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Una banca etica in carcere? Ad Alessandria, un progetto di piccoli prestiti a detenuti ed ex detenuti (Realizzata nel mese di ottobre 2002)
A cura di Nicola Sansonna
Arianna è un progetto curioso, che assomiglia, e sembra aprirle la strada, a una Banca Etica per detenuti ed ex detenuti. E’ un progetto curioso perché in un luogo come il carcere, in cui sono molti gli "ospiti" che hanno avuto un rapporto "conflittuale" con le banche, si scommette su un sistema di prestiti a detenuti ed ex detenuti, alla cui base c’è la fiducia nella correttezza delle persone che ne usufruiranno. Abbiamo intervistato i volontari dell’associazione Betel, che stanno portando avanti questa iniziativa.
Come nasce l’idea di prestiti ai detenuti o ex detenuti? L’idea è nata dalle considerazioni ricorrenti sulle difficoltà incontrate dai detenuti nella fase del reinserimento (a fine pena, o anche nello scontare pene alternative). Sono numerosi i casi di persone che escono dal carcere dopo una lunga detenzione senza un soldo in tasca, senza lavoro, senza casa, senza il sostegno di una famiglia, ritrovandosi magari in una città sconosciuta. La nostra associazione ha sempre cercato di dare una mano in questi casi, offrendo se possibile, tra le altre cose, un minimo di sostegno economico. Tuttavia disponiamo di mezzi limitati, quindi ci ritroviamo spesso a chiedere fondi ad altre associazioni o a privati. Per i residenti vengono in aiuto i consorzi dei comuni, ma nell’attesa del loro intervento è comunque necessario anche qui intervenire per far fronte alle esigenze più pressanti. Nell’elaborare il progetto "Arianna" abbiamo cercato di creare uno strumento in grado di sostenere economicamente il detenuto nel momento del reinserimento, con una particolare attenzione per l’inserimento lavorativo.
In cosa consiste il progetto? Il progetto consiste nella erogazione di sussidi (piccoli prestiti nella sostanza, anche se non ne hanno la veste contrattuale) a ex detenuti e detenuti che scontano pene alternative fuori dal carcere: essi coprono le prime spese sostenute nel reinserimento, e verranno restituiti senza interessi in piccole rate mensili. A seguito delle restituzioni verrà ricostituito il fondo iniziale, e si potranno effettuare nuovi interventi.
Perché la scelta di associare aiuto economico e avviamento al lavoro? Non potrebbe avere più bisogno chi non ha ancora trovato un impiego? Il lavoro è un fattore centrale nel rientro nella società: non è solo mantenimento economico della persona, è vero e proprio strumento di recupero e reinserimento: consente una rapida "normalizzazione" dei rapporti con gli altri, relativamente all’ambiente di lavoro; è realizzazione personale, anche qualora si tratti di un’attività manuale, in quanto consente di mantenersi e contribuire al mantenimento di un’eventuale famiglia. Certo, non è facile trovare lavoro in uscita dal carcere; alcuni interventi istituzionali vengono in aiuto, anche se talvolta non sono utilizzabili (ad esempio, in Piemonte per la Legge Regionale 22-28 i tempi di fine pena o della semilibertà spesso non coincidono con i tempi di attuazione della legge stessa). Nel nostro piccolo, abbiamo voluto dare con "Arianna" una risposta al seguente quesito: come sostenere i detenuti che escono dal carcere con la certezza di un lavoro, ma privi di mezzi per sostenere le prime spese, quali vitto, alloggio, trasporto al luogo di lavoro? Non volevamo solo reperire mezzi per questi aiuti, ma anche creare un’alternativa ai tradizionali interventi assistenziali; infatti i soggetti considerati hanno la prospettiva di un reddito certo, non si tratta di persone assolutamente prive di mezzi. La legge regionale 38/94, che prevede all'art. 14 il finanziamento di progetti di associazioni di volontariato atti a "prevenire e rimuovere situazioni di bisogno e/o emergenze sul territorio, con azioni innovative, sperimentali, personalizzate e rivolte alla crescita della solidarietà sociale", ci ha offerto l’occasione e lo stimolo per misurarci con una attività assolutamente nuova.
Il progetto è già iniziato? Siete riusciti a ottenere quanto chiedevate per poterlo realizzare? Il progetto ha preso avvio a maggio con la prima erogazione. Il fondo iniziale è stato costituito per l’80% da un contributo della Regione Piemonte (art. 14 della L.R. 38/94) e per la parte restante finanziato dalla nostra associazione.
Con che esiti i primi prestiti sono stati erogati? L’unico prestito erogato sinora è servito al pagamento dell’affitto e della cauzione dell’alloggio ad un detenuto a fine pena; il caso ci ha consentito di perfezionare l’iter di erogazione e la modulistica. Abbiamo già discusso altri casi di detenuti in uscita e già "fuori".
Che criteri utilizzate per l’assegnazione dei prestiti? Presumiamo che chi non ha bisogno di soldi non chieda di partecipare al progetto (vedremo se l’esperienza ci darà ragione). Non siamo una banca, non vogliamo iter complicati, non chiediamo neppure di documentare la mancanza di mezzi (d’altronde, riteniamo doveroso accettare anche le richieste di detenuti che non vogliono o non possono chiedere aiuti a familiari); dobbiamo però documentare in modo scrupoloso le spese sostenute, la presenza di un contratto di lavoro e delle condizioni per accedere al prestito (cioè la condizione di detenuto o ex) – questo per un obbligo di rendicontazione all’ente che ci ha finanziati.
