione di essere più sicuri. Mi pare però che l’America
dimostri l’esatto contrario, che quando si allarga il possesso di armi, le
persone sono mediamente più insicure, e comunque se ti trovi davanti a dei
rapinatori e usi un’arma, nella gran parte dei casi non ti difendi affatto, dal
momento che non hai né la competenza né la preparazione di chi lo fa per mestiere.
Ilir Ceka: Allora anche i ladri cambieranno
tattica, cominceranno anche loro ad andare a rubare con le armi, e diventerà un
vero far west.
Ernesto Doni: Sì, è quella la differenza, che la signora che ha preso a
mazzate quei ladri ed è riuscita a farli scappare, aveva di fronte gente senza
armi, ma se avessero avuto le armi la signora con la mazza da baseball... cosa
faceva?
Elton Kalica: Un aspetto, che è quello più importante secondo me, è che
questa legge, autorizzando a sparare per difendere la proprietà, comporta anche
che adesso molti andranno a comprarsi un’arma per tenerla in casa, anche perché
c’è una opinione pubblica sempre più convinta che a fare le rapine sono gli
zingari e a fare i furti sono gli stranieri. Allora tanti, istintivamente,
trovano giusto armarsi e a quel punto sparare a chi si avvicina, però bisogna
tenere conto che, una volta che si armeranno tutti, c’è il rischio che non si
spari più soltanto a zingari e albanesi come me, uno se vede che a suo figlio
gli stanno vendendo la droga sotto casa, va e spara allo spacciatore, per cui
finisce che qualcuno si apposta poi al balcone in attesa di fare il
giustiziere.
Luigi Rigano (TG 2Palazzi): Sì, ma mica te lo ordina il
medico di andare a fare reati. Ognuno di noi sa quello che va a fare, quindi
sai anche i rischi che corri, comprese le schioppettate. Ora dimmi tu se è
possibile andare a casa di uno, magari anche fare violenza e poi prendergli
tutti i soldi. Se c’è uno di fronte che lo vede fa bene a sparargli. Non è una
cosa giusta?
Ornella Favero: No, non mi sembra una cosa giusta, prima di tutto perché
a compiere reati come i furti sono spesso tossicodipendenti e nomadi, quindi
finirebbe che chi compie questi reati, che di fondo non sono comunque
gravissimi, rischia di essere impallinato per primo. Certo non glielo ha
ordinato nessuno di andare a rubare, ma non vedo perché dobbiamo metterla nei
termini di dire “te lo sei meritato” proprio alle categorie più deboli. E poi
il possesso di armi ti dà solo l’impressione di essere sicuro, ti dà un senso
di onnipotenza che non ha niente di reale, perché comunque sei sempre un pollo
di fronte a persone che invece le armi le sanno usare. Adesso se uno vuole le
armi, certo, se le può procurare legalmente o illegalmente, il problema è che
una legge, che ti autorizza a usarle molto di più di quello che succedeva
prima, è ovvio che ne incentiva l’acquisto.
Marco Rensi (TG 2Palazzi): Io comunque credo che la legge
attuale vada rivista e che ci debbano essere delle norme più chiare, perché ci
sono state delle sentenze di magistrati molto ambigue e contrastanti. In certi
casi le persone che si sono difese sono andate assolte, in altri sono state
condannate e sono finite in galera. Nel complesso comunque questa proposta di
legge non mi sembra che sia improntata sull’uccidere, ma sullo sparare su parti
non vitali.
Ilir Ceka: Come fa uno dal quinto piano a mirare ai piedi?
Ornella Favero: Qualche giorno fa ho sentito il Magistrato di
sorveglianza, dottor Pavarin, sostenere che trova scandaloso che nel paese
ritenuto il più democratico, l’America, un Presidente dica che i cittadini sono
legittimati a sparare contro quelli che vanno a rubare nelle case abbandonate
di New Orleans, dove ci saranno certo i predoni, ma ci sono anche i poveracci,
e poi in ogni caso sparare è mostruoso. Ora estremizzando il ragionamento di
chi invece, come qualcuno di voi, ritiene legittimo che se uno ti ruba qualcosa
gli spari, allora perché io non devo essere come minimo favorevole alla pena di
morte e pensare che chi ammazza qualcuno debba a sua volta essere ammazzato?
