A
scuola di “riconciliazione” per imparare a vedere la verità dell’Altro
In un incontro in carcere, con alcune
classi di una scuola, a cui partecipavano alcuni genitori, una madre ci ha detto
che sua figlia è stata uccisa in un incidente, e lei solo ora, dopo anni,
sentendo le testimonianze delle persone detenute, per la prima volta ha pensato
che le sarebbe potuto succedere anche il contrario, di essere la madre
dell’”altro”, di chi ha provocato quel tragico incidente. Se pensiamo a
tutto l’incattivimento su questi temi, alla pesante richiesta di introdurre il
reato di omicidio stradale, alla rabbia e al desiderio di vendetta che spesso
esprimono i famigliari delle vittime, viene da dire che l’unica possibilità
di fermare la cattiveria sociale è moltiplicare le occasioni che aiutano a
vedere il mondo con gli occhi dell’Altro.
A
Il
perdono è una delle più terribili pene
Intervento
di Carmelo Musumeci,
Ristretti Orizzonti
Mi
chiamo Carmelo, sono in carcere da molti anni, al di là del muro di cinta ho
una compagna e due figli che mi aspettano da ben 23 anni e probabilmente, se non
cambiano le leggi in Italia, io non mi stanco di ripetere che avranno di me solo
il mio cadavere, però speriamo che non sia cosi. Poi ho anche due nipotini e ci
tengo a ricordarli perché proprio la scorsa settimana mio nipotino Lorenzo mi
ha chiesto “Nonno, quando vieni a casa?”, e io gli ho detto la solita bugia
che raccontavo a mio figlio “Vengo presto”. Però i bimbi di oggi sono molto
più intelligenti di quelli di una volta e lui mi ha risposto: “Nonno, ma non
fare come hai fatto con papà che ti aspetta da quando aveva sei anni e ancora
non sei venuto a casa”, quindi non l’ho potuto ingannare.
Allora,
uno degli argomenti di questo convegno è la riconciliazione, non vi nascondo e
vi confido con tutta onestà che in passato trovavo difficoltà a riconciliarmi
con la società, perché la società mi ha maledetto e condannato ad essere
cattivo e colpevole per sempre. In questo ultimo anno e mezzo, tramite il
progetto “Scuola e Carcere”, dove in un anno vediamo migliaia di studenti,
davanti a questi ragazzi, a questi sorrisi innocenti per la prima volta
incredibilmente mi sono sentito colpevole delle scelte sbagliate che ho fatto in
passato, cosa che non mi è mai accaduta davanti ai giudici, davanti ai
politici, davanti a un carcere un po’ disumano come suppergiù sta uscendo
fuori anche nello spaccato che ne è stato dato oggi. Invece davanti a quei
ragazzi mi sono trovato in difficoltà e tuttora mi trovo in difficoltà, perché
con loro non posso essere prevenuto, e quindi quando rispondo alle loro domande
mi sembra di avere davanti i miei figli e di dover rispondere a cuore aperto:
non ho alibi davanti a loro.
Ma
un altro argomento di questo convegno è il perdono, il perdono come
comprensione. Adesso io vi racconto quello che una volta mi ha raccontato un mio
compagno di sventura, dicendomi: io spero che le vittime dei miei reati non mi
perdonino mai, perché sarebbe troppo doloroso. Molti non sanno veramente che la
pena più terribile è quando ti perdona la vittima dei tuoi reati, perché ti
leva tutti gli alibi, è lì che ovviamente il perdono sociale dopo un certo
percorso, un cammino, è il perdono che fa uscire il senso di colpa, il male che
hai fatto, se no non può accadere… Quando per esempio tu sei in regime di 41
bis, e quando tu non puoi abbracciare i tuoi figli perché sei diviso da un
vetro, allora tu dentro di te dici: va bene io sono stato cattivo, io ho ucciso,
io ho commesso dei reati. Ma i miei governanti, i miei educatori se hanno deciso
di murarmi vivo, senza neppure avere l’umanità di ammazzarmi prima, poi non
è che sono migliori di me. Ecco purtroppo accade questo meccanismo che è anche
un po’ un istinto, una difesa per potersi addormentare alla sera, se no anche
noi abbiamo i nostri rimorsi.
