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In carcere si sta male, si muore e troppo spesso si esce senza speranza
È stata un’estate pesante, nelle carceri italiane: e noi abbiamo continuato a raccontare con ostinazione le tante morti, per suicidio, per mala sanità, o semplicemente morti "naturali" che di naturale hanno ben poco, visto che in galera i tempi dell’assistenza e il luogo già di per sé fonte di patologie rendono la malattia comunque grave, e c’è da temere sempre, e soprattutto quando ti dicono che non è niente, che non c’è da preoccuparsi. E abbiamo anche dovuto raccontare delle morti nostre, qui a Padova: un suicidio, e poi un uomo di settantaquattro anni morto per un’allergia, e uno molto più giovane morto forse per infarto. Le loro storie, di vita e di morte, come le abbiamo raccontate, parlano chiaro: quelle persone forse in carcere non ci dovevano stare, le loro storie erano storie di gente che appartiene a una categoria che Alessandro Margara, uno dei padri della riforma penitenziaria, definisce "detenzione sociale", tutto quello cioè che la società non sa gestire e caccia semplicemente lontano dai suoi occhi. Poi c’è un secondo tema forte, al quale torniamo di frequente: quello della recidiva. E soprattutto della recidiva dietro alla quale non c’è una scelta di commettere reati per avere i privilegi che i soldi, tanti soldi ti danno, ma c’è uno stato di necessità che non ti dà tregua: da questo punto di vista, le storie di uscite dal carcere "senza rete", in uno stato di abbandono totale, sono all’ordine del giorno. La verità, elementare ma fondamentale, che emerge da una ricerca, realizzata in Toscana dal Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria e dall’Università, è che a "salvarsi" dalla recidiva sono soprattutto le persone che dopo il carcere rientrano in un ambiente che le accoglie, con una famiglia che le sostiene. È la solitudine, il deserto di relazioni sociali che rende la gente ancora più fragile: noi ne parliamo, anche con la speranza che il centro degli interventi del volontariato si sposti un po’ dal carcere al "fuori", o meglio che il volontariato sia vigile e attento "dentro", anche su quel buco nero che è la salute dei detenuti, e sia altrettanto disponibile quando le porte del carcere si aprono finalmente per far uscire la gente.
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