Sebastiano Todeschini: Io non sono favorevole ad ammazzare la gente, io
sono favorevole ad avere la possibilità di difendere la mia proprietà, che non
vuol dire uccidere, ma sarà la razionalità delle persone a vedere come e quando
usare l’arma. Se mi arriva in casa un ragazzino, io dovrò valutare se è una
persona che mi può nuocere o che mi può rubare solo due collanine, però ci sono
persone che ti entrano in casa e ti picchiano, ti legano, e portano via tutto
quello per cui uno ha lavorato una vita, e cosa bisogna dire: va bene, portate
pure via tutto?
Ornella Favero: Chi ha esperienza di galera dovrebbe anche fare altre due
considerazioni: la prima è che non si può andare a dire alla gente che a
commettere i reati di microcriminalità sono davvero i feroci criminali, tutti
noi sappiamo qui dentro che al novanta per cento sono piccoli criminali, il
tossicodipendente, la Rom, che sarebbero proprio quelli che rischierebbero con
una legge del genere. Se poi voi volete che la società vi capisca, che vi dia
una possibilità di reinserimento, e poi pensate di dover sparare a uno che vi
ruba l’autoradio, dico brutalmente che vi sta bene la galera e anche tanta. La
seconda considerazione è forse anche più severa: siccome qui dentro c’è gente
che ha ammazzato, dovrebbe essere consapevole di quanto la vita conta, di cosa
vuol dire la vita umana anche rispetto al furto di un bene. Dal carcere due
riflessioni del genere si dovrebbero proprio fare. Quello che comunque mi
sembra assurdo è che qui dentro venga fuori che qualcuno dice: se mi rubano
l’autoradio io sparo. E poi chiedete che fuori siano comprensivi, accoglienti,
fateci uscire anche se abbiamo reati gravi, ci vogliamo reinserire, e allora
ragazzi!?
Mauro Cester: Dare al cittadino il permesso di sparare significa
affermare che la gente non si sente neanche più tutelata dalle forze
dell’ordine, e così si difende da sola e comincia a sparare, questo succederà
se passa una legge del genere. Avete visto che nella rapina di Abano la gente
tirava i vasi dei fiori ai rapinatori, gli ha buttato la bici sotto la macchina
cercando di ostacolarli, però è un attimo che uno si gira e comincia a sparare
e in un posto così viene fuori un disastro. Se al posto della bicicletta o dei
fiori avessero avuto delle armi, cosa sarebbe successo?
Paolo Moresco: Comunque una conseguenza è che aumenterà a dismisura il
numero di reati ad alto rischio. Mentre prima c’erano un mucchio di reati a
rischio molto modesto, è chiaro che dopo tutti si presenteranno armati.
Flavio Zaghi: Ma è ovvio, se dentro all’oreficeria della rapina di
Abano ci fossero state tre-quattro persone, donne con le bambine che andavano a
comprare la catenina per la prima comunione, cosa succedeva là dentro?
Ornella Favero: Il discorso di fondo secondo me è che la diffusione
ulteriore di armi innesca senz’altro meccanismi perversi, e l’America lo
dimostra bene. I fatti come quelli del figlio che prende l’arma del padre e va
a fare una carneficina a scuola non sono casi isolati, e comunque il livello
della violenza nella società aumenta in modo esponenziale se cominciano a
diffondersi le armi.
Marino Occhipinti: Questa legge così modificata darebbe più possibilità di
sparare ai privati che alle forze di Polizia. Le forze di Polizia possono
sparare per evitare la commissione di determinati reati, con una legge del
genere la “licenza” la danno a tutti i cittadini per evitare un furto in casa, non
tua ma di un altro magari. Quello che non capisco però è che ci sia qualcuno
qui in carcere, che come minimo ha rubato o commesso reati analoghi, e poi
sostiene che ai ladri bisogna sparare.
Elton Kalica: Da quando sono arrivato a Padova, ho riscontrato che la
maggior parte dei detenuti ritiene di essere in galera per sbaglio. Vi sono poi
molti che considerano accettabile il reato che hanno commesso loro, e
inaccettabile quello che hanno commesso gli altri. Di conseguenza, sostengono
che tutti quelli che hanno commesso un reato diverso dal loro, meritano di
stare in galera.