E
allora questo è importante, il perdono è una delle più terribili pene, la
più rieducativa. È una pena intelligente, perché solo cosi si possono
sconfiggere veramente certi fenomeni come la criminalità organizzata. A
questo proposito io credo che l’abolizione dell’ergastolo servirebbe molto
a sconfiggere la criminalità organizzata. L’ho già detto spesso, perché i
ragazzi che sono stati condannati quando avevano 19/20 anni, con una speranza
potrebbero essere stimolati, portati a un cambiamento, uscirebbero dalla loro
cultura e perfino dalle loro organizzazioni criminali.
Adesso
mi avvio alla conclusione dicendo un po’ che cosa mi è accaduto la settimana
scorsa. Dopo 23 anni mi hanno chiamato in matricola, normalmente noi dell’Alta
Sicurezza quando ci muoviamo all’interno del carcere abbiamo una specie di
scorta, mi hanno condotto in matricola dove mi hanno dato questa bellissima
notizia, mi hanno notificato che sono stato declassificato in media sicurezza in
un regime più vivibile, più umano. Poi ovviamente dovevo tornare nella mia
sezione a preparare i bagagli, e ho chiesto: chi mi accompagna? Non vedevo gli
agenti intorno a me e loro mi hanno detto: guarda che adesso sei in media
sicurezza, quindi non hai più bisogno della scorta. Nel passare questo lungo
corridoio certamente mi sono sentito un po’ come un soldato che si rende conto
di colpo che è finita la guerra ed è scoppiata la pace, e dentro di me dico:
adesso che faccio? La paura della pace. Sono stato in guerra verso il
Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, verso le istituzioni e adesso
loro mi hanno dimostrato per la prima volta di essere migliori di me, mi hanno
messo un po’ in difficoltà. È da circa una settimana che mi trovo in media
sicurezza e mi hanno messo in cella con un altro compagno, un buon compagno, però
questo mio compagno ha un calendario in cella e io lo vedo che tutte le mattine
lui si alza va verso questo calendario appeso alla parete della cella e segna
i giorni che gli mancano al fine pena. Ecco a me questo gesto mi ha un po’
disorientato, io in 23 anni di carcere non ho mai avuto un calendario appeso
nella mia cella, a che mi servirebbe un calendario? Gli ergastolani hanno sempre
i giorni, mesi, anni in più e mai giorni, mesi e anni in meno. Ecco l’unica
cosa che non va in questo cambiamento è appunto questo calendario che quando
lo vedo mi fa star male, però il mio compagno mi ha promesso che lo leverà
presto. Grazie d’avermi sentito e ascoltato.
La
famiglia Bachelet e la sua capacità di dirci qualcosa di prezioso rispetto a
questo modo di guardare il mondo con gli occhi degli altri, anche dei nemici
di
Adolfo Ceretti
Ornella
Favero e la Redazione di Ristretti si chiedono, nella rappresentazione di questo
bellissimo convegno, se l’unica possibilità di fermare la cattiveria sociale
è moltiplicare le occasioni che aiutano a vedere il mondo “con gli occhi
dell’altro”. Per presentare il prossimo ospite mi viene da aggiungere che
ogni componente della famiglia Bachelet è, è stato, sarà e sarebbe una
persona candidata a dirci qualcosa di prezioso rispetto a questo modo di
guardare con gli occhi degli altri, anche dei nemici. Già, la famiglia
Bachelet, Vittorio docente all’Università dal 1986, Vice presidente del
Consiglio Superiore della Magistratura del quale faceva parte come membro laico,
eletto dal Parlamento in seduta comune, dove ha avuto un plebiscito,
praticamente tutte le forze che componevano il cosiddetto Arco Costituzionale
avevano votato per lui. Celebre a proposito del suo impegno politico una sua
affermazione, limpida e lapidaria: “L’impegno politico non è altro che una
dimensione del più generale ed essenziale impegno al servizio dell’uomo”,
forse non lo capiamo neanche oggi quanto è importante questa sua affermazione.
Vittorio
Bachelet viene colpito proprio per il suo ruolo all’interno del Consiglio
Superiore della Magistratura. Il 12 febbraio 1980, al termine di una lezione,
mentre conversa con la sua assistente Rosi Bindi, viene assassinato da un Nucleo
armato delle Brigate Rosse sul mezzanino della scalinata che porta alle aule dei
professori della facoltà di Scienze politiche della Sapienza, con sette
proiettili calibro 32 Winchester. Uno dei suoi attentatori, Laura Braghetti,
scrive nel 2003 un libro, “Il prigioniero”, in cui rivela il motivo per cui
si è scelto di uccidere Bachelet: perché non avendo la scorta è un bersaglio
più semplice. Due giorni dopo se ne celebrano i funerali nella chiesa di San
Roberto Bellarmino di Roma, uno dei due figli, Giovanni, che è qui con noi,
all’epoca venticinquenne, nella preghiera dei fedeli dice: “Preghiamo per
tutti i giudici, per tutti i poliziotti, i carabinieri, gli agenti di custodia,
per quanti oggi nelle diverse responsabilità nella società, nel Parlamento,
nelle strade continuano in prima fila la battaglia per la democrazia con
coraggio, con amore. Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito mio papà,
perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre
bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la
richiesta della morte degli altri”.
