Dentro e Fuori

 

San Vincenzo De Paoli, da due secoli al fianco dei più deboli

L’associazione fondata a Parigi nel 1833, che oggi conta quasi seicentomila membri in tutto il mondo, rilancia il suo impegno a favore dei detenuti. Con la convinzione che solo il lavoro può riaprire loro le porte del mondo libero e, allo stesso tempo, produrre più sicurezza sociale

 

A cura di Marino Occhipinti

 

Ha quasi due secoli di vita, seicentomila membri sparsi per il globo di cui quasi ventimila in Italia. Da sempre, la Società San Vincenzo De Paoli cammina al fianco dei poveri e degli emarginati. E ora vuole rilanciare il suo impegno a favore dei detenuti, soprattutto aiutando chi vive recluso a trovare lavoro. Con la convinzione che questo rappresenti l’unico modo sia per preparare chi sta in carcere a tornare tra i liberi, sia per garantire ai liberi più sicurezza: è un fatto che chi lavora delinque meno e corre meno rischi di alimentare la recidiva. Claudio Messina, membro del Consiglio di presidenza della San Vincenzo e responsabile nazionale dei volontari dietro le sbarre, ci spiega quali risorse e iniziative la sua associazione mette in campo per i detenuti e lancia un invito, alle altre associazioni e agli enti locali: lavoriamo insieme!

 

La Società San Vincenzo De Paoli ha una storia antica. Con quali scopi è nata?

La Società è stata fondata a Parigi nel 1833 dal beato Federico Ozanam e da altri studenti della Sorbona, e intitolata al santo dei poveri vissuto nel Seicento. È un’organizzazione di laici cattolici il cui obiettivo è la promozione umana attraverso il rapporto personale attuato con la visita a domicilio. Aiutiamo le persone che si trovano in condizione di sofferenza morale e materiale; condividiamo le loro pene con rispetto e amicizia; operiamo per rimuovere povertà ed emarginazione attraverso l’impegno per una maggiore giustizia sociale.

 

Com’è la struttura di un’associazione così ramificata?

La Società ha carattere internazionale e opera nel mondo con oltre quarantasettemila conferenze che comprendono circa cinquecentonovantamila membri. Il Consiglio generale ha sede a Parigi e riunisce i Consigli nazionali sparsi in ogni continente. A Roma ha sede il Consiglio nazionale italiano, composto da 17 Consigli regionali e rappresentanti dei diversi settori. In Italia operano circa 19 mila vincenziani riuniti in 1.696 conferenze, che svolgono il proprio servizio in ambito cittadino, parrocchiale, presso gruppi giovanili e aziende. La Società svolge anche attività socio-assistenziali tramite le "Opere speciali" e aiuta anziani, ammalati, carcerati ed ex carcerati, famiglie, ragazze madri, persone senza dimora, stranieri e chiunque è o si sente emarginato. Il settore "Gemellaggi e solidarietà" sostiene nel mondo una rete di piccole ma importanti iniziative umanitarie volte all’emancipazione di popolazioni colpite dalla miseria e da ogni forma di degrado morale, materiale e culturale.

 

Parliamo del vostro impegno fra i detenuti?

L’attività di sostegno ai carcerati è portata avanti da gruppi o singoli confratelli, che spesso aderiscono a coordinamenti presenti nelle varie regioni e nei diversi istituti. Pur essendo in numero ancora insufficiente, i nostri assistenti volontari penitenziari contano sulla vasta rete di solidarietà offerta dall’organizzazione, che si fa carico dell’accompagnamento, dell’accoglienza, dell’ospitalità e del sostegno offerti sia ai detenuti in permesso o in misura alternativa, sia alle loro famiglie.

 

Quali motivazioni vi hanno spinto a "investire" proprio nel settore del carcere e come operate, dentro gli istituti di pena, per migliorare le condizioni di vita?

