Riflessioni ai margini di un incontro in occasione della “Million Marijuana March”
Paternità
e antiproibizionismo
Parliamo,
per favore, di cosa può significare “ridurre il danno” delle sostanze
attraverso la legalizzazione, la depenalizzazione, la non stigmatizzazione
sociale di chi consuma droghe
di
Alessio Guidotti, tutor
nel reinserimenti lavorativi alla coop “Il Sorbo” di Formello
Ero
al ritorno da un incontro svoltosi in occasione del “Million Marijuana
March”. Sull’autobus parlavo con un paio di persone, presenti anche loro
all’incontro, di quali sono gli aspetti culturali in Italia in materia di
legalizzazione, depenalizzazione, e reale percezione culturale della differenza
tra droghe “leggere” e “pesanti”. Parlavamo di quanto fosse stato
interessante ascoltare le diverse testimonianze degli intervenuti
all’incontro, da quella di Annie Manchon (UK) del Consiglio direttivo del Leap
(Law Enforcment Against Prohibition-Forze dell’ordine contro il proibizionismo)
a quella di Joep Oomen (Belgio) coordinatore Encod (Coalizione europea per le
giuste ed efficaci politiche sulle droghe) fino a quella di Alberto Sciolari,
vicepresidente PIC (pazienti impazienti cannabis)
Insomma:
dopo esserci detti tante di quelle cose che uno di noi dimenticò di scendere
dall’autobus alla fermata giusta, il discorso andò a finire sui nostri figli,
e sul fatto di essere lì a pensare e credere che lo Stato e la società debbano
cambiare il loro atteggiamento in tema di droghe, perché sarà, anche questa,
una di quelle cose che in un modo o in un altro riguarderà i nostri figli. Poi
ci salutammo. Qualche giorno dopo, risentendo uno di loro, ebbi la conferma di
non essere stato l’unico del gruppo che, tornando a casa, si mise a pensare a
droga, figli, e al fatto di essere genitori con un determinato passato, in cui
il consumo di droghe è stato un dato di fatto che ha fortemente condizionato le
nostre vite.
Io
personalmente ci ho pensato parecchio anche nei giorni seguenti. Alcune volte
anche durante il lavoro (il coinvolgimento in un progetto di Educativa di strada
su un territorio “difficile”) mi capitava di pensare alla questione figli-droga-antiproibizionismo,
e la cosa mi veniva quasi spontanea, avendo spesso la possibilità di
confrontarmi con ragazzi di 15-16 anni che ti parlano delle loro “canne”
oppure che loro fumano erba “perchè fa bene perchè l’erba è naturale”.
Devo dire che è stato proprio il confronto con i più giovani che consumano
droghe leggere (ma anche pesanti purtroppo) a farmi convincere di quanto sia
necessario adoperarsi per un cambiamento di cultura in materia di droga,
proibizionismo e antiproibizionismo.
A
questo punto, però, vale la pena chiarire alcuni aspetti della questione, che
non è semplice come generalmente qualcuno crede e come soprattutto la
percepiscono alcuni giovani con i quali ho la possibilità di confrontarmi “on
the road”. Molti di loro infatti fanno
una
confusione incredibile. Non hanno chiare alcune questioni importanti in materia
di droga e questo penso che dipenda da una mancanza di conoscenza e di consapevolezza
di quello che fanno. E credo che questa mancanza di conoscenza e consapevolezza
sia figlia di una cultura proibizionista. Quando mi dicono che l’erba fa bene perché
è naturale dicono qualcosa che come minimo li espone a possibili critiche di
tipo proibizionista. Mi spiego meglio: chiunque, anche il più incallito
proibizionista, potrebbe, con tutte le giuste motivazioni, affermare che le
cose “naturali” non fanno bene in quanto tali: anche la cicuta è naturale,
così come lo è il terremoto. Non tutto ciò che è naturale fa bene di per sé.
Anche qui emerge la mancanza di conoscenza e di argomenti sui quali si sostiene
una tesi (“l’erba fa bene perchè è naturale”). Insomma: le riconosciute,
scientificamente, proprietà medicinali della cannabis sono una cosa, i
piacevoli effetti che qualcuno può avere fumando sono un’altra cosa che ha, e
dovrebbe, avere a che fare con l’uso ricreativo e non terapeutico.
