Serve
una svolta nelle politiche sulla droga
Puntare
sulle misure alternative al carcere
Un detenuto su tre entra in carcere ogni anno per la violazione
dell’art. 73 della Legge Fini-Giovanardi sulle droghe (detenzione di sostanze
illecite). Alla fine del 2012 gli ingressi totali in carcere sono stati infatti
63.020, quelli per violazione del solo art. 73 della legge antidroga 20.465,
pari al 32,47 %. Sono i dati dell’edizione 2013 del “Libro bianco sulla
legge Fini-Giovanardi”, presentato dalle organizzazioni da anni impegnate su
questi temi, che chiedono oggi una riforma profonda delle politiche sulle droghe
e avanzano una proposta di interventi legislativi urgenti per limitare il flusso
di entrata in carcere e costruire alternative alla galera per i
tossicodipendenti. Perché qualcosa bisogna pur cambiare in una situazione
carceraria, in cui i tossicodipendenti sono per lo più parcheggiati in una
specie di limbo inutile, se non pericoloso, e spesso escono in condizioni
peggiori di quando sono entrati. Il racconto di una donna detenuta e di un
ragazzo immigrato giovanissimo e finito ben presto nel disastro della droga ci
fanno capire che le droghe portano in carcere persone giovani, e rovinano loro
la vita: bisogna allora cercare strade nuove, puntare di più sulle misure
alternative, smetterla di credere che la soluzione sia rinchiudere le persone.
Ho
fatto una vita schifosa, Droga e Galera
di
Tania S.
Spiegare
la situazione in cui mi trovo è semplice: sono in carcere, ho buttato via più
di dieci anni della mia vita, ho un figlio che non vedo da due anni, ho i
genitori anziani che non so ancora quanto mi durano, sinceramente questa vita mi
fa schifo, non me ne frega più di niente, voglio che mi lascino perdere, voglio
diventare un punto invisibile qui dentro.
Voglio
essere lasciata in pace, quella è la mia branda, quello è il mio armadietto,
fatemi fare il mio fine pena e non rompetemi le scatole.
Il
problema è che non ho neanche le idee chiare sul mio fine pena, che dovrebbe
essere nel 2017, o forse no?! Poi magari arrivano altre denunce e tutto il
resto e forse vado anche al 2020, quando finisci per diventare dipendente dalla
droga, non tieni più neppure il conto dei processi e delle condanne e degli
anni in più di pena che ti possono arrivare.
Io
non sono abituata ad avere paura, non ho paura quasi di niente, non ho paura
neanche di morire, però devo stare tutti questi anni qui dentro, e allora
l’ansia comincia a mangiarmi dentro. Mia mamma ha 75 anni, se un giorno mi
chiamano giù in matricola e mi dicono che mia mamma è morta io non so cosa
faccio! E lì ho paura! Ho paura! Perché io non so se vivo un giorno di più?!
Se poi dico che mio figlio sono più di due anni che non lo vedo, mi domando
anche continuamente: è giusto che vado avanti, che cerco di combattere per
vederlo o è meglio che gli lascio fare la sua vita? Senza rompergli le scatole,
senza fargli fare avanti e indietro per le galere fino a quando non ha non so
quanti anni, perché io in cambio cosa gli darei? Cosa gli posso dare? Io che
non ho niente, che cosa gli do? Che viene sei volte al mese in galera a vedere
una madre che non conosce neanche più, a vederla chiusa così qui dentro, cosa
gli spiego, cosa gli dico, che ha un padre sotto terra e una madre di m., cosa
gli dico? Cosa gli spiego a quel bambino, allora cosa faccio? Mi faccio un esame
di coscienza, dico che ho vissuto finora una vita schifosa, droga e galera, e
allora continuo a farmela la mia vita schifosa, non tiro anche mio figlio nel
mio schifo, lo lascio dov’è, lo lascio in pace?! Però non so cosa fare perché
sento di aver bisogno di quel bambino, ma quello di cui ho bisogno io, non è
detto che faccia un bene a lui, perché ormai la mia vita rischia di essere del
tutto rovinata.