Ornella Favero: Volevo fare un’osservazione su un altro fatto di cronaca
che è successo recentemente, di quel commerciante che ha ammazzato una persona
che gli aveva estorto molti soldi costringendolo a pagare il pizzo. La cosa che
mi ha colpito non è stata tanto questa notizia, quanto come è stata data dai
TG, non dico come positiva ma quasi. “Finalmente qualcuno che si ribella,
stanco di subire estorsioni ecc.”. Il fatto è che, sia con questa proposta di
legge, sia con il clima che si sta creando anche grazie al tipo di informazione
che passano i mass-media, tutto contribuisce a far pensare alla gente che
bisogna cominciare ad arrangiarsi, a difendersi da soli.
Marino Occhipinti: Non è grave che si sia ribellato, è grave che si inneggi
all’omicidio, che si sia favorevoli al fatto che ha ucciso una persona.
Marco Rensi: Che comunque sulla legittima difesa ci siano opinioni
discordanti anche all’interno del carcere può succedere, perché uno viene
influenzato da questa disinformazione, questa informazione a senso unico che
arriva da tante trasmissioni televisive.
Ornella Favero: Siccome noi ci occupiamo di informazione, dovrebbe essere
compito nostro cercare di discutere con modalità diverse per controbattere al
modo in cui questi problemi vengono presentati dai mass-media. Se noi
accettiamo invece certe semplificazioni e diciamo: “Ci va benissimo che la
gente si armi e possa difendere la proprietà”, beh, insomma…
Marino Occhipinti: E poi chiunque con una lezione al poligono si compra
un’arma ed è autorizzato a sparare se gli vanno a rubare qualcosa, però non è
che tutti quanti sono degli sceriffi e hanno la precisione di sparare ad una
gamba! Ed è da condannare anche la modalità con cui vengono date le armi: se
uno non ha precedenti penali, è talmente facile per qualsiasi cittadino
procurarsi un’arma!
Ornella Favero: Se vi ricordate tanti fatti di cronaca recenti, di
persone che hanno sparato per strada o in casa, tutte queste persone avevano
regolare porto d’armi pur avendo gravissimi problemi psichiatrici accertati. E
invece credo che come prima cosa avrebbero dovuto proprio bloccargli il porto
d’armi, altro che rendere più facile l’uso delle armi per “legittima difesa”!
Marco Rensi: Siccome noi non abbiamo la possibilità di scendere per
strada e interrogare i passanti per sentire le diverse opinioni, già nella
nostra redazione di TG 2Palazzi esistono diverse posizioni, diamo spazio
all’una e diamo spazio all’altra, direi che facciamo un confronto. Così come,
quando “Ristretti Orizzonti” farà un articolo su questo argomento, avrà, penso,
la possibilità di ospitare i pro e i contro, quindi opinioni di persone che
sono contrarie a questa proposta di legge e di persone che invece sono
favorevoli.
Ornella Favero: Le cose però non sono cosi semplici: prendiamo un tema che
ci è ancora più vicino, la proposta di legge ex Cirielli per la parte
riguardante la recidiva. Allora, noi che facciamo informazione dal carcere,
abbiamo scelto di avere una linea, non chiamiamola politica perché non si
identifica assolutamente in una questione di partiti, però è la linea del
privilegiare l’impegno sociale, del sostenere il reinserimento, del dire che i
recidivi non sono quasi mai dei grandi criminali, sono quelli che entrano ed
escono dal carcere perché fanno piccoli furti, perché sono tossicodipendenti,
perché non hanno altre risorse che l’illegalità. Allora non mi va bene dire:
adesso vi presentiamo le due opinioni, quelli che dicono che questa legge fa
schifo e quelli che dicono che è giusto cacciare in galera ancora più persone,
no! Noi elaboriamo una nostra posizione, poi se c’è uno che non è d’accordo non
è che lo metto a tacere, però dev’essere chiaro qual è la posizione del
giornale, della redazione.
Elton Kalica: Se proprio noi facciamo gli intransigenti, i forcaioli,
diciamo che chi sbaglia deve pagare con la vita o che chi si introduce nella
proprietà di un altro dev’essere ucciso perché la proprietà è sacra, allora
significa che siamo i primi a non credere nel cambiamento delle persone e nel
loro possibile reinserimento.
Marco Rensi: Sapete anche voi che in galera si sentono a volte
posizioni abbastanza intransigenti anche tra i detenuti.
