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Il prete dei ragazzi

È don Gino Rigoldi, da trentadue anni cappellano dell’Istituto penale per i minorenni Beccaria di Milano. Un prete tenace e coraggioso che ci parla con grande schiettezza della detenzione minorile e della criminalità giovanile

 

A cura di Marino Occhipinti

 

"Prima o poi risponderà pure, se non altro per liberarsi della nostra insistenza…". L’abbiamo letteralmente tempestato di lettere, don Gino: ogni due mesi, assieme a Ristretti Orizzonti, anche una bella richiesta di intervista, una sfilza di domande che avrebbero scoraggiato chiunque. Ma non lui, che in quanto a tenacia non teme rivali. E la risposta è finalmente arrivata, con un racconto dettagliato di come negli ultimi anni sono cambiate la detenzione minorile e la criminalità giovanile, e di cosa secondo lui è necessario fare oppure non fare per svolgere al meglio quel complesso e difficile lavoro educativo dal quale, molto spesso, dipendono i destini di tanti ragazzi.

 

Sono al "Beccaria" di Milano da trentadue anni, da quando cioè, prima della riforma della giustizia minorile della Legge 448 del 1988, arrivavano nel carcere minorile mediamente più di mille ragazzi ogni anno, tutti figli di immigrati dal Sud, tutti provenienti dai quartieri delle periferie dove si era costruito una quantità di case popolari, tutti con difficoltà di inserimento nella vita della città.

Ho visto una generazione di ragazzi conquistati dall’idea di poter avere cose e danaro nella semplificazione della piccola delinquenza, sostanzialmente abbandonati a se stessi negli anni della crescita, con una famiglia impegnata nel duro compito della sopravvivenza, meno attrezzata nel suo nuovo compito educativo, lasciata sola dall’Ente locale e dai servizi, nel deserto dei palazzoni dove si sommavano tanti estranei e si formavano bande di giovani che volevano sentirsi importanti a fare qualche avventura, ed ovviamente cercavano anche loro i prodotti della moda, gli strumenti simbolo della ricchezza.

Era tutto un mondo diverso da quello di oggi, anche se giovani italiani abbandonati, carichi di problemi familiari o con grosse difficoltà di inserimento sociale non mancano neppure in questi giorni.

 

I reati dei minori, il carcere minorile oggi

In tutta Italia i minori detenuti non superano di molto le cinquecento-seicento unità. Da Roma in su la percentuale degli stranieri maschi e femmine sta intorno al 70 per cento. Nel Sud credo sia ancora prevalente la presenza di minori italiani. Il Beccaria, che con Napoli-Nisida e Roma-Casal del Marmo ospita il maggior numero di ragazzi e di ragazze, ha una popolazione di circa 80 persone di entrambi i sessi.

Nei minorili, come anche nelle carceri per adulti, esiste una grande carenza di personale di custodia, però da noi c’è un vantaggio non da poco: è presente un discreto numero di educatrici ed educatori.

Se dovessi osservare soprattutto Milano, direi che gli italiani che arrivano al Cpa (Centro prima accoglienza, ndr) vengono quasi tutti dimessi con prescrizioni o comunità. Anche quando gli italiani passano al penale di solito è possibile dopo qualche tempo, se il reato non è quello di omicidio, trovare qualche posto in comunità.

Tutto diverso è il trattamento per gli stranieri, che passano dal Cpa al penale anche se hanno rubato, per bisogno, un paio di scarpe al supermercato. Restano in carcere per questi reati anche cinque-sei mesi. Molti di questi ragazzi stranieri vengono poi dimessi praticamente sulla strada: i motivi sono molti, non ultima la non volontà dell’Ente locale a spendere.

Questo anno ha una caratteristica: sono pochissimi gli albanesi, contenuto il numero dei nord-africani, moltissimi i ragazzi e le ragazze romeni. Gli italiani, di gran lunga i più difficili da "trattare", arrivano in carcere con gravi problemi familiari o di inserimento sociale. Gli albanesi sono in maggioranza disponibili e motivati a cambiare vita, a lavorare, ad intraprendere percorsi di normalità, sono la etnia con la quale si lavora meglio. I nord-africani sono già più difficili, meno determinati a scegliere la via del lavoro e dell’onestà ma "trattabili" e spesso con buoni risultati. I romeni arrivano con il visto turistico: i più poveri e confusi, o semplicemente quelli che non sono arrivati con gli indirizzi di locali o persone per la prostituzione maschile, fanno molti furti da supermercato, scappano sempre dalle comunità, sono ancora nella fantasia del nome falso e dei racconti leggendari. Il perché delle loro fughe sta nella loro provenienza da istituti nei quali sono stati abbandonati fin da piccoli, oppure, se non sono ragazzi da istituto, perché in Romania si sono abituati a pensare ai ragazzi degli istituti come a rifiuti sociali: perciò scappano dalle comunità che immaginano come istituti. Ma se non vanno in comunità ritornano alla strada ed al supermercato oppure alla prostituzione maschile.

