Perdonare è resistere alla crudeltà del
mondo
Edgar Morin, nell’articolo “Pardonner,
c’est résister à la cruauté du monde”, propone un concetto di
perdono fondato sulla “comprensione”. “Comprendere un essere umano
significa evitare qualsiasi riduzione della sua persona all’atto che egli ha
commesso, sia pure il più grave di cui un essere si possa macchiare”.
Ecco, è a partire da questa idea di
cercare di opporsi alla “crudeltà del mondo” attraverso la
“comprensione” che vogliamo provare a parlare di perdono, inteso come ne
parla Adolfo Ceretti, quando afferma che “il perdono, nel dilatare il linguaggio di ciascuno per aprire uno spazio
di coabitazione, di copresenza, non elimina il passato ma obbliga le parti a
disinnescare le singole memorie congelate e ad avviare una narrazione a più
voci attraverso la quale “io” accetto che gli altri, come me, possano dire
“io’”.
Ma per disinnescare
le singole memorie congelate è importante avviare un dialogo
su responsabilità e riconciliazione: il dialogo sarà condotto da Carlo
Riccardi, criminologo e mediatore penale, e da Adolfo Ceretti, che
con Ristretti Orizzonti affrontano da anni una riflessione sui possibili
percorsi di presa di coscienza, di incontro con le vittime, di mediazione dei
conflitti.
Ma ad aprirlo, questo dialogo, abbiamo
chiamato Claudia Francardi e Irene Sisi, due donne unite da una tragedia.
Claudia è la vedova del carabiniere Antonio Santarelli, che durante un posto di
blocco è stato colpito alla testa da un ragazzo di diciannove anni ed è morto
dopo più di un anno di coma. Irene è la madre del ragazzo che l’ha ucciso,
Matteo Gorelli, condannato inizialmente all’ergastolo, pena ridotta in appello
a venti anni.
Claudia e Irene hanno
deciso di fondare un’associazione perché “portando
la nostra testimonianza, raccontando la nostra storia, vorremmo sostenere
percorsi di riconciliazione”.
“Perdono”
è una parola complessa che va
maneggiata con cautela
di Adolfo Ceretti
Tutti
i temi che stiamo toccando sono molto profondi e predispongono a una conversazione
interiore.
Io
desidero ripartire provando a offrirvi un paradigma di lettura che non
necessariamente deve anticipare quello che ascolteremo. Si tratta di una
proposta. In breve, quando ascolto la parola “perdono” da una parte mi
illumino, dall’altra parte provo un senso forte di claustrofobia, perché
“perdono” è una parola complessa che va maneggiato con cautela. Sperando di
non apparire troppo narcisista, vorrei leggervi una frase che ho scritto
rispetto al perdono e che ho già pronunciato in questa sala: “Il perdono, nel
dilatare il linguaggio di ciascuno per aprire uno spazio di coabitazione, di
copresenza non elimina il passato ma obbliga le parti a disinnescare le singole
memorie congelate e ad avviare una narrazione a più voci attraverso la quale io
accetto che gli altri, come me, possono dire io”. Il fatto di poter dire
“io” senza avere l’orrore, il terrore, che qualcun altro dicendo “io”
mi offenda, è la posta in gioco, a mio modo di vedere, quando vogliamo
introdurre la parola “perdono” in una relazione tra perpetratore e vittima.
Con
questa riflessione lascio la parola a Claudia e a Irene. Forte della mia lunga
esperienza di mediatore reo-vitima e di cultore della giustizia riparativa non
anticipo nulla di quello che sarà il loro racconto. Non voglio dettare un
ordine del discorso volto a ingabbiare quello che ascolteremo. Lasciamo, al contrario,
direttamente Claudia e Irene dirci ciò che reputano sia importante per spiegare
l’intreccio delle loro storie, poiché ciascuna di loro oggi, dopo una
tragedia che le ha divise e poi incredibilmente unite, sia capace di dire
“io” senza che l’altra debba soffrire una forma di claustrofobia e, anzi,
ciascuna possa a sua volta dire “io” e, quindi, “noi”.
Spesso
il male va a toccare proprio
loro, quei giovani che
sono così fragili
testimonianza
di Claudia
Francardi
Non
mi era mai successo di iniziare piangendo, c’è sempre una prima volta. Non
sarà facile perché di solito veniamo annunciate e viene fatto il racconto di
quel giorno e invece oggi hanno chiesto a noi di raccontare. Era il 25 aprile,
il giorno di Pasquetta, del 2011. Antonio, mio marito, un appuntato scelto,
abruzzese ma divenuto toscano, io abito in Maremma, una delle zone più
tranquille d’Italia e del mondo, va in servizio come ogni volta, anche nei
giorni di festa, indossando orgoglioso la sua divisa della radiomobile e i suoi
stivaloni. In quei giorni era molto preoccupato perché tanti ragazzi si stavano
rovinando la vita in un rave party, adesso vanno di moda questi rave, in cui lo
sballo predomina, la musica non è musica, ma rumore, e lui era a fare il suo
servizio pensando di poterli salvare. Non era solo il rispetto delle regole ma
qualcosa che andava oltre; quando lui fermava questi ragazzi se non aveva pietà
togliendo la patente quando rispondevano positivi all’alcol test, lo faceva
non per il rispetto delle regole, anche quello, ma lo faceva perché credeva
profondamente che attraverso il rispetto delle regole si potesse cambiare. Uno o
due persone lo ringraziavano per questo, per aver cambiato vita, perché
togliergli la patente li aveva fatti riflettere che senza patente non potevano
lavorare. Magari uno non lo capiva, ma a lui non importava, a lui importava
crederci nel proprio lavoro, e spesso però era scoraggiato e diceva che non ne
poteva più e che sarebbe andato in un ufficio a pigiare un bottone, in realtà
poi non lo faceva mai, rimaneva con la sua divisa della radiomobile sempre veramente
orgoglioso del suo lavoro semplice ed umile, ma costante e fedele. Quel giorno
la sua vita si incrocia con la vita di Matteo Gorelli e di tre minorenni, li
ferma, loro venivano da una notte in discoteca a Firenze e avevano fatto tre ore
di macchina per raggiungere la Maremma. Li ferma, toglie la patente a Matteo
perché lui risulta positivo ed era neo patentato; Matteo si agita, ma lui con
la sua dolcezza, perché era come se avesse davanti suo figlio Nicolò e perché,
io lo conoscevo, lui amava tantissimo i ragazzi giovani, si spendeva sempre per
loro li portava sempre a giocare a pallone, era veramente un grande. Antonio
cerca di calmarlo e di farlo parlare e apparentemente Matteo si calma. Mio
marito si mette di spalle, lui era un carabiniere attento ma non coglie il
pericolo, sono dei ragazzi giovani e spesso invece il male va a toccare proprio
loro che sono così fragili; il collega Mimmo lo aiuta nella compilazione dei
verbali, perché si impiega molto tempo a riempire questi verbali, e lui non
voleva perdere tempo, voleva sbrigarsi perché c’era tanto lavoro da fare quel
giorno. I tre amici minorenni di Matteo si allontanano, non gliene importa
niente di consolarlo, erano solo preoccupati di come tornare a casa. Allora
Matteo vede un bastone di una recinzione che maledettamente si era staccato ed
era lì fermo da una parte e capisce, capisce che Antonio e Mimmo erano un
ostacolo e il bastone poteva liberarlo da quel problema, prende il bastone e
colpisce Antonio alla testa, non a una gamba, non a una spalla, ma alla testa e
Antonio cade immediatamente con un’emorragia e già comincia a perdere sangue
dall’orecchio. Matteo poi ha una colluttazione con Mimmo che perderà un
occhio perché gli scoppia il bulbo oculare. Gli altri ragazzi non lo bloccano,
non lo fermano, gridano soltanto, sono terrorizzati, hanno paura. Quando Mimmo
sviene prendono una torcia e continuano a colpire Antonio alla testa, pensando
che si potesse risvegliare, rubano i verbali e scappano. I ragazzi non
gridano, non chiedono aiuto, salgono in macchina con lui e scappano. Passa di
lì un’altra pattuglia, la pattuglia di Saturnia, vede lo scempio a terra e
segue la macchina, riesce a bloccarli sparando prima in aria e poi sparando alle
gomme e costringendoli a fermarsi. Matteo da subito in questo stato di follia,
di trance, non si sa cosa, poi Irene ve ne parlerà meglio, diventa reo
confesso, ammette di aver fatto tutto lui, e da lì comincia un’altra storia.
Io
vi parlerò del dolore che ho vissuto, stamattina De Leo ha parlato di lutti
traumatici, il mio è stato un lutto traumatico, anche se Antonio non è morto
subito, è stato 13 mesi in coma vegetativo, in coma irreversibile, una delle più
grosse disgrazie che possa capitare ad un essere umano. In realtà non è stata
una disgrazia perché il coma vegetativo ha permesso a mio figlio di poter
accettare questo lutto in maniera molto graduale. Antonio ha sempre detto che
sarebbe morto giovane, era una sua percezione, non legata soltanto al fatto di
essere un carabiniere, andava oltre. Diceva che lui non aveva paura della
morte, diceva che era stato una persona molto fortunata, perché nella vita
aveva fatto tutte le cose che gli piacevano: aveva trovato l’amore, aveva
avuto un figlio che amava, aveva un lavoro che gli piaceva e tantissimi amici.
Però diceva che aveva solo una paura, la paura che suo figlio non ce
l’avrebbe fatta. Lui ha sempre parlato della morte, del dolore, con il figlio,
gli diceva: “Apprezza ogni momento della vita perché non sappiamo mai quanto
durerà”. E lui gli rispondeva: “Babbo se a te succede qualcosa io non ce la
faccio, io mi ammazzo”. E quindi ho capito dopo, quando Antonio è morto, che
quei 13 mesi erano serviti a Nicolò, forse anche a me, forse anche alla mamma
di Antonio, per fare una discesa lenta, forse il Signore ci aveva veramente
graziato; ho pensato veramente che Antonio quel giorno sia arrivato al cospetto
di Dio e gli abbia chiesto: aspetta un attimo, ancora non è il momento perché
loro non sono pronti.