Alcuni anni fa abbiamo sentito l’esigenza di rilanciare l’impegno della San Vincenzo nel settore delle carceri, poiché in realtà era uno dei meno seguiti, salvo casi particolari in cui poteva addirittura vantare una presenza pluridecennale in istituti del nord e del centro Italia. Da sempre tuttavia la San Vincenzo ha incluso tra le sue opere di carità l’assistenza ai carcerati e alle loro famiglie, in tempi in cui questo settore non aveva ancora visto lo sviluppo dell’azione variegata del volontariato laico e cristiano. La via la tracciò proprio San Vincenzo De Paoli, che nel XVII secolo fu cappellano generale delle carceri di Francia. I nostri volontari che entrano in carcere sviluppano le consuete attività ricreative e culturali, ma anche formative e lavorative, per esempio promovendo cooperative sociali. Non solo: collaborano a programmi trattamentali individuali, apportando il loro contributo con un contatto di prossimità con il detenuto, che definire "sostegno morale" è sicuramente riduttivo. Il rapporto di fiducia reciproca e di amicizia che può svilupparsi tra la persona detenuta e l’assistente volontario non conosce i limiti imposti dal ruolo professionale, pur con le dovute cautele che in ambiente carcerario devono essere sempre rispettate. Spesso il volontario segnala alla direzione disfunzioni, carenze e situazioni non tollerabili, proponendo soluzioni e invocando il rispetto dei diritti umani. Certamente la complessità delle problematiche carcerarie richiede che queste "battaglie di civiltà", sempre condotte con metodi pacifici e propositivi, vengano affrontate insieme ad altri gruppi e associazioni, per accrescerne la forza e l’autorevolezza. Per questo il Consiglio nazionale italiano della San Vincenzo da anni aderisce alla Conferenza nazionale volontariato giustizia, anche attraverso le sue articolazioni locali, allo scopo di portare avanti un’azione "politica" comune.

 

E all’esterno, come cercate di favorire il reinserimento dei detenuti e degli ex detenuti?

Il sostegno che la San Vincenzo può offrire all’esterno, oltre all’accompagnamento e all’accoglienza, è l’aiuto nella ricerca di un alloggio, negli inserimenti lavorativi, favorendo il riavvicinamento alle famiglie ove possibile o la ricostruzione di un mondo relazionale.

Lo scorso anno la San Vincenzo ha lanciato un’ampia campagna di sensibilizzazione sul mondo del carcere, i giornali ne parlarono molto… Il nostro scopo era abbassare quelle barriere di pregiudizio che si riscontrano ovunque, talvolta anche al nostro interno, e che sorgono da un diffuso disinteresse per il problema. Peggio: da un giustizialismo alimentato dalla paura e da un’informazione spesso distorta, se non strumentale. È difficile far passare il concetto che una maggior sicurezza presuppone una maggiore giustizia sociale, una maggiore attenzione alle fasce deboli, che più di altri corrono il rischio di devianza. Come è difficile far accettare che la società intera deve farsi carico anche del futuro di chi ha attuato comportamenti antisociali, talvolta gravi o gravissimi, e che non è sufficiente né giusto che se ne occupi la sola istituzione penitenziaria, con tutti i limiti che conosciamo bene. Alla nostra campagna fu abbinato il progetto "Ero carcerato…", basato sulla formazione professionale e sul lavoro, requisiti essenziali per riconquistare un ruolo positivo nella società. Tale progetto intende concentrare intorno al problema tutte le risorse esistenti nelle realtà territoriali italiane, da quelle economiche a quelle umane: associazioni, enti pubblici, stanziamenti che spesso restano solo sulla carta…

 

Un progetto ambizioso. In che modo pensate di realizzarlo?

C’è un grosso lavoro a monte da fare, mentre si avviano iniziative concrete, e riguarda l’aspetto culturale: la non facile azione spesso dichiarata, raramente accettata e attuata, di restituire in qualche modo l’istituzione penitenziaria al territorio, favorendo l’integrazione di un’"istituzione totale", presente ma completamente avulsa dal contesto sociale, affinché si smetta di percepirla come luogo di reietti e intoccabili. Il carcere deve riappropriarsi del suo autentico ruolo, che è quello di fornire reali opportunità rieducative e di riscatto sociale. Ovviamente la questione è complessa e richiede notevoli impegni, anche in ordine di tempo, per cui si è ritenuto di dare continuità all’iniziativa, cominciando col dedicare al tema del carcere la nostra quarta Giornata nazionale.