Stiamo seriamente studiando una strategia, che ho già abbastanza in mente ma che devo concretizzare, perché non è giusto arrendersi al fallimento, mai.

Riguardo alla religione, compito specifico mio come cappellano: facciamo il catechismo per i sacramenti per gli italiani e la Messa al sabato. Nella mia ingenuità ho pensato che i molti musulmani era giusto avessero un ministro della loro religione, ma gli imam che ho contattato non si sono dimostrati entusiasti. È venuto solo uno che poi mi ha chiesto cinquanta euro, allora adesso alla Messa vengono cristiani e musulmani ed io cerco di fare discorsi che vadano bene per tutte le religioni. Del resto anche loro credono in un unico Dio, diverso dal Dio cristiano, ma è possibile trovare un terreno comune.

 

Il trattamento

I ragazzi e le ragazze sono divisi in gruppi di 12-15 persone. Ogni gruppo ha due educatori o educatrici che sono in parte del Ministero ed in parte del Comune di Milano. Il compito degli educatori è quello di fare dei progetti per il reinserimento, ovviamente quando ciò sia reso possibile per la disponibilità delle persone e per i tempi di detenzione.

Uno dei miei compiti è quello di fare, insieme agli educatori e alla direzione, i progetti di uscita o in vista della dimissione. Io in effetti mi occupo dei ragazzi che avrebbero bisogno di essere accolti o almeno accompagnati, e anche di cercare di convincere qualcuno che non ha voglia o speranza di cambiare.

Da quando la maggioranza di ragazzi e ragazze è straniera, è quasi sempre necessario un alloggio, che talora c’è in comunità. Anche casa mia è una sorta di comunità, perché è una casa dove vivo con quindici ragazzi, alcuni italiani, la maggioranza albanesi e nord-africani. Dovremo trovare una strada anche per i romeni, molti dei quali sono intelligenti e capaci ma non si fidano: raccontano un sacco di bugie, che dobbiamo smontare anche con l’aiuto di una mediatrice culturale di lingua romena, che riesce meglio a capire la storia e la realtà di questi ragazzi.

Al Beccaria abbiamo da anni il gruppo "Dimissioni", dove sono state tolte le sbarre ed i ragazzi godono di grandi spazi di autonomia. Questi giovani hanno lavoro o scuola all’esterno ed escono con una discreta sorveglianza di personale di custodia, molto ridotto, e con la presenza delle educatrici che accompagnano e rinforzano. Ma presto, per mancanza di personale, potremmo essere costretti a chiudere questa esperienza di ponte verso l’esterno così importante.

Per quanto si dica il contrario, quando i nostri programmi sono decenti perché è decente la comunità o la scuola o il lavoro, i risultati sono buoni con un reinserimento fino al 70 per cento, anche se per gli stranieri bisogna fare i conti con i problemi del permesso di soggiorno ed i cosiddetti "reati ostativi".

 

La criminalità giovanile

Direi che è in diminuzione sia quanto a numeri sia quanto a gravità dei reati. I numeri dei detenuti sono stabili sulle cifre che ho indicato sopra. Per quanto riguarda la gravità dei reati purtroppo continua la leggenda dei due giovani di Novi Ligure, fatto di oltre quattro anni fa. Non sono certamente così le ragazze ed i ragazzi che arrivano al Beccaria come negli altri carceri minorili. Non si possono modificare le leggi, aumentare le pene perché poche persone hanno commesso gravissimi reati. Oltre tutto da più di cento anni, chi minimamente si intende di giovani e di carceri minorili sa per certo che il carcere non è il luogo più adatto al cambiamento ed all’educazione, anzi, soprattutto se previsto per tempi lunghi provoca esattamente il contrario: la depressione oppure la conferma e l’insegnamento necessario per diventare un o una delinquente più decisa ed attrezzata.