E’ corretto parlare di banca etica? No, non è corretto, in quanto ci sono le uscite di una piccola banca, ma non le entrate; mancano cioè le operazioni di raccolta, i depositi.
Le persone che sostenete con che atteggiamento si sono avvicinate a voi (vi facciamo questa domanda perché sappiamo che non è affatto facile chiedere)? Certo, non è facile chiedere; in realtà nessuno ha chiesto – in questa fase di prima sperimentazione - e la opportunità di partecipazione al progetto è stata offerta da alcuni volontari della nostra associazione a persone già conosciute, di cui seguivano il percorso di avvio al lavoro; allo stesso modo, sono stati sensibilizzati gli operatori del carcere e di altri enti che si occupano di reinserimento nel territorio. Questi sono stati invitati a collaborare alla realizzazione del progetto "Arianna", sottoponendoci casi da seguire e "finanziare". Abbiamo creato i presupposti per un lavoro di rete, coinvolgendo le direzioni dei due istituti di pena alessandrini, il CSSA, la Provincia, il Gruppo Operativo Locale (G.O.L.), e il Consorzio Intercomunale dei Servizi; riteniamo che proprio lo sviluppo di queste collaborazioni estese e la complementarità degli interventi aprano la via alla buona riuscita del reinserimento.
Riuscite a seguire anche in alcuni passi del normale evolversi del reinserimento le persone che usufruiscono del prestito? "Arianna" non è un intervento a sé stante, ma l’integrazione di un intervento di un accompagnamento di contenuto più esteso, che impegna prima e dopo la scarcerazione, e impegna più soggetti/enti. E’ quindi l’anello mancante in una attività di sostegno già praticata, anche se con lacune e difficoltà. Per quel che riguarda i fruitori del progetto Arianna, non siamo ancora in grado di rendere conto dell’esito dell’ "accompagnamento".
Il numero di persone (10/12) ammesse al finanziamento non vi sembra un po’ limitativo rispetto a quanti magari avrebbero bisogno di questo sostegno? La realtà alessandrina è di oltre 700 detenuti, divisi tra un penale e un circondariale. Ma le richieste poste sinora alla nostra attenzione sono solo 5/6. Infatti presso la casa circondariale si trovano detenuti in attesa di giudizio o con pene brevi, che non sono particolarmente coinvolti nell’iniziativa; i problemi di reinserimento qui affrontati riguardano in misura maggiore l’altro carcere (casa di reclusione di S. Michele), in quanto chi viene da una pena molto lunga vive più facilmente una condizione di sradicamento – e qui i detenuti a fine pena non sono in questo momento molti. Ritornando al numero di sussidi previsto, il limite è rappresentato dall’entità del fondo disponibile; la restituzione da parte dei primi finanziati, consentirà di provvedere a nuove erogazioni.
Quali sono le vostre valutazioni su una possibile estensione del progetto ad altre zone d’Italia? Non siamo ancora in grado di prevedere l’esito dell’iniziativa, è una scommessa… contiamo molto sul senso di responsabilità delle persone che hanno aderito, e di quelle che stanno per farlo, che sono motivate, contente di avere un’occasione per dar prova della propria correttezza. Ci piacerebbe vedere diffondersi questa idea di un aiuto economico che si associ alla dignità di un impegno morale e di solidarietà, e speriamo di avere offerto con questa intervista uno spunto utile a chi affronta i nostri stessi problemi. Non sarebbe anzi bello vedere nascere proprio in carcere una banca etica, alimentata dai risparmi degli stessi detenuti e addetti ai lavori? Perché no?
Come si fa a comandare perfino sugli affetti
Cosa hanno capito i giovanissimi studenti di una scuola media, dopo l’incontro con alcuni detenuti? Forse più di quello che capiscono gli adulti…
Quando ci hanno proposto di far incontrare gli studenti di alcune classi terze della scuola media Parini con i detenuti, impegnati nell’attività di Rassegna Stampa, avevamo qualche timore per la giovanissima età dei ragazzi (13-14 anni). E invece le nostre ansie sono state fugate dalla realtà, anzi i ragazzi hanno dimostrato che, forse, a quell’età si è più liberi da certi pregiudizi, più curiosi, più pronti a modificare le proprie idee. Quelle che seguono sono le lettere che i ragazzi hanno scritto, dopo l’incontro, ad alcuni detenuti.
La Redazione
Cari amici del carcere Due Palazzi, dato che il nostro incontro con voi ci ha lasciato il segno, abbiamo deciso di raccogliere le nostre impressioni a forma di lettera e non, per ringraziarvi e salutarvi.