Ornella Favero: Io non mi pongo il problema di rappresentare quello che
pensano i singoli detenuti. Se io trovo qui dentro le persone che hanno
commesso un omicidio che dicono: “I tossici di merda devono stare in galera”,
posizione che esiste per altro, io dovrei rappresentare tutte queste posizioni
qui? No! Quando noi facciamo degli articoli che riportano delle discussioni in
redazione, dalla discussione deve emergere quella che è la rielaborazione
collettiva della maggior parte della redazione, e non la posizione di quello
che sta in carcere e poi sostiene che è favorevole a sparare subito per
difendere la sua macchina dai ladri.
Elton Kalica: Oggi all’aria eravamo in cinque, tra i cinque c’era uno
che è stato in carcere in Spagna per furti, in Francia per rapine ed è in
carcere qui in Italia per traffico internazionale di stupefacenti, quindi è uno
che ha fatto venti anni di galera, mentre c’era gente che aveva fatto piccoli
reati. Questo che ha fatto venti anni di galera diceva che era d’accordo con
chi sostiene che si deve sparare a chi va a rubare. Ma lo dici proprio tu che
hai sul fascicolo tutti i reati e hai rubato per tutta la vita?
Ornella Favero: L’informazione che siamo in grado di fare noi, deve
caratterizzarsi in modo preciso rispetto a quella che fanno fuori, altrimenti
che senso ha fare un giornale o un TG in carcere? Qui che cosa c’è di più o di
diverso? La cosa diversa è che ci sono delle persone che sono in galera e
quindi hanno la competenza su quello, qui dentro ci sono delle conoscenze
legate ai reati, perciò noi dobbiamo sfruttare quelle conoscenze che fuori non
hanno. Fuori potranno andarsi a studiare se conviene o meno una legge così, poi
andranno a farsi delle considerazioni su quello che è diventata l’America dove
ci si può armare più facilmente, ma qui c’è un’esperienza di gente che ha
ammazzato, e questo dovrebbe far riflettere su cosa vuol dire togliere la vita
a qualcuno.
Mauro Cester: Chi parla di usare le armi molto probabilmente non ne ha
viste molte, non ne ha puntata in faccia a una persona e non ha schiacciato il
grilletto. Se siamo noi con tanti anni di galera e esperienze del genere alle
spalle a dire che non vanno bene certe scelte estreme, come quelle di usare le
armi in difesa della proprietà, come fai invece a difendere quelle scelte
proprio tu che hai da fare due o tre anni per reati che non c’entrano niente
con questa vita?
Dalla legittima difesa alla giustizia sommaria
Nemmeno in galera si
trovano molti autori di omicidi che non sentano il peso della vita che hanno
spezzato
di Graziano Scialpi
Se non fossi un carcerato direi ai benzinai e ai
gioiellieri esasperati e alle persone che si ritrovano con i ladri in casa:
“Lasciate quelle maledette pistole nel cassetto. Non siete Clint Eastwood,
l’ispettore Callaghan non è mai esistito è un’invenzione del cinema e, mentre
voi cercate di armarvi, i rapinatori hanno già la pistola in mano e il dito sul
grilletto, magari di un Kalashnikov. Se tirate fuori un’arma le probabilità
sono tutte contro di voi e, oltre a farvi ammazzare, rischiate di colpire i vostri
familiari, come è accaduto in più occasioni. I proiettili non si fermano,
rimbalzano su muri e pavimenti, attraversano porte e automobili, escono dalle
finestre e sono in grado di uccidere anche a un chilometro di distanza, magari
qualche altro ignaro bravo cittadino che se ne sta in casa propria o sta
passeggiando per la strada, se non ci pensano i rapinatori pensateci almeno voi
che siete persone responsabili. La vostra vita vale più di tutti i soldi e i
gioielli del mondo.
Il dolore che la vostra perdita causerà ai vostri
familiari non ha prezzo. Non fatevi montare da telegiornali e arruffapopolo,
usate la vostra testa. Tutti i morti ammazzati che ci sono stati negli ultimi
tempi erano persone esasperate come voi che hanno preso la pistola e hanno reagito,
non fatevi guidare dall’esasperazione, pensateci, pensateci…”. Ma io sono un
carcerato e queste cose non le posso dire senza che vengano travisate come un
invito a lasciare mano libera ai rapinatori, anche se non appartengo alla
categoria. Però alcune considerazioni su come si vuole “allargare” la legittima
difesa le voglio fare lo stesso.
