Parliamone

 

A chi serve un volontariato lento, intempestivo e diviso?

 

Una discussione tra volontari "liberi" e volontari detenuti sulla necessità che le associazioni imparino in fretta a lavorare insieme

 

Se c’è una cosa che le proteste nelle carceri, e anche la visita del Papa con il risalto che ha dato finalmente al disagio dei detenuti, hanno messo in luce spietatamente è la necessità che il volontariato penitenziario e noi che ne facciamo parte guardiamo con franchezza alla nostra intempestività e ai nostri ritardi.

Certo sembra che, almeno nella nostra regione, qualcosa si muova, sotto il cielo del volontariato, con un primo tavolo di confronto "Volontariato e carcere", promosso dal Provveditorato alle carceri per il Triveneto, e un Coordinamento Carcere e Territorio, che riunisce la gran parte delle associazioni e cooperative che a Padova si occupano di detenuti: ma è ancora troppo poco, e va ancora tutto troppo lentamente, rispetto ai problemi del carcere, che diventano sempre più esplosivi.

Ci sentiamo tutti inadeguati, lenti, poco efficaci, e di questo abbiamo voglia di parlare ancora, come redazione di un giornale che unisce al suo interno volontari "liberi" e volontari detenuti, e forse per questo, per la presenza di questa componente forte di detenuti impegnati in una attività di volontariato che li tocca da vicino, pensiamo di essere in diritto di chiedere di accelerare i tempi di questa operazione così difficile che è il "mettersi insieme" rinunciando a un po’ della propria autonomia.

Quelle che seguono sono alcune osservazioni sul volontariato, a volte "pesanti", ma sempre stimolanti, fatte dallo scrittore Edoardo Albinati, insegnante a Rebibbia, e poi, sempre sulla funzione del volontariato, una serie di domande, dubbi, problemi, nati da una discussione nella redazione di Ristretti Orizzonti a cui partecipava anche un "vecchio" (quanto ad anni di volontariato in carcere) volontario come Fra’ Beppe. Non abbiamo voluto dare nessun ordine, nessuna sistemazione a questi appunti, perché non abbiamo le idee chiare, ma solo questa rabbia per l’impotenza che troppe volte ci frena, questa voglia di contare di più.

Insomma, siamo circa 8.000-9.000 noi volontari penitenziari, possibile che non riusciamo a dire di più su indulto, salute, affetti, lavoro, suicidi in carcere?

Da un intervento di Edoardo Albinati, scrittore e insegnante a Rebibbia

 

Il mio bene è più importante del tuo bene

 

Quando si parla di problemi della comunicazione interni al mondo del volontariato, direi che forse uno di questi problemi è che spesso i volontari non hanno una chiara percezione di quello che sono, non sanno forse veramente nemmeno come vengono visti dai detenuti o come vengono visti dagli altri operatori, che nel carcere ci lavorano.

Il carcere è un luogo composito, ormai. Dentro il carcere vivono e lavorano persone che hanno finalità molto diverse tra loro: psicologi, agenti, assistenti sociali, dottori, insegnanti e volontari. Ecco, ciascuna di queste attività ha una diversa proprietà, però, in qualche modo, ciascuna di queste attività sembrerebbe essere rappresentata dal suo stesso nome: io sono un insegnante, insegno; l’agente, agisce; il direttore, dirige; il volontario, vuole. Cioè, nel termine stesso, nell’etimologia, manca l’oggetto di questa azione. Che cosa vuole il volontario? Il volontario ha una volontà, ma di cosa, effettivamente? Vuole il miglioramento delle cose, vuole delle cose positive, vuole il bene, ma le modalità di questo aiuto, le modalità di questo intervento, finiscono spesso non soltanto per non coincidere tra loro e non andare nella stessa direzione, ma addirittura per contraddirsi ed essere, in qualche modo, nemiche.

Chiunque viva veramente il carcere, vorrei che avesse la sincerità di riconoscere come nel carcere si formino dei clan, delle cricche, dei gruppi, dei sottogruppi, delle piccole e grandi società, che per i detenuti possono essere anche quelle derivanti dalle attività criminali precedenti all’ingresso nel carcere, ma in grande misura sono create ex novo all’interno del carcere.

Questo io ho verificato, con enorme stupore ma anche, in un certo senso, come una sorta di inevitabile necessità umana di riorganizzarsi, in mancanza di un luogo sociale come la famiglia o come il gruppo che uno poteva avere all’esterno della galera.

Di questi gruppi posso dire che, per esempio, quello della scuola e quello del volontariato talvolta entrano in conflitto tra loro, sono concorrenti. Ora, mentre le cricche, i clan, sono concorrenti per il male, o per il potere, ecco che paradossalmente invece nelle attività, diciamo così, "positive", svolte all’interno del carcere, c’è una concorrenza per il bene. Il mio bene è più importante del tuo bene. La mia utilità, la mia funzione, è più importante della tua.

Questo non deve scandalizzare, né stupire, né farci stracciare le vesti: è un dato di fatto, che è inerente alla natura stessa della disposizione che noi abbiamo a compiere il bene. Cioè, il bene non è affatto semplice da compiere.

 

I detenuti non sono necessariamente e soltanto delle vittime

 

Mentre i volontari, chiaramente, in quasi tutte le situazioni operano con soggetti come i vecchi, i malati, gli orfani, che sono oggettivamente deboli, indifesi, parte lesa della società, parte povera della società, i detenuti (ed i detenuti per primi rifiutano questa visione) non sono necessariamente e soltanto delle vittime, non sono affatto e necessariamente persone deboli nel senso classico in cui si usa questo termine a proposito di altre categorie.