Le classi 3aC e 3aD
Caro Giuseppe, ti sto scrivendo perché la tua situazione è quella che merita più attenzione. Deve essere terribile passare degli anni della tua vita rinchiuso in uno spazio di pochi metri in un edificio e non aver possibilità di uscire, di avere dei veri contatti umani e di stare insieme alla tua famiglia, con una serie di complicazioni solo per poter comunicare con essa. Io credo che la cosa più brutta sia non seguire i propri figli nella loro crescita, non poter essere lì con loro a condividere gioie e difficoltà, non poterli aiutare nei momenti del bisogno. Deve essere molto difficile però anche per i tuoi familiari l’idea di non starti vicino, di non sapere cosa ti può accadere, mentre per tua moglie c’è la responsabilità di crescere i vostri figli, non potendo avere l’appoggio di un marito. (…) (Alberta)
Caro Giuseppe, mi chiamo Martina, sono una studentessa della classe 3^ D che ha partecipato all’incontro che c’è stato alla Scuola Media Statale "G. Parini" di Camposampiero. La tua storia famigliare mi ha molto colpito. Anche se non so perché sei stato condannato a degli anni di carcere, vorrei dirti che mi sembri una persona sincera, che prova delle emozioni fortissime, ecco perché all’incontro ero molto emozionata; questo sentimento si è rafforzato, quando ho sentito che hai una figlia della mia stessa età. (…) (Martina)
Ciao, sono una ragazza della 3^ C della Scuola Media Statale di Camposampiero, la quale ha avuto la possibilità di incontrarvi, per capire molte cose che non sapevo, chiarire dubbi, approfondire certe conoscenze. Devo dire che io avevo tutt’altra idea di cosa fosse il carcere e di come vi trattavano; era, per me, come un "angolo oscuro" da lasciare in disparte, come se non esistesse; ora non più. (…) (Ketty)
Cono stata molto felice di aver fatto questo incontro ed ora vi spiegherò cosa mi ha colpito: una persona in particolare. Giuseppe, io sono stata impressionata dalla tua vita, sia quella precedente al carcere e sia quella in carcere. Nonostante tutto quello che è successo, tu non ti sei arreso, ma hai superato tutte le difficoltà incontrate nel tuo cammino, sia quelle familiari sia quelle della vita di carcere. Hai mantenuto un buon rapporto con i tuoi figli e con tua moglie, senza togliere a loro l’affetto di padre e marito, anche se eri in carcere. So che è molto dura perché tu non sei lì quando i tuoi figli hanno bisogno di te e tua moglie ha bisogno di un aiuto o di una parola, tu non sei lì ma ci sei con il pensiero, e questo è molto difficile per te visto che vorresti fare qualcosa, ma non puoi fare quasi niente. In carcere però ti sei dato da fare nonostante tutto. Non sei restato lì rinchiuso in una cella a pensare alla tua famiglia, ma ti sei dato da fare facendo qualcosa, come frequentare la scuola e far parte del gruppo che svolge la rassegna stampa, e poi hai fatto dei corsi per imparare ad usare il computer. Facendo questo avrai un aiuto in più per trovare lavoro e inserirti nella società, una volta uscito dal carcere. E’ stato per te un cammino molto difficile, lontano dalla famiglia, ma hai imparato qualcosa in modo positivo e ti fa onore se hai pagato alla legge quello che dovevi. Presto sarai libero e spero tu non ripeterai quello che hai commesso, perché manderesti in fumo tutto quello che hai fatto finora; per non ripetere l’errore devi solo pensare a questo e alla tua famiglia. Ora scriverò le mie opinioni riguardo al carcere e l’incontro svolto. L’incontro per me è stato molto significativo e molto utile. Ho approfondito particolari che visti da fuori non sono importanti, ma che in realtà lo sono e molto. Ora so com’è strutturato il carcere e come si svolge una giornata normale al suo interno, vista da detenuti e dai professori. Personalmente io pensavo che il carcere fosse una cosa negativa e anche le persone che ci sono dentro. ma ora ho cambiato totalmente idea. Ti saluto signor Beppe e salutami anche tutti i tuoi compagni che hanno partecipato all’incontro. Buona Fortuna! (Sandra) La mia riflessione: dopo aver avuto l’incontro con i carcerati del Due Palazzi, ho potuto capire che la vita in carcere non è poi così "libera" e semplice: infatti essa dipende da tutta una serie di regole che bisogna rispettare rigidamente e dalle risposte che il giudice dà ai detenuti. Dunque, se esse sono negative, i reclusi sono impossibilitati di vedere la propria famiglia o semplicemente fare una telefonata ai propri cari per dare notizie. Questa cosa io la trovo molto crudele, perché… come si fa a "comandare" perfino sugli affetti e sui sentimenti che una persona ha? E poi: i rapporti tra famiglia e detenuto sono molto più "distaccati" rispetto a quelli di una vita normale perché, anche una volta usciti dal penitenziario, non è poi così facile ricostruire tutta una rete di legami famigliari e sociali, purtroppo persi negli anni trascorsi in carcere. (…) (Federica)