Emigrare
a sedici anni e poi farsi tentare dalle “scorciatoie” della droga
di
Lejdi Shalari
Era
una bella giornata d’estate, un sole incandescente batteva sulla costa
dell’Adriatico.
Il
10 agosto del 2003 fu l’inizio della mia avventura in un Paese straniero.
All’epoca
ero minorenne, avevo 16 anni per l’esattezza, ma ciò non mi fermava
dall’idea di realizzare i miei sogni. Dico sogni perché sin da piccolo nel
mio quartiere in una città dell’Albania sentivo spesso parole tipo: ciao,
amico mio, morto di fame, buongiorno, e quelle parole mi sembravano magiche, e
penso che abbiano inciso profondamente sul mio cammino da grande.
Una
volta sbarcato a Brindisi con il traghetto, clandestinamente, mi pareva di
volare, il cuore mi batteva a mille, ero ubriaco di felicità. Con tanta fatica
sono riuscito a prendere il treno per Padova, dove abitava mia zia con i suoi
due figli, loro mi hanno accolto calorosamente e dato ospitalità.
Dopo
una settimana ho cominciato a lavorare con mio cugino più grande, lui era un
artigiano idraulico, così gli davo una mano e lui mi pagava come apprendista.
Filava
tutto liscio, lavoravo da tre mesi senza interruzione, avevo messo qualche soldo
da parte e i miei sogni mano a mano diventavano realtà. Però c’era
qualcosa che mi dava fastidio e a volte mi faceva tanta rabbia. Avete presente
quando ti spacchi la schiena lavorando onestamente e alla fine non vieni
rispettato, neanche degnato di un semplice saluto tipo “ciao”? Mi riferisco
a quelle persone che davano lavoro a mio cugino, architetti, ingegneri.
Io
nella mia cultura non considero nessun essere umano superiore, a prescindere
dalla posizione sociale che occupa. Ma neanche mi considero superiore a
nessuno.
Quando
ho chiesto a mio cugino perché questa forma di ostilità, lui mi ha
rimproverato dicendomi che ero un ragazzino e queste cose non le dovevo mai più
pensare. Può essere che io ero un ragazzino, però avevo bisogno che qualcuno
mi spiegasse con più sincerità che a volte sul lavoro bisogna anche subire
atteggiamenti sgradevoli, e magari sarei diventato più flessibile. Ecco
questa ipocrisia invece non mi stava bene, io detesto l’ipocrisia, e cosi
decisi di andare per la mia strada.
Ben
presto finii in una comunità per minori, e iniziai a frequentare la scuola, ma
non riuscivo a integrarmi, volevo un lavoro che però non era permesso in
comunità. Compiuti i 18 anni venni chiamato dal direttore, che mi spiegò che
loro non avevano più la possibilità di ospitarmi in quanto avevo raggiunto la
maggiore età. E per la legge dovevano sbattermi fuori subito, però lui fu
gentile e mi concesse una settimana di tempo.
Una
volta fuori dalla comunità cominciarono le peripezie, ormai ero grande, o
meglio dovevo crescere in fretta, questo pensiero mi spingeva a cercare sempre
di più per la mia vita.
Nel
giro di un breve tempo caddi nella tentazione della droga, diventai uno
spacciatore e nello stesso tempo un consumatore di cocaina. Ora so che quel di
più che ho cercato per la mia vita mi ha portato in una brutta strada, e la
vita me l’ha rovinata e sicuramente non migliorata.
La
droga ha un fascino particolare, ti prende e ti trascina in un mondo dove ti
sembra di essere solo tu e nessun altro, ti fa sentire importante.
Mi
viene in mente uno scrittore famoso che dice molto ironicamente “Guarda la
coca e vedrai solo della polvere, guarda attraverso la coca e vedrai il
mondo”, in un certo momento della mia vita all’età di 18-19 anni ho pensato
di vedere il mondo da quel punto di vista superficiale e distorto.
