Uomini poco abituati a sentirsi fragili

 

di Ornella Favero

 

Il tema del cambiamento, e ancora di più di un “cambiamento drammatico del sé” è centrale in carcere, è però anche un tema “pericoloso”, soprattutto perché l’idea della rieducazione rischia spesso di trasformarsi nel cambiamento forzato, nel diventare quello che le istituzioni si aspettano dal “detenuto rieducato”. Ma il cambiamento vero è altra cosa, è sempre una fatica, una perdita di sicurezze, un essere più scoperti, più fragili. E non è facile, già gli uomini sono poco abituati a sentirsi fragili, le donne da questo punto di vista sono molto più allenate, se poi questi uomini sono anche in carcere, privarsi delle difese, delle corazze è doppiamente faticoso. Perché la vita nelle sezioni è dura, è una lotta per la sopravvivenza, per accedere alle poche risorse disponibili, avere uno straccio di lavoro, partecipare a un corso, fare qualcosa che ti permetta di star fuori dalla cella, tutto il resto viene in secondo o in terzo o in ultimo piano. E il cambiamento in queste condizioni è impossibile, a meno che non si chiami cambiamento quel sentimento che spinge tante persone detenute a interpretare la rieducazione come obbedienza, ad adeguarsi ai desideri, alle prescrizioni, alle aspettative degli educatori, dei magistrati, degli agenti, di chi ha in qualche modo un ruolo nella loro “scalata alla libertà”.

E invece un “cambiamento di sé” forte e drammatico è quello che darebbe un senso a tutta la pena.

Allora dove può nascere la consapevolezza della necessità di dare una svolta alla propria vita, in quale tipo di carcere è immaginabile che le persone, invece di sentirsi vittime, accettino la sofferenza aggiuntiva di riconoscere la propria responsabilità?

Noi non ci stanchiamo mai di dire che il carcere è una pena che andrebbe usata davvero al minimo, nei casi di reale pericolosità sociale, perché è evidente

che pensare di “allontanare dal mondo” una persona per risocializzarla e insegnarle a vivere nella società stando in galera, è di per sé un assurdo. Ma la gente intanto è in carcere, e bisogna quindi fare i conti con questa realtà, e provare a pensare a tutto quello che potrebbe per lo meno ridurre i danni di una lunga carcerazione.

Allora la nostra idea è che, perché davvero possa avvenire un cambiamento forte, “drammatico”, nelle persone che sono chiuse dentro, bisogna almeno portare dentro il fuori, bisogna che ogni attività, ogni spazio del carcere siano aperti al CONFRONTO, che pezzi di società consistenti accettino di portare la loro esperienza in carcere, e di valorizzare l’esperienza, la storia, la testimonianza di chi vi è detenuto.

Noi lavoriamo, in fondo, per questo: per un carcere che sia più APERTO possibile, perché è l’unica garanzia di un autentico cambiamento, e lo sperimentiamo ogni giorno a Padova: incontrare gli studenti con le loro domande anche brutali, intrecciare percorsi con vittime di reati, dialogare con genitori e insegnanti, significa molto di più di un semplice confronto, significa per esempio che persone detenute, che in vita loro non hanno mai praticato la legalità, cominciano a capire cosa vuol dire

subire un reato, significa che persone, che hanno per anni usato forme di relazione violente, si svegliano di colpo e imparano a vedere le sofferenze che hanno provocato, significa che qualcuno, negli occhi degli studenti, finisce per leggere lo stesso smarrimento che c’è negli occhi dei suoi figli, e arriva a riconoscere di aver lasciato dietro di sé tanto dolore, anche nella sua stessa famiglia. Il cambiamento passa anche e soprattutto attraverso questo passaggio: liberarsi delle proprie difese, aprire gli occhi di fronte alla sofferenza provocata e accettare di esserne responsabili.