Difendere la propria incolumità e quella dei propri cari,
anche con le armi se necessario, è un diritto sacrosanto. Nessuno si sogna, né
si è mai sognato di metterlo in discussione, nemmeno in carcere. È un diritto
talmente sacrosanto che non è mai esistito uno Stato o un ordinamento giuridico
che non lo abbia previsto e tutelato. Checché ne dicano i giornali e le
televisioni, il diritto alla legittima difesa è previsto anche dalle leggi
italiane, lo è sempre stato. Se un cittadino italiano vede in pericolo la
propria vita o quella dei propri cari può impugnare le armi e sparare, uccidere
se necessario. Ma allora da dove deriva questo can can massmediatico sulla base
del quale il governo si appresta a varare una nuova legge in materia?
Sostanzialmente si tratta di un problema di grave, anzi gravissima confusione
mentale, sia da parte degli organi di informazione che, quel che è ancora più
grave, da parte di molti politici. Perché una cosa è difendere la propria vita
e quella dei propri cari, un’altra cosa è inseguire un ladro in fuga e
sparargli nella schiena. Il primo caso è legittima difesa, il secondo è
giustizia sommaria. Confondere le due cose significa non aver ben chiara la
differenza tra lo stato di diritto, tra la civiltà e lo stato di natura.
Persino nel selvaggio West quando c’era un morto ammazzato per prima cosa si
verificava se era armato e se era stato colpito di fronte. Se non sussistevano
queste due condizioni si trattava di puro e semplice omicidio e il responsabile
veniva impiccato.
Eppure è proprio questa la strada che si vorrebbe
imboccare, consentendo l’uso delle armi anche contro chi sta semplicemente
cercando di sottrarre i “beni propri o altrui”, senza mettere in pericolo
l’incolumità di nessuno. Si vede qualcuno che si è introdotto nel giardino del
vicino? Una bella fucilata nella schiena e giustizia è fatta (e il falciaerba è
al sicuro). Personalmente capisco bene le paure e le insicurezze degli
italiani, ma continuo a voler credere che non siano così assetati di sangue.
Continuo a voler credere che in giro non ci siano poi tante persone per bene
pronte ad uccidere un proprio simile sicure che poi non avranno problemi di
coscienza e dormiranno sonni tranquilli… tanto era solo un ladro.
Ma stiamo scherzando? Quando ho fatto il militare mi è
capitato di vedere ragazzi piangere al momento di sparare ai bersagli a forma
di sagoma umana. Era un semplice pezzo di cartone eppure loro ci vedevano un
proprio simile. Non erano dei deboli, erano solo più sensibili degli altri che
pensavano “tanto è solo cartone”. Se in giro ci sono dei personaggi che, senza
essere in pericolo di vita, sono pronti a imbracciare le armi e a sparare a un
proprio simile, a mio parere lo Stato tutto dovrebbe fare, tranne lasciargli
mano libera. Perché nemmeno in galera si trovano molti autori di omicidi che
non sentano il peso della vita che hanno spezzato. Se potessi confrontarmi con
qualcuno che ha queste velleità da “pistolero” lo accompagnerei in un qualsiasi
macello a osservare quando uccidono vitelli e cavalli, e poi magari inviterei
lui stesso a prendere in mano la pistola e ad abbattere un animale. E se
uscisse da una tale esperienza senza essere turbato, profondamente turbato, gli
consigliere di rivolgersi a un buon psicologo.
Se gli italiani
potessero scegliere, preferirebbero una legge che permettesse loro di prendere
a pugni il bancario “di fiducia” che gli ha rifilato i bond Parmalat
Oltretutto sono anche persuaso che se gli italiani
potessero scegliere, a una normativa che consente di sparare al ladro in
giardino preferirebbero una legge che permettesse loro di prendere a pugni il
bancario “di fiducia” che gli ha rifilato i bond Parmalat, guardandosi però bene
dal comprali lui stesso. Eppure con tante migliaia di cittadini derubati dei
risparmi di una vita, non si è sentito un solo caso di “giustizia sommaria”,
nessuno si è lasciato prendere la mano e tutti si sono affidati alla Giustizia
e alla Magistratura: questi sono i segni che confortano sul livello di civiltà
degli italiani. Sicuramente in molti hanno provato questa tentazione, ma
fortunatamente la loro educazione è riuscita a trattenerli quel tanto da fargli
rendere conto che alla fine si sarebbero sentiti peggio. In molti altri paesi i
responsabili di quelle ruberie sarebbero dovuti andare in tribunale non a piede
libero, ma con indosso un giubbetto antiproiettile.