E, dunque, anche questa spinta positiva di "aiuto" deve essere letta con il detenuto in maniera completamente diversa da come si farebbe semplicemente aiutando l’anziano, il malato terminale, il bambino orfano, cioè soggetti che sono e sono sempre stati soggetti di disagio, non di disagio di una situazione temporanea ma di un disagio permanente. Ecco, io ho notato, nei volontari più sensibili che ho conosciuto, un grosso tormento legato a questa difficoltà di capire quale intervento veramente sia possibile con delle persone, che non necessariamente sono persone deboli e anzi, in molti casi, sono persone forti, sono persone molto forti, sono persone più forti di te.

I detenuti molto spesso sono più forti di noi, lo sono veramente: è una sensazione, prima di tutto, fisica, e anche una sensazione morale. È una sensazione anche piacevole aver a che fare con delle persone che a volte sono dotate di una grande forza vitale, di grande forza fisica, di grande forza mentale, di grande magnetismo. E tutto questo, però, come in tutti i rapporti umani, ci costringe ad avere dei rapporti che non sono quelli della persona che aiuta il disagiato. Qui può avvenire il contrario, spesso i detenuti, ridendo, mi dicono: "I volontari succede anche che siamo noi ad aiutarli, perché vengono qui con tutti i loro problemi. Ci parlano del marito, della moglie, dei figli, sono angosciatissimi e a volte siamo noi a fornire loro sostegno, perché sono persone che possono stare peggio di noi".

 

Agire con una coscienza forte del limite della propria azione

 

Un’ultima cosa, e questo ci unisce tutti, volontari, insegnanti, operatori, educatori, etc., è la coscienza del limite, quella che io potrei chiamare la catastrofe del risultato. Noi lavoriamo (e dobbiamo lavorare) con la piena coscienza che il 90% di ciò che facciamo è perduto, di partenza, è vano. Si soffre poi troppo a vedere la catastrofe del proprio lavoro nei risultati pratici. Si soffre quando c’è il detenuto recidivo, si soffre nel vedere il detenuto che abbandona la scuola, che abbandona le iniziative che vengono fatte dai volontari, ma secondo me questa forma di, come dire, coscienza della limitatezza dei risultati è qualcosa di diverso da una coscienza infelice o sconfitta, dovrebbe essere un motivo di orgoglio, cioè io so benissimo che lavoro in una situazione nella quale la gran parte di ciò che faccio è inutile. E non me ne vergogno, non mi fa nessun problema, per me va bene. Del resto, questo è vero anche nell’insegnamento fuori del carcere. Sai benissimo che il 90% di ciò che fai, di ciò che insegni, sarà dimenticato.

Tempo fa vado al lavoro e mi dicono: "Ma hai visto Bartoletti?". Bartoletti era uno dei migliori studenti che noi abbiamo avuto. Era un ragazzo bravissimo, particolarmente versato per i computer, e poi una persona che sembrava realmente, non so se trasformata dalla detenzione e quindi migliorata, per ciò che può voler dire il termine "migliorare", o se fosse di natura così gentile e cortese, umile, disposto verso gli altri. Bartoletti è morto, a Roma, durante una rapina, dopo aver sequestrato un autobus per la fuga e poi aver preso un ostaggio e aver ingaggiato un conflitto a fuoco con la polizia, nel quale è stato ucciso.

Allora, delle mie colleghe hanno pianto per questo, piangevano per Bartoletti, ma piangevano anche per se stesse pensando: "Dunque, quei 3 – 4 anni con Bartoletti non erano nulla". Ecco, noi dobbiamo reagire anche a questa sensazione di scacco. Io in quel caso consolavo, mi toccava consolare e i miei argomenti erano che dovevamo metterlo in conto, che questo era normale, che Bartoletti non era un nostro disastro, era un disastro della vita, della vita di Bartoletti prima di tutto.

Quindi, io credo in questa coscienza forte del limite della propria azione, come dire della "macularità" della propria azione. Noi non otteniamo mai risultati compatti, otteniamo delle macchie. La mia metafora preferita, che ho citato più volte, da un libro di Gombrovich, è questa: che noi possiamo intervenire in alcuni punti, sanare alcune piaghe, ma non potremo salvare il corpo intero. Il corpo intero sociale non si salva, non lo salvano i volontari, non lo salvano gli individui, però in questa macularità, in questa coscienza della finitezza di ciò che si fa io credo che ci sia il margine per il lavoro del volontario.

Da una discussione nella redazione di Ristretti Orizzonti

 

Un volontariato "frantumato" e la voglia di "incollare" i tanti pezzi divisi

 

 

Ornella Favero (volontaria "esterna"): Il primo problema è che le associazioni devono in qualche modo mettersi insieme su degli obiettivi importanti, se no veramente non c’è nessuna possibilità di cambiare qualcosa nelle carceri.

Abbiamo visto in questi anni dei progetti inguardabili, dei doppioni, progetti nei quali il rapporto costi-benefici è pauroso. Il volontariato dovrebbe essere più attento sul modo di fare i progetti e sull’utilità dei progetti stessi. Prendiamo le attività cosiddette "ricreative": si possono fare, sono importanti, ma con la consapevolezza che bisogna guardare oltre, non a "svagare" i detenuti ma a dare loro anche qualche prospettiva di una vita più dignitosa in carcere e fuori, nel dopo pena.

Ci sono problemi gravissimi, prendiamo solo la questione della sanità: è stata bloccata la riforma, non si sa chi se ne occupa, è un disastro. Ma c’è un volontariato talmente frantumato, dove ognuno si fa il suo lavorettino, che poi succede inevitabilmente che nessuno dice niente sullo sciopero dei detenuti, sull’amnistia e sull’indulto, sulla salute, sui suicidi… ma che forza vuoi avere, se non riesci a metterti assieme?