La
droga poi ti fa conoscere delle compagnie che in quei momenti ti sembrano i tuoi
migliori amici, ma in realtà non è cosi. Menzogna, la tua vita diventa tutta
una menzogna e una continua autodistruzione della tua stessa personalità.
Come è successo a me, frequentando delle compagnie poco raccomandabili mi
sono trovato in mezzo a un omicidio per un regolamento di conti. Il reato per
cui sono stato condannato è concorso in omicidio e sto pagando con la pena di
anni dieci mesi sei di reclusione.
Quando
entri in carcere una rivoluzione interiore travolge radicalmente la tua vita
precedente. Riflettendo capisci che non puoi essere nato solo per provocare guai
e nuocere agli altri, e cosi il tuo inconscio prova forti sensi di colpa e ti
spinge a costruire, anche se con tanti punti di domanda, un itinerario diverso
per la tua nuova vita.
In
sei anni di carcere ho capito che l’essere umano ha una intelligenza che, se
non si sviluppa in maniera equilibrata, diventa distruttiva per la sua umanità
stessa. Ma credo sia anche importante capire che se il cattivo uso della propria
intelligenza ha generato cattive azioni, quella stessa intelligenza può essere
fatta fruttare per trovare i mezzi per cambiare, dando una svolta importante
alla propria vita.
Merci
umane “sballate” da un carcere all’altro
C’è qualcosa che si può fare, a costo
zero, per rendere un po’ più umana la vita in carcere in tempi di disumano
sovraffollamento? Sì, qualcosa c’è, e si chiama una diversa gestione dei
trasferimenti dei detenuti. Perché venire trasferiti spesso è un momento
drammatico della vita di chi sta in carcere, e lo è ancora di più per le
famiglie, come raccontano nelle loro testimonianze due detenuti, che hanno
vissuto sulla loro pelle la disumanità che spesso caratterizza il trasferimento
da un carcere all’altro, lo “sballamento” di merce umana, come si chiama
nel gergo della galera.
Il
male peggiore per un detenuto? Il trasferimento
di
Giuliano Ventrice
Come
avvengono i trasferimenti dei detenuti? I detenuti quasi sempre vengono
spostati senza nessun preavviso, e soprattutto senza tenere in minima
considerazione le devastanti conseguenze che investono gli stessi reclusi, ma
ancor di più i loro famigliari.
Sono
entrato in carcere appena ho compiuto 20 anni, oggi ne ho 38 e non sono mai
uscito una sola ora in libertà. Vengo arrestato in Calabria, ma dalla
Calabria mi trasferiscono in Piemonte, motivazione? Allontanamento
territoriale…
Le
regioni che ho girato sono: Calabria, Piemonte, Lombardia, Toscana, Sicilia,
Campania ed oggi Veneto; le città con i rispettivi carceri: Palmi, Torino,
Alessandria (ce ne sono due di carceri e sono stato in entrambi), Novara,
Saluzzo, Sollicciano (FI), Volterra, Palermo Ucciardone, Pagliarelli, Augusta
Brucoli, Trapani, Favignana, Poggioreale, Ariano Irpino, Avellino e poi qui in
Veneto, Padova. Per quanto riguarda il mio trattamento rieducativo… scusatemi
se non ho mai avuto tempo di iniziarlo… puntualmente mi ritrovavo dall’altra
parte d’Italia. Mi piacerebbe poi poter quantificare i danni psicologici
causati dall’impossibilità di coltivare i propri affetti. Ma IL MALE PEGGIORE
LO SUBISCONO I FAMILIARI: quelle madri anziane che non si possono permettere di
viaggiare o per motivi di salute o per motivi economici; i figli che crescono
senza un padre ed ai quali viene spesso tolta, con un trasferimento, anche
l’ultima possibilità di abbracciare il genitore in quell’ora di colloquio
che ogni tanto si potrebbe fare.
