“Un ponte di parole”:quindici anni di scrittura dal carcere di Udine

 

di Maurizio Battistutta, Associazione “Icaro”, Udine

 

L’associazione di volontariato “Icaro”, che opera da vent’anni presso la Casa circondaria­le di Udine e che ha promosso, assieme alla popolazione detenuta, il periodico “La voce nel silenzio”, ha raccolto in una pubblicazione, “Ponti di parole”, edita dalla casa editrice Kappavu, una selezione degli articoli realizzati in quindici anni di attività. Un laboratorio di scrittura, tenuto un giorno alla settimana per circa due ore, all’interno del carcere, con “redattori ristretti”, che ha avuto e che ha la finalità di costruire un ponte tra la popolazione detenuta e la società ”libera”. Un “ponte di parole”, di racconti, di poesie, disegni, vignette ovvero di tante istanze, aspettative, ironie, invettive, rab­bie represse, e di amarezze, delusioni, solitudini che si scontrano contro l’immutabilità dello spazio e del tempo di un carcere, con il silenzio, il troppo silenzio, delle istituzioni e del territorio. Certamente in una quindicina d’anni alcuni piccoli mutamenti sono avvenuti, le stesse persone detenute li raccontano: “A ventun anni dalla caduta del muro di Berlino anche nel carcere di via Spalato, a Udine, è finalmente caduto un muro! Mi riferisco al muro che separava detenuti e familiari nella stanza dei colloqui. Per chi ancora non ne fosse stato a conoscenza gli incontri tra i detenuti ed i loro familiari si svolgevano in una grande stanza, divisa al centro da un muro alto circa un metro e largo circa ottanta centimetri dove, per potersi abbracciare, si doveva stare in piedi sporgendosi scomodamente in avanti. I detenuti da una parte ed i familiari dall’altra dovevano stare spalla a spalla e nel brusio di voci si faceva difficoltà a sentirsi. Era umiliante sia per chi stava di qua sia per chi stava di là di quel muro e la sensazione più forte da entrambi i lati era quella di una cortina di ferro. Ci sono voluti anni di lamenti… finché… a colpi di martello pneumatico hanno abbattuto il muro e ripulito la stanza, nella quale sono stati collocati nove tavoli dove possono stare sedute quattro persone. Vi giuro che vorrei portarmi a casa un pezzo di quel muro, per non dimenticare com’era e per coltivare la speranza che, un giorno, in carcere ci verrà solamente chi è ritenuto “veramente” pericoloso e che possa comunque vivere la sua carcerazione in modo più dignitoso di quanto non sia ora nella maggior parte degli istituti” (articolo “The Wall”).

Eppure quanti muri devono essere ancora abbattuti per rispettare la dignità delle persone ristrette, come sottolinea Roberto? Si pensi solo al diritto all’affettività in carcere ancora negato dal nostro Ordinamento penitenziario e che, nuovamente, grazie alla redazione di “Ristretti Orizzonti”, è all’attenzione dell’agenda politica, peraltro alquanto “distratta”, se una prima proposta di legge, elaborata proprio all’interno della redazione, è del 2002.

In questa pubblicazione, dedicata ”a chi si è raccontato e a chi non è riuscito farlo”, non si sono potuti trasferire tutti gli articoli del periodico, inevitabilmente si è dovuta fare un’ingrata ed ingiusta selezione, ma quelle parole che non hanno trovato spazio sulla carta rimangono pietre per quel ponte ancora di difficile costruzione e che nel carcere ha trovato le prime fondamenta. Un luogo, il carcere, che in molte situazioni, diviene luogo di scrittura e quindi luogo culturale propositivo e di cambiamento, nonostante l’assenza, spesso, di stimoli, di informazione e di comunicazione. Forse, permettete, questo è il grande merito nel realizzare un periodico in un carcere e voi di “Ristretti Orizzonti” ne siete la lampante dimostrazione. Certo mancano ancora tante parole per terminare quel ponte e per collegarsi all’altra sponda...

(la nostra redazione peraltro è in difficoltà e vorremmo poter collaborare con il vostro periodico, è possibile costruire un ponte con voi di Ristretti?)

 

 

 

 

Riflessioni di un “lavoratore di pubblica utilità” sul progetto carcere e scuole

 

di Claudio Toffano

 

Gli eventi che mi portano oggi, all’età di 33 anni, a raccontare le mie riflessioni sull’esperienza che ho appena vissuto sono legati all’uso (o meglio definito abuso) di alcol abbinato alla guida dell’auto, due cose che non devono mai essere associate.

Non so se anch’io in quel momento pensassi alla frase, ormai inflazionata, “tanto a me non succederà mai”, ma sicuramente non ero cosciente delle conseguenze che questa infrazione porta: ritiro della patente e del mezzo, multe salate, esami medici costosi e, non per ultimo, un procedimento penale che alla fine prevede il carcere.

Fortunatamente questo era il mio primo reato, per cui ho potuto beneficiare del “bonus” dei lavori socialmente utili, che permette alla persona di scontare la propria pena impegnandosi in attività di volontariato presso delle associazioni autorizzate che lavorano nell’ambito sociale.