I
mesi di coma sono stati molto difficili perché è una via di mezzo, perché è
sempre lutto, perché a te dicono che sei una vedova bianca, ma di bianco vi
assicuro che non c’è niente, perché tuo figlio ha un padre, ma è orfano, e
diventa uno stato di pazzia, io la pazzia me la sono sentita passare vicino. Non
riuscivo nemmeno a fare le cose banali, racconto sempre che dovevo fare il
censimento, prendo questi fogli e non sapevo da che parte girarmi, dovevo
compilare e c’era scritto: quanti siete in famiglia? Una domanda
semplicissima, ma io non sapevo cosa scrivere, quanti siamo in famiglia, perché
in teoria saremmo in tre, ma forse siamo in due, perché Antonio è nel limbo,
perché non si sa dov’è. E quindi andai in Comune e agli impiegati dissi:
“Vi prego di riempirmi voi questi fogli perché io non sono in grado di fare
questo”, una cosa banalissima, non ero in grado di farla. Avevo perso la
voglia di vivere, non avevo più concentrazione, non avevo più voglia di
leggere, non riuscivo più a dormire, io che prima riuscivo a dormire anche
dieci ore di fila, dormivo un’ora per notte. Qui c’è la mia amica Marisa
che mi dava continuamente valium, ho girato psichiatri, mi sono dovuta curare,
ma non c’era niente da fare nonostante le cure che mi tiravano su magari piano
piano, ma dormire non se ne parlava. Ho ricominciato a dormire, perché Antonio,
nonostante fosse in coma, probabilmente mi ha voluto fare il regalo di Natale, e
quando era ancora vivo in uno stato penoso, la notte di Natale io andai a
trovarlo ad Imola, non so, tornando via stavo malissimo, ero disperata, perché
l’atmosfera esterna non corrispondeva per niente a quello che avevo dentro,
tornata a casa ho dormito 10 ore, sono andata a letto alla sera alle 11 e mi
sono risvegliata alla mattina alle 9 per la prima volta. Quindi ho capito che
anche se lui era in coma e sentivo quest’anima prigioniera, perché io avevo
incominciato a pregare perché lui morisse, sapevo che comunque lui c’era e io
non posso avere un approccio laico, scusatemi, non posso non parlare di Dio in
questo mio intervento, perché Dio mi ha salvato, perché nonostante la voglia
di morte e l’invidia che provavo per Antonio perché avrei voluto essere al
suo posto e non soffrire così tanto, non ho perso mai la speranza, perché
avevo questo tunnel davanti molto buio, ma c’era un lumicino in fondo ed era
la luce della mia fede nella quale io ero cresciuta e diventata adulta, con i
miei momenti di dubbi, di lavori in corso, ma la preghiera mi aveva sempre sostenuta.
Ero diventata stanca di pregare e ho anche accusato Dio, lo facciamo tutti in
questi momenti, dicendo: Ti sei scordato di me? Che cosa ti ho fatto? Però
sentivo che non era giusto accusare Lui, che comunque il male ce lo facciamo tra
di noi e che comunque invece è vero che Antonio era stato scelto. Dietro
c’era un progetto d’amore perché è vero, io credo fermamente che dietro ci
sia sempre un progetto d’amore, anche di fronte alle avversità e al dolore,
che Lui ci ami profondamente, perché quando Gesù ci parla del Regno, ci parla
di un invito a un banchetto, a una festa. Ma lì di festa c’era poco per me.
Io non mi sopportavo nel dolore, nel rancore, anzi nel dolore sì, perché per
me il dolore è stato uno stato di grazia, un capire molto più profondamente
quello che prima capivo solo in superficie, adesso ero andata fino in fondo,
avevo capito veramente cosa significava. E siccome piaceva tanto ad Antonio un
libro sacro, L’”Ecclesiaste”, “C’è un tempo per amare e un tempo per
odiare”, io in questo tempo per odiare, che non è stato odio, è stato un
tempo di rabbia, io non mi ci riconoscevo, io non me lo sentivo addosso, non mi
apparteneva, stavo male in quel momento di rabbia, che però ho provato, non lo
nascondo, e forse sarebbe da malati mentali non provarlo.
E
quindi è cominciato a poco a poco un pensiero anche rivolto a Matteo, al figlio
di Irene, che è il ragazzo che ha ucciso Antonio. Ovviamente la prima volta che
l’ho visto, e l’ho visto in aula, gli ho gridato contro, l’ho chiamato,
c’è stato un attimo in cui il giudice si era allontanato, era l’unico
momento in cui potevo chiamarlo e farlo girare e dirgli di guardarmi e quindi
l’ho chiamato, ho gridato “Matteo ti prego guardami”, e siccome in aula
bisogna stare zitti, ho tirato fuori tutto quello che avevo dentro e gli ho
chiesto “Perché Matteo, che cosa t’abbiamo fatto noi? Perché? Lo vedi
quanto soffro? Lo vedi quanto sto male?”. E lui non ha retto il mio sguardo,
si è messo le mani in faccia, le guardie l’hanno protetto, lo hanno nascosto,
e ha abbassato la testa e ha cominciato a piangere. E poi le volte successive
sempre più sguardi, sempre più lacrime fino ad arrivare al 7 dicembre 2012
quando Matteo è stato condannato all’ergastolo. Lì è successo un miracolo
perché sapete io ho chiesto tanti miracoli alla Madonna, io ero stata anche a
Medjugorje e chiedevo sempre che Antonio si salvasse, poi ho capito che non si
poteva più salvare e allora l’ho pregata perché lo liberasse
dall’oppressione del coma, e questi miracoli non sono arrivati, non sono
arrivati quelli fisici, perché Antonio non è stato salvato fisicamente perché
Antonio doveva avere la vita tagliata, la sua vita doveva essere sacrificata per
generare nuova vita, nuovo amore. Però sono arrivati tanti altri miracoli,
tantissimi miracoli, potrei scrivere libri sui miracoli che tuttora stanno
accadendo e il 7 di dicembre nessuno si aspettava la pena dell’ergastolo per
Matteo in primo grado (in appello adesso gli sono stati dati 30 anni e ridotti
a 20 col rito abbreviato).
Ma
inaspettatamente il giudice sentenzia e dice: Ergastolo. Io mi sono sentita
male, ve lo giuro, ve lo giuro su mio figlio, mi è crollato il mondo addosso,
perché Antonio comunque non tornava e perché questa pena mi dava un senso di
oppressione. Mi sentivo forse per la prima volta in maniera così intensa nei
panni di Matteo, una non speranza a un ragazzo di 20 anni. Tanti gioivano
intorno a me e non capivo come si potesse gioire, io ho avuto i conati di vomito
e mi sono sentita male anche nei giorni successivi. Girando lo sguardo verso
Matteo lui sorrideva. Io ho pensato che fosse impazzito. Ho detto “Questa
sentenza l’ha distrutto, l’ha fatto impazzire”, però rimanevo con questo
dubbio: chissà che cosa mi voleva dire con quel sorriso. E quando poi io ho incontrato
Matteo su consiglio degli avvocati, noi avevamo già espresso il desiderio di
incontrarci, ci siamo visti dopo il processo di primo grado, quindi il 28
gennaio 2013 alla comunità di Don Mazzi, lui mi ha spiegato che quel sorriso
era perché lui aveva fatto una cosa talmente grossa che quelle pena riteneva di
essersela meritata e sorrideva per dirmi di stare tranquilla. Vedeva che stavo
male e aveva bisogno di dirmi che invece dovevo tranquillizzarmi. Quindi capite
che stavo mettendo in atto una delle cose più grandi, uno dei pilastri
universali, pilastri che sono stati relegati in un angolo, la compassione e la
misericordia, parole che sono passate di moda ma che amo tirare fuori senza
vergogna, perché è stancante tutte le volte trovare persone che ti fermano e a
volte non ti chiedono nemmeno come stai, ma ti chiedono: cosa fanno quei
ragazzi? Quanti anni gli hanno dato? Queste sono le considerazioni, che
marciscano in galera, buttiamo via le chiavi. Io la chiamo non giustizia, ma
giustizialismo, sono degli slogan oggi, ci hanno imbottito di slogan, questi
ragazzi escono con gli slogan, perché gli slogan si fa prima a impararli, non
c’è da sforzarsi, non c’è da mettersi a fare esami di coscienza, non c’è
da far silenzio, sono preconfezionati, pronti, te li spiattella lì qualcuno e
tu li propini al momento giusto e fai anche bella figura. Non è questo, i
pilastri come la compassione e la misericordia e la giustizia alta non vanno
dimenticati. Ci dobbiamo lavorare sulle virtù, io e Irene ai ragazzi diciamo
che ci dobbiamo vergognare a volte perché non vi abbiamo insegnato la virtù,
perché di qualcosa dobbiamo essere riempiti e se non riempiamo i nostri ragazzi
di virtù arriva il vizio, non c’è niente da fare. Lo spazio viene colmato da
altre cose. E se non c’è compassione, c’è senso di vendetta, c’è senso
di rivalsa ma non serve a nessuno, non migliora nessuno, non ci porta da nessuna
parte. E quindi è questo in cui io e Irene crediamo. Poi lei vi racconterà
come ci siamo conosciute
e
quali sono state le modalità ed è per quello che il nostro messaggio vuole
essere un messaggio semplice. Noi siamo persone normali, non abbiamo neanche le
vostre competenze, non abbiamo studi, io sono una ragioniera e lavoro in banca.
Però la nostra vuole essere una testimonianza semplice e umile e anche
rispettosa di chi non riesce a fare questi percorsi. Ma semplicemente vogliamo
dire che se persone normali come noi ce l’hanno fatta, ce la possono fare
anche gli altri, perché in questo percorso di riconciliazione fianco a fianco,
io non dico a Matteo “Ti perdono”, perché questo significherebbe mettermi
in una posizione alta. Io dico a Matteo che sono una persona che ha bisogno di
perdono come lui, che Gesù quando ci perdonerà lo farà per tutti uguale, anzi
forse avrà più pietà quando gli passeranno davanti le prostitute, i ladri e
forse anche gli assassini. Quindi io mi voglio mettere a pari suo perché
conosco i miei errori, i miei sbagli, perché si può uccidere in tanti modi,
perché si può uccidere con le parole, con i gesti e non mi sento
assolutamente, ve lo dico col cuore aperto, migliore di Matteo. Mi sento una
persona che deve camminare al suo fianco. Il nostro percorso di riconciliazione
è questo, è un dire: eccomi, adesso sono qua, magari ci rivedremo tra tre
mesi, non avremo contatti frequenti ma io prego per lui ogni mattina, prego per
voi tutti detenuti e la preghiera è il nostro contatto, poi ci saranno degli
incontri forse più frequenti, non sappiamo dove andremo, non sappiamo quello
che potrà avvenire, però per lo meno ci proviamo. Questo ci permette di
tornare a vivere e non restare rancorosi, chiusi ognuno nel proprio dolore, ma
ci permette di progredire e di non restare lì in qualcosa di fermo e inutile.