La stupidità della "dimostrazione dei muscoli", immaginata come un deterrente per i cattivi comportamenti dei giovani, dovrebbe essere sotto gli occhi di molti, certamente è evidente per chi lavora coi giovani dentro e fuori il carcere.

 

Cosa fare con questi ragazzi

Anzitutto occorre pensare al carcere minorile come ad una risposta estrema da superare in tempi brevi. La Costituzione, la Carta dei diritti del bambino, le intenzioni della legge 448 mai abolita, come mai abolite sono la Costituzione e la Carta di New York, affermano che la risposta ai comportamenti devianti giovanili non deve avere una caratteristica afflittiva, ma educativa o rieducativa, se la si vuole chiamare così. Che dei ragazzi romeni, per aver rubato un giubbotto o tre buste di prosciutto, possano restare in carcere quattro-cinque mesi perché "esiste la possibilità della reiterazione del reato e non hanno domicilio certo", non ha nessun senso ed è nella sostanza contro le leggi fondative del nostro sistema. Così come non ha senso dimettere un minore praticamente sulla strada. Dovrebbe essere un fatto a conoscenza dei pubblici amministratori che il minore ha diritto ad avere i mezzi per una sua crescita equilibrata qualunque sia la sua nazionalità. Non ci si occupa dei minori per "buon cuore". Si dovrebbe farlo per ubbidire alle leggi.

Noi abbiamo bisogno di un numero maggiore di educatori ma soprattutto di posti di lavoro, di scuola ma anche possibilità abitative. Avere una casa, che è già un problema tragico per gli italiani, diventa spesso una meta irraggiungibile per il minore (o l’ex minore) che sia italiano o straniero.

Resta comunque aperta la questione dei giovani romeni, che appartengono alla nazionalità più numerosa in Italia, avendo i romeni superato albanesi, nordafricani, sudamericani, asiatici. Purtroppo oggi ci si trova ai tavoli con gli enti pubblici non per discutere progetti ma per discutere di tagli, di economie. Credo che toccherà al privato sociale studiare i progetti e recuperare i fondi per incontrare i giovani dell’Est che sono piuttosto diversi dai "clienti" classici dei nostri istituti.

I giovani, soprattutto i giovani, qualunque sia la nazionalità o il reato commesso, restano sempre un terreno di possibile lavoro per il cambiamento. Non ho mai trovato dei soggetti irrecuperabili: dei soggetti difficili sì, delle deficienze di comprensione e di capacità di intervento nostro certamente.

Io mi pongo sempre nell’atteggiamento di chi cerca la parte buona che c’è in ogni ragazzo o ragazza. Quando un giovane si sente valorizzato allora è possibile la relazione ed anche una qualche progettualità, che spesso ottiene buoni risultati anche se talora il nostro intervento è limitato dalla struttura della persona e dalla sua cultura, oppure dalla mancanza di opportunità apprezzabili da offrire.

Dopo trentadue anni, io sono sempre più convinto che questo è un campo nel quale si possono fare molte cose utili e nel quale vale la pena di investire, perché è bellissimo vedere un giovane o una ragazza che incominciano a darsi valore ed a pensare una vita bella e buona per sé, e per gli altri, e si mettono al lavoro con fatica ma anche con speranza, lasciandosi alle spalle i furti o le violenze.

 

 

Una detenzione su misura per quella delicata età di passaggio

A ventun anni, i ragazzi detenuti nelle carceri minorili non saranno trasferiti nei penitenziari per adulti ma in appositi istituti. Accadrà in Campania, grazie a un accordo sottoscritto dalle istituzioni. Il primo del genere in Italia

 

A cura di Marino Occhipinti

 

Un trauma. Uno choc dal punto di vista psicologico. E, soprattutto, una brusca battuta d’arresto nel percorso rieducativo che tanto impegno ha richiesto fino a quel giorno. Ecco che cos’è, per un giovane detenuto, il passaggio dal carcere minorile a quello per gli adulti. Che significa anche ritrovarsi di fronte a nuovi e pericolosi modelli di riferimento, con il rischio di farsi coinvolgere nella malavita organizzata.