Inoltre
bisognerebbe chiarire che l’abuso di cannabis, o il farne uso in età in cui
le strutture cerebrali non sono consolidate, non è affatto benefico e,
comunque, è superficiale arrivare a sostenere che la cannabis sia la cura di
tutti i mali fisici e psichici. Anche perché, e qui il discorso diventa
interessante, parliamo del consumo di qualcosa (la cannabis indica) che non
esattamente la grande maggioranza di quelli che la consumano conosce realmente,
e spesso fuma qualcosa di coltivato da qualcun altro e acquistato in maniera
illegale. Se l’erba ognuno avesse la possibilità di coltivarsela da sé,
senza incorrere in conseguenze penali, e fosse in grado di sapere cosa ha
seminato (se è esente da trattamenti chimici, il tipo di qualità, la
percentuale di principio attivo) allora potrebbe avere maggiore consapevolezza
di quello che sta fumando. Succede anche con la birra: un gruppo di miei amici
si è appassionato all’homebrewing, ma loro ci si sono messi sul serio, ora
hanno una cultura impressionante in materia di luppoli, malto, fermentazioni e
via dicendo: fanno diverse qualità di birra per uso domestico ma, soprattutto,
mi sembra di capire che bevano realmente in modo “responsabile”, prima di
tutto perché hanno consapevolezza di cosa stanno bevendo.
C’è
poi la questione del linguaggio che, io penso, sia stato distorto a causa della
cultura proibizionista. Sono molti i giovani che sostengono che “l’erba fa
bene perché è terapeutica“ oppure “è naturale”, ma pochi di loro
davanti ad un adulto hanno la tranquillità di dire che gli piace l’effetto
che fa.
Quando,
superate le loro argomentazioni spesso prive di fondamento, gli dico che forse
fumano semplicemente perché gli piace l’effetto, allora fanno un sorriso e si
sentono finalmente liberi di dire che “si è così mi piace l’effetto che mi
fa”, e io la trovo una spiegazione più sincera che dà la possibilità di
aprire un discorso. Anche nel linguaggio, io credo, la cultura del
proibizionismo ci ha portato a nascondere parole e concetti. E questo
“nascondere” altro non ha fatto che alimentare la cultura proibizionista e
l’ipocrisia in tema di droghe. Altro discorso confuso che alcuni ragazzi fanno
è “l’erba è terapeutica, hai visto che ci sono regioni che l’hanno
legalizzata?” . Provo a spiegargli che le cose non stanno esattamente cosi. Su
questa faccenda che sia “terapeutica” una volta, confrontandomi con una
dottoressa del Ser.t, lei ha affermato con molta tranquillità: “Hanno ragione
a sostenere che è terapeutica... ma, nel caso loro, per cosa è
terapeutica?”. In pratica: la “cannabis terapeutica”, o meglio l’uso
medico della cannabis è una faccenda totalmente diversa dal farsi le canne da
soli o con gli amici per puro fine “ricreativo”, ma credo che, a livello
culturale, la scappatoia dal proibizionismo sia stata l’enfatizzazione del
“terapeutico”. Premesso che il capitolo, veramente penoso, sulla cannabis
per uso medico e le vicende giudiziarie, che sfiorano l’assurdità, a carico
di chi dovrebbe poter avere la libertà di scegliere come curarsi, sono un
argomento che andrebbe trattato a parte, detto questo io per diversi motivi sono
contrario a far diventare tutto terapeutico, qualche volta mi sembra che stiamo
“terapeutizzando” la realtà: se una cosa è bella (e in quanto bella e
piacevole fa bene) allora la si vuole far passare per “terapeutica”.
Ma
torniamo all’erba: in alcuni stati dell’America dopo la cannabis terapeutica
hanno legalmente accettato il fatto della cannabis a fine ricreativo. Non mi
piacciono tanto i confronti con altre situazioni perché credo che a volte siano
forzati, cioè non tengano presenti le differenze culturali tra noi e gli altri
Paesi, mentre secondo me è importante concentrarsi proprio su quelle
differenze culturali per capire come agire e come ri-educarci a una cultura
antiproibizionista che sia “nostra” e non la scimmiottatura di culture altre
nelle quali non ci ritroveremmo. Per esempio, io credo che se dall’oggi al
domani noi stessimo in una situazione tipo Amsterdam, con Coffee Shop nelle
nostre città (e molti dei giovani che incontro su strada sarebbero felicissimi)
non sarebbe una cosa per la quale saremmo culturalmente pronti. Io credo cioè
che noi ci si debba educare all’antiproibizionismo e soprattutto a coglierne
il senso più ampio anche in un’ottica di riduzione del danno. Avere, ad
esempio, ben chiaro il significato di “ridurre il danno” attraverso la
legalizzazione, la depenalizzazione, la non stigmatizzazione sociale di chi
consuma droghe.
Il pensiero che il proprio figlio si possa
trovare coinvolto in vicende di droga
Diciamolo
chiaramente: abusare di droghe, anche leggere, fa male ed è rischioso per
salute fisica e psichica, ma è altrettanto vero che questo rischio varia a
seconda delle circostanze in cui le droghe vengono usate, della loro quantità e
qualità. Inoltre portare a conoscenza, e prenderne atto senza ipocrisia, da
parte di tutti, del reale abnorme flusso di danaro che si riversa nelle attività
lecite e che proviene però dal traffico di stupefacenti aiuterebbe a capire il
controsenso della punibilità del consumatore, che non è fatta solo in termini
legali ma anche in termini di emarginazione.