Carissimo Giuseppe, io sono Myriam, una ragazza della scuola media "G. Parini" di Camposampiero. Ti scrivo per ringraziarti della tua "visita" al nostro istituto. Ti ho visto agitato, ma credo che anche tutti noi lo fossimo; incontrare una persona che da anni vive rinchiusa in una cella di pochi metri quadri, secondo me è molto strano ed emozionante! Stendo questa lettera a te, perché la tua "storia" è quella che mi ha colpito di più… voglio dire, avere una famiglia a cui si vuole bene e non poter starle vicino come si vorrebbe, mi sembra decisamente triste. Così ho pensato, ed ho capito quanto sono fortunata ad avere la felicità che molte altre persone vorrebbero! Desidero anche dirti che ti ammiro, perché ti ho sentito dire che leggi molto… io, pur essendo giovane, piuttosto che prendere in mano un libro, preferirei la ghigliottina… no, non esageriamo, è che essendo una persona molto pigra, io non sopporto qualsiasi tipo di libro!! Tempo fa mi capitava di pensare al mondo del carcere come un luogo di tranquillità dove potevi non fare niente… non studiare, non eseguire i lavoretti a casa che si fanno alla mia età… insomma; rimanere ferma tutto il giorno tutti i giorni! Dopo avere incontrato voi, invece, ho capito che non è un posto così carino come avevo immaginato io. In effetti, riflettendo, non puoi vedere la tua famiglia, non puoi uscire con gli amici… si può proprio dire che sei privato della tua libertà (e non è solo un modo di dire)! Ti ringrazio per avermi fatto capire questo: è meglio pensare prima di agire, perché certi errori possono portare ad una vita poco vissuta… cos’altro ?! Auguri per il tuo futuro, e ricorda di salutare tua figlia da parte mia! Arrivederci. (Myriam)
Caro Giuseppe, io sono Martina della classe 3^ D che tu e altri tuoi amici avete incontrato nella nostra scuola per parlarci di com’è la vita in carcere. Ho seguito con attenzione la tua situazione di vita. Però a me il fatto che ha colpito di più è stato che il tuo garage ha preso fuoco e tu non potevi fare niente perché eri in carcere. Spero che questi brutti avvenimenti non accadano più e ti auguro di tornare presto dalla tua famiglia. Cari saluti. (Martina)
Ciao Giuseppe, sono una studentessa dell’incontro che c’è stato alla Scuola Media Statale di Camposampiero. Durante quell’incontro mi siete sembrati tutti delle brave persone e in particolare tu. Non so il perché, però la tua storia mi ha molto commossa: sembrava una storia da film. A me dispiace molto che tu sia in carcere, anche se non ho capito il perché della tua entrata là dentro. Mentre parlavi, sentivo la tua voce emozionata raccontare dei tuoi figli a cui vuoi molto bene e secondo me parlavi in un modo più che sincero. Delle volte dico che se mio papà se ne andasse per qualche mese starei bene, anche se dopo mi sorprendo perché so che dopo qualche giorno mi manca già. Se mi immedesimo nei tuoi figli capisco che vivere una vita senza un padre deve essere molto difficile, anche se "spesso" riesci a vederli! Ora scriverò anche ai tuoi compagni, anche se vorrei per sempre scriverti! P.S. Sei stata la prima persona a cui ho scritto perché la tua storia mi ha molto, molto colpita! Spero che la tua pena finisca presto, così potrai tornare per sempre dai tuoi figli e da tua moglie!
Un grosso abbraccio. (Martina)
Sono una ragazza della 3^ D che all’incontro con voi era presente ad ascoltare i vostri pensieri. Io credevo che chi andava in carcere era privo di sentimenti e scrupoli, insomma persone da non guardare e notare; invece conoscendovi ho capito che anche voi avete sentimenti e scrupoli. Mi è servito molto quest’incontro per capire molte cose. (Erica Cum)
Caro Giuseppe, io mi chiamo Maria Emilia e frequento la terza media a Camposampiero, ti sto scrivendo per dirti che dopo l’incontro con voi ho capito molte informazioni della vita nella casa di reclusione che prima non conoscevo. Immaginavo il mondo del carcere diverso, forse anche in modo più negativo, una delle cose che non sapevo prima di questo incontro è che si potessero seguire dei corsi scolastici, che si potesse lavorare con il computer, fare rassegna stampa... e questo mi sembra anche positivo, ciò non toglie che sia rimasta colpita non solo dal racconto della giornata tipo, ma anche dalle regole dettate, che dovete rispettare. La tua storia è quella che mi ha incuriosita di più: credo che stare lontani dalla propria famiglia, vivendo sempre in un unico edificio, dovendo fare cose predefinite in tempi prestabiliti, sia veramente tanto difficile. Sono convinta che anche per la tua famiglia questa sia una situazione pesante da sopportare. Penso che tutti voi abbiate delle aspirazioni, che una volta usciti potrete realizzare, per cui ti auguro buona fortuna e ti saluto! (Maria Emilia)
L’incontro con voi è stato molto utile non solo perché ho imparato nuove cose rispetto la vita nel carcere, ma soprattutto perché mi ha portato a riflettere. Questa mia riflessione ha preso inizio dopo la domanda effettuata da uno di voi che diceva: "Voi che pensate di noi carcerati ?" Sinceramente prima di questo incontro ero convinta che tutti i reclusi dovessero pagare i loro errori rimanendo in carcere per lunghi tempi, senza agevolazioni, ma mi sono ricreduta. Infatti ho capito che anche voi siete delle persone e che quindi avete dei diritti e dei doveri. Avete il diritto di alcuni permessi, di istruirvi, di lavorare, e anche dei doveri verso la giustizia. Quindi queste ore di dialogo con voi mi hanno fatto capire che tutti fanno degli sbagli più o meno gravi e che l’importante è accorgersene e pentirsene, aiutando gli altri a non commetterli. Grazie (Silvia) Dal carcere di Padova alla Facoltà di Psicologia come "docente" Tema della lezione: la rapina
Nella vita ne ho combinate di tutti i colori, ma non avrei mai pensato di "occupare" una cattedra universitaria e sostenere due ore di discussione e confronto in un’aula affollatissima di studenti.
di Nicola Sansonna
"Lo scrivente chiede di poter partecipare a un incontro nell’ambito del Corso di Criminologia, insegnamento del quale è titolare il Prof. Gianvittorio Pisapia, presso la Facoltà di Psicologia per potersi confrontare con gli studenti universitari sul reato della rapina, argomento del Corso in questione".