Io il mio dolore lo voglio spendere bene, perché so quanto mi è costato e
quindi adesso lo voglio donare ed è per questo che sono qui e vi ringrazio.
Ho
dovuto prima perdonarmi per perdonare mio figlio
testimonianza
di Irene
Sisi
Io
sono la mamma di Matteo Gorelli. Sono qui oggi con Claudia per parlare di
perdono, di verità e di riconciliazione. Io ho saputo che mio figlio era in
carcere perché sono arrivati i carabinieri a casa a farmi una perquisizione.
Gli ho chiesto che cosa ero successo e loro mi hanno detto: “Suo figlio è in
carcere, ha tentato di uccidere due carabinieri”. Io non vi nascondo che lì
per lì non ci credevo, ho cominciato con le solite bugie che tante volte ci
vogliamo raccontare: sarà passato qualcun altro, sicuramente non è stato lui,
probabilmente saranno state le persone che erano con lui. Io non mi rendevo
conto di quanto era grave la cosa, poi mia sorella ha acceso la tv e mio figlio
era su tutti i telegiornali. Quando ho visto mio figlio con la tuta bianca e i
carabinieri, ho visto lo sguardo di mio figlio e ho capito che era stato lui.
Quindi ho dovuto riprendere tutte le mie forze e andare in carcere da mio
figlio. Questa giornata è emozionante perché è un anno e mezzo che non metto
piede all’interno di un carcere. Sono entrata in carcere da mio figlio dopo 15
giorni, la prima volta che l’ho visto e ci ho parlato, gli ho chiesto scusa,
ho chiesto scusa io a mio figlio perché probabilmente se è arrivato a fare
quello che ha fatto io avevo delle responsabilità di quel gesto. Quindi ho
cercato di fare un percorso con me stessa per capire le mie colpe, anche se alla
maggior parte delle persone non piace chiamarle così, ho dovuto prima
perdonarmi per perdonare mio figlio.
Ho
deciso dopo pochi mesi di scrivere a Claudia, le ho scritto una lettera perché
io sarei andata subito la sera stessa in ospedale anche a farmi trattar male,
anche a farmi dire le peggiori cose perché era giusto così. Io volevo essere
una spugna per il dolore di Claudia, per il dolore di Nicolò, figlio di Claudia
e di Antonio, per la famiglia di Antonio, però poi le ho scritto una lettera
perché ho detto: se vuole la legge, altrimenti la mette nel cassetto. Claudia
ha letto la lettera e subito dopo noi ci siamo incontrate. Era ottobre, ci siamo
guardate, ci siamo abbracciate, io le ho chiesto scusa, Claudia mi ha detto
“Io non ti giudico” e da lì è iniziato il nostro rapporto. Un rapporto,
non vi nascondo, molto difficile all’inizio, anche perché è stato un rapporto
di incontri e di telefonate. Io quando sono entrata in carcere mi sono giurata
che gli sbagli che avevo fatto come madre, non li avrei più fatti, quindi ho
voluto rendere responsabile mio figlio fino in fondo dell’errore gravissimo
che aveva fatto. In carcere come sapete tante notizie non passano, a Matteo gli
veniva detto che Antonio stava abbastanza bene, che forse si risvegliava. Quando
Claudia mi ha chiesto di andare ad Imola dove Antonio era ricoverato in coma vegetativo,
sono andata e lì mi sono veramente resa conto, sono passate tutte le mie
speranze che Antonio si potesse risvegliare, e se si fosse risvegliato, come
si risvegliava? Quando sono ritornata a casa, dopo due giorni sono andata in
carcere da Matteo per tenere fede fino in fondo alla promessa che mi ero fatta.
Gli ho detto: hai levato la cosa più alta ad Antonio. Se davvero gli vuoi fare
un dono prega perché il Signore se lo riprenda a sé. Anche se questo avrebbe
cambiato il capo d’imputazione, si passava da tentato omicidio a omicidio, però
noi abbiamo pregato. Claudia pregava perché a Matteo gli potesse essere levato
l’ergastolo, noi pregavamo per Antonio. Come ha detto Claudia prima Matteo ha
confessato, ha rinunciato a tutti i benefici, agli arresti domiciliari, ha
sempre fatto un percorso di responsabilità, e poi è stato spostato alla
comunità Exodus di Don Mazzi, dove ha potuto incontrare Claudia, e fino a oggi
ha potuto testimoniare perché il perdono è un dono che gli viene fatto a
Matteo, quindi lui deve testimoniare giornalmente il fatto di voler diventare
una persona migliore, una persona che se Claudia vorrà, se Nicolò vorrà, potrà
essere d’aiuto e dare un senso a tutta questa pazzia che ha come data il 25
aprile.
In
nome di questo io e Claudia abbiamo fondato un’associazione che si chiama
“AmiCainoAbele” dove c’è dentro la parola amore e anche la parola amica,
perché in questo lungo percorso io e Claudia siamo diventate amiche. Il nostro
è stato un abbraccio di dolore, ci siamo aiutate, ci siamo conosciute, abbiamo
imparato a volerci bene. Un po’ di tempo fa siamo state tutte e due a un
convegno a Roseto degli Abruzzi, nella terra di Antonio e lì c’è stato uno
dei primi miracoli, sono stata invitata dall’arma dei Carabinieri, siamo
andate a parlare e io ho parlato davanti alla famiglia di Antonio, ho conosciuto
i fratelli e la sorella di Antonio e anche lì è successo un altro miracolo:
Ida la sorella di Antonio mi ha fatto delle domande, ne ha fatte tante su
Matteo, sul perché, come mai e dopo che io le ho risposto lei si è
tranquillizzata, era più serena, e anche a questo servono questi percorsi. Ecco
perché nasce la nostra associazione, per testimoniare come ha detto Claudia
prima, che se ce l’abbiamo fatta noi tre con l’amore e con la fede ce la può
fare chiunque, basta mettere prima di tutto l’amore. Grazie
Perdonare
non significa cancellare un debito, ma sciogliere dei nodi
di
Adolfo Ceretti
Soltanto
un insensibile cercherebbe di commentare queste parole. Penso che ognuno di noi
sia chiamato in questo momento semplicemente ad accoglierle in base alla sua
sensibilità e ai suoi valori.
Le
difficoltà che tutti noi abbiamo, quando cerchiamo di capire che cosa siamo
chiamati a fare quando affrontiamo l’esperienza del perdono, sono evaporate
dopo questa narrazione. Ha probabilmente ragione un grande studioso, Paul
Ricoeur, quando sostiene che perdonare non significa cancellare un debito dalla
tabella dei conti, al livello di un bilancio contabile, ma sciogliere dei nodi.
E noi oggi, qui, abbiamo compreso che cosa significa. In particolare, abbiamo
capito che i nodi da sciogliere riguardano la possibilità di sopravvivere al
proprio dolore. Molto, e non solo da Ricoeur, è stato scritto anche
sull’oblio. Ci sono pagine straordinarie che suggeriscono che cosa significa
da una parte cercare di dimenticare, dall’altra non cancellare la memoria di
un evento doloroso, ma poterlo mantenere dentro di noi senza riattivare
continuamente quella sofferenza atroce che inchioda rei e vittime al drammatico
fotogramma del film di un’intera vita. Per procedere in questa direzione
ognuno trova le sue parole, lo fa con la sua sensibilità, lo fa con il suo
vocabolario, con il suo mondo interiore.
La
vostra testimonianza è stata sottolineata da un applauso, che ha raccolto anche
la vostra fatica, perché ogni volta – lo so perfettamente per esperienza, nel
mio caso per fortuna solo professionale – ripercorrere il proprio racconto
doloroso significa tornare in contatto con tutto quello che è accaduto. Ma a
voi questo ha aiutato e aiuta, a differenza di altri, a uscire dalla vostra
claustrofobia.
Incontrare
l’Altro
di
Carlo Riccardi, criminologo
e mediatore penale
Parlare
di giustizia riparativa non ha a che fare solo con l’adozione o la creazione
di strumenti per la gestione dei conflitti; parlare di giustizia riparativa –
e di tutti i suoi corollari – ci fornisce un supplemento di riflessione nel
nostro orizzonte, nel tentativo di costruire un’idea di società differente,
una società decente, che oltre a non umiliare attraverso le Istituzioni
coloro che vi abitano, sia capace di includere. La capacità d’includere e non
di escludere, di riparare e non di “spezzare le relazioni” ha alla propria
base un tema decisivo che riguarda l’Altro.
Devo
ammettere che è difficile dire qualcosa di sensato dopo aver ascoltato
l’esperienza di dolore di Claudia e Irene. In questo racconto ho sentito la
possibilità che il dolore di entrambe fosse un dolore pieno. Il dolore
pieno lo si riconosce all’Altro proprio quando si riconosce che c’è un
Altro nella sua pienezza; ma non è sempre cosi.
Il
mio intervento vuole avere ad oggetto il concetto dell’Altro, di che cosa
significa incontrare l’Altro; nel corso della giornata il tema dell’Altro è
entrato più volte nei racconti che ci sono stati fatti. Servono quindi pochi
spunti per poter iniziare questo dialogo.