E poi, a voler essere coerenti fino in fondo, bisogna
sottolineare che il disegno di legge sulla legittima difesa presenta una grave
lacuna anche dal punto di vista degli amanti della giustizia “fai da te”. Non
pone infatti rimedio a quello che viene spesso presentato come il gravissimo
“scandalo” delle inchieste aperte dalle procure nei casi in cui qualcuno si
difende da solo usando le armi. Per essere veramente giusti con le persone che
sostengono di usare le armi per legittima difesa sarebbe necessario un
emendamento secondo il quale, quando ci si trova di fronte ad un morto
ammazzato a colpi di pistola, bisogna credere sulla fiducia a chi ha sparato.
Se dice che si è trattato di legittima difesa non bisogna indagare oltre. Così
come si sarebbe dovuto credere sulla parola a Erika e Omar, agli “amanti di
Caprioglio” o a quel signore di Padova che ha inscenato una finta rapina dopo
aver massacrato la moglie a bastonate.
A Taormina un cittadino spara a una banda di ladri
per tutelare la sua famiglia e la sua proprietà: tra le vittime della
sparatoria c’è anche lui, mentre suo figlio è rimasto ferito. Eppure una
proposta di legge, già approvata dal Senato, vuole allargare le maglie della
legittima difesa per rendere tutti più sicuri, al riparo dai malviventi.
Possibile che gli Stati Uniti (il paese delle armi, e della criminalità che non
cala) non ci abbiano insegnato nulla?
di Marino Occhipinti
Sparare per difendersi. Imbracciare (e usare) un’arma non
solo per proteggere se stessi da un’aggressione, ma anche i nostri beni
materiali minacciati da qualche delinquente. C’è una proposta di legge che
potrebbe rendere legittima questa seconda situazione: una sorta di
autorizzazione, per tutti i cittadini, a farsi giustizia da soli. Una novità
che non poteva non suscitare parecchie perplessità anche fra i giuristi. Il Senato
ha già pronunciato il suo sì in estate: si tratta del disegno di legge numero
1899 che modifica l’articolo 52 del Codice penale sulla legittima difesa,
sancendo il cosiddetto “diritto all’autotutela in privato domicilio”.
Chi scrive ha una pessima esperienza in fatto di armi, e
proprio per questo si sente di poter dire, in tutta sicurezza, che le armi
portano solo guai. Ce lo ha ricordato di recente la cronaca: due tragici
episodi di sangue, ad Abano Terme e a Taormina, dove nel corso di due rapine – la
prima in un’oreficeria e la seconda presso una villa – e dei conseguenti
scontri a fuoco, sono morte sia le vittime del reato sia i rapinatori. Eccola,
la doppia faccia della medaglia dell’uso delle armi.
Si dà per scontato
che tutti siano dotati di sangue freddo
La nuova proposta di legge autorizza chiunque detenga
legalmente un’arma a sparare a un ladruncolo che insiste per entrare nella sua
abitazione, o anche in quella di qualcun altro (per esempio del vicino di
casa). Ovviamente, sempre secondo il nuovo testo normativo, il cittadino che
intende difendere i propri o altrui beni, prima di sparare dovrà realizzare una
serie di condizioni: accertarsi che il malvivente intende entrare nella propria
o altrui abitazione con lo scopo di commettere un reato (il che non è come
dirlo); mantenere il sangue freddo, quindi sfoderare e caricare l’arma;
invitare il malvivente a desistere (chissà se qualcuno ha già pensato a frasi
convenzionali, come il militaresco “altolà chi va là”, naturalmente da
pronunciare almeno tre volte prima di fare fuoco…); infine sparare con perizia,
mirando rigorosamente alle parti non vitali.