Una
volta esisteva un padre, che a 75 anni, due operazioni al cuore, residente in
Piemonte, un giorno decide che era trascorso troppo tempo senza poter vedere il
figlio, allora comincia a mettere da parte qualche spicciolo dalla sua già misera
pensione per poter un giorno prendere l’aereo e volare fino a Palermo. Eh sì…
perché il figlio è stato trasferito lì e non si sa il perché. Riesce a
racimolare il denaro necessario, ma al figlio non dice nulla, vuole fargli una
sorpresa, prende il volo diretto a Palermo, con i suoi occhiali spessi e con il
suo bastone d’appoggio affronta questo viaggio che per lui, come per qualsiasi
anziano, non è di certo una passeggiata. Giunge finalmente a Palermo, dove non
era mai stato, chiede a qualcuno come può fare per arrivare al carcere dell’Ucciardone,
e gli viene suggerito di prendere un pullman che lo porta al centro, da lì
avrebbe poi dovuto informarsi e lui così ha fatto. La stanchezza e quel cuore
che fa i capricci cominciano a dargli fastidio, ma lui è testardo deve
raggiungere il figlio, sono nove anni che non lo vede ed ha paura di morire
senza vederlo più. Finalmente arriva dinanzi a quel portone d’acciaio… ad
un tratto gli viene in mente che non può presentarsi a colloquio dal figlio a
mani vuote, allora decide di andare in un negozio lì vicino dove può
acquistare qualche etto di prosciutto e un pezzo di formaggio, con i soldi ce
la fa anche se in tasca non gli rimane nulla, ma lui ha già il biglietto di
ritorno. Suona al cancello blindato del carcere con in una mano una piccola
busta e nell’altra il suo bastone, gli apre una guardia alla quale lui consegna
i suoi documenti e dichiara di dover fare il colloquio col figlio, gli
rispondono che deve attendere, lì fuori nel caldo infernale. Dopo circa
un’ora e mezza si ripresenta la stessa guardia e gli dice che il colloquio non
lo può fare, il padre chiede perché e aggiunge: “Guardi che io vengo dal
Piemonte è un viaggio lunghissimo!”. “Suo figlio è stato trasferito!”,
gli rispondono. Gli manca la forza per parlare e dopo qualche attimo di silenzio
riesce a chiedere con un filo di voce: “E dove l’avete mandato? se è qui
vicino posso andare a cercarlo…”. Hanno davanti un vecchio stanco e
distrutto e gli dicono: “Non siamo tenuti a dare nessun tipo
d’informazione”. E gli chiudono quella montagna di ferro in faccia. Con le
gambe tremolanti con un filo di fiato che gli alimentava i polmoni si allontana
senza sapere dove andare; a quel padre hanno chiuso in faccia non solo un
portone di ferro… ma anche l’ultima possibilità di vedere il figlio, eppure
quel padre ha lavorato per 40 anni, non ha commesso nessun reato, e mentre pensa
a queste cose la sua rabbia e la sua impotenza si cristallizzano dietro quelle
lenti spesse in qualche lacrima, che pesa così tanto che il vecchio si deve
fermare per nasconderla.
Riesce
ad arrivare a casa e a scrivere la sua ultima lettera al figlio, dove spiega
tutte queste cose… il figlio la riceve mentre si trova nelle carceri della
Campania, la legge in un solo fiato e trema mentre stringe quel foglio così
prezioso tra le mani ed ingoia lacrime come fossero veleno amaro… se non fosse
stato trasferito l’avrebbe visto.
Quel
padre non c’è più! È MORTO dopo un giorno che è tornato a casa.