Ore 10.30 - Lezione "sulla rapina"
Ero convinto che il professore avesse sbagliato aula. Pensavo di dovermi confrontare con una decina di ragazzi o poco più, invece mi sono trovato in un salone gremito di oltre 170 studenti. Un metodo coinvolgente ed originale, quello messo in atto dal titolare della cattedra di criminologia presso la Facoltà di Psicologia di Padova, il professor Gianvittorio Pisapia. L’argomento del corso è "La rapina". Il professore, partendo dal presupposto che esiste pochissimo materiale in materia, ha deciso di portare in aula tutte le figure coinvolte: la vittima del reato, la guardia giurata preposta al controllo dei beni, ed il rapinatore. Tre figure dai ruoli diametralmente opposti, ma che s’incontrano, si scontrano, al momento della rapina. In tre momenti diversi la guardia, il rapinatore, la vittima del reato si sono prestati a narrare e a chiarire la loro esperienza. Questo ha consentito agli studenti di avere un quadro d’insieme completo. Ognuno ha portato il suo contributo, come ha sintetizzato, nella premessa al mio intervento, il professore. Non è il primo incontro che ho con una classe di studenti, e tutte le volte l’esperienza lascia in me un segno nettamente positivo. Dopo essermi presentato, ho lasciato che i ragazzi mi facessero delle domande. Ero di fronte a studenti di psicologia, ma le domande erano mirate, precise, "tecniche". Non è stata, comunque, tralasciata la sfera emozionale, dei sentimenti, degli stati d’animo. Le domande, dapprima poste con molta cautela, via via che si creava un coinvolgimento nella discussione, crescevano e per interesse e per la curiosità che destavano. Ecco alcune di queste domande: Cosa provavi nell’attimo precedente la rapina? E mentre la commettevi? E subito dopo? Come si forma un gruppo di rapinatori? Come si distribuiscono i ruoli? Se ti trovassi al posto della vittima della rapina, come reagiresti?
Ho risposto a queste domande con sincerità e semplicità, conscio della delicatezza del tema trattato. Ho parlato della scarica di adrenalina che si prova, in un certo senso la stessa che provavo prima di una partita importante quando, da ragazzo, giocavo a pallone all’oratorio San Luigi di Chieri (To), o prima di una gara d’atletica. Penso che sia una reazione chimica che avviene nell’imminenza di un grande impegno che in quell’ attimo ti appare come il centro dell’universo, un fatto da cui dipende il tuo futuro. In quei minuti avviene di tutto, può avvenire di tutto, puoi portarti via molti soldi, ma puoi anche rischiare di uccidere o di essere ucciso, la tua vita può essere rovinata, puoi beccarti un proiettile. La stessa cosa può accadere a chi si trova per motivi di lavoro o come cliente, nel posto sbagliato, nel momento sbagliato. Di fatto è un salto nel buio per tutti. Avviene tutto in pochi secondi. Il tempo sembra dilatarsi.
Fare qualcosa perché le periferie non diventino la fabbrica dei detenuti di domani
Una cosa ho tenuto a sottolineare, ed è vera per me e per i molti rapinatori che ho conosciuto. La maggior parte, pur "calandosi il cappuccio", cerca di non utilizzare mai la violenza fisica, anche se la rapina in se stessa è violenza. Il presupposto è che, se in una rapina non accade altro che l’asportazione di soldi, difficilmente interviene la scientifica, sempre che la somma rapinata non sia estremamente rilevante, e l’accanimento investigativo è sicuramente minore rispetto al malaugurato caso in cui venga versato del sangue. I vecchi rapinatori usavano dire, quando entravi in "batteria": "Ragazzo, noi andiamo a prenderci i soldi, non a far del male alla gente, tienilo sempre presente". Quello che penso e che ho scritto può essere certo ribattuto, ma perlomeno, per la maggior parte delle persone, imputate per rapina, che ho conosciuto era così. Sto parlando di rapinatori di banche. Una parte delle domande degli studenti universitari era mirata alla conoscenza del carcere, di come si svolge la vita dentro, come è organizzata la giornata, le attività che svolgiamo. Ho cercato di spiegarlo in modo da far capire che cos’è il carcere, che è sì sempre sofferenza, ma può diventare, se uno cerca di non buttare del tutto il suo tempo, recupero, desiderio di reinventarsi una vita, un’esistenza. Ho spiegato anche la differenza tra carcere giudiziario e carcere penale: nel primo la qualità della vita è drasticamente bassa, nel secondo ci si riesce anche ad organizzare "una parvenza di vita". Una domanda che ricordo perfettamente è la seguente: Pensi che sia utile il carcere così com’è? Penso che la società ideale sia quella senza carceri. Negli anni settanta dicevamo: "Il miglior carcere è quello raso al suolo". Però allo stato attuale è impensabile una società senza carcere, non perché per qualche strana sindrome mi sia affezionato, ma per il semplice motivo che la società deve potersi difendere, ed il carcere per ora è la risposta al crimine ed alle azioni delittuose. Naturalmente deve essere l’ultima risorsa, per un ragazzo che commette un reato è controproducente per la società stessa inviarlo nell’università del crimine. Credo, e sono in compagnia di illustri studiosi e giuristi a sostenere questo, che la risposta più sensata stia nelle misure alternative, nelle comunità, nei lavori socialmente utili, nell’affidamento ai servizi sociali, nell’insegnare, al ragazzo che per la prima volta sbaglia, un lavoro, dargli delle alternative valide, fargli intravedere che c’è un altro modo per risolvere i propri problemi, quindi occorrono risposte sociali, per far sì che le periferie, i nuovi e vecchi disagi che portano all’emarginazione, non diventino la fabbrica dei detenuti di domani. Personalmente ho ricevuto molto dall’incontro, e credo che sia stato proficuo per tutti. Anche se inizialmente ero molto restio ad accettare di parteciparvi, sono felice di averlo fatto. Un’iniziativa concreta, sicuramente utile per capire e non soffermarsi alla superficie delle cose.