 

Il lavoro è importantissimo sia durante la detenzione, sia quando la pena è terminata. Secondo la vostra esperienza, cosa "offrono" attualmente le carceri in questa direzione, ma soprattutto quali concrete possibilità lavorative si aprono per chi torna libero?

Non c’è dubbio che il lavoro sia il miglior antidoto contro la devianza, prima, contro l’abbrutimento durante la carcerazione e contro i rischi di recidiva dopo. Sappiamo che gli istituti di pena hanno grosse difficoltà a garantire un’occupazione a tutti i detenuti: solo una minoranza trova un impiego continuativo con mansioni interne, gestite dall’Amministrazione penitenziaria, o in rare attività intraprese in carcere da privati, grazie anche agli incentivi offerti dalla legge "Smuraglia" che tuttavia non ha sortito gli effetti sperati. La maggior parte dei detenuti resta però inattiva e può solo sperare di lavorare, a rotazione, nei servizi domestici. Ci sono poi le cooperative sociali, che si stanno sviluppando un po’ ovunque, ma soprattutto al nord e al centro, dove i più fortunati riescono a inserirsi, sia usufruendo delle misure alternative alla detenzione, sia al termine della pena. Si tratta quasi sempre di cooperative di servizi impegnate in lavori di giardinaggio, facchinaggio e simili, anche se non mancano realtà proiettate in settori più qualificati, dall’artigianato all’informatica. Dobbiamo tuttavia considerare che le cooperative sociali sono spesso pensate solo per dare aiuto a una categoria debole di persone, rischiando così di essere un po’ ghettizzate se non di abituarsi a una logica assistenzialistica. Le cooperative vanno benissimo nel gestire una fase difficile della vita del recluso o di chi è appena uscito, ma devono poter offrire le abilità e gli stimoli per crescere professionalmente e per integrarsi nel vasto mondo del lavoro e dell’impresa.

 

Cosa potrebbero fare gli enti locali, i privati e le istituzioni, per favorire concretamente il reinserimento nella società dei detenuti ed ex detenuti, affrontando per esempio le problematiche dell’alloggio e dell’integrazione nel territorio, soprattutto per chi non ha una famiglia alle spalle?

Innanzitutto dovrebbero crederci! Si fa un gran parlare delle problematiche del reinserimento. Tante dichiarazioni d’intenti, tanti protocolli d’intesa, ma poi… Non vi è dubbio che esistano difficoltà obiettive alla realizzazione dei progetti, quando si devono fare i conti con troppe variabili, non ultima la posizione giuridica delle persone e le esigenze prioritarie della sicurezza. Tuttavia bisognerebbe concentrare le risorse, coordinando progetti e interventi, per evitare che associazionismo ed enti locali procedano separati a colpi di piccoli interventi spesso fini a se stessi. È certamente necessario attivarsi anche per trovare soluzioni abitative e favorire l’integrazione nel territorio. L’intesa e la collaborazione tra l’ente pubblico e il volontariato, anche in questo caso, rappresentano la soluzione vincente, potendo contare sulle risorse complementari e insostituibili che ciascuna delle parti può mettere a disposizione.

 

 

Tra teatro in carcere e storie vissute

La Compagnia della Fortezza di Volterra

 

di Fina Quattrocchi

Docente presso il carcere di Monza

CTP Sms Gonfalonieri

 

Desideravo da tempo assistere ad uno spettacolo della Compagnia della Fortezza di Volterra, una strana compagnia, a dire il vero, dal momento in cui gli attori sono detenuti presso la medioevale Fortezza Medicea.

Avevo letto articoli, sentito interviste al regista Armando Punzo, visto filmati di spettacoli realizzati anni prima. Ma non avevo avuto l’opportunità di vederli dal vivo, gli attori- detenuti. …E come si suol dire sono quelle esperienze che non si dimenticano, che lasciano un segno, non fosse altro per il continuo interagire tra attore e spettatore, tra "Chi ha la maschera. Io attore o tu che mi osservi?".

Un’energia a flusso continuo, rara da provare, oramai. Ma qui la provi, e ti rimane addosso, ne sei contaminato.