I
trasferimenti a molti di noi hanno fatto perdere l’amore delle nostre famiglie
di
Santo Napoli
Negli
incontri che facciamo con le scuole i ragazzi ci hanno fatto spesso la domanda:
Che cos’è per voi la libertà? Nel mio pensiero da quando sto in carcere non
mi sento né libero, né vivo, in carcere è impossibile sentirsi anche solo un
po’ liberi, perché per fare qualsiasi cosa c’è da chiedere il permesso a
qualcuno e non è detto che ti venga consentito. In galera ti tolgono la maggior
parte dei diritti che potevi avere fuori, anche solo la soddisfazione di
mangiare con una forchetta vera e un piatto di porcellana, perciò la libertà
va a farsi benedire per svariati motivi. Poi c’è il concetto di sentirsi vivo
e anche là si cammina su un campo minato, come si fa a sentirsi vivo se già ti
tolgono la libertà? Per di più a qualcuno viene in mente di portarti a
cinquecento chilometri da dove hai sempre vissuto e da dove abitano i tuoi
familiari ed i tuoi figli, li senti per telefono una volta a settimana, a volte
due per dieci minuti alla volta, in tutto
hai sei telefonate di dieci minuti, cioè un’ora da dividere per tutto il
mese. Io poi, a causa di questo trasferimento lontano da casa, colloqui non ne
faccio, perché vuoi la distanza, vuoi che i miei genitori sono malati e non
possono guidare o prendere treni da soli, ci vorrebbe sempre una persona che gli
stia vicino nel caso capitasse un malore improvviso, e non è facile trovarla
perché Padova è troppo lontana. Così l’unica loro immagine che ho è una
gran dose di fotografie che porto sempre con me ovunque mi trasferiscano.
Il
mio punto di vista sul concetto di sentirmi vivo è quello di poter fare ciò
che voglio sempre nel rispetto di giustizia e legalità: e quello che
vorrei
allora è poter abbracciare e baciare i miei figli ed i miei cari quando lo
desidero, e non con il contagocce
solo
perché mi viene vietato un mio diritto proprio da quelle istituzioni, che poi
dicono di voler recuperare il detenuto e parlano di rieducazione. Ma rieducarti
a che cosa? a farti stare lontano dalla famiglia di provenienza? Quando lo Stato
si comporta così, usando i trasferimenti senza badare affatto ai nostri
affetti, a molti di noi fa perdere l’amore delle nostre famiglie, perché
quell’amore si trasforma in affetto e alla fine anche l’affetto si
indebolisce. Ed è inutile che poi qualche persona ti venga a dire che se la
famiglia veramente ti ama non potrà perdere mai l’amore. Stando lontani e non
potendo mai vedersi, il fatto che hai perso l’amore della famiglia ti viene
dimostrato da tante piccole cose che per loro sono quotidianamente banali ma per
noi che siamo rinchiusi valgono oro. Perciò non si può fare una colpa ai
parenti se questo amore che avevano nei tuoi confronti è cambiato, nemmeno loro
si rendono conto di questo, ma è pur vero che non vivendo con loro
quotidianamente non fai più parte del loro mondo, o lo fai solo minimamente.
Questo è il motivo per cui non mi posso sentire né libero, né vivo in
carcere, ma se fossi un po’ più vicino ai miei cari, mi sentirei almeno un
po’ più vivo.
All’attenzione
del Ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri
All’attenzione
del Capo del DAP, Giovanni Tamburino
Da
detenuto “cattivo per sempre” a detenuto “Come lo vuole la Costituzione”
È
questo che chiediamo per Carmelo Musumeci, la declassificazione, finalmente, da
un regime di Alta Sicurezza a una sezione di media sicurezza, il riconoscimento
che l’uomo della pena non è più quello del reato
La
Redazione di Ristretti Orizzonti
Le
battaglie che Ristretti Orizzonti ha fatto in questi anni le ha fatte per
migliorare le condizioni di vita di tutti, ma anche per i singoli detenuti,
perché la storia di uno che viene “salvato” dai danni che può produrre il
carcere e accompagnato in un percorso di assunzione di responsabilità è
comunque un successo per tutti. Ora è la volta di battersi per uno dei nostri
redattori, per Carmelo Musumeci, perché finalmente, dopo 23 anni di carcere
ininterrotti, sia considerato pronto per essere declassificato, dal regime di
AS1 alla media sicurezza.