Non
mi sembra di andare lontano dal vero affermando che quando ci rivolgiamo agli
altri, spesso, lo facciamo in un senso esclusivo. I gruppi sociali, tutti
noi, abbiamo quasi una necessità di creare la figura dell’altro. Si crea la
necessità di differenziare chi sta fuori da chi sta dentro, cercando
subito quegli elementi che differenziano noi dagli altri affinché su tali differenze
si possa iniziare a separare, a tracciare un solco tra noi e gli altri. Uno dei
meccanismi per creare la figura dell’altro sta nell’inserire un soggetto
all’interno di una categoria. Si annulla l’individualità, inserendo
l’altro o gli altri in una storia anonima e collettiva: l’incontro con
l’altro avviene in quanto il soggetto appartiene a quella determinata
categoria. Quando si parla dei “delinquenti” la storia individuale si
stempera in quella collettiva dando vita a quei discorsi in cui le categorie
prendono il sopravvento e, per fare un esempio, “dei romeni bisogna avere
paura perché sono criminali”. Quando si parla di vittime, allo stesso modo,
si crea una categoria generale che non ci consente di percepire in profondità
cosa significhi essere vittime; lo percepiamo solo quando ascoltiamo il racconto
di Claudia Francardi, di Carlo Arnoldi che ci ha detto che a distanza di tanti
anni non si smette mai di essere vittime e il ricordo è sempre là, come se ci
fosse questa fotografia, che ogni volta che si racconta ci porta ad un tempo
immobile. Nel corso della giornata abbiamo ascoltato tante storie individuali e
ne abbiamo tratto tutta la ricchezza ma, mi ripeto, non siamo sempre capaci di
questo. Spesso sostituiamo la profondità che sarebbe necessaria per affrontare
certi ragionamenti con una visione superficiale degli accadimenti,
collettivizzando il discorso invece che individualizzarlo.
Non
è così semplice avvicinarsi agli altri accettando che gli altri abbiano delle
storie individuali; una citazione di De Andrè mi sembra molto pertinente quando
dice che il dolore degli altri è dolore a metà. Se pensiamo a queste
parole, possiamo accettare di dirci che quando ci avviciniamo alle storie
degli altri ci raccontiamo che ciò che gli altri provano, sì, lo posso capire,
ma quello che stanno provando non sarà mai come quello che potrei provare io se
mi trovassi nella stessa situazione. È un po’ come se l’altro fosse
legittimato a provare qualcosa ma che quel qualcosa noi lo
percepissimo come non così “importante”. Ciò non significa avvicinarsi
agli altri concedendo loro la possibilità di provare qualcosa di pieno.
Se questo accenno iniziale di ragionamento è accettabile – e poi vedremo se
lo è durante il dialogo – la visione dell’altro in un senso di esclusione
non consente di inserirlo, con la pienezza necessaria, nei nostri orizzonti di
pensiero.
Anche
il reato rappresenta una delle forme più gravi del non vedere e pensare
l’altro, dove le parole vedere e pensare vogliono
significare la capacità di considerare l’altro come soggetto vivo che ha
un’esperienza, delle doti, dei difetti, dei sogni, dei pregi, delle paure.
L’altro possiede tutto ciò che appartiene anche a noi in quella “zona di
campo” comune all’essere umano. Commettere un reato significa anche andare
ad incidere su questa zona, non ritenendo che quella parte di umanità che condividiamo
con l’altro sia sufficientemente considerata come degna di non subire
violazioni. Anche qui le parole aiutano a concretizzare il ragionamento. Quando
si sente dire che “quando commettevamo reati pensavamo solo a noi stessi”
o, ancora, “non credevo di avere vittime” si sta esattamente traducendo
in parole l’incapacità di vedere e pensare l’altro. Commetto un reato
sapendo che la mia azione è “ingiusta” ma non sempre sono in grado di
percepire tutte le conseguenze che il mio agito può avere nella vita delle
persone. Lo diceva anche Adolfo Ceretti questa mattina: sembra che il reato sia
chiuso all’interno del momento dell’azione, senza che ci si ponga il problema
di quali siano le conseguenze di questa azione. Di conseguenza, il dolore degli
altri è un dolore a metà, ad esempio, quando tu entri armato in una banca (la
rapina è un esempio, ma pensate a qualsiasi reato vi venga in mente) e in quel
momento non “accetti”, non concedi, che l’altro possa essere terrorizzato
dalla tua azione, e che quel terrore lo accompagni poi per anni, incidendo sulla
sua vita, modificandola. Perché questo? Perché chi compie quell’azione lo fa
immaginando che il tempo si cristallizzi in quell’istante e che tutto finisca
velocemente come è iniziato. Infatti, spesso, le parole di questo racconto sono
anche parole che dicono: “in fondo sì è vero, avevo un’arma, ma io
sapevo che non sarebbe mai accaduto niente”.
In
questo momento cristallizzato – uso questa fortunata espressione – chi sta
dall’altra parte dell’arma crede esattamente l’opposto: immagina che la
sua vita sta per concludersi, incamera il terrore dell’esperienza e inizia, mi
ripeto ancora, a vivere un’esistenza condizionata.
Se
quindi la commissione di un reato possiede tutta questa articolazione,
l’incontro con gli altri, per essere un incontro che ha il significato che
intendiamo noi che ci occupiamo dei temi della mediazione e della giustizia
riparativa, deve essere un incontro con l’altro “pieno”, dovendo cioè
considerare tutto ciò che l’atto delittuoso ha provocato, ricordando che
quando un reato viene commesso non si incide solamente sul bene protetto
giuridicamente, ma si causa la perdita di tutto quello che una persona
rappresentava per sé e per la propria famiglia. Proprio in questo senso mi ha
colpito il racconto di Carlo Arnoldi. Mi ha molto colpito questa umanizzazione
della vittimizzazione. Mi ha colpito molto ciò che Carlo ha raccontato, di
questo sogno del padre di avere una sala cinematografica; questo cinema era la
passione del papà e questo reato non ha distrutto solamente la vita, ma ha
distrutto anche ciò che questa vita, probabilmente, rappresentava per Carlo,
con tutti i lati simbolici che questo cinema poteva rappresentare allora e,
forse, può rappresentare anche oggi.
Perché
è difficile anche essere vittime; sovente noi, come opinione pubblica, diciamo
“povere le vittime”, però poi verso queste vittime, che anno dopo
anno reclamano, noi cominciamo spesso a dire “ma che cosa reclamano, cosa
vogliono ancora?”. Nei titoli di coda di quel film però, ciò che non
termina e che non smette mai è l’essere vittime.
Ma
cosa significa vedere e sentire l’altro? Questa capacità di riconoscere
l’altro in un senso pieno, non significa che una persona potrà mai provare il
dolore che ha provato l’altra, ma sentendola come altro pieno noi siamo in
grado di accettare nel nostro orizzonte di pensiero che costei abbia provato ciò
che ha provato. Le riconosciamo la possibilità di aver provato un dolore pieno
e non un dolore a metà. Citando Ceretti, “accettando che gli altri, come me,
possano dire “io”, un “io” pieno come lo è il nostro”.
Esattamente
su questo snodo si fonda, per noi, il significato profondo della responsabilità
che non diventa più solamente una responsabilità per aver commesso qualcosa ma
una responsabilità verso qualcuno, verso colui che della mia azione ha
subito le conseguenze. “Senza di me ciò non sarebbe mai accaduto”;
da qui, da questa frase, si sviluppa quella responsabilità che a noi interessa
e che trova il suo momento fondativo nell’incontro con l’altro.
Questo
modo di concepire la responsabilità è lontano dal tipo di responsabilità,
seppur legittimo e importante, attivato dalla pena detentiva, la quale non
chiede di dialogare con qualcuno del pluriverso di significati che il reato
assume. Probabilmente la detenzione innesca un dialogo con se stessi, con uno
specchio che, molte volte, ci rimanda l’immagine che noi stessi vogliamo che
rifletta. Molte volte sarà un’immagine a tinte fosche e intrisa della nostra
capacità assolutoria o, comunque, non così ricca delle sfumature che solo
l’altro ci può dare. Cosa la vittima ha vissuto, quali conseguenze ha avuto
dal reato, solo la vittima potrà dircelo in modo completo e articolato.
Siamo
arrivati a questo punto, dove vuol iniziare il dialogo con la Redazione e, nello
specifico, mi piacerebbe iniziare domandandovi qual è nella vostra esperienza
– nei percorsi che state facendo, che stiamo facendo – la differenza nel
dialogare con se stessi e nel dialogare con gli altri nel significato che ho
cercato di descrivere. Perché questo credo che sia un tema centrale di tutto il
discorso che abbiamo ascoltato oggi. Questo è il primo punto, la domanda è
rivolta a tutti, quindi chiunque voglia rispondere può farlo.
Biagio
Campailla: Ecco, dialogare con gli
altri mi ha aiutato a riconoscere quello che avevo fatto, dialogare in
particolare con gli studenti mi ha fatto capire chi ero e le responsabilità che
avevo, ecco quello che mi è successo da quando ho avuto modo di iniziare un
confronto con persone diverse da quelle che vedo ogni giorno nella sezione di
Alta Sicurezza in cui mi trovo.
Clirim
Bitri: Dialogare con gli altri vuol
dire per esempio come oggi sentire la storia di Claudia Francardi e ripensare in
modo diverso al mio reato, anche io sono stato autore di una lesione nei
confronti di un pubblico ufficiale, anche se lieve. Ma soprattutto confrontarsi
con gli altri ti fa capire che anche l’altra parte, che prima proprio non
vedevi, è costituita di persone, e questo ti rende consapevole di quello che
hai fatto.
Secondo
me poi nelle condizioni in cui vive un detenuto, per trovare la forza di
confrontarsi con l’altro senza preoccuparti dei pregiudizi che può avere
verso di te ci vuole un grande coraggio. Per la prima volta chi (io) è stato
egoista e ha pensato solo a se stesso, si mette a raccontare le cose che
vorrebbe dimenticare a migliaia di studenti con la speranza che chi ti ascolta,
se per caso si trova nelle condizioni simili a quelle in cui mi sono trovato io,
NON faccia la mia scelta. Sentire i racconti di chi ha subito un reato,
immedesimarsi nelle sue sofferenze: non credo che ci sia modo più efficace per
mettere davanti alle proprie responsabilità chi è stato autore di reati.
Bruno
Turci: Il dibattito durante le riunioni
in redazione è stato sicuramente utile per comprendere le potenzialità del
confronto, mettendo in evidenza un aspetto importante, direi fondamentale, del
dibattito stesso: la necessità di ascoltare gli altri rispettando il tempo di
parola cui hanno diritto, nella consapevolezza di affermare in tal modo anche il
proprio diritto di parola. Questa esperienza ha prodotto un effetto domino che
ha spalancato la porta al confronto con gli studenti durante gli incontri che
avvengono in redazione. Questo effetto si produce anche durante tutti gli
incontri in redazione con gli invitati che molto spesso animano i nostri
dibattiti. Noi in redazione incontriamo moltissime persone appartenenti a
differenti realtà sociali: giornalisti, operatori sociali e pezzi di ogni
settore della società civile. Incontriamo anche le Istituzioni, come Deputati,
Prefetti, Assessori, periodicamente il Direttore del carcere e i Magistrati di
Sorveglianza e con loro nasce un dibattito riguardante anche temi difficili, e
ciò si svolge in maniera che lo scambio sia franco ma nel rispetto del ruolo di
ognuno. Anche questo è un confronto che permette di mettere in gioco i retaggi
del nostro passato. Questo è un modo che insegna ad accettare gli altri in un
reciproco riconoscimento. Senza ipocrisia.