 

Fra’ Beppe (volontario "esterno"): Ci sono molti ai quali fa certamente più comodo il volontario singolo, perché è più debole e controllabile, mentre le associazioni creano una forza. Io, se devo fare una denuncia di qualcosa che non va, non la faccio più come singolo, ma come associazione, che vuol dire una fetta di società esterna. Quando sostengo che "dovrebbe scomparire il volontariato singolo", è perché io sono su questa linea, e perché di volontariato singolo se ne trova anche troppo; anch’io entro in qualche istituto come singolo, ma ho alle spalle l’associazione, non sono mai solo, e questo qualifica il mio lavoro.

 

Francesco Morelli (volontario detenuto): Mi sembra che siamo tutti abbastanza d’accordo su questa necessità di unire le forze. Ma poi si riesce, quando ci sono delle associazioni, a tenerle assieme? Questo è il problema grosso, che ho constatato più volte. Capita anche che il singolo volontario possa avere un interesse ad associarsi, appunto perché così ha maggiore forza; ma due associazioni, entrambe già abbastanza strutturate, magari operano in maniera diversa, o addirittura hanno finalità diverse, e così fanno fatica a trovare forme di collaborazione.

Il Coordinamento Nazionale Volontariato Giustizia, per esempio, è stato un passo avanti perché ha dato visibilità e riconoscimento al volontariato penitenziario, ha messo insieme tante realtà, anche solide, ma nel momento di muoversi assieme su di un progetto manca sempre la spinta comune e diventa tutto faticoso e dispersivo.

 

Ornella Favero: Il limite più pesante che io vedo è proprio l’assoluta incapacità di fissare degli obiettivi comuni. Prendiamo tre temi: salute, lavoro ed affettività. Su questi devi essere presente di più, anche le piccole associazioni devono avere la percezione che sono temi importanti… non è possibile che uno faccia il teatro, quell’altro lo spettacolo, l’altro ancora si occupi della biancheria e dei vestiti, tutte cose utili e importanti, ma poi nessuno, o quasi, senta il bisogno di guardarsi intorno e ricordarsi che si trova in un carcere, dove la gente si suicida quindici volte di più che fuori e spesso si aspetta mesi per avere una diagnosi seria di patologie anche gravissime.

 

Il volontariato rischia di essere uno strumento di controllo?

 

Nicola Sansonna (volontario detenuto): Qualcuno di noi sostiene che il volontariato sia uno strumento di controllo, per non far esplodere le grosse problematiche del carcere: e in certi casi questo rischio è reale, perché con il volontariato si sopperisce spesso alle carenze dell’istituzione, si tappano i suoi buchi. E questo qualcuno dice allora: "Facciamole venire fuori, queste carenze, invece di coprirle, che esplodano, che siano visibili a tutti".

 

Fra’ Beppe: Io mi rifaccio a don Ciotti, che sostiene che il volontariato non dovrebbe nemmeno esistere, se tutti facessero il loro dovere. Allora, lo spirito che dobbiamo avere noi è questo: io faccio volontariato, però non devo fare un volontariato per sostituirmi a chi ha il dovere di fare un lavoro, devo soltanto collaborare. Un esempio: se va in porto il Centro di ascolto di Verona, che è un progetto partito da noi volontari, il Comune deve mettere una persona pagata, preparata, a lavorare al nostro fianco. Una persona pagata che faccia le sue otto ore, dopo di che le otto ore le posso fare anch’io, come volontario, ma è un’altra cosa…

Bisogna avere questo modo di agire: sì, fare noi, però stando attenti a non sostituire chi di dovere, perché ho visto alcune strutture, anche carcerarie, dove gli fa comodo la nostra presenza, mentre in realtà toccherebbe fare certi interventi non a noi, ma al carcere, al Comune, anche alla Chiesa… che ha la sua fetta di responsabilità.

 

Francesco Morelli: Volevo dire una cosa rispetto alla scelta di non intervenire, a volte, perché il problema emerga in tutta la sua gravità. Noi ci siamo già confrontati con questa questione, anche in questo carcere, ma l’esempio più eclatante per me è quello dei Centri di Permanenza Temporanea per gli immigrati, dove una parte dell’associazionismo non vuole entrare, perché crede che in quella maniera legittimerebbe l’esistenza di queste strutture e quindi delega tutto alla Croce Rossa. La mia idea personale, invece, è che il volontariato deve sempre agire quando c’è un bisogno. Magari essere critico nei confronti dell’istituzione, dove bisogna essere critici, ma deve comunque esserci. Dire "No, io non ci vado perché altrimenti contribuisco a contenere il problema, che invece deve esplodere", mi sembra un lavarsene le mani.

 

Gabriella Brugliera (volontaria "esterna"): C’è un concetto vecchio, molto diffuso soprattutto nella sinistra negli anni 70, che è quello secondo il quale è lo Stato che deve fare… noi non dobbiamo assolutamente dare una mano a nessuno sostituendoci allo Stato.

In realtà ci sono indagini che parlano chiaro: se non ci fosse il volontariato e lo Stato dovesse pagare tutte le ore necessarie, a tutti gli operatori che servono per le attività di sostegno alle persone disagiate, lo Stato andrebbe in fallimento.

 

Ornella Favero: Quel che è certo è che nessuno ti pagherà mai per fare informazione dal carcere, perché, tra l’altro, meno informazione c’è e in certi casi più gli va bene a molti, per cui o ti organizzi o niente, su questo non c’è dubbio. Ma dal punto di vista del volontariato c’è anche un altro rischio, quello di farsi ingabbiare nel ruolo di "tenerli buoni, i detenuti, e attutire i conflitti".