Tra le associazioni fra cui potevo scegliere ha attirato la mia attenzione Granello di Senape, perché impegnata in un fronte che reputavo difficile, ma che al contempo mi era sconosciuto: la realtà del carcere.

Non nascondo che quando ho ricevuto l’ok di Ornella ero un po’ intimorito. Ora, col senno di poi, posso dire che sarei andato incontro ad una delle esperienze più im­portanti e profonde che ho finora vissuto.

Ho infatti avuto la fortuna di esse­re inserito nel progetto “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”, organizzato dall’Associazione Granello di Senape e da Ristretti Orizzonti. Questo programma prevede degli incontri fra detenuti e persone che hanno finito di scontare la propria pena con studenti delle scuole medie, superiori e universitari.

In questi incontri i detenuti raccontano ai ragazzi le loro storie e le loro esperienze, mettendo a nudo loro stessi e le loro emozioni, facendo capire quanto il carcere sia più vicino alla nostra esperienza di quello che si pensi.

In questo modo donano a chi li ascolta dei punti di vista e delle prospettive nuove su una realtà che per molti, a me per primo, sembra così lontana e di cui si sa veramente poco.

Ma non solo, queste persone si aprono poi al confronto, ascoltando e rispondendo alle domande dei ragazzi, che a volte, con la loro ingenuità o innocenza, vanno a toccare tasti che costringono chiunque a profonde riflessioni e a rivisitare se stessi.

Ricordo ancora con estrema chiarezza il mio primo incontro, un venerdì mattina in una scuola superiore di Camposampiero.

Ero molto agitato, anche se in realtà il mio ruolo era semplice: dovevo farmi testimone di come la realtà del carcere sia molto più vicina alla quotidianità di quanto si pensi, si può nascondere anche dietro ad un’infrazione del Codice della strada e a due birre in più.

Devo dire però che l’accoglienza delle persone di Ristretti Orizzonti e il clima della scuola mi hanno messo presto a mio agio.

Ricordo molto bene l’intrecciarsi delle emozioni che ho percepito durante i racconti, un misto di sofferenza, paura, malinconia, rimpianto, ma anche di speranza, sogni ancora vivi, voglia di redenzione, desiderio di poter aiutare.

È stato in questo momento che ho compreso la grande utilità di questo lavoro: da un lato dare ai ragazzi una visione più veritiera e coerente sulla realtà della reclusione e sui percorsi che vi possono condurre, donando degli strumenti reali ed efficaci per il confronto e la riflessione. Dall’altro lato permettere ai detenuti di poter lavorare su se stessi, di poter effettuare quel percorso per una presa di coscienza delle proprie esperienze e una rivalutazione della propria persona.

Dal mio punto di vista ho avuto anche un’altra presa di coscienza, che sotto sotto sapevo ma non avevo mai colto in pieno, e credo che molta gente non consideri: la funzione riabilitativa che il carcere dovrebbe avere.

Come ho infatti appreso durante questa esperienza, il carcere non deve avere solamente una funzione punitiva verso il detenuto, non deve schiacciarlo e privarlo di sogni e speranze, questo non serve a nulla, serve solamente a far del male a una persona che in questa maniera non avrà stimolo o modo per migliorare.

Deve invece offrire alle persone che hanno sbagliato degli strumenti per lavorare su se stessi, che aiutino a capire cosa e perché li ha condotti lì, per dare loro l’opportunità di rendersi utili e reinserirsi in quella società che li ha condannati.

Purtroppo invece ho appreso che questa funzione molto spesso viene meno, sia per come sono strutturate le carceri, sia per il sovraffollamento, e sia per una coscienza popolare che è più incline a puntare il dito per trovare un colpevole piuttosto che essere aperta alla comprensione e al reinserimento. Ed è per questo motivo che ho veramente apprezzato il lavoro di sensibilizzazione che svolgono Granello di Senape e la redazione di Ristretti Orizzonti, i quali danno spunti, spazi di confronto, punti di vista e nuove prospettive ad una società che tende ad essere sterile e distaccata.

A tal proposito ho avuto la fortuna di partecipare a due importanti eventi, “La verità e la riconciliazione” e “Senza ergastoli. Per una società non vendicativa”, in cui alcuni relatori (professori, giornalisti, persone di spessore sociale) portavano il loro punto di vista sui temi della reclusione, della pena, della riconciliazione e dell’ergastolo, ma soprattutto in cui alcuni detenuti, famigliari e vittime di reati portavano la loro esperienza.

Dovevano essere lavori in cui io mi rendevo utile alla società, ma ho incontrato persone e fatto esperienze che hanno dato sicuramente di più a me di quello che ho dato io.

Mi hanno aiutato a riflettere e a cambiare prospettiva su un mondo a volte dimenticato.

Dico un sincero e grande grazie a tutte queste persone e in particolare a Ornella, che mi ha accolto e guidato, e chiudo con un augurio che quanto è arrivato a me possa arrivare sempre a più persone. Guardiamoci dentro e impariamo a comunicare meglio, dando peso a quello che è veramente importante: le persone, non il loro passato.