Carmelo
Musumeci: Il problema non è solo
dialogare con se stessi e con gli altri, ma è anche ascoltare. Ascoltare la
testimonianza di Claudia e Irene per esempio, perché a sentire questa
testimonianza non so se voi ve ne siete accorti, ma qui molti di noi cattivi o
criminali, chiamateci come volete, ci siamo commossi, io per primo mi sono
commosso. Io credo che oggi abbiamo assistito a come dovrebbe essere il carcere,
che significa che questa testimonianza ci ha fatto pensare molto, perché un
conto è sentire il dolore tramite la televisione, un conto è leggerne il
racconto, un conto è ascoltarlo. Ecco io credo che tramite queste testimonianze
si possono sconfiggere certi fenomeni, qualsiasi fenomeno criminale, perché non
si può rimanere indifferenti davanti a fatti di questo genere. Grazie di cuore
per averci reso partecipi.
Qamar
Abbas Aslam: Per me sono stati molti
gli elementi di svolta quando ho cominciato a vedere la possibilità di
confrontarmi in carcere. Prima di tutto sono uno straniero e avevo già
difficoltà a confrontarmi con altre persone. Poi quando ho commesso l’omicidio
in una rissa, subito dopo mi sono costituito, però quando sono entrato in
carcere, in quel momento è scattato quel meccanismo per cui ho cominciato a
sentirmi una vittima essendo rinchiuso 22 ore al giorno in una cella di tre
metri per tre con altri due compagni. Provavo odio verso le istituzioni, in
questo caso prima di tutto verso gli agenti di polizia penitenziaria, e non
pensavo mai al male che avevo causato, ma solo che mi ero difeso da quelle
persone che volevano farmi del male. Poi è successo il contrario, ho cominciato
a pensare che con il mio gesto, la mia reazione ho definito la morte di una
persona come me e che è giusto che io paghi il mio debito con la Giustizia.
Questo è avvenuto perché circa quattro anni fa ho iniziato una carcerazione
diversa, soprattutto grazie alla redazione di Ristretti Orizzonti, dove c’è
la possibilità di confrontarsi con una piccola parte della società,
precisamente si aderisce al “progetto scuola carcere”, ad incontri con altre
persone esperte in materia di carcere e tutto ciò che gli gira attorno e anche
con le vittime dei reati come quello che ho commesso io. In particolare, quando
abbiamo avuto un incontro con il mediatore penale Carlo Riccardi e il
criminologo Adolfo Ceretti, ascoltando i loro ragionamenti ho cominciato a farmi
delle domande, ho iniziato a riflettere sul mio reato, e questo succede anche
quando gli studenti fanno delle domande profonde che ti spiazzano.
Ecco
questi sono stati gli elementi che mi hanno spinto ad accettare il confronto con
gli altri e a riflettere sul ruolo di una persona che commette un reato.
Quando
ho capito che il confronto poteva aprire nuovi spazi, ho pensato a che cosa mi
era mancato rispetto alla carcerazione prima di arrivare a Padova, e ho capito
che solo un percorso di confronto ti permette di rivalutare certi concetti.
Finché non ho assistito a questo tipo di confronto, non pensavo mai al male
fatto, minimizzavo, e tanto meno pensavo ai famigliari della vittima, poi dopo
questo tipo di incontri, soprattutto quando ho iniziato a partecipare
attivamente al “progetto scuola/carcere”, ho cominciato a riflettere sul
male fatto. All’inizio non me la sentivo di raccontare la mia storia agli
studenti perché la ritenevo molto violenta, poi pian piano ascoltando i miei
compagni che raccontavano, ho cominciato a pensare che magari attraverso la mia
esperienza i ragazzi potevano recepire qualche punto dove io ho sbagliato. Mi
sono convinto ed ho capito che questo percorso è servito più a me che a
loro. Quando gli studenti fanno le domande anche abbastanza crudeli, che ti
mettono davanti alla tua responsabilità, la risposta automaticamente è
sincera, perché davanti a loro non puoi mettere la maschera. Diversamente,
dialogando con se stessi è facilissimo giustificasi e trovarsi l’alibi per
non accettare le proprie colpe. Dialogando con gli altri cerco di capire per un
semplice motivo: ho imparato ad ascoltare, ragionare e riflettere e a mia volta
esprimermi in modo costruttivo. Mi ricordo benissimo quella volta che il
mediatore penale ha fatto un esempio importante: quando una persona va davanti
ad uno specchio, vede se stesso riflesso e cerca la verità che vuole la sua
persona, ma non quella dei fatti. E questo mi ha colpito molto, ho iniziato a
riflettere e rielaborare il mio passato, a farmi delle domande: come si poteva
evitare quella rissa dove ho procurato la morte di una persona, il dolore che ho
causato alla famiglia della vittima. Oggi penso che sì, io sconterò il mio
debito con la giustizia, ma con me stesso mai, perché l’omicidio è un reato
che rimane per sempre per tutta la vita dentro di me, non esiste la parola ex
assassino come ex ladro o ex tossicodipendente. Ecco quando e come sono riuscito
a capire che non potevo mentire più a me stesso e dovevo aprirmi a nuove
prospettive.
Erion
Celaj: Prima di tutto parlare con se
stessi solamente significa non avere dubbi, uno ha spesso l’autoconvincimento
del giusto, si dice anche “sono nel giusto”, parlare con gli altri significa
avere un confronto vero. Allora dal momento che uno ha un confronto un po’ di
dubbi gli possono passare per la testa.
Racconto
brevemente due episodi che mi sono capitati parlando con gli altri. Uno è
successo durante un incontro con le scuole, un mio compagno detenuto usò un
termine, dando una risposta a uno studente, parlò di una scintilla, che
bastano piccole cose a un carcerato per farlo cambiare, per fargli scattare una
scintilla dentro. Mi piacque come frase ma non riuscii a capire il senso, questo
è il primo episodio. Il secondo episodio è di una ragazza, una studentessa
che durante un incontro della sua classe con la redazione raccontava di aver
subito un lutto in famiglia, e piangeva, piangeva con tanta dignità, ma il suo
lutto non era “naturale”, lei aveva perso il padre per mano di qualcun
altro. Questa ragazza è praticamente arrivata al punto che, mentre si
raccontava, ha detto che quello che è capitato a lei poteva capitare a
chiunque, ma nello stesso tempo poteva essere anche lei a commettere quel gesto
lì. Io sono rimasto un po’ basito e su in cella quella sera ho pensato alle
parole di quella ragazza e mi sono chiesto: ma perché mi gironzolano in testa
le parole di questa ragazza, come mai? Non è mia sorella, non è mia madre, non
è neanche una mia paesana, non era albanese quella ragazza che ha raccontato
quella storia, allora mi dico: come mai mi ha così colpito? E poi ho capito, e
ho capito anche le parole di quel detenuto, secondo me è scattata la scintilla,
la scintilla del confronto.
Oggi
guardo me stesso e cerco di capire perché dall’età di 18 anni ad oggi, che
ne ho 30, la maggior parte della mia vita l’ho trascorsa in carcere, senza
scuse o alibi, io sono cresciuto in una famiglia onesta, i miei genitori sono
stati dei genitori a tempo pieno. Eppure io non ho rispecchiato la loro onestà,
ho seguito ideali diversi e inseguendoli ho bruciato la mia gioventù. E mentre
bruciavo la mia gioventù mi sono reso conto che non avevo occhi per gli altri,
non riuscivo a guardarli, gli altri per me non esistevano, non guardavo il male
commesso, in quanto se avessi avuto un ritorno economico allora per me andava
bene. Ora, cosa succede oggi? Succede che sono arrivato in questo carcere e a
differenza degli altri carceri, dove ero abituato a vedere solo agenti e preti,
qui ho visto anche gli esterni, ho visto persone esterne che entravano in
carcere cercando di capire, cercando di confrontarsi. Grazie a queste persone
io ho una visione più limpida e chiara di me stesso, questo non significa che
io abbia tra le mani la verità assoluta, ho semplicemente dei mezzi che mi
aiutano ad avvicinarmi agli altri, oggi cerco di guardarli. La mia speranza è
quella che un giorno, quando io finisco la mia pena, la società non abbia nei
miei confronti il trattamento che io ho avuto nei confronti della società
stessa, che non veda in me solo il cattivo risultato finale e non mi etichetti
come un ex galeotto. Penso che l’essere umano per riconciliarsi abbia bisogno
di un confronto, di una presa di coscienza e di qualche sorriso, che poi ai
giorni nostri se ne vedono ben pochi. Senza dimenticare ciò che siamo stati, ma
pensando che si può diventare anche migliori.
Incontrarsi,
discutere, confrontarsi ognuno con le proprie idee significa anche avvicinarsi,
io penso che se la nostra realtà si avvicina alla vostra e la vostra si
avvicina alla nostra, una strada verso la riconciliazione potrà essere molto
più tangibile e reale.
Carlo
Riccardi: Il confronto è quindi così
tanto importante da poter far emergere la riflessione su una diversa
responsabilità? cioè sulla base di quali elementi il confronto con l’altro
stimola in modo tale, da mettere in grado di fondare una responsabilità
realmente differente?
Bruno
Turci: L’esperienza degli incontri
con gli studenti insegna che il confronto con l’altro impone una rivisitazione
dei fatti con modalità differenti rispetto a quando si parla con se stessi, in
quest’ultimo caso è come parlare allo specchio, non si riesce a scardinare
gli alibi che ognuno si costruisce e a riconoscere l’esistenza dell’altro e
con esso la sua dignità. Il confronto consente, invece, di rielaborare gli
accadimenti attraverso la narrazione di sé e questo induce alla riflessione sui
fatti reali, poiché posto davanti a me, l’altro assume una presenza reale,
quindi ineludibile. La presa di responsabilità è resa possibile proprio dal
fatto che io, accettando la presenza dell’altro, lo rendo visibile, con il suo
io, e perciò gli riconosco il diritto di esistere. E questo fatto nuovo mi
impedisce di sottrarmi ad una presa di coscienza, che mi impone di operare una
rielaborazione diretta a realizzare una restituzione tale da sciogliere quel
tempo immobile, congelato, di cui parlava Carlo Riccardi riferendosi alla
narrazione di Carlo Arnoldi.