Io posso anche dire che mi va bene che la gente impegnata in attività utili crei meno conflitti, ma mi va bene perché vuol dire che questa gente sta meglio, che fa cose utili a sé e agli altri, probabilmente. Però deve essere chiaro che è ben diverso lavorare per la sicurezza, o invece essere anche, indirettamente, fonte di sicurezza per il fatto che le persone impegnate, rispetto alle persone "in branda", sono persone responsabili: noi dobbiamo avere un concetto di sicurezza, dentro e fuori, che parta da una diretta responsabilizzazione delle persone, e non dall’idea di "tenerle buone".

 

La capacità, o l’incapacità, del volontariato di coinvolgere il territorio

 

Francesco Morelli: Abbiamo parlato del rapporto tra il volontariato e gli utenti e tra il volontariato e l’istituzione. Ma è nel rapporto con il territorio che mi sembra che ci sia un altro fronte molto aperto: la sensibilizzazione della gente. Il volontariato fa abbastanza su questo terreno? Fuori, ho partecipato a diversi convegni sul carcere e quasi sempre ci ho trovato solo gli addetti ai lavori, difficilmente le persone che non hanno niente a che fare con il carcere vengono a sentire le cose del carcere. Bisognerebbe invece cercare di andare nei luoghi dove il tema della sicurezza preoccupa, che possono essere i quartieri, le scuole, e puntare a creare un clima di accoglienza, di minor paura.

 

Andare sul territorio significa anche attirare al volontariato le professioni, mentre in Italia sono pochissime le esperienze di volontari con qualifiche precise. Una di queste poche è l’associazione Bambini senza sbarre, che coinvolge psicologi, educatori, cioè professionisti che sono disponibili a dare ore del loro tempo e competenze. Anche questo sarebbe molto importante: penso a quel progetto che c’è in Francia, il Relais enfants parents, che è una rete nazionale che assiste esclusivamente i figli dei detenuti, ed è fatta prevalentemente di persone che hanno una preparazione in quel campo o che, perlomeno, se la vogliono fare.

Il volontariato in Italia ha poca capacità di attirare queste competenze, perché è ancora un volontariato troppo assistenziale, e anche questo è un tema su cui c’è da lavorare.

 

Il carcere in silenzio per l’indulto Ristretti e costretti, ma liberi di esistere, di pensare, di difendere le cause in cui crediamo

 

Sull’indulto si è già scritto e parlato anche troppo, alimentando continue illusioni e delusioni nei detenuti. A Piacenza, nel carcere delle Novate, un gruppo di detenuti, appartenenti alla redazione del giornale "La ricerca", hanno deciso di aderire allo sciopero del silenzio proposto da Adriano Sofri, e di dedicare il loro tempo senza voci a scrivere delle riflessioni sull’indulto che non c’è e chissà se ci sarà. Eccone alcune qui di seguito.

 

La redazione di Ristretti Orizzonti

Carcere - silenzio

 

Rubare quindici minuti alle nostre due ore settimanali per affermare il diritto a essere persone "ristrette" e costrette ma libere di esistere, di pensare, di difendere le cause in cui crediamo; quindici minuti di silenzio assoluto occupati a raccogliere qualche pensiero da trascrivere su un foglio. L’attesa di un indulto che forse non arriverà mai, il timore di restare delusi e insieme ancora il rischio di sperare. Il pensiero rivolto alle persone più care; stima e solidarietà in viaggio verso Pisa dove Adriano Sofri combatte la sua coraggiosa battaglia.

 

La redazione detenuta de "Le Novate" di Piacenza

 

Enrico: Riguardo alla mera contabilità, se il Governo concedesse l’indulto, l’errore, che mi ha portato tra queste mura, avrebbe un costo dimezzato. Non ho particolari legami sentimentali perciò, una volta riguadagnata la libertà che sarebbe in scadenza nel giugno 2003, penso che prenderei un periodo di tempo per riflettere. I due anni e mezzo espiati li ho vissuti pensando continuamente alle decisioni e alle scelte stupide prese in passato. E la riflessione in libertà riguarderebbe unicamente come investire il restante tempo di vita. Me ne andrei con Daisy, la mia cagnona lupa, sulla costa francese in una villetta di amici a trascorrervi un mese. Un mese per capire cosa è accaduto, un mese per sapere a che punto sono.

Un mese soprattutto per dimenticare qualche angheria materiale e psicologica subita durante i due anni e mezzo. Escludo che vogliano venire con me i miei due figli. Hanno 30 e 25 anni, interessi loro e penso che, con la presunzione della gioventù, per ora guardino a me come a un genitore dal quale, visti i precedenti, hanno poco da apprendere!

Indrit N.: Sono seduto e sto in silenzio per 15 minuti come una protesta da fare per l’indulto. Sono chiuso in carcere e dal giorno in cui sono entrato a me sembra che la mia vita si è fermata, il giorno che esco comincia di nuovo.

Se domani esce l’indulto la mia vita cambierà da persona chiusa e senza libertà a persona libera e con una bella vita davanti.

Indulto per noi che siamo prigionieri è come la parola più grande, perché la vita cambierà al 100% come per una persona che è cieca e con la parola indulto riesce a vedere, ed è certo che il suo mondo da buio in luce cambierà. Così siamo anche noi.

Speriamo che arrivi quel giorno anche per noi. AMEN

Indulto per qualcuno non dirà niente

Indulto per qualcuno dirà poco

Ma per i prigionieri "indulto" è "libertà".