Quando
si parla di capitali provenienti dal traffico di droga si dovrebbe pensare non
allo spacciatore con la bella macchina, l’attività commerciale, e la catena
d’oro al collo: quelle sono le briciole. Dovremmo pensare agli abnormi flussi
di denaro contante che i grandi produttori di droga investono in tutto il mondo,
mescolando i proventi del commercio di droga con l’economia legale. I grandi
flussi economici del traffico di droga, le enormi percentuali di
tossicodipendenti presenti nelle carceri, l’aria di stigma ed emarginazione
che si respira davanti ai SerT, e ancora storie di droga che sono degenerate non
per la droga in sé ma per l’emarginazione, il senso di esclusione e il non
giusto approccio al vero problema della persona: ecco io penso che prendere
realmente atto di tutte queste cose potrebbe servire a quel cambiamento
culturale che è necessario per intraprendere un percorso che, socialmente
parlando, darebbe prospettive positive in tutti gli ambiti in cui la dipendenza,
che non è solo quella da sostanze, crea problemi alla persona e rischia di
avviare problemi su problemi.
Se,
in termini sociali, noi imparassimo a parlare del nostro rapporto con il
“consumo di piacere” che ci coinvolge, droghe comprese, avremmo certamente
l’occasione per confrontarci con chi è direttamente coinvolto, cioè il
consumatore, e impareremmo a non stigmatizzare: io credo che da parte di
consumatori e ex-consumatori di droga
servirebbe una maggiore partecipazione a un discorso culturale che è globale e
non può riguardare solo alcune forze politiche e un legislatore che, forse un
domani, sancirà la legittimità di determinati comportamenti e determinati
consumi. Purtroppo i consumatori “soft”, sconosciuti ai servizi per le
tossicodipendenze, che lavorano e conducono una vita regolare, soprattutto una
vita che socialmente “non disturba”, mal volentieri parlano del loro
rapporto con la droga: e non parlo solo di erba, ci sono i consumatori
“soft” di cocaina e qualcuno anche di eroina. Anche la loro testimonianza
sarebbe utile. Le conseguenze più nascoste di culture e pratiche proibizioniste
fermentano all’interno della società impedendo uno sviluppo culturale che
include anche un discorso di autoconsapevolezza.
Provo
a spiegarmi. Ho sempre pensato che il tossico dia fastidio soprattutto per un
motivo: è la rappresentazione “in potenza” di un aspetto umano che riguarda
tutti quanti: quello della dipendenza. Tendiamo tutti a dipendere da qualcosa e
spesso non ne siamo consapevoli. Ma il tossicomane è quello che meglio di tutti
incarna questa nostra tendenza, ma è anche quello che non può non prenderne
atto: l’astinenza è lì a ricordarglielo in maniera brutale. Mi viene in
mente un episodio di due giovani: uno dentro al bar a giocare
alle slot-machine in maniera quasi compulsiva
(era lì da circa un’ora, occhi sbarrati sullo schermo, atteggiamento ansioso
e sudore sulla fronte) e l’altro fuori dal bar, in leggera astinenza da
eroina, ad aspettare lo spacciatore. Ebbene: l’uno diceva dell’altro
“guarda che schifo come si è ridotto” . A me la cosa faceva pensare. Ognuno
di loro si rivolgeva a me con sdegno per la condizione in cui si trovava
l’altro, ma nessuno di loro due riteneva di avere in comune qualcosa con
l’altro che, invece, criticava aspramente. Si facevano schifo a vicenda, senza
rendersi conto che ciò che li disgustava reciprocamente era quello che
avevano in comune: essere dipendenti da qualcosa in un modo così invadente da
condizionare il loro tempo, le loro scelte, il loro umore. Certo, quello dentro
al bar, incollato alla slot-machine, è dipendente per qualcosa che è
legalizzato, fisicamente meno invasivo. Ma presso i SerT (che in molte Regioni
sono Servizi del Dipartimento per le Dipendenze patologiche di cui le
Tossicodipendenze sono solo un aspetto) si occupano anche di lui: il giocatore
incallito... Questo per dire che forse è necessario diffondere una cultura
profondamente antiproibizionista che non si interessi solo ed esclusivamente di
depenalizzare il consumo di una droga o di un’altra. Oltre questo penso sia
importante adoperarsi per diffondere consapevolezza e conoscenza in materia di
consumi, abusi, dipendenze. Anche su questo punto mi è capitato di avere
confronti duri con gli operatori del SerT. Alcuni di loro sostengono che non è
importante fare prevenzione parlando direttamente delle sostanze e dei loro
effetti, soprattutto ai giovanissimi, per non stimolare in loro la curiosità.