La procedura, francamente, mi pare di difficile esecuzione
persino per le forze dell’ordine, sebbene addestrate, figuriamoci per chi non
ha competenza né dimestichezza con pistole e fucili. Consideriamo un fatto: una
pistola, al solo scopo della detenzione per difesa personale (quindi custodita
nel proprio domicilio), può essere acquistata da chiunque abbia i requisiti
fisici e psichici, purché sia incensurato e in possesso dell’abilitazione
all’uso delle armi rilasciata da un poligono di tiro – per ottenerla basta
pagare l’iscrizione e sparare poche decine di colpi di addestramento, in barba
a qualsiasi teoria. Non viene il sospetto che, se la nuova legge otterrà il sì
anche della Camera, molti più italiani acquisteranno un’arma da fuoco? La
tentazione di trasformarsi in “cittadini sceriffo” sarà lì, a portata di mano.
Quanti ne approfitteranno per sostituirsi alle forze dell’ordine? Che poi si spari
alla cacciagione o ai ladri poco importa. In fin dei conti, prima di gambizzare
un rapinatore, basterà rispettare poche ed (apparentemente) elementari regole.
Come lo Stato intenda “istruire” impiegati e casalinghe
sull’utilizzo delle armi da fuoco e sulle procedure di difesa da mettere in
pratica in caso di assalto da parte di un ladruncolo, magari un ragazzino di
dodici anni, per ora non è dato sapere. Probabilmente si ricorrerà al classico
“la legge non ammette ignoranza”, per cui ognuno dovrà arrangiarsi facendo
attenzione alla pubblicazione della legge sulla Gazzetta Ufficiale, così da
studiarsi meglio codici e codicilli. Naturalmente a proprio rischio e pericolo.
Come quell’avvocato romano che deve scontare otto anni di carcere per aver
ucciso un ladro che gli stava rubando l’automobile parcheggiata sotto casa.
E quelli che rubano
per droga, saranno dissuasi dalla nuova legge?
Il vero punto dolente della proposta, come è stato
sottolineato da tante voci, è il fatto che si paragonino i beni materiali alla
vita delle persone, anche quando si tratti della vita di impenitenti
delinquenti. Certo, vedere minacciata una proprietà acquistata con lunga fatica
può portare, istintivamente, a un’estrema e violenta difesa. Ma, come ci
insegna anche l’esperienza degli Stati Uniti, non è con le leggi che incitano
all’uso delle armi che si tampona il problema della criminalità. Penso ai
tossicodipendenti, autori della maggior parte dei furti, degli scippi, dello
spaccio di stupefacenti e anche delle rapine: non credo proprio che un uso più
massiccio, seppure legale, delle armi da parte dei cittadini onesti riuscirà a
fermarli. Un tossicodipendente in astinenza, che mira solo a procurarsi la
dose, non si metterà certo a studiare la nuova legge sull’uso delle armi. E
correrà comunque il rischio.
E i nomadi abituati a rubare nelle case? Spesso sono
adolescenti che diventano ladri perché spinti dai genitori, ai cui ordini
difficilmente potranno opporsi. Insomma, invece di prendere la mira contro le
gambe di criminali di tale portata – ladruncoli, ragazzini, tossici –, ci si
aspetterebbe una ricerca seria, da parte di chi legifera, di rimedi diversi,
che più che alla repressione puntassero all’inclusione sociale. In certi casi
anche alla cura. Invece si legge sempre, tra le righe di nuove norme che
promettono più sicurezza, una convenienza momentanea legata alla propaganda
elettorale.
Commentando le probabili novità con alcuni miei compagni
di detenzione, che non sembrano avere molte intenzioni di condurre una vita
onesta quando usciranno dal carcere, ho sentito considerazioni del genere: «Ci
saranno molte più armi? Se andrò a fare un furto verrò accolto a pistolettate?
Beh, vorrà dire che invece di portarmi solo il cacciavite, come ho fatto
finora, sarò costretto ad andare ‘accavallato’ (che in gergo carcerario
significa armato). Non per uccidere, sia chiaro, ma per difendermi a mia
volta». Curioso, vero? Una spirale di difese più o meno legittime che mi viene
da immaginare come una gara di spari senza fine.