Nico: In questi ultimi giorni si sta parlando molto di indulto e amnistia. Speriamo che questa voce non sia come sempre dimenticata nel ballatoio. L’indulto per me sarebbe come una grazia del Signore; sarebbe a dire che tra meno di un anno potrei finalmente riabbracciare i miei cari; questa rimane pur sempre una speranza che difficilmente morirà.

Daniele: Il mio pensiero per un indulto va alla mia famiglia e soprattutto a mia sorella, che non vedo da sette anni e, cioè, da quando ne aveva dieci e, nonostante che l’abbia vista in foto, non mi ricordo mai com’è oggi; questa è la cosa che mi fa soffrire di più e spero che con l’indulto abbia la possibilità di rivederla prima del previsto. A lei e al resto dei miei cari perché ogni giorno in più passato qui dentro è una sofferenza non solo per me. Credo di essere cambiato in questi anni e quello che sto facendo lo ritengo superfluo.

Luciano: Quando penso a un provvedimento di clemenza da parte dello Stato (tipo l’indulto), la prima cosa che mi viene in mente è mia figlia di otto anni, perché potrei tornare al più presto da lei dopo tre anni e mezzo che manco da casa e ciò la renderebbe felice.

Giovanni: La parola "indulto" porta alla mia mente mille pensieri… mille fantasie… mille paure… ma, soprattutto tanta felicità. Spero non sia l’ennesima illusione.

Mirko: La situazione delle carceri è diventata insostenibile e, per questo motivo, noi stiamo facendo in modo simbolico uno sciopero del silenzio. Nei telegiornali si parla di indulto e amnistia e così in noi si accendono tante speranze e anche tanti sogni. Quello principale di libertà. Io personalmente spero tanto che ciò avvenga, anche perché sono detenuto da quattro anni e mezzo e mi mancano tante cose e persone. A volte penso anche a delle stupidaggini, tra virgolette, come, per esempio, andare a mangiare una pizza con gli amici o con i miei cari.

Cosa che, quando ero fuori, non pensavo fosse così importante. Ora le cose sono cambiate perché, durante la detenzione, ho avuto modo di riflettere. Sono quasi vicino ad andare in permesso- premio e mi sto preparando ad assaporare tutti i momenti che passerò. Uno di questi a riabbracciare i miei cari che non vedo mai, cioè da quattro anni e mezzo, cioè i miei nipoti. Ha ragione mio padre quando dice: "Meglio 100 lire in tasca e la libertà!"

Benedetto: Da 13 anni aspetto che il governo e il popolo siano indulgenti nei confronti dei detenuti. La mia vita cambierebbe perché i progetti che ora sono a lungo termine (3-4 anni) potrei metterli subito in atto iniziando un’attività lavorativa con le mie figlie, concentrando l’entusiasmo e la volontà che ci uniscono. In questo periodo particolare della mia vita sento che potrei dare molto a me stesso e ad altri.

Mario: Si parla tanto di "indulto" ed è senz’altro una cosa stupenda sapere che arriva inaspettatamente, per alcuni, la possibilità di uscire subito, per altri di farlo presto; ma, per quanto riguarda quelli come me che hanno una pena molto lunga? Sì, certo è consolante sapere che è stata in qualche modo accorciata, ma non riesco ugualmente a condividere l’entusiasmo che mi circonda; sono tuttavia convinto che, aldilà di ciò che il termine "indulto" possa significare per un detenuto, uno Stato, benché ne sia costretto in parte date le circostanze e la tensione con cui vive il rapporto con i vari istituti di pena in tutta Italia, che conceda ai detenuti uno sconto di pena significa che non esiste solo come istituzione pronta a condannare e a rinchiudere ma anche a porgere una mano, se occorre! Un indulto può significare che siamo ancora valorizzati e considerati come esseri umani e non solo come persone messe da parte… quasi con disprezzo!

Toto: A mio parere tutte le manifestazioni che si fanno nelle carceri d’Italia per ottenere il beneficio dell’amnistia o del condono sono inutili. Questo perché non sono un nostro diritto; ci sono ben altre motivazioni per lo sciopero, che sono ben più valide e che sono già leggi dello Stato e non vengono mai applicate, come la legge Gozzini e la legge Simeone, e già con queste due leggi si potrebbe togliere il sovraffollamento nelle carceri. Dico questo perché, in base alla mia esperienza di ben 17 anni trascorsi nelle varie patrie galere, di scioperi ne ho visti e fatti tanti e alla fine chi ci ha rimesso sempre siamo solo noi detenuti. Noi per lo Stato siamo solo dei numeri!

Dopo venti anni di galera due anni di isolamento diurno

"Due anni cosi sono tanti! Speriamo di non impazzire prima"

 

di Mario Salvati

 

L’isolamento diurno è una pena accessoria all’ergastolo. La testimonianza di Mario, ergastolano, fa ben capire quanto sia assurdo, dopo tanti anni di galera e un difficile percorso per ricostruirsi una vita, dover scontare due anni in isolamento, soli a marcire in carcere senza scambiare una parola con nessuno, senza lavorare, senza andare a messa.

 

Sono detenuto dal 1983, era un periodo molto caldo a quei tempi a Milano, non per la temperatura alta, ma per gli scontri a fuoco che avvenivano tra bande rivali di Milano e periferia.

Per certi ragazzi che vivevano d’espedienti, e che facevano parte di qualche "batteria" (banda, nel linguaggio della malavita), non c’erano molte alternative: o morivi o finivi in galera per tanto tempo.

In quegli anni, quando io ero fuori (non fuori di testa… ma in libertà), per fare una telefonata dovevi riempirti le tasche di gettoni telefonici o monete da 100 lire, e come utilitarie c’erano ancora in giro le 127 della Fiat, sono passati più di 20 anni e il mondo è cambiato completamente: telefonini cellulari, macchine a guida satellitare, internet, tutto è cambiato, la società, l’Europa, l’assetto mondiale, anche le persone cambiano.