Il mio interesse per il teatro in carcere è nato quando, per scelta, ho iniziato a lavorare nel carcere di Monza nel ‘99. Da subito ho intuito che linguaggi cosiddetti non verbali potevano funzionare, in una realtà "anestetizzata" come quella del carcere. Nel nostro piccolo abbiamo realizzato lavori teatrali, senza nessuna pretesa di dire o fare grandi cose, ma le persone detenute ci seguivano e qualcosa cambiava dentro di noi, ma soprattutto in loro, che riacquistano il sorriso vero, l’autostima necessaria per la ricostruzione di un sé.

Ho cercato di comprendere perché un attore detenuto in scena riesce a trasmettere emozioni forti a chi osserva, senza veli né falsi moralismi. Ma sono quelle esperienze che appartengono al non detto, parole e scrittura scivolano, senza riuscire a trovare il senso vero. Lo spettatore ne è semplicemente travolto e basta.

Gli attori della Compagnia della Fortezza hanno tutto questo, oltre alla capacità, direi innata, di far vivere pezzi di vita con il sorriso e l’ironia, attraverso gestualità sapienti, in corpi sorprendentemente belli, anche quando i tatuaggi non lasciano un benché minimo spiraglio di luce. Corpi disegnati da storie che puoi leggere, pugnali incrociati, cuori infranti, Meri per sempre, pescecani sul ventre mossi con maestria.

Lo sguardo dello spettatore si perde, si ritrova, per perdersi ancora, quando gli attori ti sbattono in faccia un universo di cui tutti hanno difficoltà a parlare, se non altro per rispetto, o per timore: l’omosessualità. Tema ricorrente, mi dicono, negli spettacoli di Armando Punzo. Loro stessi, gli attori, ti danno la possibilità e il permesso di guardare in faccia l’aspetto dominante dell’essere uomo, e la sessualità è portata in scena anche qui, senza falsi moralismi. Uno schiaffone in faccia, ad una come me, ad esempio, che rimuove il problema oltre le mura, che preferirebbe non sapere. La società tutta, preferirebbe non sapere.

Il teatro vissuto diventa, allora, un pretesto per dare visibilità a quella parte di io che non può essere imprigionata. Anzi succede esattamente l’opposto: chi osserva si sente prigioniero di un mondo falso, imbrigliato tra mille regole, l’attore, no, è dominante, libero, senza regole. Il mondo per un’ora si ribalta, nessuno resti indifferente. La storia è solo un pretesto, in questo "P.P. Pasolini, Elogio al disimpegno", ma non c’è storia, tutto si muove seguendo una sapiente scenografia fatta di ruote, mosse da uomini burattini, dialoghi quotidiani in case nude, prive di pareti.

Gli occhi ingenui dello spettatore credono a tutto, si torna bambini come davanti al teatrino dei burattini, mille personaggi animano un mondo fantastico, dove camminano l’angelo e il malvagio, il serio e il burlone, il pazzo e l’intellettuale, lo storpio, il nano, il traditore, splendide ballerine in calzamaglia: il teatro della vita che ci appartiene, a tutti indiscriminatamente. Ma questa volta messa in scena con sorprendente energia. Con questa lunga premessa, come non dire, allora, che ho realizzato un sogno?

 

L’attesa prima della prima

Ero in coda, come altre 200 persone per assistere allo spettacolo. Erano le tre del pomeriggio. Orari da spettacoli galeotti… Tra gli ospiti, in coda, c’era un signore dall’aspetto particolare, mi ha colpito il suo sguardo. Un viso mediterraneo, un po’ arabo, occhi chiari, se ricordo bene. Era accompagnato. Si capiva dall’impazienza che era lì per un motivo in più. Nella lunga attesa, mi sono fatta coraggio e gli ho chiesto se aveva già assistito a qualche spettacolo della Compagnia della Fortezza. Allora, con lo sguardo più dolce e fiero, mi ha risposto: "Io faccio parte della Compagnia della Fortezza!".