Ad
appoggiare Giovanni in questo suo percorso di riconciliazione c’è lo zio
Adolfo, un padre gesuita che è mancato nel 1995. Padre Adolfo Bachelet per
oltre un decennio ha condotto in carcere una conversazione con oltre 200 ex
appartenenti alla lotta armata, facendosi tramite per gesti di riconciliazione e
di perdono con le famiglie delle vittime. Tre anni dopo la morte di suo fratello
Vittorio, padre Adolfo aveva ricevuto una lettera firmata da 18 ex appartenenti
alla lotta armata all’epoca detenuti. Ecco un piccolo stralcio: “Sappiamo
che esiste la possibilità di invitarla qui nel nostro carcere, di tutto cuore
desideriamo che lei venga e vogliamo ascoltare le sue parole. Ricordiamo bene
le parole di suo nipote durante il funerale del padre, oggi quelle parole
tornano a noi e ci portano a quella cerimonia dove la vita ha trionfato sulla
morte e dove noi siamo stati davvero sconfitti, nel modo più fermo e
irrevocabile”. Padre Adolfo va in quel carcere e poi in altri e in altri
ancora, da Aosta fino a Cagliari. Molti gli affidano lettere in cui chiedono perdono
ai familiari degli uccisi, lui fa da intermediario e assiste a degli incontri in
carcere e fuori. Ecco noi oggi abbiamo l’onore e la fortuna di avere qui con
noi Giovanni Bachelet. Giovanni è molto di più di quella frase pronunciata il
14 febbraio del 1980 in chiesa, è un uomo che ha una vita intellettuale, una
vita pubblica straordinaria, è professore ordinario di Struttura della materia
all’Università La Sapienza, è il referente di Physical Review e di Physical
Review Letters e di altre riviste scientifiche, è stato parlamentare del
Partito Democratico, ed è stato uno dei fondatori dell’Associazione Libertà
e Giustizia. Gli lascio la parola con grande emozione.
Che
cosa ci aiuta a perdonare?
Ci
aiuta forse la coscienza profonda che avremmo potuto trovarci al posto
dell’altro
di
Giovanni Bachelet, Ordinario di
Fisica alla Sapienza, figlio del giurista Vittorio Bachelet,
assassinato
dalle Brigate Rosse nel 1980.
Al
funerale di suo padre disse: “Vogliamo pregare anche per quelli che hanno
colpito
il
mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle
nostre
bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la
richiesta
della
morte degli altri”
Grazie
a Ornella Favero e a Silvia Giralucci, che è il mio contatto con Ristretti
Orizzonti; grazie a Ristretti Orizzonti che ha fatto e fa molto bene. Molte
persone in questa sala possono testimoniarlo personalmente: anche nel carcere
italiano è possibile aiutare le persone a riconoscere la propria responsabilità
personale in un percorso di rieducazione che non vada contro i principi di
umanità, cioè attuare i primi due commi dell’articolo 27 della Costituzione.
Nel terzo comma di quell’articolo è esclusa la pena di morte, e su questo mi
scappa (scusate, in pubblico sono erroneamente noto per il perdono ma a casa mia
sanno che sono piuttosto polemico) un commento. A Carmelo Musumeci voglio
bene, mi manda tre e-mail al giorno che leggo tutte e tre anche se non gli
rispondo, però, quando ha invocato “l’umanità di ammazzarmi subito” in
contrapposizione all’ergastolo, non mi è piaciuto. Riprendo un punto del
professor Andrea Pugiotto, e rispondo: se potessi scegliere, preferirei di gran
lunga che mio padre fosse un ergastolano vivo anziché un morto ammazzato 34
anni fa. Sandro Pertini è stato molti anni in carcere. Nelson Mandela è stato
un infinito numero di anni in carcere. Poi però hanno recuperato la libertà e
vissuto un nuovo tratto di vita piena e significativa per la loro famiglia e per
il loro Paese. Finché c’è vita c’è speranza. Stiamo attenti a non
paragonare cose che non sono, a mio avviso, commisurabili. Intendiamoci: sono
convinto anch’io che l’ergastolo vada superato, ma sottolineo che già oggi
in Italia, dopo 26 anni di pena, in opportune condizioni, si può avere la
libertà condizionale. Con Silvia Giralucci (ed altri amici e amiche in
condizioni simili alle nostre) abbiamo ad esempio aiutato qualche detenuto per
reati di terrorismo a sfruttare questa possibilità e accedere alla libertà
condizionale.