 

Il vivere di una persona libera non riesco più neppure ad immaginarlo

 

Sono in gattabuia da quel periodo, senza mai uscire, neanche per assistere a nascite o morte dei miei cari. È la punizione, per i danni che ho fatto, quando avevo poco più di 25 anni. Li sto pagando, e a che prezzo. Vent’anni sono tantissimi, se qualcuno mi chiede com’è la vita e la società fuori, non saprei neanche rispondergli, ormai ho dimenticato tutto. Il vivere di una persona libera non riesco più neppure ad immaginarlo.

Quello che però posso fare bene è spiegare com’è la vita di un detenuto. Tutto è segnato da tempi ben precisi che raramente ammettono errori. Una sorta di automatismo continuo. Alle nove l’apertura dei cancelli, si può andare all’aria, che poi sono degli scatoloni, all’incirca 20m x 10, nei quali si cammina avanti e indietro. Sono sicuro che se qualcuno vede dal di fuori queste strane ed insensate lunghe passeggiate, pensa certamente che siamo diventati matti: fare su e giù in quei piccoli spazi, in quelle vasche di cemento, dove alcuni fanno anche ginnastica, altri corrono in cerchio, ricorda molto le attività concesse ai criceti nelle loro gabbiette. Naturalmente sulla carta ci sono campo e palestra, ma quando questi ti vengono concessi è quasi festa nazionale.

 

Se vuoi un po’ "curarti" la mente devi rinunciare forzatamente a curare il corpo

 

Molti poi rinunciano a questa delizia, necessaria per mantenere un corretto equilibrio psicofisico, per frequentare dei corsi di formazione o la scuola. Sì, perché le attività "culturali" avvengono contemporaneamente all’ora d’aria, dunque se vuoi un po’ "curarti" la mente devi rinunciare forzatamente a curare il corpo!

In ogni istituto, dove sono stato trasferito, ho sempre frequentato dei corsi, e dove c’era la possibilità, ho lavorato. Quindi il mio comportamento è da persona reinserita, e oggi forse potrei anche uscire, perché, dopo 20 anni di carcere, ho quasi pagato il mio debito con la giustizia. Sì, anche se sono un ergastolano, presto potrei uscire secondo i termini di legge. Ma questo non è possibile perché, anche se ho mantenuto sempre un ottimo comportamento, ho in sentenza due anni di isolamento diurno: ma non bastava solo l’ergastolo? Pare di no! Era proprio necessario che, dopo aver scontato una vita di galera, mi ritrovassi con due lunghissimi anni di isolamento diurno? Ma a che serve? Sono sempre in carcere, sono detenuto, ma isolarmi credo non sia utile né a me né a qualcun altro. Ora per due anni non potrò più parlare con nessuno, frequentare i corsi, o lavorare. Un lavoro che ti consenta almeno di acquistare le sigarette. Non potrò più neppure andare a messa. Due anni in questo modo, non so se ce la farò, li vedo molto pesanti. Sono una persona socievole, abituata a scambiare due parole con tutti: dire e ricevere una parola di conforto dagli altri, confrontarmi con loro è per me importante. Non potrò più farlo.

 

E’ passato un altro giorno, e si avvicina sempre di più il momento dell’isolamento

 

Questa condanna mi fa perdere ogni speranza, e rischia anche di andare perso tutto il lavoro fatto in questi anni per crearmi il desiderio prima, e la possibilità poi, di un futuro migliore e da persona onesta. Due anni così sono tanti! Speriamo di non impazzire prima.

La sera, quando mi sdraiavo sulla branda, mi dicevo: è passato un altro giorno e il mio fine pena è più vicino. Invece adesso è diverso, mi dico: è passato un altro giorno, e si avvicina sempre di più il momento dell’isolamento, quindi non sono neppure più contento che passano i giorni, sembrerà strano per un detenuto, che sta sempre a contare i giorni che lo separano dal fine pena, ma per me in questo periodo è cosi.

Sarà pesante anche per i miei famigliari che, sapendomi in questa situazione, vivranno anche loro questo periodo molto male.

Sono dentro da tanto tempo, e la lunga detenzione mi è servita da lezione. Quest’inutile isolamento non mi servirà certo ad addolcire l’animo. Chissà se i parenti delle vittime approverebbero oggi, a oltre venti anni di distanza, una punizione di così assurda inutilità e crudeltà. E’ pur vero che il dolore non si cancella con il tempo, ma in questo isolamento, in questa misura punitiva, non c’è risarcimento, né nei confronti delle famiglie delle vittime, né nei confronti della giustizia. È inutile nascondersi dietro un dito, in questi casi si va oltre la logica della giustizia e si trova piuttosto, subdola e vergognosamente nascosta, la vendetta.

Cambiano gli uomini, forse, speriamo, potrà cambiare anche una misura di legge, non certamente tra le più illuminate.

Gli orrori e l’inutilità dell’isolamento raccontati
da uno che questa sofferenza la conosce bene

 

di Marino Occhipinti

 

 

Mi è capitato tra le mani un articolo che Mario Salvati, detenuto a Tolmezzo, ha inviato in redazione, nel quale descrive le sue prospettive di ergastolano, o meglio dei due anni di isolamento diurno che deve scontare dopo i venti già trascorsi in galera.

Mario si lamenta, a mio parere giustamente, del fatto che i due anni di isolamento interromperanno quel percorso risocializzante e rieducativo faticosamente intrapreso in questi due decenni trascorsi nelle patrie galere.