Clirim
Bitri: Io credo che davvero il
confronto possa aprire nuovi spazi. Se nella “solitudine” del carcere uno
progetta e spera nel colpo perfetto che gli sistemerà la vita, agli incontri
con gli studenti, dove le persone detenute raccontano la verità non perché
sono condannate ma perché scelgono di farlo, sentendo storie diverse dalla tua
ti rendi conto tra l’altro che, se non decidi di cambiare, nella migliore
delle ipotesi finisci in carcere di nuovo.
Qamar
Abbas Aslam: Il confronto è molto
importante in questo luogo cupo e buio. Se viene messa un persona in carcere,
per un delitto grave come l’omicidio, come nel mio reato accaduto nel corso di
una rissa, è molto difficile pensare di assumersi la responsabilità, perché
la giustificazione più semplice è quella di essersi difesi, ma se mi viene
data una punizione e in carcere nessuno mi fa capire perché è stata data
questa punizione, è ovvio che non mi renderò conto del male fatto. Però il
confronto con le vittime e anche con altre persone esterne all’istituzione carcere,
mi fa capire il dolore che provoca un autore di un reato. Come è successo con
me. Un giorno ho assistito a un incontro con una signora che ha subito la
perdita di suo figlio in un incidente stradale, lei ha raccontato il suo dolore.
Poi è successo che in un incontro con una classe c’era una ragazza che ha
perso il padre, sempre in un incidente, lei ha fatto una domanda a noi: “Se un
drogato uccide sotto effetto della droga, che punizione gli dareste?”. Siamo
rimasti senza parole. Attraverso il loro dolore e la loro esperienza ho
cominciato a riflettere sul mio reato e rielaborare il mio passato, pensare a
come si poteva evitare quella rissa, perché io ora sono consapevole che ho
preso la decisione di accettare quello scontro fisico per una questione di
orgoglio. Ora ho iniziato ad assumere le mie responsabilità. Ascoltando il
ragionamento del mediatore Carlo Riccardi su come e cosa pensa una vittima, che
sensazione prova, con questo tipo di confronto ho acquisito maggiore
consapevolezza e responsabilità. E ho pensato anche molto di più al dolore che
ho provocato alla mia famiglia, che sta pagando conseguenze gravi a causa mia.
Ecco quanto è importante il confronto in carcere: è attraverso queste
esperienze che si raggiunge la propria responsabilità sul male fatto. Molte
volte ci penso e mi pongo questa domanda: “Se fossi rimasto chiuso in una
cella senza far niente dalla mattina alla sera, come sarei uscito a fine pena?
Certamente più incattivito e comportandomi peggio di prima, avrei disatteso
anche l’educazione che i miei genitori mi hanno insegnato. Va ripensata la
carcerazione, non è utile il pregiudizio e l’idea di sicurezza basata solo
sul. “Chiudeteli dentro e buttate la chiave”.
Claudia
Francardi: Vi ricordate la parabola
della “zizzania e del grano”, mi veniva di pensare adesso a quando gli
apostoli chiedono a Gesù se è il caso di separare la zizzania dal grano, e lui
gli dice che questa separazione la farà lui alla fine, dividerà i buoni dai
cattivi. Mi chiedo perché non la dobbiamo fare già sulla terra: il fatto è
che forse se togliamo la zizzania morirebbe anche il grano, che forse siamo cosi
collegati l’uno con l’altro perché la zizzania che noi cerchiamo sempre
nell’altro è anche dentro di noi. È questo che volevo dire, quindi
probabilmente è vero, dobbiamo fare uno sforzo per conoscere il bene, per saperlo
distinguere dal male, perché a volte il male si camuffa sotto vesti molto belle
e che ingannano, e a volte quello che pensiamo che sia il bene è invece il
male. Però quello che conta è il confronto, il dialogo, il guardare dentro
noi stessi e guardare gli altri con il fine anche veramente della correzione
fraterna: diamoci una mano e cerchiamo di progredire insieme. Quando io sbaglio,
Irene me lo dovrà dire e viceversa, non bisogna proprio aver paura di
esaminarci e di correggerci in maniera fraterna, se lo facciamo veramente con
affetto e con amore per crescere insieme.
Adolfo
Ceretti: Io volevo solo dedicare due
parole ad Ornella, perché se Erion - prendo lui come ultimo esponente di una
serie di discorsi che sono stati fatti, però ho ascoltato con grande attenzione
le sue parole e se è riuscito ad arrivare a questo punto con la capacità di
collocarsi rispetto a una complessità di ragionamenti, di questioni che sono
etiche, politiche, morali e collocarsi a un punto di consapevolezza cosi alto,
frequentando questa Redazione, questo è anche il lavoro straordinario che senza
nessun paternalismo o maternalismo Ornella fa con tutti loro. Cioè li aiuta…
non c’è nessuna carità pelosa, non c’è nessuna finalità, c’è
semplicemente la straordinaria capacità di mettere le persone nella condizione
più libera possibile, la più libera possibile qui dentro, ma di trovare degli
spazi di libertà per poter cominciare a ragionare, a dire chi sono, a
riflettere su chi posso essere, chi potrò essere. Questa è una conquista
straordinaria, e io mi riferisco anche alla bellissima lezione che ha fatto il
prof. Pugiotto nell’Università in cui insegno sul concetto di rieducazione,
cioè come poterlo declinare nelle sue forme più alte. Grazie Ornella
Giovanni
Bachelet: Mentre ascoltavo stavo
riflettendo che il titolo dell’incontro è un po’ la chiave di tutto quello
che abbiamo detto, e mi riferisco in particolare a quello che diceva adesso
Claudia Francardi, Giovanni XXIII ha riscoperto una verità, per altro cristiana
e probabilmente precristiana, che è la differenza tra l’errore e l’errante,
fra lo sbaglio e colui che sbaglia, e questo è essenziale nell’incontro per
la riconciliazione ed è essenziale per la verità. Ma chi sbaglia non è che può
dire “Abbiamo sbagliato un po’ per uno”. Pensavo a quello che diceva Carlo
Arnoldi questa mattina: è impossibile riconciliarsi con chi resta nell’ombra,
con chi non fa una strada di responsabilità, non perché io li voglio mandare
all’inferno, i responsabili di reati, ma perché è tecnicamente impossibile
la riconciliazione se uno non riconosce di essere l’autore di una cosa, anche
spaventosa… bisogna insieme riconoscere dove è l’errore, ma bisogna anche
riconoscere che tutti in qualche momento sbagliano e che una cosa è la persona
e una cosa è l’azione sbagliata, nessun errore, anche il più spaventoso, è
tale da fermare una vita, la vita può sempre risollevarsi da qualsiasi errore,
se però lo si riconosce. Quindi “verità e riconciliazione” è proprio un
po’ anche la fine, la conclusione di questo convegno, oltre che il titolo.
Dalle
Istituzioni vorremmo sentire parole forti di cambiamento
di
Ornella Favero
Oggi
sono presenti sia il Sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri che il vice
Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Francesco Cascini.
Allora siccome siamo in un carcere, in un carcere in cui come in ogni carcere si
sta male, vorrei ricordare che questo è considerato un buon carcere, un carcere
migliore di altri, qualcuno addirittura ha usato l’infelice espressione di
“isola felice”, noi sottolineiamo sempre che forse è un carcere decente per
le persone che dovrebbero esserci 350/400, ma ce ne sono più di 800, per tutti
gli altri è poco meglio di un inferno. Io ricordo ancora due piccoli episodi
che noi abbiamo raccontato, pochi giorni fa un detenuto è finito all’ospedale
per uno scarafaggio nell’orecchio, e questo la dice lunga sul livello di
degrado raggiunto, e sempre pochi giorni fa un episodio tragico, a cui ho
accennato all’inizio della giornata e con cui voglio concludere, un detenuto
si è tolto la vita, si è tolto la vita credo proprio per l’assenza di
speranza. Tra l’altro in qualche modo si chiude un po’ il cerchio delle
nostre riflessioni, si chiude il cerchio in particolare con l’intervento di
questa mattina di Bianca Stancanelli, perché il detenuto era un sinto, e aveva
preso una pena enorme per aver provocato la morte di una persona in un incidente
stradale, una pena che nessun italiano, anzi lui era un italiano ma sinto, che
nessun italiano, di quelli che non hanno difficoltà a essere riconosciuti come
tali, si sarebbe preso…
Vorrei
allora chiedere a Francesco Cascini e a Cosimo Ferri una parola conclusiva sulla
situazione delle carceri, perché questo carcere, un carcere abbastanza aperto
alla società, dovrebbe diventare io credo la normalità. Ma il carcere aperto
è ancora poco, noi vorremmo che ci fossero sempre meno carcere e sempre più
pene e misure alternative, ma finche il carcere continua a esistere, per lo meno
sia un carcere che dia speranza. Ecco perché ci piacerebbe concludere sentendo
da parte delle istituzioni una parola di cambiamento.
La
strada da seguire non è il carcere, che deve comunque cambiare.
di
Francesco Cascini, Vice Capo del
Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria
Dopo
le tante cose che abbiamo sentito oggi, non è semplicissimo parlare per uno
come me che ricopre un incarico istituzionale. Io sono, anche se da poco, un
Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria da cui dipende
il funzionamento del carcere e in qualche modo me ne assumo la responsabilità.
Il tentativo di cambiamento che io credo si debba fare, fa i conti con molte
delle cose che noi abbiamo sentito in questa giornata, fa i conti con il
pregiudizio, fa i conti con la storia del nostro Paese, caratterizzata da eventi
drammatici, dalla criminalità organizzata, dal terrorismo.
La
repressione penale in generale ed il carcere in particolare sono, per certi
aspetti, il frutto della nostra storia dal punto di vista delle vicende
criminali e della reazione dello Stato.