Per certi aspetti potrei essere d’accordo, sempre se si parla di giovanissimi,
perché poi vedo che ci sono tredicenni e dodicenni che si fanno le canne, ma
per altri aspetti no, non sono d’accordo. Credo che ci debba essere una
prevenzione all’abuso di sostanze chiara e semplice, e che le azioni di
riduzione del danno dovrebbero avere maggior attenzione e destinazione di
risorse perché renderebbero anche in termini di risparmio sanitario oltre che
di vite umane. Ma io penso che una prevenzione totale sul rischio
“dipendenza” dovrebbe occuparsi anche delle legalissime dipendenze che si
sviluppano nelle sale gioco e nei bar. Certo educare alla libertà è difficile.
Ma allora non bisogna essere ipocriti. E credo che di fondo ci sia stata, e ci
sia, molta ipocrisia in tutte le politiche sulla droga, e sia stata una enorme
ipocrisia che ha contribuito a far essere la tanto sponsorizzata “guerra
alla droga” una vera e propria “guerra ai drogati”.
Pensando
ai propri figli, chi è che pensa che le politiche in materia di droga siano
giuste? Ma quando parlo dei propri figli intendo il pensiero che il proprio
figlio si possa trovare coinvolto in vicende di droga. Che il proprio figlio si
presenti a casa e ti dica “sono stato a farmi le canne con gli amici”.
Sono sincero: mio figlio è un piccino di quasi due anni che ora, mentre scrivo,
dorme con un orsacchiotto tra le braccia. Il pensiero che un domani possa
trovarsi in una situazione di consumo di sostanze è qualcosa che mi inquieta.
Inevitabilmente, pensandoci, mi torna in mente il mio passato più pesante.
Credo, e mi sembra di capire parlando con persone competenti in materia, che
tutti noi che abbiamo avuto esperienze di questo genere, non siamo poi proprio
sereni al pensiero di un figlio che si possa trovare in situazioni simili o quasi.
Una cosa è certa: io vorrei che crescesse in una società meno propensa a
condannare ed emarginare il più fragile, il più esposto alla dipendenza da
qualcosa. Vorrei crescesse in una società dove si possa sempre più arrivare
ad essere coscienti delle ipocrisie che ci circondano, e del fatto che le
ipocrisie generano false credenze, le false credenze generano emarginazione e
l’emarginazione crea mostri da eliminare. Ma soprattutto vorrei crescesse in
una società dove chi ha un problema perchè la dipendenza da qualcosa
(qualunque cosa sia) gli ha compromesso la propria libertà emotiva, non fosse
emarginato a priori da una cultura proibizionista. Ecco: vorrei che la società
in cui crescesse mio figlio possa essere una società che tratti i problemi del
consumo ed uso di sostanze stupefacenti da un punto di vista sociale e, quando
necessario, medico, ma non da un punto di vista legale e penale o sanzionatorio.
Auspicare questo cambiamento sociale significa però non solo cambiare alcuni
articoli di legge: questo dovrebbe essere il primo passo da fare ma, insieme a
questo, è assolutamente necessario prendere atto della necessità di un
cambiamento culturale nei confronti del consumo e dei consumatori di droghe, e
per questo cambiamento è necessario si adoperino anche e soprattutto i diretti
interessati: consumatori ed ex consumatori.
Se
io fossi un educatore…
di Lorenzo Sciacca
In
un confronto, in redazione, sul lavoro che svolge l’educatore all’interno di
una struttura penitenziaria, sono usciti parecchi problemi che riguardano la
relazione tra il detenuto e questa persona che è il perno principale dell’équipe
“trattamentale”, il gruppo degli operatori che si occupa di noi detenuti.
Questo/a
professionista, un giorno, dovrà decidere il futuro del detenuto, in base a
considerazioni tratte da un percorso rieducativo svolto negli anni di
detenzione. Ovviamente, quando parlo di una relazione tra detenuto ed educatore,
intendo una relazione che con il tempo si dovrebbe venire a creare, dunque di
una conoscenza del soggetto, e perché no anche di una conoscenza reciproca,
oserei dire paritaria.
Qualche
idea sull’educazione
Parto
dal fatto che questa parola secondo me a volte viene sottovalutata. Educare
significa “guidare e formare qualcuno, specialmente giovani, affinandone e
sviluppandone le facoltà intellettuali e le qualità morali, in base a
determinati principi. Abituare con l’esercizio, con la pratica ripetuta”.
Ora voglio esaminare questa definizione facendo una autoriflessione.