 

Di isolamento si può parlare con qualche ironia?

 

In sostanza l’isolamento diurno non è altro che una pena accessoria, inflitta a chi ha commesso un reato per il quale la pena dell’ergastolo è troppo poco. In termini terra terra si potrebbe tradurre così: "Se in Italia ci fosse la pena di morte, ti avremmo già giustiziato".

Se Mario fosse ancora qui gli direi con un po’ di ironia di non essere così drastico: preso dal pessimismo non si rende conto di essere un baciato dalla fortuna.

Ma come? Pur di stare in cella singola c’è chi fa carte false, e tu non apprezzi le attenzioni che ti vengono rivolte. Le carceri sono al collasso, in alcuni istituti ci sono celle di 10 metri quadri occupate da otto-nove e anche più persone, stipate in letti a castello a tre piani (oltre non è possibile: il quarto detenuto bisognerebbe incastrarlo nel soffitto) e tu…

Pensa: due anni di tranquille passeggiate nella tua bella vasca di cemento armato, nella solitudine più totale, senza nessuno che ti stressa con le solite lamentele da bar, pardon, da galera; la doccia da solo, senza file e il rischio di trovare l’acqua gelida d’inverno o bollente d’estate; mai una socialità, tanto i discorsi sono quelli di sempre, si finisce con l’annoiarsi. Dulcis in fundo eviterai persino di lavorare. Vabbe’, dovrai rinunciare al campo e alla palestra: ma dopo vent’anni di gattabuia, come l’hai definita tu, dovresti essere desideroso di un po’ di immobilità, che diamine!

 

Ma forse è il caso di parlarne più seriamente

 

Mario l’ho conosciuto qui a Padova, e lo riconosco pienamente in ciò che ha scritto nella sua lettera: gioviale, sempre pronto a distribuire parole di conforto, iperattivo.

Lo capisco, comprendo perfettamente le sue ansie ed i timori, dettati prevalentemente dall’assurdità di una misura inutile, anzi dannosa. Parlo con cognizione di causa perché l’isolamento diurno, anche se era "soltanto" di 9 mesi, l’ho terminato nel febbraio del 2001. Ho provato le sue stesse sensazioni, mi sono sentito come un naufrago che, dopo aver faticosamente remato per anni in un mare tempestoso e pieno di incognite, con poche speranze e un futuro incerto, molto incerto, tocca terra e si rende conto di essere tornato… al punto di partenza!

Un giro immenso ed una fatica inutile per ritrovarsi al punto di partenza. Pensi che tutto sia stato vano e che, visto il risultato, non valga nemmeno la pena di riprovarci. Ma nelle cose, per riuscire, bisogna crederci fino in fondo.

 

E allora bisogna andare oltre l’idea di una pena che sia solo punitiva

 

La pena deve tendere alla rieducazione del condannato, così recita più o meno l’art. 27 della Costituzione. È difficile negare che un’altra caratteristica è quella di dissuadere la commissione di altri crimini. Le pene cosiddette esemplari ne sono la lampante ed evidente dimostrazione. Nulla da obiettare, ci mancherebbe, però mi chiedo se veramente la soluzione del problema stia nell’infliggere la condanna dell’ergastolo, magari corredata da qualche annetto di isolamento e, come succede in molti casi, non preoccuparsi seriamente dell’espiazione della pena.

Torno indietro di qualche anno per raccontare il mio periodo di isolamento giudiziario, non per amore biografico, ma piuttosto per evidenziare alcune assurdità: quando sono stato arrestato, nel 1994, sono stato rinchiuso in una cella d’isolamento nella quale c’era soltanto lo spazio per la branda ed una sedia. Oddio, spazio, diciamo che la sedia si incastrava a forza tra il muro ed il letto soltanto perché era in plastica morbida, altrimenti ci sarebbe stato posto soltanto per il letto.

Non c’era alcuna finestra, ma fortunatamente l’abile geometra che aveva progettato quella fortezza aveva previsto, come sistema di chiusura, il solo cancello e non anche il "blindato", altrimenti l’unico modo per respirare sarebbero state… le bombole dell’ossigeno.

Il bagno? Non rispettava esattamente i requisiti previsti nell’attuale regolamento penitenziario, altro che acqua calda e doccia in cella. Lo rivedo esattamente come allora: non ricordo la marca dell’azienda produttrice, ma era molto capiente, rosso con delle scritte bianche, e lasciava dei maledetti segni quando mi ci sedevo sopra. C’erano ancora le tracce della pittura murale che aveva contenuto. Il sistema era antiquato ma tutto sommato comodo: ad ogni richiesta quel secchio mi veniva letteralmente gettato in cella, e dopo averlo utilizzato dovevo solamente rispingerlo fuori, fino alla successiva necessità fisiologica.

Naturalmente ero nel più totale isolamento: avevo la censura della posta, il divieto di vedere la TV e di ascoltare la radio, di leggere i quotidiani (ma mi veniva negato qualsiasi libro, anche vecchio di decenni: forse qualche veggente poteva aver scritto in anticipo della mia vicenda e suggerirmi elementi utili ad inquinare le prove?) e la vigilanza era rigorosamente a vista, effettuata da non meno di 3 agenti per turno. La notte sembrava il momento ideale per le perquisizioni: non so cosa ci fosse da cercare, dal momento che ero guardato a vista e senza la possibilità di avere alcunché, neppure lo spazzolino da denti (e dove mi sarei sciacquato la bocca…?), ma tant’era.

Dopo un po’ di tempo fui autorizzato ad usare un bagno che si trovava in fondo al corridoio del reparto isolamento. Nonostante fosse un locale cieco, senza alcuna finestra, gli agenti avevano la precisa disposizione di guardarmi a vista in qualsiasi momento e, siccome la turca nasconde ben poco, il loro imbarazzo era più evidente del mio.