Se
riteniamo che la Costituzione, quando all’articolo 27 parla di pene e carcere,
e della pena coglie solo il valore rieducativo, e non quello di rispondere al
male con altrettanto male, sia il testo in cui si parla di carcere nel modo più
moderno e più ricco di umanità, allora forse dobbiamo anche cominciare a porre
delle domande a chi la Costituzione dovrebbe applicarla.
E
noi una domanda forte e chiara la facciamo: che cosa ci fa in Alta Sicurezza un
detenuto che, entrato in carcere con la quinta elementare, si è laureato in
Scienze Giuridiche prima, in Giurisprudenza dopo, ha pubblicato quattro libri,
da tanti anni si impegna con tutte le sue energie per l’abolizione
dell’ergastolo, in particolare quello ostativo, quello che lui chiama “La
Pena di Morte Viva”, facendosi in qualche modo carico del destino di tanti, e
non solo del suo? Che da anni su questi temi collabora con la Comunità Papa
Giovanni XXIII, che insieme a noi chiede con testarda convinzione la sua
declassificazione?
Che
cosa ci fa in Alta Sicurezza un detenuto che da un anno ormai fa parte della
Redazione di Ristretti Orizzonti, e interviene attivamente nel progetto di
confronto fra le Scuole e il Carcere, incontrando i ragazzi delle scuole non per
dire quanto male si sta in carcere, ma per riflettere anche su di sé, sul
percorso che lo ha portato a scegliere l’illegalità, sulla necessità di
assumersene ora tutte le responsabilità?
Perché ci sentiamo dire da esperti, addetti ai lavori, operatori penitenziari che l’uomo non è solo il suo reato, se poi dobbiamo vedere un uomo, che negli anni è profondamente cambiato, restare inchiodato al suo passato perfino dentro al carcere, perfino nel luogo a cui la Costituzione ha assegnato il ruolo di RIEDUCARE, prima e più che di punire?
Possiamo
sperare allora in una risposta che sia, finalmente, rispettosa della
Costituzione? Possiamo aver fiducia che finalmente verrà riconosciuto il
percorso di Carmelo Musumeci, le energie le fatiche l’impegno che ci ha messo
per diventare una persona diversa dall’uomo del reato?
Un
atto di Clemenza o un atto di Giustizia?
“Il dramma delle nostre carceri, oggi,
è che questi uomini e queste donne escono addirittura peggiori di quando sono
entrati”: queste sono parole di Luigi Pagano, per anni direttore del carcere
di San Vittore e oggi una delle massime autorità dell’Amministrazione
penitenziaria. Allora se parliamo di amnistia e di indulto, non parliamo, per
favore, di un atto di clemenza, parliamo piuttosto di giustizia: perché è
illegale scontare la pena nelle condizioni disumane del sovraffollamento, e far
uscire le persone dal carcere un po’ prima con un indulto significherebbe
allora risarcirle di una detenzione profondamente ingiusta, e prevedere
un’amnistia significherebbe invece ammettere che è altrettanto ingiusto
venire processati con leggi, create apposta in un clima di paura per punire i più
deboli, tossicodipendenti, immigrati, recidivi per piccoli reati. Quelle leggi
poi però bisogna anche cambiarle, altrimenti tutto tornerà come prima.
Comprendo
le paure delle persone che si dannano la vita per arrivare a fine mese
di
Bruno Turci
Il
Presidente della Repubblica ha mandato un messaggio alle Camere sollecitando i
parlamentari a prendersi le loro responsabilità e a varare dei provvedimenti
per risolvere il drammatico problema del sovraffollamento. Nel messaggio si
invita a valutare anche l’ipotesi di un provvedimento di amnistia e indulto, e
la cosa ha scatenato tantissime polemiche.