Oh bella, mi sono detta, e che ci fa tra gli ospiti accaldati, alle tre del pomeriggio, tra quelli che aspettano che tanti cancelli si aprano e poi… naturalmente si chiudano, ma questa volta, accompagnati dalla gentilezza di agenti di custodia col sorriso. "Sono uscito qualche anno fa da questo carcere, ma recito ancora con la Compagnia di Armando". A questo punto la curiosità di sapere, il desiderio di conoscere mi ha travolta, al punto di chiedergli sfacciatamente un’intervista.

Un’intervista che ho realizzato una splendida sera di luna piena… unica galeotta, in quello scenario unico che è la Piazza dei Priori di Volterra, seduti una di fronte all’altro: io e Tonino Cinque. Mi racconta che molti attori-detenuti utilizzano parte dei permessi premio per le tournée, rinunciando all’incontro con le famiglie. In questi anni la Compagnia della Fortezza è stata ospitata da teatri importanti, riscotendo molto successo e premi prestigiosi.

 

La testimonianza di Tonino Cinque, attore della "Compagnia della Fortezza"

 

Come è nata la sua esperienza di teatro in carcere?

La mia esperienza è nata dopo aver girato per molte carceri. Ho iniziato la mia pena a Rebibbia, ma poi sono approdato a Volterra, un carcere per definitivi nella sezione dei Comuni. Seppi dai miei compagni che potevo fare teatro e feci la famosa domandina. Il mio primo spettacolo come attore è stato Marat-Sade, dentro il carcere, da quest’anno con l’articolo 21 abbiamo fatto spettacoli fuori dalle mura del carcere.

 

Cos’ha provato la prima volta che si è trovato su un palcoscenico, davanti al pubblico?

È stato proprio l’impatto con il pubblico quello che mi ha dato la spinta per cambiare vita. Ero sorpreso che la gente mi ammirava, mi guardava incuriosita, piangeva. La prima volta non ebbi una parte parlata. Sentivo che la gente mi ammirava per quello che stavo facendo. Essere su un palcoscenico e trasmettere emozioni forti, positive, mi hanno dato la forza e l’energia per cambiare. Prima la mia vita era costellata da emozioni forti, ma erano negative. In teatro avveniva l’esatto contrario.

 

Come ha vissuto l’esperienza di uscire all’esterno per rappresentare gli spettacoli?

Sono uscito la prima volta dopo 15 anni, e a questo proposito devo raccontare un episodio che successe allora. Ero con mio figlio, la prima volta che uscii, ed entrammo in un bar. Presi qualcosa da bere e pagai con una banconota, allora c’erano ancora le lire. Non mi preoccupai di prendere il resto, finché mio figlio non me lo fece notare; avevo dimenticato il valore del denaro. Dopo tutti quegli anni di carcere, uscendo fuori mi sentivo come se ero su un altro pianeta. Le prime volte avevo paura a camminare per strada, soffrivo di vertigini.

 

Come nasce uno spettacolo con Armando Punzo?

Quando si lavora con Armando non sai fino a due o tre giorni prima quale sarà il prodotto finale. Ma ognuno di noi attori, nel corso dei mesi di lavoro, porta il proprio contributo, che se interessa, viene poi realizzato in scena.

 

Come vive il suo rapporto con il regista?

Armando è indescrivibile. A volte è il tuo maestro di teatro, altre volte è un compagno di vita. Ha mille sfaccettature, se è arrabbiato puoi sentirlo come il peggior nemico!

 

Come sono i rapporti tra voi attori?

Ottimi! Quando ci sono gli spettacoli utilizziamo il campo di calcetto per le prove che i nostri compagni ci concedono volentieri. Vorrei essere uno specchietto per le allodole, e attirarli per poi far capire loro che riabilitarsi è possibile, io ci sono riuscito, vorrei che lo facessero anche loro.

 

Il carcere concepito come ora le sembra che possa servire per l’inserimento della persona?