Non
ho avuto la fortuna di avere dei genitori molto presenti, diciamo che è stata
più presente la strada nella mia infanzia. Dico questo perché per formare e
guidare qualcuno sarebbe meglio partire dall’infanzia, anche se a volte delle
lacune escono lo stesso. Ho infranto il codice già all’età di dodici anni,
diciamo che poi mi sono dato da fare per peggiorarmi. Quella che oggi chiamiamo
“equipe trattamentale”, il gruppo di educatori e altri professionisti che
dovrebbero occuparsi della nostra rieducazione, io con qualcosa del genere ho
iniziato ad avere a che fare all’età di 7 anni. Avendo mio padre carcerato e
mia madre indagata, sono subentrati gli assistenti sociali obbligando mia madre
a farmi frequentare, con colloqui settimanali, psicologi e educatori. In più
frequentavo una scuola di preti e la loro mentalità era di educare, a loro
maniera, i giovani un po’ vivaci. Il loro lavoro principale era di insegnarmi
l’educazione, con mezzi punitivi, come per esempio essere rinchiuso in
sgabuzzini di un metro per uno al buio per ore, oppure, la più frequente,
pulire tutte le toilette del convitto. In pratica venivo punito per i miei
sbagli con mezzi illeciti. Mi ricordo un pensiero che già mi girava per la
testa a quell’età, mi dicevo che ero piccolo ma era solo questione di tempo e
poi sarei stato io il più forte. Oggi ho 37 anni, è cambiato qualcosa nella
mia vita? No! Oggi mi ritrovo di fronte a un “educatore” che in teoria
dovrebbe ascoltarmi per cercare di capire dove sono le mie lacune e, ovviamente
con la mia collaborazione, tentare di porvi rimedio.
Se
io fossi un educatore, prima di leggere il fascicolo di un detenuto, vorrei
conoscerlo, esclusivamente per cominciare una conoscenza da zero, ma assieme.
Alla pari. Al momento dell’arresto, un detenuto è incazzato con il mondo, ma
soprattutto, anche se non lo ammette, con se stesso, dunque bisogna saperlo
ascoltare. Le prime domande per me non possono essere “Per cosa sei
dentro?”, dovrebbe essere il detenuto a dirlo spontaneamente, perché
altrimenti rischia di apparire come un interrogatorio in questura e sappiamo
tutti come la maggior parte di noi la pensa a riguardo, allora sarebbe meglio
lasciare che tutto si svolga a ruota libera. Una domanda molto banale come per
esempio “Come ti senti?” può avere dei risultati molto più efficaci.
Dunque
primo punto: conoscere la persona e il suo stato d’animo.
Quando
il detenuto vi dirà il motivo del suo arresto, bisognerebbe fare un passo
indietro, e cercare le motivazioni reali del gesto che ha fatto. Prendiamo per
esempio me, sono in carcere per rapine di banche, se dovessi dire che l’ho
fatto per soldi o perché sono amante della adrenalina, sarei molto superficiale,
il mio problema è la mancanza di capacità di relazionarmi con la società di
cui faccio parte, non mi sono mai identificato come un elemento di essa. Ora
questa riflessione la faccio, non grazie ad un educatore, ma grazie a delle
possibilità che il sottoscritto si è dovuto creare in questo contesto.
Secondo
punto: conoscere il motivo reale di un delitto.
Il
detenuto deve riappropriarsi di un linguaggio che ha perso o che non ha mai
conosciuto, questo si fa con l’esercizio e la pratica ripetuta. L’educatore
dovrebbe avere la capacità di insegnarglielo e, negli anni che dovrà
trascorrere dentro al carcere, dovrà farlo esercitare periodicamente. Questo si
impara con relazioni fatte di confronti, scambio di idee e scontri che in un
rapporto paritario nascono. Partecipo da alcuni mesi al progetto “Il carcere
entra a scuola, le scuole entrano in carcere”, ci si confronta con ragazzi di
17/18 anni. La prima volta che ho assistito a questi incontri sono rimasto
basito, non tanto per la novità, ma per aver scoperto il potere del confronto,
è straordinario quello che ti dà. Ti apre la mente a riflessioni personali che
mai avresti potuto pensare di essere capace di fare.
Terzo
punto allora: insegnare a comunicare.
Tutti
gli esseri umani hanno passioni, solamente che noi detenuti le nascondiamo, o
non sappiamo neanche di averle. Oggi scopro che la mia passione è scrivere, sicuramente
non sono in grado di farlo nel migliore dei modi, ma ho trovato un qualcosa dove
voglio crescere, dove voglio imparare. Far scoprire o riscoprire un piacere può
essere molto d’aiuto, la passione può essere esercitata come un freno per
pensarci prima. L’educatore dovrebbe insegnarci a pensarci prima, a metterci
davanti quello che si può perdere in un attimo di rabbia. Anche questo richiede
molto allenamento e l’allenamento non puoi farlo da solo, come abbiamo fatto
per la maggior parte dei nostri anni, dunque ci vuole anche la nostra parte nel
chiedere aiuto e accettarlo.