Il
cambiamento quindi, rispetto alla nostra storia, non è semplicissimo da
realizzare, non solo per le parti più complesse, quelle scottanti di cui
abbiamo parlato, del 41bis, dei circuiti di Alta Sicurezza, ma è complicato
in generale anche perché i risultati di questa concezione della repressione penale
e del carcere sono prima di tutto presenti nelle nostre strutture. Difatti,
generalmente, gli istituti hanno padiglioni a più piani, con sezioni e camere
detentive che si sviluppano di frequente da una rotonda o da uno snodo centrale
nelle due direzioni e gli spazi disponibili per i ristretti sono costituiti
quasi esclusivamente da salette per la socialità e dai passeggi per l’aria.
Le caratteristiche architettoniche degli ambienti appaiono pertanto
immaginate per un sistema di detenzione chiuso, in cui i detenuti trascorrono
la gran parte del loro tempo all’interno delle camere di detenzione.
Sostanzialmente si tratta di un sistema che ha risentito delle spinte securitarie
derivate dalle emergenze che si sono susseguite negli anni, che quindi appare
concepito e finalizzato al mero contenimento delle persone detenute.
Nell’Ordinamento
penitenziario sono contenute due fondamentali regole che finora hanno trovato
un’applicazione parziale. Si tratta del principio secondo il quale i detenuti
devono essere distinti per gruppi omogenei e devono essere separati i
giudicabili da quelli condannati definitivamente. Il secondo principio si ricava
dalla definizione che la legge fornisce delle celle come “camere di pernottamento”
e che pertanto i detenuti devono svolgere la loro giornata all’esterno della
cella, in luoghi comuni. Sono indicazioni che il legislatore ha dato 40 anni
fa, e c’è un motivo, anzi ci sono tanti motivi, per i quali questo in 40 anni
non si è mai realizzato. A me piacerebbe poter dire che da domani quello
che c’è scritto nell’Ordinamento penitenziario si realizzerà, ma so
benissimo che è un percorso molto lungo. Quindi, nel ripensare l’organizzazione
della detenzione si deve necessariamente riflettere sul fatto che l’idea di
cambiamento deve passare per una presa di coscienza piena del modo con il
quale la stragrande maggioranza dei detenuti trascorre il tempo in carcere.
Le stanze detentive sono, molto spesso, ambienti piccoli, fatiscenti e
sovraffollati. Lì i detenuti mangiano, dormono, leggono, scrivono, cucinano,
vanno al bagno. A volte fanno i turni per stare in piedi e quasi mai possono
mangiare tutti insieme. E’ indispensabile chiedersi quali siano i possibili
effetti di una detenzione scontata in questo modo anche al di là della
semplice osservazione sulla mancanza di una reale opportunità di recupero.
Vivere in spazi stretti aumenta la promiscuità, alimenta possibili conflitti
tra i detenuti e può indurre maggiori sensazioni di sconforto, aumenta il
rischio di problemi di igiene e di pulizia degli ambienti, aumentano le
difficoltà dei controlli all’interno delle camere detentive e le
perquisizioni degli ambienti sono rese estremamente complicate dalla notevole
quantità di oggetti che si accumulano. I detenuti hanno quasi come unico
interlocutore l’agente in servizio all’interno della sezione, con ovvie
ricadute negative sulla frustrazione del detenuto che non ottiene le
risposte che vorrebbe e dell’agente che spesso non è in condizione di
fornirne con la conseguenza che il rapporto costante e stressante all’interno
della sezione aumenta il livello di tensione ed i rischi di violenze. L’idea
che questo modello di fondo che caratterizza la nostra organizzazione della
detenzione possa cambiare, passa inevitabilmente per una riflessione
approfondita sulle attuali condizioni degli istituti e sulle iniziative dirette
a realizzare nuovi spazi. In altri Paesi europei questo percorso di
cambiamento è iniziato, basti vedere il modello, avviato ormai da anni, dalla
Spagna. In questo Paese le strutture penitenziarie di ultima generazione
(negli ultimi dieci anni ne sono state realizzate trenta) sono di tipo modulare,
nel senso che si sviluppano sul piano architettonico in modo orizzontale
(mentre, come detto, le nostre strutture penitenziarie si sviluppano in modo
verticale mediante padiglioni a più piani), con costruzioni a due piani per
un massimo di ottanta/cento detenuti (raggruppati in modo omogeneo) a
modulo. Le camere detentive sono dedicate esclusivamente al pernottamento e la
vita dei detenuti si svolge in comune al piano terra della struttura
modulare caratterizzata da un ampio spazio aperto, da una mensa, da un piccolo
bar e da sale ricreative che consentono di svolgere le più svariate attività.
All’interno dei penitenziari esistono strutture che consentono di avviare i
detenuti a percorsi di risocializzazione, mediante lo studio e il lavoro, ed
è assicurata l’affettività anche attraverso la concessione di visite
cosiddette “intime”.
Non
si può negare che, nel nostro sistema, avviene esattamente il contrario. Nella
stragrande maggioranza dei casi i detenuti vivono la loro giornata nelle
camere detentive e le attività in comune sono molto limitate e riguardano
sempre più spesso un numero ridotto di persone.
I
detenuti vivono tutti allo stesso modo ed è solo il loro comportamento
negativo che può ridurre un’aspettativa di accesso ai benefici, non esiste,
per converso, un possibile sviluppo e graduale miglioramento delle proprie condizioni
di detenzione caratterizzato da scelte e da responsabilità. La mancanza di
possibilità di scelta e la mancanza di responsabilità costituiscono il primo
punto di negazione del diritto al trattamento e al reinserimento sociale.
Io
sono convinto del fatto che il carcere può migliorare se noi cominciamo a
immaginare la necessità delle relazioni tra le persone in carcere, e della
responsabilità. È vero che il carcere è un ambiente spersonalizzante, ma
cominciare ad immaginare il carcere come luogo in cui si realizza una contaminazione
basata sul rapporto con l’altro, e di questo oggi si è parlato molto,
presuppone come primo punto quello che la detenzione non può svolgersi
all’interno delle camere detentive. Le nostre indicazioni di apertura delle
celle sono il primo passo, io penso un passo importante, in forte controtendenza
con i 20 anni precedenti, ma che sicuramente non esauriscono il percorso che
va fatto. A ciò si deve necessariamente aggiungere un graduale cambiamento
nell’architettura penitenziaria, nel senso prospettato per le nuove strutture
ed ipotizzando, per le strutture esistenti, la creazione di “spazi comuni”,
da realizzare possibilmente nelle aree attualmente destinate alla fruizione
dell’aria e con queste direttamente collegati, nei quali i detenuti, in
presenza degli educatori, vivano la loro giornata e possano fruire delle
attività e dei servizi (corsi scolastici, istruzione, sport, refettorio,
docce, sopravvitto, infermeria, telefonate, ecc.). Questo consentirebbe agli
operatori del trattamento di osservare il comportamento del detenuto
all’interno di una comunità e non singolarmente come oggi avviene
(esclusivamente attraverso colloqui individuali), potendone valutare il
comportamento in un gruppo e l’evoluzione della personalità in una situazione
in cui è concesso un minimo di libero arbitrio, valorizzando il concetto
sviluppato con il patto di responsabilità. Anche in questo caso, si darebbe
attenzione all’Ordinamento Penitenziario laddove prevede la suddivisione in
gruppi omogenei, all’interno dei quali sviluppare programmi individualizzati.
Dal punto di vista sistemico, la possibilità che il detenuto trascorra gran
parte della giornata fuori dalla stanza detentiva, occupato in attività da
svolgere in un contesto comunitario, concorre a sanare uno dei vizi del sistema
così come congegnato adesso. Infatti con l’attuale modello di vita intramuraria,
la possibilità di valutare la reale volontà dei condannati di partecipare
all’opera di rieducazione (con particolare riferimento all’impegno
dimostrato nel trarre profitto dalle opportunità offerte e al mantenimento di
corretti e costruttivi rapporti con gli operatori e con i compagni oltre che
con la comunità esterna e la famiglia) che, come noto, costituisce condizione
per ottenere la misura alternativa alla detenzione della liberazione
anticipata, è fortemente limitata. Tanto che è possibile che un condannato
ottenga la liberazione anticipata anche se trascorre la quasi totalità
della giornata in ozio in cella, anche se per mancanza di opportunità
trattamentali (che il nuovo modello amplia), purché il suo percorso sia
esente da rilievi disciplinari. Sostanzialmente, allo stato, il meccanismo di
valutazione si inverte non basandosi, come la norma prevede, su un facere
(adesione all’opera di rieducazione), ma fondandosi quasi esclusivamente sul
non aver violato le regole stabilite (aspetto per il quale operano i meccanismi
disciplinari), di fatto concedendo/favorendo un atteggiamento del tutto
passivo da parte del condannato. Questo avviene perché generalmente, anche in
considerazione delle poche offerte trattamentali, nelle relazioni di sintesi
predisposte il principale elemento di valutazione fornito agli organi di sorveglianza
è la “regolare condotta” esente da rilievi disciplinari, non essendo
possibile esprimere una valutazione del condannato fondata sulla reale volontà
di aderire all’opera di rieducazione. Per questo motivo, la proposta
dell’Amministrazione di trascorrere gran parte della quotidianità in un ambiente
comunitario, potrà rappresentare per il condannato la prima possibilità di
manifestare la volontà di aderire all’opera di rieducazione, stimolando
anche il rispetto del patto di responsabilità, dimostrando fattivamente di
riuscire a trarre profitto dalle opportunità offerte, mantenendo corretti e costruttivi
rapporti con gli operatori e con i compagni. Viceversa, qualora il condannato
scelga di non aderire alla proposta, già questa decisione dimostrerà una
mancata volontà di aderire all’opera di rieducazione, rappresentando per
gli organi di sorveglianza, in negativo, un importante elemento di valutazione
per la concessione o meno della liberazione anticipata.
Penso
anche che per cambiare il carcere, ci si debba immaginare un sistema della
repressione penale diverso da come è impostato oggi, non è sufficiente
cambiare le regole dei meccanismi di funzionamento interno al carcere se poi
quello che c’è fuori non tiene conto dei percorsi che si fanno all’interno.