Il carcere non serve soprattutto per i piccoli reati, tuttavia può essere utile per i grandi reati, perché aiuta a ragionare, e quando esci sei come un bambino ai suoi primi passi. Per poter cambiare ho scelto di vivere a Volterra, solo così potevo chiudere con "la vita", allora mi ritenevo un albero malato. Ho lasciato il mio paese e ci sono tornato come attore e non come delinquente, non smetterò di dire che bisogna trovare il coraggio di lasciare il proprio paese, tagliare con il passato. Posso dire di sentirmi realizzato, oggi, ho un lavoro, un figlio che lavora in proprio, sono molto fiero di lui.

 

Quale tra gli spettacoli che ha realizzato con Armando Punzo ama maggiormente?

Con la Compagnia della Fortezza ho realizzato tutti gli spettacoli, ma quello che sento più mio è Negri, anche qui avevo una parte non parlata, ma vedere il pubblico che piangeva mi bastava per dire loro con lo sguardo: giudicatemi voi…

 

L’ho rivisto la sera dopo in piazza, questa volta nelle vesti d’attore. In scena I pescecani. Irriconoscibile con bastone e cappello si aggirava tra il pubblico, con un sorriso sardonico e lo sguardo beffardo. Un attore nato, bravissimo, se non conosci la sua storia può essere scambiato per un attore della commedia di Eduardo. C’era un cielo pieno di stelle, quella sera del 31 luglio a Volterra, ma alcune erano scese sulla terra, per dire al mondo che pretendevano una chance. Il pubblico ha capito!

 

 

Un gruppo che cerca di suonare bene ma soprattutto che si vuole divertire

Un grande concerto alla Festa della Solidarietà di Villatora, dove è arrivata dopo qualche anno di "musica in libertà" dentro il carcere e fuori: è la "Extra & Communitarian Orchestra" con la sua esperienza musicale interetnica

 

di Nicola Sansonna

 

Appena ho potuto ho chiamato mia sorella Lucia e le ho detto: "Ciao sorellina, sono fuori per un concerto!". Mi ha risposto: "Nik e tu che cosa c’entri?". "Come cosa c’entro, faccio parte della Band!". E con la Band mi sono esibito alla Festa della Solidarietà a Villatora di Saonara. Non ci siamo dimenticati però di cosa il carcere significa e che di carcere si muore. Abbiamo quindi ricordato, all’apertura del concerto, due nostri compagni di recente scomparsi. L’ultimo aveva 44 anni e novanta giorni da scontare. Forse avrebbe potuto restare fuori senza grosse turbative sociali, forse avrebbe potuto essere curato in maniera più appropriata, forse avrebbe potuto salvarsi, forse, forse, forse!

La musica secondo me è il modo più bello per esprimere le proprie emozioni. L’idea poi di metterci un po’ di ironia andando sul palco per il concerto vestiti tutti come i componenti della B.B., la mitica Banda Bassotti disneyana, ci è sembrata subito molto azzeccata. Ho partecipato al concerto cantando con Liberato pezzi classici della canzone italiana, Napule è, Io so’ pazzo di Pino Daniele, poi Jesael di Ivano Fossati quando cantava con i Delirium, per chiudere abbiamo eseguito I Giardini di marzo di Lucio Battisti. Ma come nasce tutto questo, chi c’è dietro, cosa ne dicono i protagonisti?

 

Lara Scrittori, la coordinatrice, è un po’ la memoria storica del gruppo e ne traccia i passaggi

Lara, come nasce questo nuovo spettacolo e quali scopi si è dato il gruppo agli inizi?

Questo spettacolo è nato in carcere grazie all’impegno delle Associazioni Art Rock Cafè e Tangram, che dal 1997 propongono attività come Pizzaconnection, che sta portando alla creazione di una pizzeria interna alla Casa di reclusione, e i corsi di formazione sportiva per futuri arbitri e allenatori di pallavolo. Un’altra iniziativa è quella del gruppo musicale E.C.O. (Extra & Communitarian Orchestra) che nasce con la finalità di sperimentare un’esperienza musicale interetnica all’interno del carcere e ha contato una presenza negli anni che supera i 100 allievi di diverse nazionalità, con richieste di partecipazione in continuo aumento. L’interesse suscitato ha permesso l’esibizione del gruppo a diciotto manifestazioni di cui dodici esterne. E stiamo preparando altre iniziative.

 

Stefano Bentivogli, chitarrista e bassista del gruppo

Stefano, che serata è stata per te quella del concerto?

