Seconda
parte della giornata di studi “La Verità e la Riconciliazione”
Convincere
ogni giorno almeno una persona a “mettersi nei panni dell’Altro”
di Ornella Favero
“Moltiplicare
le occasioni che aiutano a vedere il mondo con gli occhi dell’Altro”: se
dovessimo sintetizzare in poche parole il senso di anni di attività di
Ristretti Orizzonti, la definizione perfetta sarebbe questa.
Ma
questa secondo noi dovrebbe essere anche la finalità prima di chi si occupa di
una realtà complessa come quella del carcere: perché se vogliamo che nessuno
sia escluso, se lavoriamo perché chi esce dal carcere possa sbarazzarsi anche
dell’etichetta di “ex detenuto”, se cerchiamo di costruire una società
meno intossicata dal rancore, dobbiamo tenacemente, puntigliosamente convincere
ogni giorno almeno una persona a “mettersi nei panni dell’Altro”, che per
noi significa mettersi in panni difficili, quelli del “carnefice”, di chi ha
fatto del male e causato sofferenza. Perché diventa impossibile parlare di
riconciliazione e cercare di trovare vie di uscita alla cattiveria sociale che
domina oggi nella società, è impossibile “spezzare la catena del male” se
ognuno di noi non impara ad avere punti di vista diversi, se non riusciamo
sempre, in ogni momento della nostra vita, a provare a rovesciare i ruoli e a
immaginare di essere noi al posto della persona che abbiamo davanti.
La
Giornata di Studi “La Verità e la Riconciliazione”, di cui in questo numero
pubblichiamo la parte conclusiva, ci ha mostrato coma la vita a volte ci possa
sorprendere e spiazzare: due donne, Claudia Francardi, la moglie di un
carabiniere picchiato a morte a un posto di blocco da un giovanissimo
aggressore, e Irene Sisi, la madre di Matteo Gorelli, il ragazzo assassino, ci
hanno portato la loro testimonianza, dimostrandoci che se anche restiamo sempre
aggrappati ai nostri ruoli, spesso è comunque la vita che si occupa di
sparigliare le carte. Dunque, Claudia che doveva odiare Matteo ha invece deciso
in qualche modo di “proteggerlo” dall’odio che lui stesso con il suo gesto
aveva provocato, e Irene, che poteva non sentirsi responsabile di un gesto
orribile commesso dal figlio, ha deciso invece di assumere su di sé il ruolo
del colpevole, perché “ho dovuto prima perdonarmi per perdonare mio
figlio”.
Il DIALOGO, il CONFRONTO sono allora le nostre parole preferite: perché è dialogando con uomini e donne, che come Claudia Francardi hanno saputo uscire dalla gabbia del loro ruolo, che le persone detenute possono trovare una formidabile spinta ad assumersi la responsabilità delle loro azioni. Claudia non ha voluto essere ricacciata nel ruolo della “vittima che odia” e ha dato così una straordinaria lezione, un esempio di come si possa espellere dalla propria vita ogni sentimento di rancore. Se si pensa che il reato rappresenta una delle forme più pesanti del “non vedere e pensare l’altro”, allora si può capire che esempio straordinario abbia dato alle persone detenute una donna che l’Altro, l’assassino di suo marito, l’ha accolto, capito, ha cercato di aiutarlo ad affrontare un percorso di consapevolezza. Se vogliamo che la pena abbia un senso, dobbiamo costruire più occasioni di dialogo come questa, perché, come ha detto Carmelo Musumeci dopo aver ascoltato Claudia e Irene, “un conto è sentire il dolore tramite la televisione, un conto è leggerne il racconto, un conto è ascoltarlo”.