Percorsi di confronto tra operatori
La Regione Emilia Romagna ha fatto lavorare insieme in un corso di formazione volontari, educatori, agenti
A cura di Marino Occhipinti
Sono molti e diversi gli operatori che sono parte attiva del progetto "Percorsi di confronto tra operatori dell’amministrazione penitenziaria e del privato sociale: agenti di polizia penitenziaria, educatori e volontari", promosso dalla Regione Emilia Romagna (Assessorato alle politiche sociali) e gestito dal CSV (Centro di Servizi per il Volontariato) di Modena, in collaborazione con Centri servizi per il volontariato, Organizzazioni Volontariato/Giustizia della Regione Emilia Romagna, Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, lo Studio Egla con compiti tecnici. La cornice progettuale è rappresentata da alcuni punti fermi: · Il progetto prevedeva come attività principali: una ricerca e tre corsi di formazione congiunta fra operatori ed educatori penitenziari, volontari. · Il progetto ha come punto di forza il coinvolgimento di più attori, che hanno avuto un ruolo attivo sin dalle prime fasi di ridefinizione dell’idea progettuale messa a punto dalla Regione. · La presenza dei diversi attori costituisce una premessa a nostro avviso fondamentale per portare avanti i processi attivati dal progetto. · La struttura di governo del progetto è articolata in diversi gruppi di lavoro misti con funzioni differenti, che vanno in particolare dal monitoraggio e verifica delle attività svolte, alla definizione dei contenuti alla realizzazione delle attività. I gruppi operativi sono stati attivati anche sui territori interprovinciali. Il Centro di Servizi di Modena, in virtù della specializzazione regionale sulla formazione, è l’ente che ha il compito di gestire l’intero progetto. Per eventuali informazioni: Cinzia Migani, Coordinatrice del progetto per l’ente gestore, Centro servizi per il volontariato di Modena: cinzia.migani@volontariamo.it Nel sito www.ristretti.it si trovano altri materiali e le interviste a Anna Cilento (referente del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria) Paola Cigarini (referente per il Progetto delle Organizzazioni Volontariato/Giustizia della Regione), Emma Melloni e Donatella Piccioni (formatrici, Studio Egla di Forlì). Lucia Berardi, Referente della Regione Emilia Romagna, ci racconta come è stato organizzato il corso Come prima cosa vorrei ringraziarvi perché mi date la possibilità di rivolgermi direttamente a un pubblico di detenuti. Io sono Lucia Berardi, sono funzionaria della Regione Emilia Romagna e in tale veste mi occupo da otto anni di tematiche penitenziarie.
Queste mie risposte alla vostra intervista sono state supervisionate e approvate dall’Assessore Regionale alle Politiche Sociali. Quando è nato e come si è sviluppato il progetto "Percorsi di confronto tra operatori dell’amministrazione e del privato sociale: agenti di Polizia Penitenziaria, educatori e volontari"? Il progetto nasce più o meno ai tempi in cui nella Regione Emilia Romagna si ragionava per ridefinire il Protocollo d’Intesa che regola i rapporti fra Regione ed Enti Locali e Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, istituendo luoghi e modalità di progettazione concertata per gli interventi e le attività che gli enti locali pongono in essere a favore dei detenuti e negli istituti penitenziari della Regione. Il Protocollo viene siglato il 5 marzo del 1998. Esso individua, fra gli elementi su cui lavorare, la creazione delle migliori condizioni perché la rete di persone che, a vario titolo e da varia provenienza istituzionale e non, operano in e per le carceri, possa collaborare in modo proficuo. Fra queste condizioni viene evidenziata la necessità di dotare di elementi culturali comuni gli operatori di varia provenienza, e un apposito capitolo evidenzia questa necessità e si propone la creazione di momenti formativi comuni. Per elementi culturali comuni si intende qualcosa di più ampio che la semplice trasmissione di informazioni, si intende la reciproca "contaminazione", la condivisione, per quanto possibile, di modi di lavorare e di pensare il proprio lavoro. Questo viene ritenuto importante per consolidare la rete interistituzionale e sociale che lavora sulle tematiche carcerarie. Tutti i seminari formativi comuni che la Regione ha messo a punto per questa rete di operatori hanno pertanto contemplato elementi, che coltivassero la relazione e la comunicazione interpersonale all’interno dell’istituzione. Questo è stato ritenuto utile ad esempio per la formazione degli operatori nell’ambito della mediazione culturale e dei progetti regionali in materia: e cioè della rete di sportelli informativi che i comuni hanno aperto per i detenuti immigrati in tutti i carceri della Regione. il volontariato penitenziario ha per propria natura una cultura ancor più distante dall’insieme degli operatori degli enti locali e dell’amministrazione penitenziaria Quali motivazioni vi hanno spinto ad impegnarvi in questo lungo lavoro e quali sono stati gli enti ed i soggetti coinvolti? La Regione e gli Enti Locali emiliano romagnoli sono tradizionalmente molto coinvolti dai problemi che riguardano l’esclusione sociale in tutte le sue forme, e nello studio e messa a punto di tutte le iniziative utili a creare le condizioni per l’inclusione. Quindi non è stato necessario "cercare" gli enti da coinvolgere, poiché l’iniziativa è partita dall’Ente Regione. Grazie ai consolidati rapporti che la Regione e gli Enti Locali hanno con il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria, è