Quarto
punto: insegnargli a pensarci prima.
Arrivati
a un periodo, stabilito dalle leggi, un detenuto può ricorrere a benefici che
gli permetterebbero di provare ad applicare gli insegnamenti avuti durante la
detenzione. Questo passo viene deciso dal magistrato di Sorveglianza dopo avere,
fra l’altro, esaminato la relazione fatta durante la detenzione
dall’educatore o da quella che si chiama “èquipe trattamentale”. Il
parere io non dico che debba essere per forza positivo, ma dietro deve avere una
attenta valutazione considerando tutto il percorso che ha svolto il soggetto:
perché è normale che, dopo avere dato prova di un tentativo di reinserimento
all’interno, ci vuole la parte pratica, cioè mettere sul campo ciò che si è
imparato. Ecco il ruolo fondamentale dell’educatore.
Quinto
punto: accompagnarlo fuori.
Io
non sono nessuno per poter insegnare a una persona il proprio lavoro, perché
dietro a questa professione ci sono degli studi, diplomi e lauree, onestamente
io ho solo la terza geometra. Ma credo fortemente che ci vuole passione per
quello che uno decide di fare nella vita, e non superficialità. La passione di
cui parlavo nel quarto punto va ritrovata, a volte, anche da parte degli
operatori. Magari guardando negli occhi quel ragazzo che si presenta a 20 anni
pompato da finti ideali, false amicizie e che si sente padrone del mondo,
cercare di ascoltarlo fino in fondo al cuore, perché la realtà è che nessuno
vuole arrivare come ho fatto io a prendersi alla fine trent’anni di carcere…
Ultimo punto: imparare ad ascoltare.
E se invece fossi uno psicologo…
Che
ruolo ha uno psicologo all’interno di una struttura penitenziaria?
Io
purtroppo giro le carceri, da detenuto, da tanti anni e questa figura la trovo a
volte “astratta”.
Oggi
allora voglio provare a capire, secondo le mie opinioni personali e la mia
storia di vita, il ruolo fondamentale che dovrebbe avere lo psicologo nello
svolgere un lavoro con il detenuto.
Lo
psicologo per me non è altro che una persona che, grazie ai suoi studi, conosce
l’animo umano compresa la parte più importante, l’inconscio, quella parte
della nostra mente che genera pensieri e azioni di cui non ci rendiamo conto.
In
sedici anni di carcere, solo una volta mi sono ritrovato seriamente di fronte a
una psicologa in grado di ascoltare, ma ormai era troppo tardi, avevo già una
condanna di trent’anni. Ascoltare, è questo il punto.
Per
me uno psicologo prima di tutto deve avere una capacità di ascolto
straordinaria.
Mi
ricordo uno dei tanti colloqui che ho fatto con la psicologa del carcere di
Alessandria. Ormai era quasi un anno che ogni settimana facevo questi incontri e
ovviamente c’era un rapporto di estrema fiducia. Il giorno in cui ricorreva
l’anniversario della scomparsa di mio figlio, mi feci coraggio e invece di
isolarmi andai al solito incontro, spiegandole che mi ero imposto di scendere
andando contro la mia volontà. Per farla breve abbiamo passato i soliti
quarantacinque minuti in un silenzio impressionante e imbarazzante. Le sue
uniche parole furono che a volte ascoltare un silenzio vale più di cento
sedute.
Questa
per me è pura passione e dedizione al proprio lavoro. Certo, il mio umore non
era cambiato, ma sapevo di aver trovato una persona, dentro a queste quattro
mura, che voleva ascoltarmi.
Oltre
ad avere questa capacità, uno psicologo credo dovrebbe essere in grado di
trovare quei punti cardine nel passato della persona dove c’è stata una
scelta di vita. Mi spiego meglio: sono consapevole che l’aver vissuto in un
ambiente fatto di povertà, di criminalità, l’essere già in tenera età a
contatto con le carceri sono tutti elementi che hanno contribuito a farmi
prendere una scelta di vita quasi scontata, ovviamente poi però ci ho messo del
mio.
Lo
psicologo, dopo aver ascoltato il racconto di vita di una persona, dovrebbe
avere la capacità di soffermarsi su alcuni episodi cruciali e cercare di far
ripercorrere al ”paziente” gli stati d’animo che provava. Credo che solo
così il suo lavoro sia in grado di contribuire a un cambiamento di
comportamento del soggetto.