A capire per primi che si poteva cambiare questo stato di cose, sono stati i vertici dell’amministrazione penitenziaria e della giustizia minorile campani. Non hanno atteso troppo, firmando un accordo di programma innovativo per l’Italia. Si prevede infatti che i giovani detenuti, al compimento dei ventuno anni, siano trasferiti in due carceri pensati apposta per chi, come loro, appartengono a una delicata età di mezzo: non più ragazzini e non ancora adulti. Nelle due strutture di Arienzo e di Sant’Angelo dei Lombardi, saranno privilegiate le attività utili al loro recupero e al successivo rientro nella società.

Di questo primo, concreto passo verso il superamento di schemi rigidi e dannosi – minori da una parte, adulti dall’altra – ci ha parlato la dottoressa Dolorosa Franzese, che dirige l’Ufficio dell’esecuzione penale esterna del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria della Campania.

 

Dottoressa Franzese, in che cosa consiste il progetto, elaborato dal vostro Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria insieme al Centro per la giustizia minorile della Campania e del Molise, con il quale si prevede di evitare il trasferimento dei giovani detenuti negli istituti per adulti al compimento dei ventuno anni?

Con questo progetto intendiamo individuare dei percorsi possibili, che consentano a questa particolare "categoria" di detenuti di continuare il programma trattamentale già avviato negli istituti minorili e di intraprenderne altri che siano funzionali ai loro bisogni di formazione e alle opportunità di impiego, in sintonia con le richieste del mondo del lavoro. Il progetto si propone inoltre di ridurre l’impatto traumatico, per questi giovani, di fronte a una struttura penitenziaria tradizionale per adulti, sicuramente diversa dall’istituto minorile. E soprattutto di ridimensionare il danno che deriverebbe loro dalla frequentazione quotidiana con esponenti del crimine organizzato, pericolosi modelli di riferimento. Infine, ci proponiamo di demolire una mentalità comune a molti ragazzi provenienti dagli istituti minorili: l’idea per cui l’esperienza in un carcere per adulti, come la Casa circondariale di Poggioreale o la Casa di reclusione di Secondigliano, sia il passaggio verso un "salto di qualità" nel mondo delinquenziale.

 

Che cosa succede quando un giovane viene trasferito nel carcere per adulti?

In un carcere per adulti di tipo tradizionale, quasi sempre questi giovani sono obbligati a interrompere il percorso formativo intrapreso nella struttura per minori da cui provengono. Inoltre, molto spesso vivono un disadattamento dovuto alle regole diverse che necessariamente sottendono alla vita carceraria degli adulti, i quali presentano una personalità già strutturata. Il giovane detenuto, nel tentativo di integrarsi in questa nuova e diversa realtà, facilmente ricerca o subisce il sostegno prima, l’appartenenza poi, dei gruppi malavitosi.

 

Cosa vi ha spinto a elaborare questo accordo di programma?

Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria era già orientato a individuare un circuito carcerario adatto a detenuti giovani e responsabili di reati che non destano particolare allarme sociale. Il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria della Campania ha dunque ritenuto opportuno predisporre un percorso operativo specifico anche per i giovani provenienti da strutture minorili. Il principio generale dal quale si è partiti è stato quello di tutelare i diritti del giovane adulto in esecuzione penale, assicurandogli interventi mirati durante tutto il suo iter penale. E, come conseguenza operativa di tale principio, l’accordo è stato pensato per garantire una gestione integrata e continuativa degli interventi con il comparto minorile, nel rispetto dell’unità della persona.

 

A che punto siete con il progetto?

È già operativo e stiamo seguendo i primi due casi: un giovane, attualmente nel carcere di Arienzo, sta continuando l’esperienza del lavoro all’esterno già avviata nella struttura minorile. Un altro caso è attualmente all’esame.

 

Le carceri di Arienzo e Sant’Angelo dei Lombardi saranno esclusivamente destinate all’accoglienza dei giovani. Questa scelta serve solo a evitare che i ragazzi finiscano nella "scuola di delinquenza per grandi", oppure è scaturita dalle maggiori opportunità di reinserimento che questi istituti potranno offrire?

La scelta di destinare due istituti all’accoglienza dei giovani si basa su una convinzione: una buona conoscenza dei detenuti, nelle loro dinamiche personali e interpersonali, contribuisce a rimuovere le cause da cui sono scaturiti il disagio esistenziale e il comportamento deviante. Una buona conoscenza permette di individuare un piano trattamentale più adatto al loro recupero. Inoltre, un’azione rieducativa mirata risponde anche alla finalità della prevenzione, perché contiene la recidiva e così fornisce un valido contributo alla richiesta di sicurezza della società. Se questo vale per il detenuto in generale, ancora più incisiva e funzionale risulta l’attività di osservazione e di trattamento rivolta ai giovani: un gruppo di detenuti vicini nell’età, simili negli interessi e nella disponibilità all’apprendimento, con maggiori possibilità di inserimento e una condanna non rilevante, con un basso livello di pericolosità sociale e disponibili a sottoscrivere e seguire un programma personalizzato.