stata trovata fattiva collaborazione da parte del Provveditorato stesso. Le istituzioni della Regione hanno inoltre in grande considerazione l’intervento e il supporto che la società civile, in questo caso nella figura dei volontari, fornisce alle istituzioni ed ai servizi da queste prodotti. Fra i soggetti che lavorano all’interno delle carceri i volontari sono la figura che, per assenza di carattere istituzionale e per l’assenza di chiare, scritte, concrete e condivise norme che regolino e tutelino il loro operare, è più "fragile". Questo vale nonostante esistano ottimi documenti ministeriali che trattano l’argomento, nonostante sia stato già da tempo siglato un Protocollo d’Intesa fra Ministero della Giustizia e Volontariato Giustizia, e nonostante in Regione si stia da tempo lavorando per arrivare alla firma di un Protocollo analogo di carattere regionale. Oltre ad essere l’elemento più "fragile", il volontariato penitenziario ha per propria natura una cultura, intesa nell’ampio senso di modo di operare e di pensare il proprio operato, ancor più distante dall’insieme degli operatori degli enti locali e dell’amministrazione penitenziaria. Questo ci ha suggerito l’importanza ancora maggiore della condivisione "culturale" e dell’arricchimento di strumenti comunicativi. ...apri la cella, chiama il detenuto... chiudi la cella, raprila, richiama... queste sono mansioni che il personale vive come una fatica in più A volte nei rapporti tra istituzione carcere e volontariato sembra esserci più contrapposizione che collaborazione: quali accorgimenti potrebbero portare ad unire gli sforzi, affinché si miri a quegli obiettivi comuni che in definitiva sono il reinserimento e la risocializzazione dei detenuti? Sui rapporti fra carcere e volontari la mia esperienza mi ha portato a notare spesso un atteggiamento ambivalente da parte del carcere: da un lato il volontario è utile perché "porta i maglioni", dall’altro è vissuto come un’indebita ingerenza in un mondo che viene percepito più "sicuro" quando è impermeabile. Inoltre spesso la presenza della società in carcere porta atti lavorativi in più: apri la cella, chiama il detenuto per il colloquio col volontario, chiudi la cella, riaprila, richiama, accompagna, riaccompagna…, queste sono mansioni che il personale, avendo una percezione del proprio lavoro estremamente pesante, vive come una fatica in più. A mio parere il lavoro di agente è estremamente pesante, ma non dal punto di vista del movimento che implica, quanto dal punto di vista delle relazioni: è sicuramente molto stressante vivere ogni giorno in mezzo a gente che ti vede come "il carceriere", e d’altronde quello è il tuo ruolo immediato, anche se non è l’agente che chiude in carcere, che emette la sentenza. Quello che serve, lo ripeto, è lavorare su questi sentimenti, prenderli in considerazione, produrre negli agenti una migliore capacità di relazionarsi. Credo che questo, e non il training sull’uso delle armi, li farebbe sentire più "sicuri", anche della propria incolumità, poiché è di questo che si tratta, anche. Il mio parere è che il lavoro degli agenti è un lavoro che ha molto a che fare con la relazione, ma questo viene considerato troppo poco nei loro corsi di formazione. Quindi credo che queste modalità di formazione possano essere molto utili. Il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, i comandanti e i direttori degli istituti penitenziari sono stati coinvolti nei momenti più allargati del percorso Un progetto ambizioso come il vostro comporta certamente un notevole impegno in termini di risorse umane ed economiche: siete riusciti ad ottenere il contributo di altri enti istituzionali? Per quanto riguarda le risorse economiche, abbiamo investito in questi moduli formativi 74.886,25 euro attraverso i fondi della legge regionale sul volontariato, che hanno coperto tutte le spese, dall’onorario alle formatrici ai rimborsi dei viaggi e dei pasti ai volontari partecipanti. Per quanto riguarda le risorse umane, un funzionario regionale ha lavorato al progetto nelle varie fasi, hanno lavorato funzionari dei Centri di servizi per il volontariato, funzionari dell’Amministrazione Penitenziaria, ma nessuno in modo esclusivo. Hanno lavorato le formatrici, e naturalmente le persone coinvolte. Concretamente sono stati realizzati: una ricerca volta a tarare i contenuti, sei incontri di presentazione dell’iniziativa ai volontari in diverse province della Regione, tre corsi interprovinciali aperti di volta in volta a 10 volontari e 12 operatori (agenti ed educatori) dell’Amministrazione Penitenziaria e due seminari di restituzioni dei corsi aperti ai presidenti delle Organizzazioni di Volontariato, direttori, comandanti dei carceri, nonché presidenti dei CSV dei territori coinvolti. Si prevede, infine, di realizzare il seminario di chiusura del terzo corso a dicembre e un momento pubblico per presentare le azioni messe a punto con il progetto. Il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, i comandanti e i direttori degli istituti penitenziari sono stati coinvolti nei momenti più allargati del percorso. una "buona" detenzione ha più probabilità che una "cattiva", di rilasciare delle persone più in grado di essere utili alla società Avete incontrato molte difficoltà, anche di tipo burocratico, dal momento che il carcere – e i problemi ad esso connessi – sembra non interessare a nessuno, eccezion fatta per gli addetti ai lavori? Secondo la logica di questo Assessorato il carcere è importante non solo in quanto