Indubbiamente una gran bella serata, ma tutta la giornata è stata piacevole. Siamo arrivati la mattina e abbiamo trovato un clima di festa e di allegria, orchestrine, banchetti, artisti di strada che si esibivano. Ci siamo mescolati tra di loro dimenticando per qualche ora che la nostra presenza era "eccezionale". Il nostro posto non è questo, noi viviamo dentro, ma il clima era talmente bello che per un attimo ce ne eravamo dimenticati. Un po’ di tensione per la nostra esibizione serale, ma ci portavamo dentro quanto era successo il giorno prima dietro le mura del carcere.

Il concerto è andato bene, perché l’importante oltre la musica era far conoscere alle persone libere qualcosa di chi invece vive in gabbia, evitando stereotipi e luoghi comuni. La musica resta per me un momento di comunicazione importante, e anche quando mi trovo a suonare chiuso in cella è come se in qualche modo evadessi da lì e rientrassi in contatto con una parte di me stesso che vuole restare libera. Il gruppo è affiatatissimo, cerca di suonare bene ma soprattutto si vuole divertire, che è la cosa più importante.

 

Artur Pudia, batterista della Band

Artur, raccontaci come hai vissuto la serata e di quel finto pugno a fin di bene…

Voglio partire da una frase che mi è stata detta dal chitarrista Davide, un volontario che suonava con noi. Dopo che abbiamo eseguito il secondo brano, gli ho detto: "Grazie Davide per averci aiutato e sostenuto nelle prove e per tutto quello che stasera stiamo facendo, so che per te, che sei un professionista, c’è voluta tanta pazienza". Lui mi ha risposto con un sorriso sincero: "Posso dire che ne è valsa la pena". Ecco, è bastato poco per farmi sentire a mio agio, lo dico perché non mi ero mai sentito prima così felice per aver realizzato uno dei miei sogni, suonare per un pubblico, un pubblico che si è dimostrato veramente affettuoso ed attento.

L’emozione era tantissima, forte la paura di sbagliare una battuta nell’eseguire i ritmi, a me nell’esecuzione del primo brano mi tremava la gamba, cosa che non deve succedere assolutamente al batterista. È stato lì che mi è tornato in mente quando ho suonato per la prima volta in pubblico, era una serata per la fine dell’anno scolastico a Durazzo. In quell’occasione il fisarmonicista mi diede un calcio, perché io non mi lasciassi prendere dalla paura di sbagliare e di mandare fuori tempo, mettendo così in difficoltà gli altri musicisti. È capitata la stessa cosa a Gentian al nostro concerto, anche lui era molto teso, e io ho fatto un po’ la stessa cosa con lui, gli ho dato un pugno leggero sui muscoli del petto ed è bastato per sciogliere la tensione. Ascoltavo Liberato che parlava per tenerci sciolti, ma anche lui era teso, ridevamo e ci prendevamo in giro l’uno con l’altro, Nicola, Pietro, Stefano, Gentian, Liberato, Ludving, Alessio, Davide e le ragazze del Tangram e dell’Art Rock Caffè. I nostri brani sono multietnici e richiedono molta concentrazione, io ce l’ho messa tutta nonostante fossero pezzi molto diversi tra loro ed il poco tempo avuto per provare.

 

Pietro Savino, batterista e bonghista

Pietro, cosa significa per te fare musica in carcere?

Per me si tratta di un felice ritorno al passato. Quando ero a Bari, ho fatto parte di una band dal ‘68 al ‘72, poi ho fatto il batterista in un’altra band a San Remo. Quando il gruppo si sciolse prendemmo strade diverse, ma la modifica della mia vita non fu proprio positiva… Qui in carcere mi è stata offerta la possibilità di continuare a coltivare la mia passione musicale e questo mi aiuta a superare momenti critici. Per me è sempre come la prima volta, perché devi offrire qualcosa di te e lo devi fare al meglio. Allo stesso tempo vivi delle emozioni che non sono solo tue, e in più devi dare un messaggio positivo perché tra il pubblico c’è gente di tutte le età e sono lì per ascoltare te.