Oggi
mi ritrovo a riflettere su episodi della mia vita passata che mai avrei pensato
che fossero causa del mio comportamento deviante. Però sono anche fermamente
convinto che le istituzioni hanno contributo fortemente a peggiorarmi.
Come
si può pensare infatti che un detenuto arrivi a riflettere su se stesso senza
l’aiuto di persone competenti? Mi hanno arrestato dopo il funerale di mio
figlio, ero consapevole che sarebbe successo essendo latitante, ma l’impatto
con il carcere fu devastante. Il mio stato d’animo era quello di una persona
distrutta, in più sapevo che avrei dovuto subire delle condanne esagerate,
perché le pene in Italia sono davvero altissime, nonostante tutti siano
convinti del contrario. Il secondo giorno mi chiamò uno psicologo, una persona
dietro a una scrivania con una penna tra le mani, un foglio prestampato davanti
e con la testa bassa. “Quando sei nato, dove abiti, hai problemi d’insonnia,
sei tossicodipendente?”, queste sono state le uniche domande. Una volta
compilato il foglio, con un gesto naturale, lo mise in una cartella riposta
sopra tante altre. Le sue ultime parole furono: “Può andare”. Ecco, credo
che tanti operatori siano così.
Venti
giorni fa il mio compagno di stanza ha perso la madre: oltre a non essere stato
portato al funerale, non ha avuto nessun appoggio morale da persone competenti,
si è dovuto aggrappare alla solidarietà di quei detenuti più vicini a lui e
che hanno provato gli stessi sentimenti.
Anche
la persona più inesperta capirebbe che drammi di questo genere possono attivare
dei meccanismi di violenza e di odio verso le istituzioni.
Certi
comportamenti che generano alcune azioni che una persona fa credo siano causati
da traumi che ci portiamo dietro inconsapevolmente, e andarli a riscoprire e
riviverli con persone competenti ma, soprattutto, con persone che credono in
quello che fanno può essere la chiave per far ritrovare la voglia di provare a
vivere una vita diversa da quella vissuta fino ad oggi.
Oggi
gli psicologi si lamentano, giustamente, delle condizioni in cui lavorano, ma
quello che vorrei chiedere a tanti operatori è se, a fronte di tutti questi
problemi, non causati da noi detenuti, si sentono onesti verso la loro
professione.
Io in quello che faccio, qualsiasi cosa faccio, oggi cerco di mettere passione e onestà e lascio giudicare agli altri il risultato, ma mi impegno e so di dare il massimo. Mi piacerebbe capire se anche chi deve per professione “occuparsi” di me mette la passione e l’onestà al centro del suo lavoro.
Un
uomo detenuto che vorrebbe dare una svolta alla sua vita
Ma
per farlo, per riuscire a riscattarsi bisognerebbe che nessuno puntasse il dito
per dire “quello è lo scarto della società”
di
Luca Raimondo
Da
piccoli, i genitori raccontano delle favole per far addormentare i propri
pargoletti. Si raccontano delle fiabe tipo Cappuccetto Rosso, Pinocchio e molte
altre. Tutte queste fiabe hanno in comune una cosa, la narrazione tra il bene
e il male, il giusto e sbagliato, bianco o nero e in tutte c’è un lieto fine
dove il bene trionfa sempre sul male.
Poi
si cresce ma si sta sempre con quella mentalità “bianco o nero”. Fiabe non
se ne ascoltano più, si ascoltano i telegiornali, i media e si leggono i
giornali, ma anche su questi c’è una cosa che li accomuna: prima pagina gli
orrori della politica, disastri dal mondo, crisi e disoccupazione, poi scorri le
pagine e vedi verso la metà, o quasi alla fine, delle foto di individui che
hanno, per esempio fatto una rapina, allora l’attento lettore punta il dito su
quelle foto e comincia a pronunciare frasi del tipo “devono buttare via la
chiave, saldare i cancelli e farli morire in carcere”.
Vorrei
soffermarmi a riflettere su un punto: perché da bambini, quando si ascoltano le
fiabe non ci siamo mai accaniti sul lupo cattivo o sul gatto e la volpe? Credo
che dovremmo ammettere, un po’ tutti, che ognuno di noi ha le sue colpe, non
avere le fette di salame sugli occhi e guardare un po’ la realtà che ci
circonda.
Anzi
sapete una cosa ora inizio io a raccontarvi una storia.
Questa
storia è la vita di un bambino nato nel Catanese di nome Luca, cresciuto in una
famiglia di lavoratori, papà muratore, mamma casalinga e con quattro fratelli.