specchio della civiltà del Paese che lo ospita, ma anche, da un punto di vista lungimirante, perché una "buona" detenzione ha più probabilità che una "cattiva", di rilasciare delle persone più in grado di essere utili alla società. L’unica difficoltà è stata la partecipazione degli agenti, carente dal punto di vista numerico. indagine "personologica" (altra parola mostro: perché nel mondo penitenziario non entrano le innovazioni scientifiche neanche dopo decenni?) Qual è il suo pensiero su quelle che vengono comunemente definite "attività trattamentali"? Questa è una domanda da mille punti, ma va al nocciolo di molti problemi e contraddizioni che si vivono in carcere. Il mio parere personale è che qualunque tipo di intervento, di quelli che vengono definiti col vocabolo quanto mai antiquato e persino inesatto dal punto di vista lessicale "trattamentali", comprenda un vizio a priori poiché viene trascurato l’aspetto, imprenscindibile, della "alleanza", della cosiddetta "compliance", fra operatore e soggetto in "trattamento". Il "trattamento" punta implicitamente ad ottenere un cambiamento in alcuni aspetti psicologici e/o comportamentali della persona. È evidente a chiunque abbia anche una superficiale infarinatura di psicologia che per ottenerlo è necessaria una compartecipazione della persona stessa, pertanto la prima cosa necessaria è la consapevolezza della persona che il "trattamento" sia utile. In assenza di questa alleanza non si ottiene risultato. Ottenere questa alleanza è già un fattore difficilissimo e forse quasi impossibile, poiché nessuno va in carcere di propria spontanea volontà e pertanto il "trattamento" viene giocoforza vissuto come imposto (e quindi risulta inefficace). A dispetto di questa oggettiva difficoltà inoltre non è frequente che gli operatori "trattamentali" si occupino di costruire questa alleanza, pur considerando che la consapevolezza della necessità personale di un cambiamento sarebbe per alcuni un "trattamento" assolutamente sufficiente. Il "trattamento" viene affidato quindi agli elementi esterni, al lavoro, al reinserimento sociale o familiare, che sono gli unici elementi disponibili, ma permangono nelle carceri elementi che generano confusione al riguardo: la presenza degli psicologi, che di per sé sarebbe utilissima, pretende di costruire un’indagine "personologica" (altra parola mostro: perché nel mondo penitenziario non entrano le innovazioni scientifiche neanche dopo decenni?), servendosi anche di personale del "trattamento" al quale nessuna formazione viene fornita al riguardo delle nuove teorie della personalità individuale (anche perché se qualcuno al Ministero della Giustizia si fosse preso la briga di verificarle avrebbe scoperto che sono molto controverse). Questa presenza psicologica in carcere è inoltre ridicola dato l’insignificante numero degli psicologi impegnati. Quanto agli agenti esteriori del "trattamento" e quindi dell’auspicabile cambiamento, anche su questi sarebbe meglio stendere un pietoso velo se consideriamo che il lavoro penitenziario è come il famoso ago nel pagliaio. Infine il buon mantenimento dei rapporti familiari è ostacolato dall’inadempienza dell’Amministrazione a quelle leggi che prevedono spazi per l’affettività in carcere, dai tempi e luoghi scarsi e spesso squallidi dedicati ai rapporti con le famiglie, e dai frequenti trasferimenti dovuti al sovraffollamento. Venute a cadere pertanto le speranze su un "trattamento" che punti ad un cambiamento interiore e quelle che puntano ad un cambiamento attraverso il lavoro, il dopo carcere è un percorso che, come giustamente notate, riporta quasi sempre in carcere, mancando le premesse interne e materiali per un cambiamento delle condizioni che vi hanno portato la prima volta. Infine occorre anche dire che non tutti hanno bisogno del "trattamento", se pensiamo ad alcuni ospiti delle galere: come si fa a dire che Sofri ad esempio ne abbia necessità? Quanti sono nelle sue condizioni? In quale misura, con quali opere di sostegno il volontariato può farsi carico delle problematiche descritte? I volontari possono certamente operare nella direzione di aiutare i detenuti a cambiare le condizioni che li hanno portati in carcere, ed essendo meno "riconoscibili" come l’istituzione che tiene in carcere, hanno molte più possibilità di costruire alleanze e motivazioni intrinseche al cambiamento. Essi possono anche, e lo fanno, lavorare sugli aspetti socio-lavorativi del trattamento. Le culture di appartenenza dei vari tipi di operatori sono ancora troppo distanti per essere affrontate insieme anche al soggetto "detenuti" Un’ultima domanda: ho notato che nel vostro progetto avete lavorato veramente ad ampio raggio, coinvolgendo direttori di istituto, comandanti ed agenti della Polizia Penitenziaria, educatori, volontari…, ma non i detenuti, i diretti interessati. Ma davvero non si potevano coinvolgere, così da avere il loro punto di vista ed il loro supporto? Il mio personale parere sull’opportunità di coinvolgere i detenuti nel percorso è che la loro presenza sarebbe senz’altro opportuna perché il tema "relazioni e comunicazione" in carcere vede i detenuti soggetto maggioritario e obiettivamente destinatario ultimo di ogni intervento in carcere, ma impossibile in una fase in cui le culture di appartenenza dei vari tipi di operatori sono ancora troppo distanti per essere affrontate insieme anche al soggetto "detenuti". Stiamo comunque studiando la cosa per il futuro, speriamo non lontano.
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