Il gruppo è molto compatto, abbiamo certamente buone potenzialità, se messi in condizione di esprimerle. Purtroppo per mancanza di personale in carcere abbiamo potuto provare poco. Se dipendesse da noi non smetteremmo mai di suonare per perfezionarci. Le persone (e non erano poche) che ci hanno ascoltato sia suonare che raccontare le nostre esperienze di vita erano coinvolte. A turno abbiamo parlato dei nostri percorsi di vita, certamente non molto lineari… ma raccontati con sincerità. Penso che tutti insieme noi della E.C.O. siamo riusciti a dare un significato alla festa della solidarietà.

 

Gentian Allaj, uno dei tre cantanti del gruppo

Gentian, al concerto hai cantato canzoni della tua terra, che sono molto piaciute anche per l’originalità dell’interpretazione. Ci racconti cosa significa avvicinarsi alla musica in carcere?

I pezzi erano tre: Rudina, una dolcissima canzone d’amore, Ti Luaj, che vuol dire "Tu giochi con me", e per finire Linda, un’altra canzone d’amore. Mi sarebbe piaciuto che anche le parole fossero comprese, perché chi le conosce non può non esserne penetrato sin nel profondo del cuore. In Albania ho avuto esperienze musicali: con un gruppo andavamo a suonare nei matrimoni. Potete immaginare cosa è significato per me poter cantare ancora quelle canzoni, rivivere ancora quelle emozioni che credevo dovessero far parte solo del mio passato. Quando sono salito sul palco ero molto emozionato, ma appena la musica è partita, con il ritmo incalzante delle note di Rudina, mi sono lasciato trasportare sull’onda di quelle note stupendamente eseguite dai miei compagni e tutto è stato facile, naturale, come se non avessi mai smesso di farlo.

Prima di salire sul palco ero in ansia, tanto che ho iniziato quasi a fare ginnastica tra gli sfottò amichevoli del resto della band: Pudia che mi prendeva a pugni sul petto incitandomi e rassicurandomi, tu Nicola che mi dicevi se volevamo fare una corsa per scaricare la tensione… ma penso proprio che la tensione era in tutti noi. Sono contento che la musica albanese sia piaciuta, e fosse in perfetta sintonia con la festa della solidarietà: la musica non ha frontiere, le supera, le ignora ma unisce i cuori.

 

Isabella, una "fan" della band

Isabella, sei una neolaureata in scienze statistiche, come ti trovi coinvolta in questa iniziativa e come sei entrata in contatto con questo pezzo di mondo?

Tramite il sito www.ristretti.it ero alla ricerca disperata di un lavoro nel settore del sociale e invece ho trovato molto di più… Ho iniziato partecipando alle riunioni di redazione e ad una ricerca esterna con Francesco Morelli sul reinserimento degli ex detenuti. Ultimamente invece sono stata alla Mostra del Cinema di Venezia con alcuni redattori in permesso premio, riassumendo direi un’esperienza indimenticabile… Finita la mostra sono stata invitata alla festa della solidarietà a Villatora di Saonara, al concerto di chiusura con gli E.C.O. Incuriosita dall’idea e per concludere degnamente le mie vacanze ho accettato di partecipare e di rendermi utile al banchetto dei prodotti realizzati all’interno del carcere (lavori di legatoria, e delle sfiziose magliette pizzaiole). Purtroppo, non potendo restare al concerto per problemi di lavoro, ho solo ascoltato furtivamente le prove del gruppo… Mi hanno assai emozionato perché mi hanno trasmesso l’ansia, l’allegria, la paura pre-palco tipica dei veri professionisti! Al ritorno mia sorella ha confermato le mie emozioni… sono stati bravi e spontanei coinvolgendo piacevolmente tutti. E infatti sul palco se stai dando il massimo il pubblico lo percepisce e tutto diventa così un meraviglioso momento per stare insieme. Per concludere non dimenticherò mai i loro volti al ritorno che uniti alla malinconia di fine giornata avevano ancora tanta energia, euforia, allegria che quando esplode non conosce limiti e tanto meno barriere! Al prossimo colpo… invitatemi ancora. Ciao!

 

 

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