Mio
papà, negli anni in cui mi entusiasmavo ingenuamente e patriotticamente per le
leggi speciali antiterrorismo di Cossiga, mi diceva “Non serve triplicare la
pena: occorrono intelligence, attività di contrasto efficace, certezza della
pena
E’
questa la ragione per cui alcuni Paesi dove non c’è l’ergastolo concedono
a volte l’estradizione di ergastolani verso l’Italia: considerano la
possibile riconquista della libertà condizionale dopo 26 anni sufficiente a
smentire sostanzialmente il “fine pena mai” che pure resta formalmente
vigente. Io mi auguro che l’ergastolo venga superato completamente, ma per
arrivarci dobbiamo tener conto delle luci che già sono sul nostro cammino e
anche capire come mai sia tanto difficile trovare il consenso necessario a
ulteriori passi avanti. Su questi argomenti ricordo chiacchierate istruttive con
mio zio Adolfo, gesuita, che dopo la morte di mio padre per diversi anni andò
in giro per carceri di massima sicurezza, come quello che fa da sfondo al bel
romanzo “Più alto del mare” scritto dalla mia amica Francesca Melandri,
forse qualcuno di voi l’ha letto. È un romanzo ambientato in un carcere di
massima sicurezza in Sardegna: ai tempi del terrorismo si costruirono carceri
speciali, per lo stesso meccanismo di cui parlava prima il professor Pugiotto.
Prima della sua morte era invece il mio papà, giurista, a cercare, in anni
difficili per l’Italia, di correggere i miei volgari sentimenti di paura e
vendetta di fronte ai crimini dei terroristi (bombe e attentati quasi
settimanali, all’epoca). Mi spiegava ad esempio che i permessi ai carcerati
(una novità di quegli stessi anni, successivamente molto ampliata con la legge
Gozzini), sui quali c’erano molte polemiche, funzionavano, invece, piuttosto
bene. Nei primi anni in cui si cominciò a dare i permessi, infatti, ogni tanto
un quotidiano strillava “Detenuto in libera uscita compie una rapina”; e papà,
statistiche del CSM alla mano, mi ripeteva che, sul totale dei permessi goduti,
simili gravissimi inconvenienti rappresentavano una percentuale irrisoria.
Insomma, per un detenuto che in libera uscita fuggiva reiterando il reato, 95
o 96 rientravano in carcere assolutamente tranquilli, ma di questi nessun
giornale parlava; 95 o 96 per i quali l’uscita era occasione di un più
rapido ritorno a una vita onesta. Anche oggi su queste paure irrazionali si fa
demagogia; anche oggi la cattiva politica, anziché smontarli (impresa
difficile: è piú facile disintegrare un atomo che un pregiudizio, diceva
Einstein), asseconda i pregiudizi e li sfrutta per prendere (o per non perdere)
voti, ci ricordava poco fa Bianca Stancanelli. Alcuni reazionari soffiano sul
fuoco dei pregiudizi, che si tratti di detenuti, Rom, tossici, immigrati. Altri,
pur democratici, per paura di perdere voti non si sbilanciano più di tanto; la
buttano, ricordava Bianca Stancanelli, in sociologia. Se vogliamo essere piú
bravi di loro e smontare i pregiudizi, dobbiamo però comprenderne le ragioni.