Io
mi trovo in carcere da molti anni e di indulti non ne ho mai presi perché
esistono delle norme che rendono difficile la fruizione per tutti. Riesco a
comprendere che non siano d’accordo con la concessione dell’indulto le
persone che non sono mai entrate in galera, quelli che lavorano tutto il giorno
e si dannano la vita per arrivare a fine mese, oppure quelli che hanno subito un
furto. Comprendo le paure delle persone che sono state bombardate dalla propaganda
elettorale sulla sicurezza, perché c’è un’informazione creata proprio per
ottenere qualche voto in più, con l’unico sforzo, in campagna elettorale, di
gridare contro lo straniero o il tossicodipendente, o tutti quelli che non
piacciono e si vorrebbe buttarli via. Tuttavia, a me viene da chiedere a tutte
le persone che sono così decisamente contro questi provvedimenti di clemenza se
sanno davvero come sono ridotte le galere. Mi piacerebbe capire se sanno quanti
suicidi ci sono stati nelle carceri e quanti sono gli atti di autolesionismo da
gennaio ad oggi. Chissà se sanno che nelle carceri non si muore solo di
suicidio, ma anche perché il diritto alla salute è spesso un miraggio. I posti
disponibili sono circa trentottomila, ma qua dentro siamo quasi settantamila! E
intanto il numero dei medici è rimasto immutato! Nei reparti dove stavano 25
perone, oggi ce ne stanno 75. Le docce pensate per 25 persone oggi le usano in
75. Si possono immaginare le conseguenze per l’igiene, si possono anche
immaginare le tensioni che vivono le persone detenute. I contatti con i parenti
sono anche più difficoltosi, giacché le sale adibite per i colloqui erano
attrezzate per ricevere 70 persone al giorno e oggi ne devono sopportare forse
il triplo.
Come
si può allora rispettare la funzione rieducativa e risocializzante della pena?
La
sicurezza sociale, la riduzione della recidiva è garantita dai percorsi
rieducativi, ma quante sono le persone detenute che vi possono accedere? Sono
poche e chi non vi potrà far parte uscirà peggiore di come era entrato.
Ecco
perché è necessaria una misura di clemenza e servono poi le riforme della
giustizia, in particolare la riforma del codice penale e la piena attuazione
delle misure alternative previste dalla legge penitenziaria insieme
all’abrogazione di alcune leggi dannosissime come la ex-Cirielli
che ha alzato le pene per la recidiva, riempiendo le galere per reati di poco
conto; la Giovanardi-Fini che ha riempito le
galere di tossicodipendenti con l’invenzione della tabella unica delle droghe;
infine la Bossi-Fini che ha riempito le galere
di extracomunitari clandestini. Queste leggi sono servite solo ad aumentare
il numero dei detenuti, quelli che appartengono alla categoria dei soggetti
deboli, ovviamente. Quelli che stanno male e che a volte non ce la fanno proprio
a sopravvivere a queste galere.
Meglio
un Silvio “salvo” che 67mila Nessuno “morti”
di
Carmelo Musumeci
Sinceramente
quando scrivo di galera, sul carcere e in prigione non riesco a essere sopra le
parti.
La
Direttrice del nostro giornale, Ristretti Orizzonti, m’invita spesso a non
pensare e non scrivere da arrabbiato, ma dopo ventitré anni ininterrotti di
galera mi viene difficile non indignarmi perché i miei occhi nell’inferno
delle carceri italiane in questi anni hanno visto cose che i normali umani non
vedranno mai.
Ecco
perché penso che un atto di clemenza come l’indulto e l’amnistia non sia
solo giusto, intelligente e umano, ma sia anche necessario.
E
pazienza se per salvare sessantasettemila “colpevoli” si amnistia e
s’indulta anche un “Silvio di troppo” o se l’amnistia/indulto non
risolverà il sovraffollamento delle carceri perché per farlo bisogna anche
cambiare alcune leggi che altrimenti le riempiranno di nuovo. Intanto
salveremo tante vite umane perché dall’inizio dell’anno ci sono stati 121
morti in cella, di questi circa trentanove sono i suicidi accertati.
E
credo che non si possa lasciare alla morte il compito di portare la legalità
istituzionale o di risolvere il sovraffollamento nelle carceri.