Tutto questo andò avanti per un buon periodo, ma non me ne poteva fregar di meno, perché avevo davanti un muro che mi ero costruito dentro per sopravvivere, e non era certamente quel regime di vita che poteva spaventarmi.

 

Stranamente, mi viene da dire, i problemi cominciarono col passare degli anni, quando quel muro iniziò a sgretolarsi

 

Sebbene nel 1994 le mie condizioni carcerarie fossero di gran lunga peggiori rispetto a quelle odierne, quella situazione mi pareva più facile da sopportare.

Vivevo una condizione psicologica e morale diversa, ero ancora lontano da quella serie di delicate fasi che, se e quando arrivano, fanno affiorare il rimorso e sentire sulla coscienza tutto il peso dei gesti sbagliati, quei cambi di prospettiva che ti fanno capire che l’ergastolo e l’isolamento non sono quelli inflitti dai giudici, ma ciò che si sente nel proprio cuore.

Io so che i motivi della mia detenzione non dipendono dai giudici che mi hanno inflitto la condanna o dall’istituzione carceraria che mi tiene rinchiuso, ma sono una diretta e logica conseguenza del mio comportamento. Ma so anche che far scontare due anni di isolamento dopo vent’anni di galera è un’inutile tortura, che spesso interrompe un percorso di presa di coscienza, importante e doloroso. Un percorso che deve avvenire a contatto con gli altri, in una situazione di "normalità carceraria" che non ti incattivisca inutilmente, ma ti faccia sentire ancora di più il peso di scelte sbagliate.

Solo una pena che riesca ad innescare quei processi di cambiamento capaci di convertire anche i cuori apparentemente più duri, una pena che sappia veramente cambiare le persone, ma cambiare dentro, è il modo migliore per rendere vera giustizia alle vittime dei reati.

Conosco Mario, conosco Marino e conosco anche l’isolamento

 

di Graziano Scialpi

 

Per cui, dopo aver letto ciò che hanno scritto, mi sono venute spontanee alcune riflessioni. La prima riflessione è che di fronte all’isolamento persone diverse reagiscono in modi diversi e che la stessa persona può reagire diversamente in diversi momenti della sua vita. Personalmente non sono stato condannato alla pena accessoria dell’isolamento, però, come Marino, ho trascorso i primi undici mesi della mia carcerazione in isolamento "giudiziario". Devo dire che, rispetto a lui, sono stato un po’ più fortunato. Il carcere che mi ospitava era stato appena ristrutturato e, anche se non avevo la Tv, anche se dovevo dormire solo con una coperta senza le lenzuola, anche se dovevo tenere i vestiti su un foglio di giornale steso sul pavimento (lo spazio per la sedia c’era, ma non c’era la sedia), anche se per lavarmi i denti dovevo chiedere lo spazzolino all’agente che mi piantonava, anche se sul soffitto della cella c’era una telecamera che mi osservava giorno e notte, perlomeno disponevo di un wc. Era di acciaio e sistemato proprio nel mirino della telecamera, ma almeno non dovevo "adattarmi" con un secchio di vernice.

Di quel periodo ricordo come barcollavo dopo un colloquio con l’educatrice. Ormai abituato al silenzio, le rare volte che mi capitava di dover sostenere una conversazione restavo letteralmente ubriacato dalle parole. Ma soprattutto ricordo che, per me, quel periodo di isolamento ha significato protezione. Protezione da me stesso. Restare da solo mi ha consentito di fare i conti con me stesso, con quello che avevo fatto e con quello che ero diventato. Mi ha consentito di riflettere, di confrontarmi con la mia coscienza e i miei sensi di colpa, di accettarmi e di gettare le basi per la mia nuova vita in carcere. Perché, anche se non è l’ergastolo, una condanna a trent’anni è pur sempre una vita dietro le sbarre. Non so cosa sarebbe accaduto, come sarei diventato, se, invece che in isolamento, mi avessero messo subito in "comune" con gli altri detenuti. Ma se dovessi tornare indietro e potessi scegliere, nelle stesse condizioni, sceglierei di nuovo l’isolamento, chiederei di essere messo da solo, ma in condizioni un po’ più umane.

Ben altra cosa sarebbe se in isolamento dovessi tornarci ora, ad anni di distanza e con un preciso percorso alle spalle. Adesso sarebbe semplicemente una crudeltà. Sarebbe un’arbitraria interruzione di un quotidiano e faticoso cammino di revisione e soprattutto di confronto con la società civile, con le persone "normali" che sono rappresentate dai volontari che lavorano in carcere. Un confronto indispensabile per "restare nei binari", per non perdere la dimensione, per riuscire a combattere quelle distorsioni che inevitabilmente sorgono quando si è in balìa di un’istituzione totale. C’è un detto che recita più o meno: Giustizia ritardata, Giustizia negata. Questo vale sia per le vittime dei reati che per gli autori. Se infliggere la pena accessoria dell’isolamento diurno può avere una sua logica e una sua ragione "a caldo", nell’immediatezza della condanna, a vent’anni di distanza questa logica e questa ragione d’essere non sussistono più. Dopo vent’anni una persona cambia. Non è più la persona che ha commesso il reato per cui si trova rinchiusa. Prima di infliggere una simile punizione ritardata, sarebbe opportuno esaminare il percorso seguito da quella persona nel corso di quegli anni, soppesarne il cambiamento e valutare l’opportunità di eseguirla ciecamente, solo perché così era stato deciso in un altro luogo, in un altro momento e in un altro tempo.

 

 

Precedente Home Su Successiva