Ad esempio, si è parlato del 41bis e della sua trasformazione da strumento
emergenziale a strumento ordinario e anzi politicamente intoccabile. Una
trentina di anni fa lo zio Adolfo, oltre che da molti ex brigatisti, cominciò
ad essere invitato in carcere anche da ex terroristi di destra e a un certo
punto anche da detenuti della criminalità organizzata. Di questi ultimi mi
aveva detto una volta, nei primi anni novanta del secolo scorso: “Per loro è
molto più difficile essere recuperati, perché fuori dal carcere ritrovano lo
stesso mondo di prima. Oggi i terroristi, quando escono, trovano un mondo
irriconoscibile rispetto a quando erano entrati in carcere: la loro
organizzazione criminale è stata completamente smantellata, le tentazioni di
riprendere un’impresa disastrosa per sé e micidiale per molti altri sono
praticamente inesistenti, non è impossibile ricominciare una nuova vita,
normale. Quando invece si torna fuori e non si ha lavoro, proprio come prima;
quando nel quartiere ci sono gli stessi spacciatori di prima e gli stessi capi
mafia di zona di prima; quando il territorio non ce l’ha in mano lo Stato,
proprio come prima, beh, intraprendere una nuova vita
senza
essere nuovamente risucchiati nella vita cattiva di prima è molto più difficile.”
Questo saggio paragone del vecchio e saggio zio prete, morto ormai da parecchi
anni, a me suggerisce che la tragedia non sia tanto nella non-transitorietà del
41bis, quanto, semmai, nella non-transitorietà della criminalità organizzata;
il 41bis esprime solo la cattiva coscienza di chi ci governa e ci rappresenta
(incluso il sottoscritto per i pochi anni in cui ha fatto il parlamentare): con
la “faccia feroce” del 41bis ci si pulisce la coscienza, senza incidere sul
fenomeno. Mio papà, negli anni in cui mi entusiasmavo ingenuamente e
patriotticamente per le leggi speciali anti-terrorismo di Cossiga, mi diceva
“Non serve triplicare la pena: occorrono intelligence, attività di contrasto
efficace, certezza della pena. Oltretutto, quando il terrorismo finirà, questi
inasprimenti esagerati creeranno un pasticcio”. Allora non capivo; poi il
pasticcio è successo e le successive leggi sui collaboratori di giustizia e sulla
dissociazione sono servite, oltre che a scardinare il terrorismo, anche a
eliminare alcune paradossali conseguenze di quella inutile triplicazione. Finché
però un’emergenza è in atto, pochi riescono a ragionare a mente fredda;
quella della mafia è, purtroppo, ancora in atto. E tuttavia in queste
drammatiche circostanze ragionare è proprio quel che serve. Serve ai detenuti
per riconoscere la propria responsabilità e cambiare vita. Serve ai cittadini
per vincere i pregiudizi. Serve agli elettori per identificare i politici capaci
di affrontare e risolvere i problemi anziché far leva su di essi per prendere
voti. Come si impara a ragionare? Dove si trovano coraggio e intelligenza per
affrontare la verità anziché affondare la testa nella sabbia come gli struzzi?
L’incontro con altre persone, esperienza che stiamo facendo qui e viviamo
anche in altri ambienti, è uno dei passaggi fondamentali in cui, secondo
Dietrich Bonhoeffer, si incontra la verità. Forse piú che la veritas della
etimologia latina (da vera, anello matrimoniale, segno di fedeltà, di aderenza
alla realtà) si tratta della alètheia greca (verità nel senso di svelare, di
rivelare: dalla negazione del verbo lanthàno). Forse l’incontro con la verità
avviene in una progressiva rivelazione di noi stessi a noi stessi e agli altri
che ci consente di riconoscere sempre meglio le nostre responsabilità e
potenzialità, di prendere in mano la nostra vita, di educarci (piú che
rieducarci, come ha detto stamattina Duccio Scatolero). Nel cammino ci aiuta la
coscienza profonda
che avremmo potuto trovarci al posto
dell’altro. Principi cristiani, razionalità e senso civico convergono su
questa coscienza profonda, senza nulla togliere alla responsabilità personale
alla base dell’art. 27.
Le
battaglie più importanti non vengono mai vinte con l’inasprimento dei
rapporti, bensí attraverso l’incontro e la capacità di dialogo e di comune
soluzione dei problemi
Nel cammino ci aiuta, inoltre, l’esperienza che amore e accoglienza trasformano le persone: le battaglie più importanti non vengono mai vinte con l’inasprimento dei rapporti, bensí attraverso l’incontro e la capacità di dialogo e di comune soluzione dei problemi. Guardare al lato buono delle cose e far leva su di esso, contrastare il male con azioni positive, rispettare ogni persona umana scommettendo sulla possibilità di una sua piena realizzazione, sono antichi principi indelebilmente impressi anche nella nostra Costituzione; una sua sempre miglior attuazione, di cui l’esperienza di Ristretti Orizzonti è un esempio e un assaggio, sembra la ricetta migliore per vincere, in carcere e fuori, il male con il bene. Grazie.