Penso
anche che un indulto e un’amnistia facciano bene alle tasche di tutti i
cittadini italiani, oltre che alle casse dello Stato, perché la sentenza della
Grande Camera della Corte europea ha stabilito che entro fine maggio 2014
l’Italia deve ritornare nella legalità penitenziaria. In caso contrario il
nostro paese sarà costretto a pagare milioni di euro di multa perché lo Stato
italiano è da qualche tempo ritenuto dall’Europa un “criminale a piede
libero”. E alcuni addetti ai lavori dicono che sia persino più fuorilegge di
quei circa sessantasettemila “colpevoli” e di quel “Silvio di troppo”.
Si
è vero, c’è il rischio che forse quei partiti che appoggeranno un eventuale
indulto e amnistia perderanno consensi elettorali e invece quei partiti che
saranno contrari li aumenteranno, ma è bene che si sappia che questi ultimi
saranno voti che gronderanno di disumanità.
Un
partito o un movimento politico non dovrebbe guadagnare voti sulla sofferenza
sia delle vittime sia degli autori dei reati.
E
i tutti i casi non penso che sia giustizia tenere i detenuti uno sopra
l’altro come pezzi di legno in una catasta perché non c’è più posto.
Credo
che “una punizione è giusta solo quando è intesa al bene di chi la deve
subire” (John Stuart Mill).
Voi
che ne pensate? E se avete dubbi venite a vedere come sopravviviamo.
Ci
considerate ancora delle persone?
di
Clirim Bitri
Sono
carcerato da 5 anni e devo stare in carcere altrettanto. Dopo il messaggio del
Presidente della Repubblica si è scatenata una vera e propria “guerra” fra
chi è a favore e chi è contrario a dare un provvedimento di clemenza. Si è
arrivati a minacciare, da parte di qualche parlamentare, in caso di concessione
di indulto, di “fare del parlamento un Vietnam”.
Mi
sono chiesto anch’io: perché devono essere clementi con chi ha infranto la
legge? Dov’è la certezza della pena? Chi risarcirà le persone che hanno
subito dei reati? E al primo impatto ho detto che sono d’accordo, non è
giusto essere clementi con chi ha fatto del male, chi sbaglia deve pagare.
Ma
non mi posso fermare qui, perché io vivo in carcere. Vivo in questo posto dove
povertà, violenza, suicidi (tentati o riusciti) sono all’ordine del giorno,
quando qualcuno riesce a suicidarsi il pensiero che Non si dice è “è stato
coraggioso a risparmiarsi questa sofferenza”. Vivo in questo posto dove anche
il contenimento chimico, con gli psicofarmaci che qui non mancano mai, non dà
più risultati. Vivo dove ogni detenuto ha a sua “completa” disposizione 2,8
metri quadrati. Togliendo lo spazio occupato da letto e armadio gli rimangono
poco più di 0,5 metri quadri di spazio calpestabile. In queste condizioni non
riesco a capire il significato delle parole della Costituzione “Le pene non
possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere
alla rieducazione del condannato”.
A
questo punto mi pongo un’altra domanda: “Ci
considerate ancora delle persone?”
Sento
tante proposte e soluzioni, ma ci si è dimenticati che negli ultimi anni sono
stati fatti 3 decreti soprannominati “svuotacarceri” e però la situazione
è sempre più o meno la stessa.
La
soluzione è semplice, bisogna fare una scelta. Considerare NON appartenente
alla Razza Umana chi entra in carcere, Colpevole o Presunto Tale, o discutere
seriamente sulla proposta del Presidente, perché è l’unica maniera per
mettere fine a questa situazione di degrado. Anticipando di poco tempo il
rientro nella società di chi in società rientrerà comunque.
Scegliete
voi, scegliete il male minore. Io voglio solo essere considerato una persona, ma
fate presto, perché mentre voi tentate di trovare una soluzione siamo oltre 66
000 Persone (se ancora ci considerate
tali) che sopravviviamo in condizioni molto vicine alla Tortura.