Un altro punto da sottolineare è che la legge sulla
legittima difesa esiste già, all’articolo 52 del Codice penale. Attualmente
l’uso delle armi è consentito quando «vi è un reale e concreto pericolo e
rispettando il principio di proporzione tra azione e reazione, quindi tra
offesa e difesa». L’orafo di Abano Terme e il commerciante di Taormina erano
legittimati a sparare anche dall’attuale normativa: se non fossero stati
uccisi, difficilmente sarebbero incorsi in un procedimento penale, tanto meno
in una condanna.
Quindi cosa aggiunge la nuova legge al diritto del
cittadino a difendersi? Una porta sul Far West, solo questo. Anzi, no: aggiunge
anche uno scenario inquietante nelle aule dei tribunali, perché viene da
pensare che saranno piene di cittadini-sceriffi costretti a dimostrare che la
loro proprietà era realmente minacciata, che hanno mirato alle parti non vitali
del ladro eccetera eccetera.
Che cosa significa
uccidere un uomo
Infine, perché non ci si interroga sul significato di
uccidere, anche se per legittima difesa? Conosco un orafo che negli anni
Ottanta, durante una rapina nel suo negozio, sparò ai due malviventi che, armi
in pugno, l’avevano assaltato. Uno dei due morì subito. L’altro fu trovato
cadavere, pochi minuti dopo, in un parco pubblico qualche centinaio di metri
più in là. Negli otto anni successivi l’orafo ha attraversato vari gradi di
giudizio e i relativi processi. Ogni giudice gli ha riconosciuto di aver agito
per proteggere la propria vita. Agli occhi dei più, anche degli altri negozianti
della zona, è sempre apparso come una specie di eroe che ha difeso con estremo
coraggio l’attività che dava da vivere a lui e alla sua famiglia. In realtà, da
quel giorno, lui non è più stato lo stesso. Sebbene riservato e schivo, non ha
avuto difficoltà a confidarmi che, qualora i rapinatori si fossero nuovamente
presentati nel suo negozio, questa volta si sarebbe lasciato svaligiare senza
reagire: «So bene cosa vuol dire uccidere. Ho ancora in testa gli occhi
sbarrati di uno degli uomini a cui ho stroncato l’esistenza. Ho sentito l’odore
del suo sangue. Alla fine dei processi avrò anche avuto ragione, e la giustizia
ha magnanimamente stabilito che non potevo fare diversamente, ma un pugno di
gioielli non vale la vita di un essere umano come me».
Sono attimi, nei quali le reazioni sono incontrollabili.
Alcuni mesi fa, durante un furto, una donna ha fatto fuggire i ladri dalla sua
abitazione malmenandoli con una mazza da baseball. Il giorno dopo, un
colonnello dei carabinieri ha pubblicamente dichiarato che «la giovane donna è
stata sì coraggiosa, ma le è andata bene perché così facendo ha rischiato la
sua vita e anche quella del figlioletto, che dormiva al piano soprastante».
Insomma, non è molto consigliabile armarsi per il timore di essere derubati. È
sicuramente meno peggio subire un danno economico, anche ingente, piuttosto che
rischiare la propria pelle o togliere la vita a un altro uomo.
«Ma allora le persone oneste devono lasciarsi rapinare
senza fare nulla?», mi hanno chiesto in redazione, dopo che avevo esposto
questo mio punto di vista. Ora, non mi schiero dalla parte dei ladri, ma sono
convinto che a tutelare la proprietà privata deve continuare a pensarci lo
Stato, e proprio in nome della maggiore sicurezza che qualcuno vorrebbe invece
identificare con una proliferazione selvaggia di pistole e fucili.
A Belluno, di recente, si è tenuto un seminario di studi
dal titolo illuminante, che evidenzia bene quanto sia importante trovare le
definizioni giuste per poi poter affrontare le questioni che ci riguardano:
«Quale sicurezza ci rende sicuri?». Il professor Massimo Pavarini, docente di
Diritto penitenziario all’Università di Bologna, ha affermato che «oggi la
sicurezza è diventata una delle ossessioni di tutte le campagne elettorali, dei
mass media, delle discussioni da bar, ma in realtà siamo inseriti in un
contesto fortemente contraddittorio. Dal punto di vista dei dati scientifici
noi siamo la società più sicura che sia mai esistita. Mai abbiamo goduto come
storia dell’uomo di tanta sicurezza come ne godiamo adesso, eppure oggi noi ci
diciamo sempre più insicuri».
Qualcosa stride, è evidente. Speriamo ci faccia caso anche chi fa le leggi.