Ma il cambiamento non può esserci se non si comincia a tener conto delle
persone già nel momento dell’irrogazione della pena. Io ho fatto il
Pubblico Ministero per molti anni, mi sono occupato di mafia, di criminalità
organizzata, di ‘ndrangheta. A volte la scelta per un Pubblico Ministero, per
un giudice tra chiedere una condanna a 20, 30 anni di carcere o 10, 15, 4, la
difficoltà di comprendere già nella fase della cognizione la parte che
riguarda la persona e dare al giudice lo strumento per applicare la pena più
funzionale a raggiungere quell’obiettivo è l’elemento più importante per
cambiare il sistema della repressione penale.
L’idea
che solo il carcere sia l’unica pena possibile è un’idea che ormai rimane
soltanto in alcuni Paesi europei non avanzati. Noi per anni abbiamo discusso
di diritto penale minimo, magari avremmo dovuto discutere di come punire anche
rispetto a reati gravi. Abbiamo delle esperienze importanti nel nostro Paese
nell’ambito della giustizia minorile, la messa alla prova per i minori può
essere fatta per qualunque reato anche per l’omicidio.
Di
recente abbiamo fatto uno studio con l’università di Napoli sulla recidiva
dei minori dell’area napoletana che hanno usufruito della messa alla prova
dal 2000 al 2007. Su 890 ragazzi ammessi dal 2000 al 2007, quasi tutti italiani
provenienti da zone calde del napoletano, soltanto il 20% si è reso responsabile
di ulteriori reati dopo la fine della messa alla prova. Si tratta di un dato
incredibile se si tiene conto del fatto che la media della recidiva è intorno
al 70 - 75%. Questo dimostra che la strada da seguire non è il carcere, che
deve comunque cambiare, ma la strada maestra è un’altra, bisogna dare ai
giudici la possibilità di modulare il tipo di pena rispetto alla persona. Ecco
questo da noi lo fanno i giudici di Sorveglianza molto tempo dopo con mille
difficoltà, perché valutare una persona dopo tanti anni di carcere è molto più
complicato. Questo meccanismo dobbiamo in qualche modo ribaltarlo, un primo
passo è stato fatto con la messa alla prova, un piccolo passo secondo me, ma io
credo che per la prima volta dopo tanti anni ci si sta avviando verso un
percorso corretto. Grazie!
Dobbiamo
agire tutti insieme per realizzare nuove riforme e per un reale cambio di
cultura
di
Cosimo Maria Ferri, Sottosegretario di
Stato alla Giustizia
Oggi
è stata una giornata un po’ particolare, lo avete ricordato anche qui: oggi
è l’anniversario della morte di Falcone e degli agenti della scorta. Stamani
ero in una scuola a parlare con i ragazzi. Insieme a me, c’era anche il figlio
di uno degli agenti della scorta di Falcone. Ora è sottotenente della Guardia
di finanza. Quando la mafia ha ucciso il padre insieme a Falcone, lui aveva
quattro mesi e oggi che è nella Guardia di finanza è venuto a testimoniare
ai ragazzi la sua esperienza. La storia di questo ragazzo, figlio di un agente
della scorta di Falcone, deve indurci a riflettere e deve spingerci a cercare sì
una riconciliazione ma una riconciliazione che sia basata su di un effettivo
percorso di rieducazione di chi ha commesso reati. Io sono convinto che anche
di fronte a reati molto gravi - come possono essere quelli di mafia, che turbano
profondamente la nostra coscienza e che ci spingono a guardare con diffidenza,
se non con preclusione totale, verso possibili esiti riconciliativi - dobbiamo
sforzarci di evitare pregiudizi ed aprioristiche generalizzazioni. In questi
casi, è certo più difficile parlare di riconciliazione, perché è
senz’altro tendenzialmente più raro che per i colpevoli di reati di mafia vi
sia una reale possibilità di avviare un effettivo percorso di riconciliazione.
Qui abbiamo però l’esempio di Carmelo Musumeci, che ha iniziato un percorso
importante. Questa esperienza deve fungere da stimolo per noi tutti, dobbiamo
cercare di non aver paura, di non crearci barriere e confini mentali, ma di
andare oltre, facendo tesoro anche della vostra importante esperienza. La
vostra associazione è importante perché dà impulso e stimolo a chi poi deve
legiferare. Amaramente mi rendo conto che dentro le istituzioni, dentro il Parlamento,
forse non sempre si riesce a capire l’importanza della rieducazione e della
riconciliazione. Ma dobbiamo tutti impegnarci per far capire che la sicurezza e
la legalità si raggiungono anche recuperando un ragazzo come Matteo Gorelli
e questo è il messaggio che deve arrivare forte, perché oggi cercare di
recuperare Matteo, e come Matteo ci sono tante altre persone, vuol dire anche
garantire la sicurezza di tutti i cittadini.
Già
con il precedente governo, e tuttora con l’attuale Ministro, sto insistendo
per far ripartire l’Osservatorio sulla giustizia riparativa, una struttura
del Ministero della Giustizia che esisteva in passato ed aveva dato buoni
risultati ma che però ad un certo punto non è stata più confermata e
rinnovata e che si occupava di avviare percorsi rieducativi e riconciliativi,
instaurando un contatto tra vittime ed autori di reati affinché questi ultimi
attuassero delle azioni per risarcire i danni o comunque delle iniziative a
favore di coloro che erano stati danneggiati dal reato. La giornata di oggi
conferma l’importanza di simili strutture che, mirando alla riconciliazione,
hanno un orizzonte più ampio e più ambizioso della semplice rieducazione:
la rieducazione è importante, è un valore sancito dalla nostra Costituzione,
ma riguarda solo il reo; con la riconciliazione, invece, miriamo non solo a
rieducare e risocializzare chi ha commesso reati, ma ci preoccupiamo anche
delle vittime dei reati, spingiamo il reo ad attivarsi anche nei confronti
della vittima per attenuare i danni che questa ha subito a causa del reato.
Dico
quindi che dobbiamo affermare a gran voce l’importanza della rieducazione e
della riconciliazione. Ma questi percorsi devono essere effettivi, devono essere
supportati da strutture dotate di esperienza e di mezzi adeguati, devono
consentire di raggiungere un risultato di reale maturazione interiore del reo e
di rimeditazione della propria condotta di vita e devono rivolgersi anche ai
bisogni delle vittime: solo in questo modo si può riuscire a superare realmente
e definitivamente il reato che è stato commesso e si può raggiungere
l’obiettivo di restituire alla società un individuo, il reo, che non sarà più
un pericolo ma una risorsa per tutti.
Un
altro punto che voglio sottolineare riguarda ciò che ha detto il signore che
ha parlato prima, credo che provenga dall’Albania, che ha spiegato come questo
carcere sia un carcere fondamentalmente “aperto”. Quindi oggi voglio ringraziare
le associazioni, il mondo del volontariato, gli educatori, la Polizia
penitenziaria, i nostri funzionari, Ristretti Orizzonti, tutti quelli che si
impegnano e che investono il loro tempo dentro gli istituti. Noi abbiamo il
dovere di cercare di ridurre gli eccessi della burocrazia. Io mi sono occupato
molte volte di lavoro dentro e fuori dagli istituti e ho visto che molti
imprenditori di piccole e medie imprese anche pieni di volontà a volte si
fermano di fronte alle leggi, alla burocrazia e dicono: ma se io devo anche
perdere tempo con tutta questa trafila burocratica, alla fine preferisco
pensare ad altro e scegliere altre strade. È quindi anche tenendo conto di
questi problemi che abbiamo approvato una serie di norme per “aprire” il
carcere al lavoro o comunque al mondo esterno. Penso all’affidamento in
prova che è stato portato fino a pene o residui pena di quattro anni,
all’ampliamento delle possibilità di accedere alla semilibertà. Penso,
ancora, alla liberazione anticipata che è stata portata da 45 a 75 giorni,
all’ampliamento della possibilità dell’affidamento terapeutico per i
tossicodipendenti, all’ampliamento del lavoro esterno dei detenuti che potranno
essere destinati a progetti di pubblica utilità in favore della collettività
da svolgersi presso gli enti pubblici locali o presso le organizzazioni di
volontariato o le famiglie delle vittime dei reati. E si pensi anche agli sgravi
contributivi ed ai crediti di imposta che sono stati previsti per le imprese
che assumono detenuti. Così come estremamente importante potrà essere il
nuovo istituto della messa alla prova: introdotto da una recentissima legge,
prima previsto solo per i minorenni ma ora esteso anche agli imputati
maggiorenni, rappresenta una scommessa importantissima sulla quale
l’amministrazione intende investire ed impegnarsi nell’immediato futuro.
Tutta
una serie di norme ed istituti, quindi, che dimostrano che non ci
accontentiamo di risolvere il problema del sovraffollamento e dei tre metri
quadri minimi per ogni detenuto, ma vogliamo dire all’Europa che, non solo nel
nostro Paese le carceri sono civili, ma che i nostri obiettivi sono più ambiziosi
e mirano a modelli trattamentali moderni di rieducazione e di riconciliazione:
perché questa deve essere la nostra stella polare, questo deve essere il
nostro obiettivo che non deve rimanere lettera morta nella Carta Costituzionale,
ma che deve essere effettivamente attuato compiendo tutti i possibili sforzi
ad ogni livello. Ma anche i giudici devono compiere uno sforzo per cambiare la
loro mentalità.
Talvolta,
infatti, nelle sentenze le pene vengono quantificate senza avere una chiara e
precisa conoscenza di quella che sarà la realtà della successiva fase
esecutiva della pena stessa. Bisogna quindi creare dei meccanismi e dei momenti
di raccordo, non solo sul piano giuridico ma anche sul piano culturale, tra il
momento dell’irrogazione della pena e quello della sua esecuzione.
L’obiettivo deve essere quello della quantificazione e della scelta della
pena il più possibile adeguate alle particolarità del caso concreto ed al tipo
di personalità su cui intervenire, senza di che il trattamento rischia di
essere inefficace o addirittura criminogeno.
Io
penso in definitiva che in quest’ambito si possano fare ancora tante cose e
che insieme con tutti voi si riesca ad ottenerle.
Chiudo
veramente con un saluto e un ringraziamento. Un saluto particolare al
professor Bachelet. Io provengo dalla magistratura e tutti noi ricordiamo il
Vicepresidente del CSM Vittorio Bachelet, che per noi magistrati è stato un
punto di riferimento.
E
quindi oggi aver potuto ascoltare e incontrare il figlio è un motivo in più
di forte emozione. Grazie e un abbraccio.