 

Quanti sono, in Campania e in Molise, i minori o comunque i giovani sotto i ventuno anni che hanno avuto o hanno problemi con la giustizia?

Posso rispondervi solo in maniera parziale, in quanto la competenza in materia è del Dipartimento per la giustizia minorile. I dati in nostro possesso, forniti dal Centro per la giustizia minorile, riguardano i giovani ristretti negli istituti minorili della Campania (nel Molise vi è solo l’Ufficio di Servizio sociale minorile) al 10 agosto 2004: sono 110, di cui 68 negli istituti penali e 42 in comunità per misura cautelare o di sicurezza. I giovani adulti ristretti presso le strutture carcerarie della Campania, invece, rappresentano almeno il 35 per cento dell’intera popolazione detenuta nella regione.

 

Cosa risponderebbe a chi invoca pene più severe per i minorenni autori di reati?

L’istituzione carcere non rappresenta la panacea per risolvere il problema della devianza giovanile, se non per casi estremi che richiedono un provvedimento restrittivo della persona, per la gravità e la pericolosità del reato commesso. Prima di ripensare a un’ulteriore riforma, sarebbe il caso di rendere operativa in tutta la realtà nazionale la normativa già esistente. In genere un sistema giudiziario viene modificato se risulta inadeguato (e non è certo il nostro caso) o se non risponde ai criteri di sicurezza sociale. E credo che questa seconda ipotesi potrebbe rappresentare una delle più forti motivazioni a sostegno di chi invoca pene più severe nei confronti dei minorenni. In realtà una prima risposta al bisogno di sicurezza della società c’è, ed è la prevenzione, quando viene realizzata attraverso una concertazione costante tra tutti gli organismi, istituzionali e non, presenti sul territorio e preposti a tale compito. Un’altra risposta potrebbe essere la mediazione tra il reo e la società la quale, se esercitata con mezzi e risorse adeguati, contribuirebbe a cautelare ulteriormente il cittadino.

 

Più in generale: per quanto riguarda invece l’area penale esterna della quale lei si occupa, com’è la situazione in Campania?

In Campania i soggetti attualmente seguiti dai Centri di servizio sociale per adulti superano le 8.800 unità. Di questi, oltre 4.600 sono in esecuzione penale esterna e circa 900 in attesa di definizione da parte del Tribunale di sorveglianza. Com’è noto, il territorio della Campania presenta un’attività criminale radicata e organizzata, che incide anche sull’individuazione di validi percorsi di reinserimento, soprattutto per quanto riguarda il settore lavorativo. A questo si aggiunge un alto tasso di disoccupazione e una carenza di offerte occupazionali da parte delle aziende, le cui attività sono già ridimensionate a causa della crisi economica attuale. Ma nonostante questa situazione, anche nella nostra regione si può affermare la validità delle misure alternative alla detenzione: questi percorsi, pur dibattendosi tra difficoltà organizzative e strutturali (carenza di personale nei Centri di servizio sociale, poca ricettività da parte del territorio, ritardo nell’attuazione della legge sull’assistenza, la 328 del 2000, presenza della criminalità organizzata), registrano un moderato tasso di recidiva.

 

Che possibilità offrono, ai fini del reinserimento nella società, gli istituti di pena della Campania, e quali sono invece le difficoltà che si incontrano?

Questo Provveditorato ha promosso delle azioni per allargare e migliorare le opportunità di reinserimento, coinvolgendo la Regione, le Province, le associazioni e il mondo del lavoro. L’obiettivo è avviare a implementare, in tutte le strutture carcerarie di competenza di questo Provveditorato, percorsi formativi che abbiano garanzia di continuità anche nel caso di ammissione a una misura alternativa dalla detenzione, e comunque rispondenti alle reali esigenze del mondo del lavoro. Questa nuova modalità operativa, ancora in via di definizione, consente di coniugare la finalità rieducativa del carcere con una reale opportunità di tornare a far parte della società.

 

 

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