Luca
è il più piccolo dei fratelli, nato nel 1980, anni in cui c’era molta gente
vittima della povertà del sud, dunque emigrava in Germania. La politica era più
malsana di quella di oggi e in quei tempi, in Sicilia, c’erano morti ammazzati
tutti i giorni. Luca, di tutto questo, non sapeva niente, cresceva nell’amore
della famiglia. I suoi interessi erano quelli di un bambino normale che pensa al
gioco, arrampicarsi sugli alberi, farsi la guerra con gli altri bambini tirandosi
i mandarini, giochi semplici. Quel mondo fatato era dato dall’innocenza
dell’età, ma quando si andava per le strade, si vedevano delle persone con
belle auto, grosse motociclette, vestiti bene e con un modo di fare da spacconi.
Tutto questo, a Luca, lo affascinava.
Gli
anni passavano e quegli innocenti giochi non lo divertivano più, allora
iniziava ad avere a che fare con pistole ad aria compressa. Erano i suoi
gioielli, le puliva in modo ossessivo e alla vista di pattuglie si nascondeva
per farci fuoco. Ad ogni colpo sparato provava una sensazione di grandezza e
questo lo faceva stare bene.
Dopo
la terza media decise di andare a lavorare e smettere definitivamente con la
scuola, lasciando anche quell’aria da bulletto che si era creata attorno a
lui. La sua forza, trasmessa dai genitori, lo portò
Incominciò
a fare dei furtarelli che però non lo gratificavano molto, e allora si avvicinò
ad un gruppo di ragazzi più grandi di lui che si cimentavano in rapine nelle
banche. Così decise che era arrivato il momento di passare a cose più grosse.
Aveva solo 13 anni quando iniziò con le rapine e quella sensazione di potere, i
soldi facili lo portarono a farne un’altra e un’altra ancora. Guadagnava
tanti soldi, talmente tanti che decise di smettere di lavorare. Nascondeva ai
suoi genitori tutto, era diventato così bravo a mentire alle persone che amava
che ormai farlo era diventato normale.
Andava
in discoteca e tutto era affascinante, ragazze che gli gironzolavano attorno,
motorini nuovi, motociclette, macchine tutte cose che lui aveva visto sempre
agli altri e mai avuto, ma non capiva che per tutto questo c’era un prezzo da
pagare prima o poi. Ecco che quel giorno arrivò come un fulmine a ciel sereno.
Aveva 14 anni e lo arrestarono per la prima volta, lo portarono in un centro di
prima accoglienza e dopo tre giorni, un giudice lo condannò ad andare in
carcere. Così si spalancarono le porte del carcere minorile e solo là capì
che la sua vita era cambiata. Luca ancora non capiva che era arrivato ad un
bivio, tornare a fare danni, oppure riprendersi una vita fatta di sacrifici ma
onesta.
Dopo
qualche anno, per un errore giudiziario, uscì ai domiciliari fino a quando gli
arrivò la scarcerazione definitiva. Ecco che doveva scegliere il suo futuro.
Decise di prendere la strada più facile, cioè tornare a fare rapine in banca.
Dopo nemmeno due mesi lo arrestarono di nuovo.
Dopo
qualche anno uscì e si mise in testa di lavorare, dare un taglio netto con il
passato, ma tra vecchi definitivi e affidamenti da rispettare, il passato torna
prepotentemente. Nell’intervallo dell’ennesima carcerazione, conosce una
ragazza, si sposa e diventa padre di due bambini, ma non demorde, vuole lavare
quel suo passato macchiato da tanta carcerazione e dal tanto male che aveva
inflitto a chi lo amava ma anche alle persone offese da lui andando a rapinare.
Tutto
in un colpo, Luca perde il lavoro e con esso tutti quei beni che aveva creato
con sacrifici. Per questo entra in un periodo di depressione e senza riflettere
su quello che poteva succedere a lui e alla sua famiglia, prende la decisione di
ritornare al suo passato, rapine e soldi subito convinto che avrebbe risolto
tutti i problemi. Queste scelte sbagliate lo portano di nuovo in carcere, lo
stesso carcere che già da ragazzino lo aveva accolto a braccia aperte, ma
questa volta viene strappato dalla sua amata famiglia, e soprattutto dai suoi
figli, perdendo gli anni più belli e importanti per dei bambini.
Luca
non ha più l’età di un bambino sognatore, i suoi sogni sono di tornare dai
suoi cari, essere un uomo libero, ritornare a far parte della società.
Come
tutti i finali delle fiabe c’è un lieto fine, ma in questa è ancora da
scrivere perché non è una fiaba ma la storia di un uomo detenuto che vorrebbe
dare una svolta alla sua vita.
Quindi, chi può giudicare un altro uomo che vorrebbe riscattarsi in questa società? Bisognerebbe che ognuno di noi si facesse un esame di coscienza e nessuno puntasse il dito per dire “quello è lo scarto della società”, perché pure il più santo può sbagliare e bisogna tendere la mano per aiutare il prossimo.